Norcia, central Italy on October 31, 2016 one day after the earthquake. Italy's most powerful earthquake in 36 years struck a new blow to the country's seismically vulnerable heart, terrifying residents for the third time in nine weeks. PHOTO by Eric Vandeville/ABACAPRESS.COM
Alle 8,56 la terra ha tremato ancora: magnitudo 4,7 con epicentro tra Marche e Umbria. Lo sciame sismico prosegue dopo la scossa da 6.5 gradi di domenica mattina, mentre ci si adopera per monitorare i danni e portare sollievo ai tanti sfollati: le stime parlano di 25mila nelle Marche (circa 21mila nella provincia di Macerata), più di 5.000 in Umbria, 3.000 in Abruzzo e almeno 800 nel Lazio.
Proseguono i trasferimenti verso gli alberghi della costa e a Norcia si stanno allestendo tensostrutture per ospitare le persone che ieri hanno rifiutato di trasferirsi.
Dopo l’ultima scossa, il sindaco di Castelsantangelo sul Nera, Mauro Falcucci, ha fatto sapere che ormai il suo paese «sembra raso la suolo» e ha chiesto con urgenza strutture per ospitare gli animali e un container per il Municipio, ora ospitato «in tenda a 2 gradi sotto zero». Stessa situazione a Ussita, centro già duramente colpito il 30 ottobre dove oggi si sono verificati nuovi crolli.
Modello Irpinia, ha ivece stabilito il consiglio dei ministri di ieri, per la fase di emergenza: entro Natale arrivaranno container «per evitare i 6 o 7 mesi da trascorrere altrove» ed entro primavera moduli abitativi prefabbricati, ha annunciato il presidente del Consiglio Renzi, che ha anche ampliato i poteri del capo della Protezione civile e rafforzato la presenza delle forze dell’ordine nelle aree colpite dal terremoto.
Facendo un punto con la stampa, ieri, Matteo Renzi, che non ha risparmiato frecciate all’Europa («Quello che serve per il terremoto lo mettiamo, punto») e ha detto che «siamo in presenza di un evento realmente straordinario», ponendo l’accento sul fatto che la scossa più forte è stata proprio quella dell’Irpinia del 23 novembre 1980. Renzi ha annunciato ulteriori di risorse in termini di personale per rispondere alle preoccupazioni dei cittadini che lasciano le case. «Accanto a questo – ha aggiunto – più personale per affrontare il carico burocratico» delle verifiche tecniche di agibilità di fabbriche, case e scuole.
Il premier ha annunciato l’approvazione di un nuovo decreto legge per dare poteri di accelerazione e semplificazione – nel massimo coinvolgimento dell’Anac e di tutte le strutture – per accelerare i tempi di intervento e consentire lo svolgimento di quattro fasi: l’immediata emergenza delle prime settimane per chi può lasciare il territorio, la seconda fase è quella del container per ridurre lo stress di chi si allontana dal proprio territorio, la terza è quella delle casette di legno che dovrebbero arrivare entro la primavera-estate. «La quarta fase è la ricostruzione vera e propria» ha detto Renzi, garantendo che «ricostruiremo tutto, non solo le case» e annunciando l’assunzione di tecnici a tempo determinato per accompagnare gli interventi previsti.
Il tweet arriva alle 19.18 di ieri mentre tutti i tg mandavano a reti unificate le immagini del terremoto e le voci senza speranza dei sopravvissuti. Quando accade qualcosa di imponente e luttuoso nella classe politica per auliche ora tiene la barriera del rispetto. Per qualche ora, poco più. Ieri ci siamo tutti giustamente indignati per la bufala strombazzata dalla senatrice Blundo (ne ho scritto qui) ma Castagnetti è un politico di lungo corso con tutto quello che ne consegue e così l’ex parlamentare del PD decide di trovare una forma morbida, un orario consono e un mezzo utilissimo per tastare il polso. Così twitta:
Secondo me ci sono le condizioni per rinviare il referendum: 3 regioni terremotate, un intero paese con il cuore e la testa lì.
