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Clinton-Trump: 40 milioni hanno già votato. Come funzionano gli ultimi giorni di campagna

Due sostenitori di Trump indossano una maschera che lo raffigura
Two young Donald Trump supporters are interviewed by a television reporter before a campaing rally for Republican presidential candidate Donald Trump Saturday, Nov. 5, 2016, in Wilmington, N.C. (AP Photo/John Bazemore)

Aggiornamenti: tre sondaggi del mattino, sono gli ultimi nazionali o quasi. Nbc/Wall Street Journal assegna a Clinton 4 punti di vantaggio (5 nella domanda in cui include anche la Verde Stein e il libertario Johnson). Il sondaggio Washington Post/Abc assegna a Hillary 5 punti di vantaggio.

Ieri sera Trump è stato scortato via di corsa dal palco. Si è detto che ci fosse qualcuno armato. C’era una persona con un cartello: Repubblicani contro Trump. Il figlio di Donald ha lo stesso twittato che c’è stato un tentativo di omicidio.

New York City – Ci siamo. La corsa è più stretta di quel che avremmo pensato due settimane fa, quando l’Fbi ha deciso di gettare la bomba della inchiesta sulle email di Hillary Clinton nella campagna elettorale. Un fatto senza precedenti che ha aperto conflitti interni all’agenzia e tra diverse istituzioni federali. E che continuerà a fare le onde molto dopo il voto.

I due candidati e gli altri che fanno campagna per loro stanno battendo passo a passo gli Stati in bilico e le due campagne si sono messe in moto perché nel weekend finisce la finestra per l’early voting, il voto in anticipo. Già 40 milioni hanno votato.

Le campagne Clinton e Trump stanno distribuendo i loro volontari per gli Stati, strada per strada e casa per casa. Sanno a chi andare a bussare, a chi offrire un passaggio per andare ai seggi, sanno chi si è registrato per votare e chi no. E poi mandano decine di email: chiedono di donare fondi, di chiamare elettori indecisi, di partecipare allo sforzo di GetOutTheVote, ovvero il porta a porta per promuovere il candidato, ma anche semplicemente di ricordare come e quando si vota. Oppure chiedono di votare in anticipo, un modo per capire le tendenze e potere concentrare gli sforzi su quelle contee dove si è votato di meno prima di martedì.

In Arizona, North Carolina, Ohio si parla di file enormi, ore di attesa. Un modo, da parte dei repubblicani, di scoraggiare il voto delle minoranze (abbiamo parlato dei sistemi messi in atto per non far votare le persone qui).

A scrivere sono Hillary, Barack, Michelle, le organizzazioni liberal come MoveOn, che organizza phone banks (call center elettorali) e porta a porta, la senatrice di sinistra Elizabeth Warren, il vice di Trump, Mike Pence, il capo del partito repubblicano Reince Priebus, ma anche star del cinema o della musica.

Ciascuno ha un messaggio specifico, probabilmente se hai tra i 20 e i 30 ricevi una mail da Kate Perry, se ne hai più di 50 il mittente sarà Bill, se sei afroamericana, allora è Michelle. A ciascuno il suo. E a ciascuno il suo messaggio. Ci sono messaggi il cui subject è “Let’s win this!”, vinciamo. E altri che dicono: “Trump ci ha superati in North Carolina, aiutaci”. Allarme e speranze. La campagna Trump, in questi giorni è molto sul «Stiamo rimontando», lo stesso miliardario, nei comizi spara cifre a casaccio sui sondaggi. L’effetto mail Fbi però c’è, la sorpresa di ottobre lo ha rianimato e i democratici soo preoccupati. Il numero di comizi che tutti tengono è senza paragoni: Hillary sarà nella contesissima North Carolina lunedì sera tardi.

Una macchina colossale che si nutre di Big Data, studi sui cicli elettorali precedenti, conoscenza del territorio. Ma pur vivendo di statistica, senza esseri umani che bussano, parlano, spiegano, interagiscono, la macchina non funziona. Tutto sommato sono ancora le persone la cosa più convincente: il ragazzo gentile con l’anziano, il gay a casa di una coppia gay, l’entusiasta, il preparato sui punti del programma. La campagna democratica ha bussato a circa 80 milioni di porte in queste settimane.

