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La ragazza del treno, il bestseller approda nelle sale

Una foto di scena del film 'La ragazza del treno', Roma, 31 ottobre 2016. ANSA/UFFICIO STAMPA ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

La ragazza del treno di Paula Hawkins è stato il successo editoriale dello scorso anno e i lettori che si sono appassionati a questo thriller psicologico correranno a vedere la versione cinematografica uscita in questi giorni nelle sale e, come sempre in questi casi, si divideranno giudicando il confronto.
Certo non li disturberà la diversa location, rispetto al romanzo, scelta dal regista Tete Taylor che in precedenza ha diretto film di successo come The Help.

La storia si svolge nei dintorni di New York e in particolare lungo la Hudson-line, la ferrovia che porta ogni giorno i pendolari nel cuore di Manhattan. È qui che Rachel, interpretata da Emily Blunt, bellissima anche con il trucco sfatto e le occhiaie da sbornia, passa le giornate annegando la sua disperazione nell’alcool e guardando fuori dal finestrino durante il quotidiano viaggio verso il nulla. Ogni giorno rivede con struggente malinconia, la casa che aveva diviso con suo marito Tom che ora vive lì con la nuova moglie Anna e la figlia appena nata. Rachel osserva anche gli abitanti di un’altra casa di quella strada, una bella coppia apparentemente perfetta. La distratta curiosità però diventa ossessivo voyeurismo e Rachel spia quotidianamente Megan e Scott, una coppia affascinante e innamorata, fino a quando un giorno vede nel retro della casa, qualcosa di sconvolgente. Quando Megan misteriosamente scompare, Rachel si sente in dovere di raccontare alla polizia quel che ha visto ma da testimone inconsapevole si ritrova principale indiziata.
La voce narrante della protagonista racconta quel che vede e cosa prova ma l’inganno dell’apparenza è uno dei leitmotiv più angoscianti della storia, rafforzato dalla sua condizione di alcolista che mette sempre in dubbio la veridicità del suo racconto. La perdita di memoria nella nebbia dell’alcool è la sua condanna ma anche il punto da cui ripartire per salvarsi.

Il rapporto tra le tre donne che si svilupperà nel corso della storia è l’elemento più affascinante, contrapposto alle figure maschili più stereotipate ma cause scatenanti della sofferenza del mondo femminile. Le protagoniste, bellissime ma lacerate dal dolore, ricordano le affascinanti donne dei capolavori di Hitckock. Anna, interpretata dall’attrice svedese Rebecca Ferguson è la nuova moglie di Tom che vede in Rachel, la minaccia al suo mondo familiare perfetto. Megan, interpretata da Haley Bennet, bella e felice agli occhi di Rachel è in realtà angosciata da un passato che la perseguita e cerca di annientare il suo dolore attraverso la seduzione. Altri sono gli spunti di riflessione che hanno reso il romanzo della Hawkins un bestseller, la dipendenza dall’alcool che registra una crescente espansione soprattutto tra le donne più giovani e il voyeurismo inteso come il confronto quotidiano con un falso ideale di vita rappresentato dai media, dalle copertine patinate e dalla pubblicità. Gli altri sembrano sempre più felici di noi. Inoltre la più banale ma universale differenza tra il mondo interiore femminile e quello maschile.

C’è tanta rabbia e diffidenza nelle protagoniste che comunque cercano una via di uscita per tornare a danzare allegre, come raffigura la scultura delle tre ragazze posta sulla Untermeyer Fountaine al Central Park che il regista più volte ha inquadrato per incorniciare questa storia.

Sarà nelle sale italiane il 3 novembre il thriller 'La ragazza del treno', ispirato all'omonimo best seller mondiale di Paula Hawkins, pubblicato in Italia da Piemme, caso editoriale del 2015 con oltre 15 milioni di copie vendute nel mondo e più di 600 mila nel nostro Paese. ANSA / uff. stampa / +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++

La partita del Ceta è ancora aperta. Giochiamola fino in fondo

epa05605796 A demonstrator dressed as a clown takes part in protests against the Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA), a trade deal between the EU and Canada, in front of the EU Commission building in Brussels, Belgium, 27 October 2016. An agreement on CETA has been reached between Belgian political leaders, after the region of Wallonia earlier had blocked the Belgian approval. EPA/STEPHANIE LECOCQ

La firma del Ceta lo scorso 30 ottobre a Bruxelles rappresenta indubbiamente una pessima notizia, ma non la fine dei giochi. La partita è ancora aperta e dobbiamo giocarla fino in fondo, perché è una partita cruciale. I trattati di commercio di nuova generazione (Ttip, Ceta, Tisa in primis, ma non solo: pensiamo al negoziato aperto tra Ue e Mercosur) rappresentano il principale volano della deregolamentazione neoliberista su scala globale. Sono il dispositivo attraverso cui le multinazionali cercano di svuotare i luoghi della rappresentanza e abbattere le cosiddette “barriere non tariffarie”: ossia i diritti del lavoro, il principio di precauzione, gli standard ambientali, la difesa dei beni comuni e dei servizi pubblici.