Così con una frase semplice e secca Castagnetti riesce a infilare il referendum sulla riforma costituzionale nell’emotività ancora calda per il terremoto. E cosa dice il tweet? Prende tempo, ovviamente e non è certo un mistero che il “tirare in là” sia stata una strategia abusata fino all’ultimo da Renzi e i suoi (il referendum d’ottobre del resto si terrà il 4 dicembre, per dire). Ma poi fa di più: se di fronte all’emergenza si dice che la politica sia giusto che si fermi e così si mescola ancora nell’antipolitica in versione renziana, quella che non vuole il Senato di professionisti perché i senatori sono cloache (nonostante gli siano indispensabili per avere la maggioranza di governo, ma fa niente) e quella che mette i manifesti che dicono “se volete meno politici votate sì”.
E fa niente se in Friuli si sono tenute le elezioni politiche del 20 giugno 1976 nelle tende proprio per “riprendere in fretta la normalità” come scrivevano i giornali del tempo. Castagnetti twitta e butta l’amo. Tanto questi non sono inurbani o volgari e poi alla fine qualcuno dei loro giornali lavorerà duro per prenderli sul serio. Evviva.
Siamo nell’era del web e dei social. Facebook conta circa più di 1,5 miliardi di utenti dei quali conosce dati anagrafici, etnia, preferenze sessuali, gusti estetici. Non serve un genio del marketing per capire che il social di Zuckerberg è praticamente il paradiso del pubblicitario e, più in generale, di chiunque voglia far arrivare il proprio prodotto ad un target specifico di persone. Il punto è che, a quanto riporta un’inchiesta di ProPublica condotta negli Stati Uniti, a volte la definizione di questo target specifico è discriminatoria soprattutto sulla base delle caratteristiche razziali. Facebook infatti permetterebbe agli inserzionisti di escludere dalla visualizzazione dei loro annunci neri, ispanici ed etnie affini a queste. Le stesse restrizioni possono avvenire per genere o orientamento sessuale.
E se questa può sembrarci una semplice strategia di marketing, la legge federale americana invece ci ricorda che nel caso in cui i prodotti sponsorizzati siano: posizioni lavorative o case, si tratta di una vera e propria discriminazione che svantaggia le etnie o le minoranze escluse dal pubblico dell’annuncio. John Relman, avvocato per i diritti civili interpellato da ProPublica, ha commentato così: «È orribile ed è illegale. Si tratta di una violazione del Fair Housing Act». Il Fair Housing Act non è altro che una legge federale del 1968 che stabilisce che l’offerta del mercato degli immobili e in particolare delle case deve essere equo, sia per canoni d’affitto e acquisto, che per una uguale possibilità di accesso ad essi senza esclusioni per genere, razza, colore, religione, handicap, stato familiare o nazione di provenienza. Steve Satterfield, manager che si occupa delle politiche pubbliche e della privacy per Facebook, ha risposto ai giornalisti di ProPublica che l’azienda considera qualsiasi uso della piattaforma pubblicitaria in senso discriminatorio come una violazione della policy del sito. «Prendiamo una posizione forte contro gli inserzionisti che abusano nostra piattaforma» ha spiegato Satterfield «Le nostre politiche vietano di utilizzare le opzioni di targeting in senso discriminatorio e richiedono il rispetto della legge». Satterfield inoltre ha chiarito che la categoria “affinità etnica” è determinata sulla base della tipologia di contenuti che riesce a coinvolgere maggiormente un utente e che non è la stessa cosa di un’identificazione razziale. Eppure di fatto l’effetto che si produce è un discriminatorio. E la questione si fa ancora più importante se si considera che Facebook è estremamente potente e l’esclusione da un’inserzione su temi rilevanti come casa o lavoro, può comportare un effettivo svantaggio per gli utenti discriminati e una difficoltà accesso all’informazione. È probabile dunque che effettivamente il team di Zuckerberg, come dichiarato da Setterfield, non abbia sviluppato l’applicazione per targettizzare il pubblico con uno scopo deliberatamente discriminatorio, ma si suppone che un sito che abbia fatto dell’inclusione e dell’ “amicizia” due concetti fondanti del suo successo commerciale, tenga conto un po’ di più delle ricadute sociali delle proprie azioni di marketing. E delle leggi per tutelare la parità sociale.
Non poteva che nascere a Bologna la prima web serie che racconta l’handicap.Sofia Rocks – invito speciale, è un viaggio condotto dalla ventisettenne video-blogger Sofia Righetti sulla sua scintillante “due ruote” nel mondo della disabilità. Le serie web e tv sono il prodotto che meglio parla, come formato e contenuto, del nostro mondo e al nostro mondo. E questo fa, la serie della blogger.