Un balletto di Hillary Clinton
Sono anche io allegra e simpatica, prova a dire Hillary Clinton (AP Photo/Wilfredo Lee)

Cosa è successo fino a oggi? Dove e come hanno votato i 40 milioni? I segnali non sono cattivi per Hillary, nonostante Trump abbia recuperato terreno, la macchina democratica sembra più oliata ed efficace. Poi ci sono i latinos, che in Nevada e Florida stanno votando come mai prima. Pessimo segnale per Trump, che ha minacciato cose terribili nei loro confronti.

Venerdì abbiamo ascoltato una conference call del capo della campagna Clinton, Roby Mook, che ha fornito il loro polso della situazione. Si tratta anche di spin, cioè di orientare il messaggio, leggere i dati per i media in maniera da far uscire cose favorevoli. Ma molti dati sono confermati da altre fonti indipendenti.

Ecco alcune cose abbiamo sentito. Attenzione, si parla di early voting, dei 40 milioni che hanno già votato e i conti sul vantaggio ottenuto grazie a questi voti si fanno partendo dalle contee da dove le persone hanno votato, dai dati sulla registrazione al voto (ci si registra dichiarando la propria affiliazione) e con altri indicatori di questo tipo.

  • L’early voting nei battleground states, gli Stati cruciali, ha toccato il record del 40% e c’è una crescita significativa, ma non quantificabile, delle donne laureate dei suburbs.
  • In Florida hanno votato in anticipo più elettori democratici che repubblicani, è la prima volta. I calcoli dei democratici li fanno ritenere che nell’early voting il vantaggio per loro sia superiore ai 150mila voti. Sempre in Florida il voto dei neri americans: in Florida cresce il 22% rispetto al 2012
  • In Nevada e in North Carolina tutti i dati indicano che l’early voting è aumentato in maniera esponenziale (in effetti anche cercando su twitter si vedono lunghe code ai seggi). Secondo i democratici, in Nevada il loro vantaggio è tale che Trump dovrebbe prendere il 10% in più di Clinton nel giorno del voto per vincere o Stato.
  • Un quarto di elettori che è andato a votare in Iowa non aveva votato nelle elezioni del 2014
  • Gli elettori ispanici stanno partecipando in numeri molto più alt che in passato: sono il 30% in più del 2012 (qualche giorno prima della chiusura dell’early voting)
  • Nella comunità asiatica – molti musulmani insultati da Trump, ma non solo – c’è un 90% in più della partecipazione.

Un comizio di Hillary Clinton in North Carolina
Votate prima, recita la scritta dietro Hillary Clinton durante un comizio  in Florida (AP Photo/Wilfredo Lee)

Tutti questi numeri fanno ben sperare Clinton. Che oggi sarà a Philadelphia con Katy Perry (e anche domani, con Obama). Trump ha viaggiato in Colorado, Florida e altrove. Tra le cose che gli abbiamo sentito dire: «Hillary fa due comizi al giorno perché più di così non ce la fa, parla e poi va a casa a dormire. Io ne faccio cinque e più. Qui c’è bisogno di energia, lei non ne ha»; «Dobbiamo tornare a vincere e quando sarà presidente vinceremo così tanto che mi direte “basta Donald, smettila di vincere!»; «Cancellerò il programma di accoglienza per i rifugiati siriani e costruirò il muro con il Messico»; «Ripulirò le acque dei mari e l’aria sarà cristallina,ma senza dare un soldo a quellio dell’Onu, che se li mangiano». Sono frasi che fanno spavento, e i comizi del miliardario sono spaventosi: si fa dare un bebé e lo mostra alla folla dicendo «Ecco un patriota del futuro» e giura che neri e cubani sono con lui. Infine cambia costantemente i numeri del pubblico dei suoi comizi: in due giorni ha detto che a un suo comizio in New Hampshire avevano partecipato 10, 15, 21 e 23 mila persone. Un salto del 230%. La realtà conta molto poco.

Mancano tre giorni al voto, gli americani non ne possono più. Lo spettacolo offerto da questa campagna elettorale è stato di pessima qualità. Soprattutto grazie ai repubblicani.