L’opposizione del Parlamento della Vallonia ha dimostrato che l’ingranaggio si può fermare, che la connessione fra movimenti, reti, campagne di cittadinanza attiva e istituzioni rappresentative può costituire una resistenza efficace alla creazione di un diritto asimmetrico: quello che sancirebbe che la tutela degli investimenti è prioritaria rispetto ai diritti delle cittadine e dei cittadini.

Le ragioni per dire di No al Ceta sono ancora tutte davanti a noi: la perdita di posti di lavoro (3 milioni entro il 2023 nella sola UE come dimostra lo studio della Tuft University, studio che spiega anche come all’aumento di disoccupazione si accompagnerebbe una ulteriore compressione salariale), la messa in discussione del principio di precauzione, l’istituzione dell’Ics per dirimere le controversie tra multinazionali e stati, il riconoscimento solo parziale delle Ig, i rischi per la salute alimentare e per la produzione agroalimentare di qualità. Inoltre molte multinazionali Usa avranno accesso al mercato europeo attraverso il Ceta o attraverso il Nafta o perché hanno sede legale in Canada.
Sono queste solo alcune delle ragioni per cui il 5 novembre ci mobiliteremo nello StopCetaDay promosso dalla rete StopTtip Italia in tante città. E porteremo avanti una battaglia che possiamo ancora vincere.

Anche al Parlamento europeo porteremo avanti la nostra opposizione al Ceta. Purtroppo la maggioranza del Parlamento europeo (Popolari, socialisti, liberali) sembra orientata a negare che vi sia una risoluzione della Commissione Commercio internazionale e del Parlamento europeo sul Cet. La discussione fa paura ai Signori dei trattati. Con grande probabilità, dunque, il Parlamento europeo potrà dire solo Sì o No. E questo è davvero uno svuotamento ulteriore di quella che dovrebbe essere una delle funzioni principali di una assemblea rappresentativa: discutere.

Dopo la probabile ratifica del Parlamento europeo, il Ceta entrerà in vigore in via provvisoria. Grazie alle pressioni delle campagne di mobilitazione, infatti, la Commissione europea è stata costretta a considerare il Ceta come un accordo misto, cioè non di esclusiva competenza comunitaria e, dunque, da sottoporre alla ratifica dei Parlamenti nazionali. È quindi fondamentale che ci mobilitiamo perché il Parlamento italiano non ratifichi il Ceta.

Una ultima considerazione: in questi mesi di discussione sul Ceta, il Governo italiano (in particolare il Ministro Calenda) ha svolto un ruolo di “avanguardia” nel dire che non fosse necessario il pronunciamento dei parlamenti nazionali. Una posizione sostenuta da Alessia Mosca, che coordina gli eurodeputati Pd in Commissione Commercio Internazionale. È un caso che siano gli stessi che vogliono cambiare la Costituzione? Direi proprio di NO.

Eleonora Forenza è Parlamentare europea GUE/NGL

Medmig: accuse pesanti contro la gestione politica della crisi migratoria

Un rapporto del progetto di ricerca europeo e inter-universitario Unravelling the Mediterranean Migration Crisis (Medmig), lancia accuse pesanti contro la gestione della crisi migratoria da parte dei Paesi Ue.

Secondo The Independent, che ha visionato in esclusiva il rapporto Medmig, le conclusioni della ricerca indicano che «il rifiuto di aprire vie di accesso legali per coloro che cercano sicurezza in Europa ha aumentato la domanda per traversate lungo percorsi pericolosi e, conseguentemente, il business dei trafficanti». Secondo Heaven Crawley, professore dell’Università di Coventry e co-autore del rapporto, «soluzioni pragmatiche ed efficienti vengono scavalcate dagli interessi politici dei leader di tutta Europa». Franck Duvell, dell’Università di Oxford, denuncia che «sebbene i politici abbiano espresso la volontà di “perseguire i trafficanti”, le politiche adottate dall’Ue rafforzano il business di questi ultimi».
Il progetto di ricerca Medmig gode della collaborazione di diversi partner di ricerca del sud Europa, tra cui l’istituto di ricerca torinese, Forum internazionale ed europeo di ricerche sull’immigrazione (Fieri).