I temi esplorati, non ve ne stupiate, sono gli stessi che riguardano, ebbene si, le persone “normali”: la sessualità e l’affettività, lo sport, il lavoro, l’arte. Infatti, obiettivo dei corti, è proprio quello di portarci a scoprire la realtà di chi è, è il caso di dirlo, diversamente abile. Realtà che Left aveva raccontato facendo parlare i ragazzi dell’Altro Spazio, locale gestito da disabili e alla portata di…tutti (leggi qui). Proprio al fine di rompere l’idea che il mondo sia diviso fra chi vi può avere accesso e chi no.
Le cinque puntate, prodotte da Filandolarete insieme all’agenzia giornalistica Agenda, con il sostegno della Film Commission della Regione Emilia-Romagna, ospitano storie vere unite a testimonial d’eccezione, come, fra gli altri, Alessandro Bergonzoni, Maurizio Landini, l’allenatore Roberto Donadoni o la campionessa paraolimpica Martina Caironi. Un giro al seguito della sferzante Sofia, che fra ritmo e messaggio sociale, ci accompagna la dove le barriere diventano possibilità, e i limiti, creatività.
Premessa indispensabile di tutta la web serie è che per combattere discriminazioni, ignoranza, razzismo ed emarginazione, è importante lavorare su una nuova impostazione culturale, che veda nella diversità, e dunque nelle persone con disabilità una ricchezza; come un’opportunità da cui far nascere nuove soluzioni e risposte. Nuovi mondi da esplorare, per l’appunto.
Per questo tutta la serie sarà intrecciata al tema di una nuova cultura della disabilità e racconterà come – grazie alle tecnologie, all’integrazione scolastica e lavorativa, all’eliminazione delle barriere architettoniche, all’accessibilità del tempo libero e dell’arte, a un welfare inclusivo – sia possibile rendere semplice e ricca la vita di una persona disabile, senza che questa debba per forza essere un eroe o una persona speciale.
«Siamo tutti Mouhcine!», gridano i manifestanti scesi in piazza, da ben quattro giorni, in quasi tutte le città del Marocco per protestare contro la morte ingiusta di Mouhcine Fikri, il pescatore rimasto ucciso venerdì durante un sequestro da parte della polizia.
Alcuni attivisti per i diritti umani, intervistati dalla Bbc, hanno dichiarato che si tratta «della più grande manifestazione dal periodo delle primavere arabe» e non è difficile crederlo.
Migliaia di persone per strada da Casablanca a Rabat, negozianti e pescatori in sciopero da venerdì, migliaia le condivisioni su Twitter. Il tutto, sotto lo sguardo preoccupato di re Mohammed VI. Che si occuperà personalmente della vicenda, considerato che il Marocco, nella persona del premier designato Abedelilah Benkirane, sta ancora tentando faticosamente di mettere insieme un governo.
Mouhcine Fikri aveva trentuno anni e lavorava come venditore ambulante di pesce nella città settentrionale di Hoceima. Venerdì, la polizia gli ha confiscato diverse tonnellate di pesce spada, la cui pesca è proibita in questo periodo. In pochi minuti si è consumata la tragedia: Mouhcine e altri venditori si sono avventati sul camion dell’immondizia in cui la polizia aveva gettato il pesce. Poco dopo, la pressa per lo smaltimento dei rifiuti è stata attivata, e mentre gli altri sono riusciti a sottrarsi alla morsa meccanica, Mouhcine è rimasto schiacciato a morte. La folla riunita intorno al camion si è scagliata contro i poliziotti, chiamandoli «assassini» e ritenuti responsabili volontari dello stritolamento del pescatore.
Da quel momento la protesta è esplosa, contagiando e mobilitando l’intero Paese. Il governo di Rabat sta cercando di correre ai ripari promettendo un inchiesta che appuri i fatti, e contenere così le proteste. Soprattutto, in vista dell’apertura a Marrakesh, della Cop22, la conferenza internazionale sul clima sotto egida Onu che si svolgerà tra il 7 e il 18 novembre nella città marocchina.
Ma in piazza e sulla stampa la rabbia monta: «Il Marocco è in stato di Choc. La morte atroce di un pescivendolo indigna il Rif e tutti i marocchini», scrive il quotidiano Akhbar Alyoum mentre un altro giornale, Al-Ahdath, titola tutta pagina: «Chi ha massacrato Mouchine?».
Il funerale di Mouhcine ha richiamato 40 mila persone e le foto del suo corpo martoriato hanno fatto il giro del web velocemente, mobilitando l’intero Paese contro gli abusi da parte della polizia, e riportando alla mente i fatti tunisini del 2010, all’inizio della Primavera Araba.
Nel 2010, infatti, un altro venditore ambulante è diventato il simbolo della protesta contro la polizia e contro il Governo, tanto da essere considerato l’agente scatenante della Primavera Araba in Tunisia, dilagata da lì nel resto dei Paesi arabi: Mohamed Bouazizi, tunisino, dopo anni di maltrattamenti, confische di prodotti ortofrutticoli e tangenti da pagare alla polizia, si è dato fuoco in piazza, in segno di protesta contro la polizia, lanciando un messaggio di dissenso all’intero paese. Messaggio che è stato accolto ed è diventato il carburante della Rivolta dei Gelsomini, il movimento di protesta nato in Tunisia dopo la morte di Bouazizi contro la corruzione della polizia e dello Stato, la disoccupazione, i rincari alimentari e le pessime condizioni di vita.
In seguito a quella rivolta, il dissenso si è espanso a macchia d’olio nel mondo arabo, e in alcuni casi i capi di Stato – di Tunisia, Egitto, Libia e Yemen – hanno dovuto consegnare le dimissioni, sono stati imprigionati o addirittura uccisi, come è capitato a Muammar Gheddafi.
All’epoca il Marocco prese parte all’ondata di rivolte in modo bilanciato, abbastanza pacifico e ridimensionato rispetto agli stati vicini, anche per le numerose riforme messe in atto da re Mohammed VI, detto “il modernizzatore”, che ha concesso numerosi diritti al suo popolo, soprattutto in termini di diritto familiare.
Da allora, però, il movimento di protesta “20 febbraio”, nato nel 2011, non ha mai smesso di esistere e di chiedere il ridimensionamento del potere di re Mohammed VI, le dimissioni del Governo e alcuni cambiamenti costituzionali.
Mouhcine Fikri e la sua storia sono diventati in pochissimi giorni i simboli dell’ingiustizia di Stato e l’occasione per scendere in strada a protestare contro quella polizia e quel governo che alcuni anni fa non è riuscito a intaccare.
Clinton è oggettivamente nei guai. Gli otto giorni che separano gli americani dalle urne, anche se hanno già votato in 21 milioni, dovevano più o meno scorrere tranquilli: campagna, comizi, organizzazione della macchina elettorale Stato per Stato, casa per casa e attesa del voto. Poi il capo dell’Fbi ci ha messo del suo, annunciando che l’agenzia avrebbe riaperto il caso delle mail spedita da un server di posta privato – e non quello del Dipartimento di Stato, che è più sicuro. Da tre giorni si parla e litiga solo su quello. Ma cominciamo questa rassegna con qualcosa che non c’entra nulla: la protesta dei Siouw in North Dakota.
La violenza contro i Sioux, l’assoluzione delle milizie dell’Oregon
Da mesi i Sioux del North Dakota, aiutati da tutte le tribù del Paese, protestano in difesa della Standing Rock, terra sacra sulla quale una compagnia vuole costruire un oleodotto. Ne abbiamo già parlato. Ora, la protesta pacifica dei nativi è stata accolta con mobilitazione di polizia, elicotteri, cani e due giorni fa, 141 arresti. Mesi fa una milizia armata di bianchi di destra occupava altre terre comuni di proprietà dello Stato federale. «La terra non può essere del governo federale, le regole federali qui non valgono, questa è casa nostra» era l’idea. Qualche giorno di tensione armata, qualche arresto, nonostante ci fosse scappato il morto, nessun condannato.
Molti qui commentano che si tratta di un comportamento discriminatorio delle istituzioni (statali, non federali in questo caso) che non si fanno problemi a usare la forza contro i Sioux ma non contro la milizia. Ci sono altre due ragioni: le milizie fanno un po’ paura, l’uso della forza avrebbe significato probabilmente nuove proeste altrove; i Sioux portano avanti una protesta concreta non simbolica. Non vogliono un oleodotto, fermano degli interessi. I miliziani dell’Oregon conducevano una battaglia solo politica. Entrambi chiedono di rispettare un diritto ancestrale: solo che i Bundy – la famiglia che ha il ranch che confina con le terre federali – lo fanno per interessi e non sono nativi di quelle terre, i Sioux conducono una battaglia ambientalista. Le botte le hanno prese anche per quello.