Intanto, dopo lo sgombero della così detta “giungla di Calais”, 1500 minori attendono di sapere la loro prossima destinazione. Come documenta Der Spiegel, nei prossimi giorni le autorità francesi dovrebbero trasferire i minori in altre strutture di accoglienza sul territorio francese. In un’intervista rilasciata per il giornale francese, La Voix du Nord,  il Presidente della Repubblica, Francois Hollande, ha promesso ai cittadini di Calais che «non ci saranno nuovi insediamenti illegali».

Leggi anche:

BulgariaNoviniteIl candidato socialdemocratico alla presidenza, Rumen Radev, ricorrerà alla Corte Costituzionale per far annullare il CETA, in caso di vittoria alle elezioni del 6 novembre prossimo

BruxellesDie Welt Il Vicepresidente del Parlamento europeo, Alexander Graf Lambsdorff, ha detto che la libera circolazione senza visto in territorio Ue dei cittadini turchi è un obiettivo sempre più lontano a causa dei recenti sviluppi politici nel Paese

IrlandaThe Irish Times –  Secondo un recente studio del National Institute of Economic and Social Research (Niesr) lo scambio di servizi tra l’Ue e il Regno Unito potrebbe subire un calo del 60 per cento se il Paese dovesse uscire dal Mercato unico europeo

GreciaEkathimeriniSecondo un nuovo sondaggio telefonico condotto da Public Issue, il partito conservatore greco, Nuova Democrazia (Nd), avrebbe accumulato un vantaggio di 24 punti percentuali rispetto a Syriza

Divieto d’accesso ai Joe Formaggio d’Italia

Il sindaco di Abettone, Joe Formaggio, con il Segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, a Vicenza in occasione dell'iniziativa "Chiedo Asilo" promossa dal Segretario della Lega Nord Matteo Salvini, 11 Aprile 2015. ANSA/ SIMONE VENEZIA

Sono veneta. E come la maggior parte delle persone amo il posto in cui sono nata e cresciuta, le colline del prosecco, quel verde così verde, le strade di campagna costeggiate da fossati, il freddo e pure la nebbia quando c’è. Amo il Veneto perché è casa mia. Soprattutto sono per la difesa del territorio. Sì, perché la mia regione è seriamente minacciata. Le minacce sono razzismo, xenofobia, stupidità generalizzata. Qualche giorno fa, ai microfoni de La Zanzara, Joe Formaggio, sindaco di Albettone, paesino in provincia di Vicenza, ha dichiarato: «Immigrati? Se ce li mandano muriamo le case e le riempiamo di letame; siamo orgogliosamente razzisti». Poi, non pago: «Se un prefetto manda i profughi qui ad Albettone le barricate di Gorino passeranno in secondo piano». E ancora: «Non vogliamo negri e zingari, da noi rischiano la pelle. Esportiamo cervelli e importiamo negri. Sono meno intelligenti di noi, sono inferiori».
Addirittura il sindaco ha fatto produrre un cartello ad hoc: un divieto d’accesso ai nomadi.
Ora per un attimo tralasciamo la questione legale e il fatto che queste dichiarazioni violano una serie di principi del nostro ordinamento, in primis istigando alla discriminazione e all’odio razziale. Pensiamo alla difesa del territorio, la stessa che sta tanto a cuore a Formaggio. Perché, quando a parlare e a dare un’immagine al resto del Paese di cos’è il Veneto sono personaggi come il sindaco di Albettone, io mi vergogno. Mi vergogno del fatto che da quel verde così verde, da quelle campagne dove fino a 60 anni fa c’erano solo contadini che si spaccavano la schiena, da quei paesini da cui molto spesso si era costretti a migrare per cercare fortuna all’estero, emerga sovrastando tutto il resto soltanto la voce di un Joe Formaggio qualsiasi. Di uno che si è dimenticato che il Veneto (assieme alla Calabria) è stato per anni il fanalino di coda dell’Italia in quanto a povertà, che siamo un popolo di migranti. Svizzera, Belgio, Francia, Germania, Sud America, siamo partiti con le nostre valige di cartone e abbiamo trovato qualcuno che ci accoglieva, oppure no e abbiamo subito il razzismo degli altri.