Le email
L’Fbi ha ottenuto mandato per guardare dentro le mail di Clinton contenute nel computer di Anthony Weiner, marito di Huma Abedin, braccio destro di Hillary. Contengono materiale Top Secret e, quindi, Clinton ha commesso errori o peggio, reati? Nella precedente indagine non si era verificato un caso simile. E quello era il Pc di Hillary stessa. Certo se ci fosse materiale Top Secret finito nel Pc del marito di una aiutante, Clinton non farebbe una bella figura.
I tempi delle indagini
In queste ore si è capito che gli agenti che indagano sul caso delle email spedite a una minorenne da Weiner – l’indagine è stata avviata per quello e il pc è stato “aperto” per verificare i comportamenti dell’ex rappresentante di New York – avevano visto le mail di Clinton da tempo. Perché hanno informato il capo dell’Fbi Comey solo a una settimana dal voto? Ci sono poi sospetti di violazione della procedura: prima di ottenere il mandato, gli agenti investigavano sulle mail di Weiner, non su quelle di Clinton o Huma Abedin. Se le hanno aperte, hanno violato la privacy. Infine: cercare le mail con un software per individuare doppioni rispetto a quelle già lette sul Pc di Clinton, verificare se ci sono alcune parole chiave (Top Secret o Libia, per esempio) non è un lavoro lungo.
La storia dello spot di Hillary qui sopra è divertente. Il tema è: possiamo dare a Trump la valigetta nucleare? Meglio di no. La donna che parla è la bambina che vedete nell’immagine del video in bianco e nero. A sua volta, quello spot è una pubblicità politica che ha fatto la storia. Il primo che ha cambiato una campagna elettorale. Daisy, sta cogliendo un fiore (una margherita, che si dice Daisy) ed è serena. Poi c’è la bomba e tutto diventa nero. Voce (riassunto): “La scelta è tra una vita serena e la morte, votate il presidente Johnson”. L’idea da trasmettere era che Barry Goldwater, candidato repubblicano molto di destra fosse pericoloso e irresponsabile. La stessa idea che Clinton prova a trasmettere oggi. Il video originale è questo. All’epoca cambiò la dinamica della corsa per la Casa Bianca. Quest anno nessuna pubblicità sembra aver bucato, fatto parlare troppo. Siamo nell’era dell’informazione frammentata e polverizzata.
Quanti hanno votato?
Negli Usa si vota molto in anticipo. A oggi hanno votato 21 milioni di persone e i segnali sono buoni per Clinton: più elettori registrati come democratici stanno votando che non repubblicani. O quasi. Negli Stati cruciali molti elettori stanno votando – il che rende meno drammatico l’effetto del caso Fbi-email. Problema per Hillary: gli afroamericani stanno votando meno (ne parleremo con un reportage su Left in edicola sabato). La macchina democratica farà di tutto per portare tutti a votare, le minoranze per loro sono cruciali.
Si può comprendere molto del presente ripercorrendo il passato. Se poi il passato ha il volto nobile segnato da una barba candida e da uno sguardo schietto come quello di Mario Rigoni Stern, allora tutto diventa più chiaro. Perché la vita dello scrittore di Asiago, autore di tanti romanzi come il celebre Il sergente nella neve è come se fosse un libro di Storia “vissuta”, oltre che una lezione di etica civile. Ora questa straordinaria esperienza umana e artistica è stata dipanata da una biografia, Mario Rigoni Stern, vita, guerre e libri (Priuli & Verlucca) scritta da Giuseppe Mendicino. Appassionato di montagna e di storia, Mendicino nella vita ricopre vertici amministrativi negli enti locali in Lombardia, ma ha anche scritto e curato saggi sulla montagna e su Rigoni Stern (Il coraggio di dire no, Einaudi), che ha conosciuto e frequentato negli ultimi anni della vita (lo scrittore è morto nel 2008). Il volume sulla biografia di Rigoni Stern ha viaggiato per mesi in librerie e festival e sabato scorso ha ricevuto il premio speciale Leggimontagna a Tolmezzo.
Giuseppe Mendicino ci racconti l’attualità di Mario Rigoni Stern. Che cosa rappresenta in questo periodo così difficile, lo scrittore che amava la montagna e che ha raccontato gli orrori della guerra?
Il suo codice di valori è assolutamente attuale. Così come il “dovere della memoria” che lui sentiva forte insieme ai suoi due grandi amici, Primo Levi e Nuto Revelli. Il dovere della memoria per lui aveva due facce: il ricordare valeva per chi non poteva più farlo perché scomparso in guerra o in prigionia, mentre dall’altra parte il dover ricordare era necessario perché certe tragedie, certi delitti, certe brutture non dovessero ripetersi. Faceva esempi molto concreti, come quello della Jugoslavia: nessuno immaginava negli anni 80 che nel decennio successivo quella terra diventasse teatro di eventi così tragici e così simili a quelli avvenuti nel secondo conflitto mondiale. E anche il dramma dell’immigrazione. Quando i nostri emigravano nessuno avrebbe immaginato che quelle giuste rimostranze perché eravamo accolti male poi si sarebbero ribaltate e ci saremmo trasformati noi in un popolo in qualche caso respingente in un modo così greve. Quegli insegnamenti della storia, quel senso della memoria di Rigoni Stern valgono ancora oggi proprio per non dimenticare ma anche per affrontare il futuro con le armi giuste della mente e della ragione.
Mario Rigoni Stern e Giuseppe Mendicino (foto di Giulio Malfer)
Lo scrittore si è sempre impegnato nella sua vita, non c’era solo la montagna per lui.
No no, assolutamente. Potrebbe sembrare che vivesse in un’isola, lassù sull’altopiano di Asiago. Ma quando c’era da indignarsi per una causa giusta lui lo faceva. E citava sempre il suo amico Nuto Revelli che diceva “mi piacciono i bastian contrari” quando lottano per le cause giuste. E lui per le cause giuste si è sempre impegnato. Per la pace prima di tutto, lui che ha combattuto su tre fronti di guerra era considerato uno scrittore di pace. Quando c’era da lottare per i diritti civili, per la libertà dei popoli oppressi lui diceva che l’unica causa giusta era quella di liberarsi dall’oppressione. E naturalmente si impegnava in prima persona quando c’era da difendere la natura e l’ambiente del suo altopiano ma anche per l’ambiente in generale. Aveva fatto una bella amicizia per esempio con Luca Mercalli che fino a qualche mese fa curava in Rai una bella trasmissione purtroppo adesso cancellata dal palinsesto Rai. Era l’unico programma che in modo approfondito trattava dell’ambiente e della natura e della loro difesa e salvaguardia. Ecco, questo sarebbe stato un caso che avrebbe fatto indignare Rigoni Stern.
Da un punto di vista politico come si schierava?
Le migliori teste del nostro Paese nel dopoguerra venivano da Giustizia e Libertà. I suoi principi erano quelli. Primo Levi venne catturato mentre era in una brigata in Val d’Aosta di Giustizia e Libertà, Nuto Revelli fu comandante di una brigata di GL in pronvincia di Cuneo. Uno dei politici che Rigoni Stern stimava di più era Carlo Azeglio Ciampi. Mi diceva che Ciampi era l’uomo giusto che aveva fatto le scelte giuste al momento giusto: l’8 settembre fugge a sud e aderisce a Giustizia e libertà, entra nell’esercito del sud e risale con gli alleati. Quando ci fu l’attacco alla Banca d’Italia da parte di Sindona, Ciampi, ricordava Mario, fu uno dei pochi a difendere l’istituzione così come fu uno dei pochissimi uomini politici che partecipò ai funerali di Giorgio Ambrosoli. Apprezzava il suo rigore e l’etica del lavoro, come per Primo Levi. Un altro personaggio che stimava, era Tina Anselmi. Ho assistito a un incontro tra i due. Ero con Tina Anselmi, in un piccolo paese dolomitico e lei mi stava raccontando la sua esperienza di staffetta partigiana, quando arrivò lui con una jeep, si fermò e scese. Il loro abbraccio fu qualcosa che non dimenticherò mai.
E venendo a lei, che cosa le ha trasmesso Rigoni Stern, una passione infinita per la montagna di sicuro e poi?