 

Uno che si è scordato che fino agli anni 90 siamo stati terra di frontiera, dalla prima guerra mondiale, fino alla cortina di ferro. Il primo posto sicuro dove chi fuggiva dalla guerra in ex-Jugoslavia poteva mettere piede. Uno che si è scordato che le nostre “fabbrichette” sono piene di albanesi, che parlano dialetto veneto, di senegalesi, che parlano dialetto veneto, di rumeni, che parlano dialetto veneto. E anche se non parlano dialetto veneto è uguale perché, come noi, hanno contribuito con il loro lavoro alla ricchezza del nostro territorio. Fino a 10 anni fa, a quanto, riportava una statistica pubblicata su Limes, il paese con maggior tasso di integrazione fra italiani e stranieri era San Fior, comune di 6.970 abitanti nella provincia di Treviso, quella del sindaco sceriffo Gentilini. Un dato che dimostra quanto probabilmente le posizioni estreme dei politici di destra della nostra regione, non corrispondano alla realtà dei fatti.
Po,i certo, è arrivata la crisi e si sa che la crisi complica le cose. Siamo diventati anche la regione con maggiore tasso di suicidi fra gli imprenditori (come mostrano i dati della Cgia di Mestre), ma la colpa non è degli immigrati e questa guerra tra poveri innescata da dichiarazioni come quelle di Formaggio è surreale. Peggio, danneggia l’immagine del nostro territorio e cancella la storia umile e silenziosa di una popolazione che si è sempre rimboccata le maniche per fare meglio e risolvere i problemi. Un detto popolare dice «muso duro e bareta fracada», delle dichiarazioni e soprattutto di queste dichiarazioni, non abbiamo bisogno. Noi siamo un’altra cosa. E il cartello da piantare in ogni comune forse sarebbe un bel divieto d’accesso ai Joe Formaggio d’Italia, a difesa del territorio. Così, a mo’ di promemoria, per non doversi più vergognare di essere veneti.

Artissima, fiera della ricerca. Le novità 2016

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Le colorate opere di Thomas Bayrle, che riciclano immagini della società globalizzata, accolgono il pubblico di Artissima già al deposito bagagli dell’aeroporto. La fiera torinese, quest’anno, va incontro ai visitatori con una riflessione sul ritratto dell’uomo-massa contemporaneo. Un tema esplorato dall’artista tedesco già molto prima del 1989, al di qua e al di là del Muro. Quella data che ha assunto un significato simbolico molto forte segna anche uno dei due margini temporali di Back to the future, la sezione di Artissima che guarda alla storia e riporta in primo piano autori del passato per metterli in connessione con quelli emergenti di oggi, che sono il vero fulcro della kermesse torinese. All’ingresso dell’Oval, dove Artissima prende vita dal 4 al 6 novembre, i giovani artisti sono messi in primo piano. Insieme alle nuove gallerie. Tra le novità di quest’anno c’è la sezione New Entries «uno spazio compatto e indipendente per ribadire l’impegno di Artissima nei confronti delle giovani proposte», si legge nella mappa della fiera che cerca di anticipare nuove tendenze e di raccontare ciò che di vivo e vitale si muove a livello internazionale. «La ricerca è la l’identità stessa di Artissima», dice con passione Sarah Cosulich che dirige da cinque anni questo appuntamento, aperto al pubblico più vario studenti, artisti, critici, collezionisti, insegnanti, ricercatori.

Così, mentre il sindaco di Torino Chiara Appendino parte lancia in resta contro i grandi eventi, e mentre la Fondazione Torino Musei tira le somme del bando per individuare il direttore dell’edizione 2017, Artissima 2016 alza il livello della proposta, promettendo fuochi d’artificio. Oltre alla mostra principale e oltre Back to the future dedicato agli anni dal 1970 e il 1989 «caratterizzati da un forte rapporto fra arte e politica e dalla coesistenza di poetiche diverse» nasce Dialogue per tracciare nessi tra le opere negli stand, creando piccole mostre. «È un altro aspetto della nostra identità», spiega Cosulich. «Siamo sì mercato, ma prestiamo molta attenzione agli artisti e al dialogo fra le opere. Anche per contrastare il disorientamento delle fiere, che non sono sempre di facile lettura». Il nesso con il territorio, invece, sarà sviluppato in mostre dedicate alle collezioni locali e al tema del corpo e della figura umana nell’arte; tema che sarà anche al centro della sezione performances curata da un collettivo di artisti olandesi. Quanto allo spazio talk sarà dedicato al dibattito fra curatori di spazi no-profit e indipendenti, cercando di costruire occasioni di condivisione, in un momento in cui «il mercato del contemporaneo continua a crescere» e il mondo delle aste, delle gallerie e del collezionismo appare sempre più compatto. «In questo mercato così globale, così iperconnesso, cerchiamo di portare una alternativa, siamo consapevoli che la competizione si vince differenziandosi. E Artissima – ribadisce Cosulich – ha una identità molto ben definita, anche culturale non solo di mercato. L’attenzione agli emergenti e all’avanguardia ha permesso ad Artissima di ritagliarsi un ruolo molto preciso, come piattaforma di innovazione, che attrae un pubblico in costante crescita». Un quadro che sembrerebbe incoraggiante anche per gli artisti più giovani che, ad oggi, faticano a sbarcare il lunario. Ma è già realtà fuori dall’Oval? Il mainstream imposto da pubblicitari e ricchi tycon fin dagli anni Ottanta del 1900 continua a sembrare forte e impermeabile alle proposte non allineate. «Ciò che dice è vero», risponde Sarah Cosulich, «il mercato ha un ruolo sempre più forte. Ed è vero che grandi marchi della moda e della pubblicità sono molto presenti nel mercato. Ma questa loro visibilità è amplificata da strategie di comunicazione aziendale».