Certo, io amo la montagna, pratico l’alpinismo ma poi mi piacciono gli scrittori dalla scrittura chiara, che poi piacevano anche a lui – come Hemingway, Emilio Lussu -. La sua scrittura d’altro canto è chiara, comprensibile, non ci sono ripetizioni o banalità. Pur nella chiarezza era uno scrittore con un vocabolario ricchissimo. E poi dalla sua prosa emergono aspetti di pura poesia, qualcuno ha addirittura rintracciato degli endecasillabi nelle sue pagine. E quindi anche io nel mio lavoro di segretario comunale, cerco di riprendere quella spinta alla chiarezza. Per me non sono due mondi separati lo scrivere e lavorare nella pubblica amministrazione: si tratta di scrivere in maniera chiara, comprensibile, non in burocratese, anzi, in un modo antiretorico. Perché noi viviamo in un Paese che ha sempre accomunato da un lato la retorica e la pomposità con un problema di corruzione diffusissimo, come si vede anche dagli ultimi casi collegati all’alta velocità. Quindi per me è necessaria un’etica seria sul lavoro contro una retorica barocca di cui grondano spesso certi aspetti delle nostre amministrazioni.
Certo, non si può fare una storia con i “se”, ma a proposito di chiarezza, se Rigoni Stern avesse letto l’articolo 70 della revisione costituzionale – due pagine con un lessico definito criptico anche dagli esperti – chissà cosa avrebbe detto…
È impossibile saperlo e non sarebbe neanche giusto immaginare. Però una cosa la posso dire. A lui non piacevano gli italiani disegnati da Ennio Flaiano, cioè quelli pronti sempre a correre sul carro del vincitore. Diceva ai ragazzi e lo si può leggere a pagina 11 del mio libro: “io non ho nessun messaggio da darvi, ma non fatevi ingannare. Quando eravamo giovani noi siamo stati ingannati perché c’era la dittatura e il pensiero unico”, ma anche in una democrazia, aggiungo io, con la pesantezza – per esempio – degli spot televisivi c’è davvero il rischio dell’omologazione e del conformismo. Invece bisogna avere il coraggio di dire no, che è più difficile del dire sì. Perché bisogna riflettere e ragionare con la propria testa e quindi, diceva Mario, occorre insegnare ai ragazzi a pensare in autonomia, a leggere, a farsi un’idea propria per poi decidere senza farsi condizionare da quelli che ormai sono diventati spot che ci opprimono da decenni, messaggi banali, ripetitivi. Mi fanno venire in mente una favola di Rodari.
Quale?
Quella che diceva “c’era un omino dittatore che si credeva un punto e basta. E invece era solo un punto a capo”.
Quando va a presentare il tuo libro, racconta tutto questo…
Ce ne sono tanti di spunti, soprattutto il coraggio di dire no, che ha dato il titolo al mio libro precedente con Einaudi. Quel coraggio partiva dai suoi venti mesi di prigionia. Rigoni Stern come tanti altri italiani, come mio nonno, quando gli chiesero di aderire alla Repubblica di Salò ha detto di no, preferendo fare mesi di prigionia in Germania e ha resistito. E così bisogna fare sempre, lui lo dice in quelle poche righe: “Imparate a dire no a chi vi vuol far credere che la vita sia facile. Imparate a dire no a chi vi vuol proporre delle cose che sono contro la vostra coscienza. Seguite solo la vostra voce”. Insomma, Rigoni Stern ci diceva di conservare la nostra dignità.
Se è vero che la manifestazione di piazza del Popolo è finita per costare 50 euro a partecipante – essendo costata un milione, stima il Fatto, tra bus organizzati, palco e promozione e prendendo per buona la stima più generosa sull’affluenza: 20mila – il fronte del No ha una ragione in più per sorridere, e sperare che l’ultimo mese di campagna referendaria confermi il vantaggio che oggi i sondaggi continuano a fotografare: circa quattro punti, secondo Diamanti, ad esempio, lasciano indietro il Sì.
«Io mi sento che vinciamo», dice a Left un parlamentare di Sinistra Italiana, confermando un sentimento che è diffuso nel pur sconclusionato – e raccogliticcio – schieramento che sta facendo campagna per il No. Anche Brunetta è convinto di farcela, soprattutto dopo che Berlusconi, salito al Colle per dirsi pronto a gestire con responsabilità un’eventuale crisi post 4 dicembre, ha fatto sapere che si impegnerà un po’ di più: «Berlusconi vale ancora almeno 5 punti», sono convinti da Forza Italia.