Fuori dai riflettori, insomma, c’è un mondo creativo in fermento. «Nell’arte contano molto le idee. Si muovono indipendentemente dalle dinamiche di mercato». E poi c’è un altro fattore che gioca a favore di chi ha talento: «Io credo molto nella giustizia del tempo. Col tempo tutto verrà riportato alla sua reale dimensione. Quando l’effetto della pubblicità svanisce rimane il nocciolo dell’arte ed emerge il suo valore per quello che è».

Sarah Cosulich
Sarah Cosulich

Artissima
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L’intervista continua su Left in edicola dal 29 ottobre

 

SOMMARIO ACQUISTA

Expo è un buco. Nonostante la favola turbo

È stato un lungo fischio di sirene che ha attecchito mica male: il successo di Expo turboraccontato dal governo e dall’accolita degli interessati è stato uno dei fiori (di cartone) all’occhiello del governo: alla fine c’è uscito anche un sindaco dalla favola dell’Expo come simbolo dell’Italia che funziona e chissà se in queste ore proprio lui, Beppe Sala, non si sentirà tradito dall’improvviso dietrofront che arriva da Roma.

Ma andiamo con ordine. Il beneficio economico di Expo non sta nei bilanci, no: quelli, quando sono stati finalmente resi pubblici dopo un lungo tira e molla con Sala e la sua banda, dicono chiaramente che la manifestazione internazionale è stata sopra alle aspettative nelle spese sostenute e al di sotto nei visitatori previsti. I numeri lo dicono chiaramente, piaccia o no. Il presunto successo di Expo però, ci dicono da mesi gli ottimisti (per missione e servitù), starebbe tutto nella risonanza internazionale (vuoi mettere gli arresti tra dirigenti che sono finiti anche sulla stampa indiana, per dire), nell’indotto (che è ormai una mitologica presenza che sbuca quando bisogna ammorbidire i risultati finanziari) e nell’eredità dello Human Technopole (un trasloco dell’Università Statale pomposamente tradotto in inglese). Questo ci deve bastare, dicono.

C’è un problema: i soldi promessi da Renzi per pareggiare il bilancio di Expo (che è in rosso, appunto) sono spariti dalla legge di bilancio. Non c’è traccia dei 9,5 milioni di euro che servirebbero per la liquidazione della spa (che sarebbe quindi costretta a portare i libri in tribunale) e nemmeno gli 8 milioni per il trasferimento del campus universitario della Statale. Niente. Nisba. Alla fine anche il fedele collaboratore del sindaco di Milano Gianni Confalonieri (già scudiero di Pisapia) è costretto ad ammettere di essere rimasto “esterrefatto” e  di avere esaurito la sua riserva di fiducia.

Poi c’è Maroni, ovviamente. Il presidente della Regione Lombardia è già pronto a non scucire nemmeno lui i soldi che gli spetterebbero. Il futuro di Expo, oggi, è vicino al fallimento. Expo è un buco e ora sembra che sia passata la voglia di coprirlo. E fa niente che quelli che provavano a farlo notare erano gufi. Conta la narrazione, conta l’ottimismo, conta la propaganda. Ieri il ministro Martina ha assicurato che i soldi prima o poi arriveranno. E la saga continua.

Buon mercoledì.

Al comizio di Bernie Sanders, che prova a dare un’anima alla campagna di Clinton

Portland, Maine – «Mi rimane difficile ricordare un tale livello di aggressività nei confronti di una donna. Forse solo le streghe di Salem sono state trattate peggio di Hillary». Jenny è una sostenitrice di Clinton sulla cinquantina, felpone e zoccoli, è in fila per ascoltare Bernie Sanders a Portland, piccola città del Maine, all’estremo nord degli Stati Uniti, due passi dal Vermont che elegge il senatore della sinistra democratica. «Sai cosa apprezzo di lui? Due cose: che ha spostato a sinistra la piattaforma del partito su alcune questioni cruciali e che, dal momento in cui ha perso le primarie, da gran signore qual’è, si è rimboccato le maniche per far vincere Hillary».