Franco Bechis su Libero fa sorridere: «Renzi era in piazza con quattro gatti e un Cuperlo», scrive. Ma in realtà bisogna restare ben concentrati, restando solo moderatamente ottimisti. Perché è un mondo piccolo, quello che si è entusiasmato a sentire De Mita bacchettare Renzi («È irrecuperabile», è stata la stoccata finale durante il dibattito su La7, «ha una tale consapevolezza di sé che non vede limiti alla sua arroganza»). È un mondo piccolo, di appassionati o tifosi.
E invece il referendum lo vince chi smuove gli indecisi, che – dice ancora Diamanti – sono un quarto degli intervistati. Almeno. Alzi poi la mano chi magari ha deciso di votare No ma con assai scarso entusiasmo: è condizione diffusa, da non sottovalutare. Non è detto che la radicalizzazione non porti molti a chiamarsi fuori, stufi. Renzi lo sa e per questo insiste. «Se perdo tornano quelli di prima, che non accettano l’idea di andare ai giardinetti». «Il vero partito della Nazione è il fronte del No, che vuole bloccare l’Italia pur di restare a galla».
Renzi sceglie di aprire il comizio con “Bella Ciao”. Perché è troppo divertente confondere le idee a Gianni Cuperlo.
La corsa del No, insomma, è ancora tutta in salita. Perché tanto a noi suona ormai insopportabile, tanto è efficace l’accusa di conservatorismo; tanto a noi sfibra il dibattito interno al Pd, quanto Renzi, tenendolo aperto, fa passare il No per un fronte politicista, quello a cui piace passare il tempo a mediare, in trattative che lui generosamente concede mentre, dice, corre, corre lo stesso per non far perdere al Paese «il treno del cambiamento».
Chi ha bloccato Italia per 30 anni : Brunetta a Travaglio, mette d’accordo Monti e Salvini, Berlusconi D’alema e Grillo Gasparri e De Mita pic.twitter.com/wO9jwVF2h2
«Renzi ha scelto di dividere il Paese» dice il centrista Mario Mauro. E ha ragione. Renzi – ad esempio – sa benissimo che piazza del Popolo, con la presenza di Cuperlo che ricordava l’assenza di Bersani («Compagni, cosa vi siete persi». «Mi chiedevo: “Bersani, perché non sei qui?”», ha scritto per dire Staino) e ha restituito l’immagine di un partito spaccato. Noi e loro, chi fa e chi protesta. Ancora una volta è perfetto per la sua rappresentazione.
determinazione di Cuperlo nell’essere altalenante tra il No e il Si,è l’immagine della crisi degli ex-pci.Dirigenti di partito non cittadini
Domenica 30 ottobre, dopo due settimane di resistenza diplomatica esercitata dal parlamento della Vallonia, i rappresentanti dell’Ue e del Canada hanno firmato il CETA. Dopo le sigle apposte al trattato da Jean Claude Juncker, Robert Fico, Donald Tusk e Justin Trudeau, sono ora attese quelle dei 28 capi di Stato dei Paesi membri dell’Unione europea.
Ma non finisce qui: come spiega Jean-Pierre Stroobants su Le Monde, il trattato dovrà essere anche ratificato da quasi 40 parlamenti nazionali e regionali, sebbene entrerà in vigore “temporaneamente” già prima del completamento di tale processo.
E la resistenza vallone? Ha portato a qualcosa?
Tecnicamente il CETA non è stato modificato di una virgola. Ma sono stati annessi una serie di documenti, 36 per l’esattezza, che vanno a chiarire alcuni punti fondamentali delle negoziazioni.
Secondo Paul Magnette, Primo ministro della Vallonia, nonché volto pubblico della resistenza al trattato, questi documenti interpretativi rappresentano “miglioramenti concreti” e “legalmente vincolanti”.In un’intervista rilasciata dopo il raggiungimento dell’accordo, Magnette ha anche ribadito che “gli standard ottenuti grazie alla resistenza vallone, rendono di fatto lettera morta il TTIP (Trattato transatlantico di libero scambio con gli Stati Uniti d’America)”. Ma il risultato più importante delle negoziazioni interne tra le comunità federali del Belgio è un altro: il sistema di regolamentazione delle controversie tra investitori e Stati, previsto dal CETA, verrà rimesso al giudizio della Corte europea di Strasburgo che ne dovrà valutare la conformità con i trattati europei.