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Parlando delle donne estromesse dai piani alti, Jenny spiega la sua ragione per sostenere Clinton: vuole una donna alla Casa Bianca. Parlando di Sanders, ti racconta come la base del partito, in fondo, sia più in sintonia con lui che con la politica Hillary. Ma tutti sono preoccupati qui a Portland, ordinato porto del New England: la vicenda delle email ha ridotto la distanza tra Clinton e Trump a tal punto che Jenny passa il tempo a consultare le pagine dei sondaggisti in cerca di un dato confortante. «Da tre giorni a questa parte non ne trovo», dice sconsolata. «Qui sappiamo cos’è il trumpismo, il nostro governatore è già Trump al potere». In effetti Paul LePage, governatore del Maine è volgare, aggressivo, destrorso come il miliardario newyorchese.

Fa freddo e in diverse centinaia compongono una fila ordinata per ascoltare Bernie Sanders, il senatore stasera è al terzo comizio del giorno, due in New Hampshire prima di Portland. A guardarlo sul palco non si direbbe.
L’onnipresenza di Sanders, Obama e Biden, che stanno battendo gli States palmo a palmo, non è proprio un bel segnale: Clinton ha paura di perdere a causa del danno prodotto dalle decisioni dell’Fbi. Un sondaggio nazionale Washington Post mette i due candidati praticamene alla pari. Intendiamoci, i sondaggi nazionali lasciano il tempo che trovano, a questo punto contano i singoli Stati – ma anche da qui, Hillary è messa meno bene di tre giorni fa, specie in Florida, Ohio e North Carolina.

La verità è che, per tutta la campagna Donald Trump ha saputo imporre l’agenda, far parlare di sè, farsi rispondere. Nel bene e nel male, quando ha dovuto difendersi da accuse sul suo sessismo e sull’evasione delle tasse (un nuovo scoop del New York Times ieri) sostenendo che c’è un complotto ordito dai media contro di lui, così come quando è andato all’attacco: i toni sopra le righe pagano con la Tv e sui social media. Trump lo sa e ci gioca. Come dirà Sanders più tardi durante il suo discorso in una grande palestra di college: «I grandi canali all news hanno dedicato ai temi della campagna 37 minuti in totale, il resto sono stati insulti». Lui invece parlerà di contenuti. Sono quelli che gli premono.

 

La maggioranza della gente è qui per lui: quando una delle persone che lo precedono sul palco chiede: «Chi ha votato Sanders alle primarie?», molto più di metà della sala alza la mano. Del resto gli Stati del Nord est e gli altri dove le minoranze sono poca cosa se li è aggiudicati quasi tutti lui. Ed è lui che li sta battendo per aiutare Clinton.

Non è una cosa da sottovalutare: tre persone con cui abbiamo parlato dicono, vado perché c’è lui che fa campagna. Uno studente al primo voto spiega che molti dei suoi colleghi voteranno grazie a Sanders. O alla paura di Trump: William, molto radicale e sulla sessantina, dice che non voterebbe mai per Clinton, Ma che di fronte al miliardario non può astenersi o votare la verde Jill Stein – fuori ci sono i suoi sostenitori a cercare di raccattare qualche voto, una di loro interromperà Sanders urlando e verrà portata fuori. «Sanders ha imposto una serie di temi che per me sono cruciali – ci spiega Cal, 50 anni, cartello di Bernie sotto il braccio – si parla molto di sicurezza e di paura, sono temi importanti, il Medio Oriente è un macello, ma qui dobbiamo lavorare per restituire fiducia alla middle class, per includere tutti. E ci sono alcune proposte che Sanders è riuscito a imporre al programma democratico che vanno in quella direzione: il salario minimo, la fine del debito per gli studenti, il congedo per malattia e maternità».

Sanders queste cose le ripeterà tutte nel suo discorso, sciorinando numeri, e brandendo l’opuscolo su cui è stampata la piattaforma democratica «più progressista mai approvata». Il senatore del Vermont torna più volte su un concetto: «Se riusciremo a sconfiggere quest’uomo che non paga le tasse, state sicuri che le pagherà come voi e me. Ma il lavoro sarà appena cominciato – dice ripetendo il tema della sua campagna – il cambiamento, la political revolution che vogliamo non avviene a causa di un leader e neppure in un giorno. Servono lavoro, impegno, unità».

E tutto sommato, parlando con la gente, l’unità è il segnale che la platea fatta di molti ragazzi, famiglie giovani, qualche operaio, pochi anziani, regala al senatore del Vermont: una signora seduta nelle prime file delle gradinate della plaestra è una sostenitrice di Hillary, ma adora Sanders ed è contenta che abbia saputo iniettare alcune grandi questioni nel dibattito nazionale. Due sue amiche dall’aria nordica, come molti qui in Maine, dove la popolaziona ha spesso origine del Nord europeo, annuiscono mentre un operaio che parla dal palco parla di tasse, lavoro che deve tornare in America e declama «Trump non crede negli americani e nel lavoro americano, compra acciaio cinese e ci vende odio e paure. Tra pochi mesi ci nasce una figlia, non voglio che conosca un presidente Trump».

— Left (@LeftAvvenimenti) 1 novembre 2016

Sanders parla di lavoro, sanità, università e cose che si possono fare per migliorare lo stato di salute del Paese. E ricorda: «Se dieci anni fa mi avessero “Bernie nel 2016 avremo il matrimonio tra persone dello stesso sesso come diritto costituzionale”, avrei risposto “stai di fuori”. Ma i militanti LGBT, i loro compagni etero, le organizzazioni per i diritti civili si sono organizzate e hanno lavorato per cambiare le cose. Ed eccoci qua». Lo stesso, dice il senatore aprendo le braccia come sempre nei comizi, è valso per i diritti del lavoro nel ‘900, per le battaglie dei neri negli anni 60. Oggi di nuovo occorre unirsi per fermare il peggior candidato presidente della storia – che nel frattempo ha ricevuto il sostegno Di The Crusader (il crociato), il giornale del Ku Klux Klan. E poi, naturalmente, per fare in modo che la piattaforma del partito democratico non rimaga lettera morta.

Se Clinton verrà eletta avrà a che fare con una nutrita schiera di sostenitori di sinistra in Congresso. Sono diversi e molto popolari. E sono un antidoto a Trump, possono contendergli l’elettorato bianco e operaio. In questi giorni le stanno dando una grande mano, da presidente Hillary dovrà ascoltarli. La gente che si incammina verso casa tirandosi su il collo per riparlarlo dal vento freddo che arriva dal mare, voterà Clinton. Ma  le chiederà le stesse cose che chiede Bernie Sanders.

La Turchia non è un Paese per giornalisti

Durante gli ultimi 3 mesi  in Turchia sono stati chiusi più di 160 organi di informazione e arrestati quasi 100 giornalisti. È il bilancio – provvisorio – della repressione che il governo di Recep Tayyip Erdoğan ha messo in atto dopo il fallito colpo di Stato dello scorso luglio.

Come spiega il The Guardian, sabato è stato approvato un decreto governativo che ha causato la chiusura di ulteriori 15 testate. La piattaforma per il giornalismo indipendente P24 ha confermato che ieri è stato arrestato Murat Sabuncu, direttore del noto giornale di opposizione, Cumuhuriyet.

Un’analisi dell’International Press Institute (Ipi) dimostra inoltre come il governo turco stia usando diversi account fantoccio su Twitter per intimidire le voci di opposizione presenti sul social-media. Oltre a essere vittime di attacchi hacker, i giornalisti ricevono offese verbali, se non minacce di ritorsioni violente.

Nel frattempo, Can Dundar, predecessore di Sabuncu alla guida di Cumuhuriyet, è stato intervistato da Euronews al margine dell’assegnazione del premio Shakarov del Parlamento europeo. Interrogato sul legame tra l’accordo Ue-Turchia sui migranti e la situazione dei giornalisti nel suo Paese, Dundar ha risposto: «È un accordo sporco. Erdoğan usa i rifugiati per far chiudere un occhio a Bruxelles sulla repressione in corso».

Leggi anche:

Bruxelles – PoliticoJosé Manuel Barroso non ha infranto il codice etico delle istituzioni europee accettando il suo incarico presso Goldman Sachs International

Spagna – Die Welt200 migranti riescono a sfondare le barriere di Ceuta per entrare in territorio europeo e richiedere asilo

Paesi Bassi – The Guardian Geert Wilders, leader della partito di estrema destra, Partito per la Libertà (Pvv), non si presenta al processo che lo vede accusato di incitamento all’odio

Germania – HandelsblattVoler Kauder (Cdu): “Senza il coinvolgimento del Fondo monetario internazionale, la Grecia non riceverà nuovi aiuti dalla Germania”

Grecia – EkathimeriniDal 2010 più di 9mila medici hanno lasciato la Grecia per lavorare all’estero

 

I “fiori del male” del Fascismo

Vittime della guerra, isteriche, madri contro natura, emarginate, disubbidienti e fuori dalle convenzioni sociali e morali: sono le donne che il Ventennio fascista ha recluso nei manicomi di tutta Italia secondo un piano eugenetico che le voleva soltanto spose e madri.

Sono i volti dei “fiori del male”, le “deboli piante intisichite”, le storie delle donne raccontate nella mostra allestita alla Casa della Memoria e della Storia di Roma, recuperate dagli archivi dell’ex manicomio Sant’Antonio Abate di Teramo, uno dei più grandi ospedali psichiatrici dell’Italia centro-meridionale.
La mostra, a cura di Annacarla Valeriano e Costantino Di Sante, vuole colmare un vuoto storico e cronico che privilegia alcune narrazioni a scapito di altre e trae ispirazione dalle riflessioni della scrittrice Christa Wolf in “Cassandra”: «le tavolette degli scribi tramandano la contabilità del palazzo: grano, anfore, armi, prigionieri. Per il dolore, l’infelicità, l’amore non ci sono segni. E questo mi sembra di rara infelicità».

Le donne del manicomio di Sant’Antonio Abate diventano, così, i testimoni involontari dell’esclusione, dell’emarginazione sociale e di genere messo in atto dal Regime, che ha stigmatizzato e punito quelle donne che si sono sottratte al ruolo di “angeli del focolare”.

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Durante il Ventennio, spiega la mostra, gli ospedali psichiatrici hanno ricoperto un ruolo di primo piano nel contenimento e nella repressione delle “cellule impazzite” non conformi alla morale comune e i medici sono diventati “ le sentinelle avanzate della civiltà e dell’igiene”, tanto che tra il 1927 e il 1941 i pazienti psichiatrici sono quasi raddoppiati in tutta Italia.
I presupposti dell’internamento di alcune categorie femminili facevano capo alle rappresentazioni culturali della devianza risalenti al Positivismo ottocentesco, sfociando nelle teorie eugenetiche novecentesche, proprio mentre la psichiatria cercava di affermarsi come branca di sapere autonomo nell’ambito delle discipline mediche.

La devianza morale femminile corrispondeva all’inferiorità fisica rispetto all’uomo, per cui alla donna fragile e subalterna spettava solo il regno sicuro della casa: «è un povera creatura, misteriosa, – scriveva Augusto Alfani ne “Il carattere degli italiani” nel 1878 – per la quale è legge senza eccezione il dolore: è malata una volta al mese e ancor più malata per una gran parte del tempo della sua fecondità. La donna ha figli da educare, casa da sorvegliare, biancheria da cucire».
La bonifica della femminilità deviante e disubbidiente cominciava durante l’infanzia, nei riguardi di tutte quelle bambine e giovani donne che sembravano imperfette e inadatte ad accogliere docilmente il ruolo materno e riproduttivo. «È necessario ridurre il più possibile quella schiera di ipoevolute sessuali che hanno la pubertà tempestosa, che sono di minimo o nessun rendimento, che avranno, quando l’hanno, una fecondità tarda e difficile, con maternità tormentate e parti patologici: – scriveva Nicola Pende nel 1937 – quelle donne che si trascinano da medico a medico, donne che vivono male e fanno vivere male chi convive con esse».

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La maggior parte delle donne ricoverate al manicomio di Sant’Antonio Abate fa capo alla categoria di “massaia rurale”: contadine, spesso costrette in spazi casalinghi angusti, in situazioni di promiscuità, traumatizzate dalla guerra, dalla perdita dei cari e dalle violenze sessuali subite.
L’affermazione del disagio femminile fuori dai recinti prestabiliti veniva considerata dal Fascismo “una ridicola scimmiotteria dell’anima maschile, una parodia della libertà”, “una cattiveria che merita soltanto qualche piccola correzione”, un capriccio femminile, non un vero e proprio disagio esistenziale da legittimare.
Coloro che erano incapaci di essere “madri assolute”, coloro che volevano sottrarsi alla funzione riproduttiva ed essere libere dai ruoli sociali imposti – come le donne che popolano il mito greco, da Medea, Cassandra, Elettra, a Clitemnestra – erano considerate “contro natura” e “donne cagne” come le loro madrine mitologiche.

IDA DALSER E BENITO ALBINO (Agenzia: ANSA) (NomeArchivio: 260809uz.JPG)
Ida Dalser e suo figlio Benito Albino Mussolini

Destino che non fu risparmiato nemmeno a Ida Dalser, che ebbe un figlio da Benito Mussolini nel 1915 e che morì nel manicomio psichiatrico San Clemente di Venezia nel 1937. Di Ida si sa che per tutta la vita ha cercato di essere riconosciuta come moglie da parte di Mussolini, il quale l’ha sempre ripudiata e allontanata, fino a impedirle di abbandonare la città di Trento, da cui più volte è evasa per raggiungerlo a Roma, a Palazzo Venezia.
La mostra “I fiori del male. Donne in manicomio nel Regime Fascista” – che è gratuita ed è prevista fino al 18 novembre – cerca di riassumere in un lavoro d’archivio e di recupero le memorie personali delle pazienti e le memorie istituzionali dell’epoca in modo lucido e storiografico, offrendo interessanti strumenti di analisi anche alle questioni di genere contemporanee.