Su Left in edicola dal 5 novembre reportage, voci e analisi dalla campagna elettorale americana

 

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È la paura a far crollare gli abitanti di Norcia

Il palazzetto dello sport di Cascia, dove i più anziani passano la prima notte dopo il sisma

«È la sensazione di vivere un terremoto costante a inquietare. L’idea che il domani non porterà tranquillità, ma il contrario», racconta Filippo, seduto sconsolato a pochi metri dalla sua casa di Norcia, epicentro della nuova scossa di terremoto che domenica scorsa ha colpito, ancora una volta, il Centro Italia.
Alle 7.41 milioni di italiani si sono svegliati con la terra tremante. Venti lunghissimi secondi di apprensione, causati da una botta da 6,5 di magnitudo che ha vibrato a metà strada tra Norcia e Castelsantangelo sul Nera. Un terremoto più violento di quello dell’Aquila di 7 anni fa, più feroce di quello con epicentro a Visso del 26 ottobre scorso, più devastante di quello che distrusse Amatrice, Accumoli e Pescara del Tronto il 24 agosto scorso. Quel poco che era rimasto intatto, in quei paesini traumatizzati dell’Appennino, è crollato inesorabilmente. Anche Arquata del Tronto è ora un cumulo di macerie. Sono oltre 30mila gli sfollati. All’indomani di quel tragico 24 agosto, Norcia, cittadina di cinquemila abitanti, era stata definita l’esempio virtuoso di edilizia antisismica della zona.

Continua su Left in edicola dal 5 novembre

 

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Che faticaccia esser la sinistra italiana

Fassina e Fratoianni alla Camera
Nicola Fratoianni (s) e Stefano Fassina alla Camera in occasione della votazione finale del disegno di legge sulle riforme costituzionali, Roma, 11 Gennaio 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Raccogliere malumori dalle parti di Sinistra Italiana è semplicissimo. Ci si potrebbero riempire dieci pagine con i virgolettati dei dirigenti di Sel insoddisfatti del percorso congressuale che li porterà a celebrare lo scioglimento del partito nato nel 2009, con i dubbi di chi ha seguito Stefano Fassina, o con l’insofferenza dei militanti di una sezione, che eroicamente sono ancora attive, spiraglio di sole, comunità dove ci si tiene stretti nell’attesa di capirci qualcosa.
Sul numero di Left in edicola da sabato 5 novembre, però, noi facciamo lo sforzo di impegnare diversamente le nostre pagine, spiegando – nel week end in cui Renzi fa la sua settima Leopolda, cavalcando il terremoto – cosa succede a sinistra. Perché anche noi avevamo un po’ perso il filo, come molti di voi.

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 5 novembre

 

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Intanto, cerchiamo di capire cosa succede, e quanto contano le polemiche, che pure hanno un peso e qualche ragione quando sono per lamentarsi, ad esempio, della tempistica toccata in sorte al partito di cui Vendola è ancora il presidente, pur defilato, per contribuire alla nascita di Sinistra Italiana. Sel si scioglie nel pieno della campagna per il referendum: non toglierà troppe energie alla causa? Nicola Fratoianni ci assicura di no e che lo scioglimento (tra assemblea nazionale e consultazione degli iscritti su base provinciale) sarà rapido.

E si potrà così continuare a fare campagna per il No, e procedere, dopo il 4 dicembre, con Sinistra Italiana. Il calendario dovrebbe esser questo: il 17 dicembre le commissioni approvate dai soggetti coinvolti, al lavoro da un po’, presenteranno la proposta di statuto e di documento politico; il 14 gennaio scadrà il tempo per la presentazione degli emendamenti; il 21 gennaio quello delle iscrizioni. Poi a febbraio, dal 10 al 12, ci sarà il primo congresso nazionale, preceduto da quelli territoriali per l’elezione dei delegati.

Non sarà l’unico soggetto della sinistra, l’unità in cui magari speravate non ci sarà neanche questa volta perché – ad esempio – non c’è Civati («È da un anno che Pippo non c’è», ci dice Fassina). Ma forse è un passo in più, in attesa che il referendum (e quindi il destino della legge elettorale) chiariscano il quadro in cui ci si muove. Se serve pensare a una lista unitaria per le elezioni, ad esempio, o se invece Sinistra Italiana può diventare la casa di altri fuoriusciti del Pd (ipotesi non remota in caso di vittoria del Sì).

Italicum, referendum, l’estenuante attesa degli ex compagni dei Ds. Teniamo conto di tutto, su Left, aggiornando il percorso di Sinistra Italiana, e della sinistra più in generale. A cui consigliamo però, mentre voi leggete, di vedersi il dibattito tra Di Battista e Scalfari ospitato da Otto e mezzo, su La7. Per una frase, soprattutto, che ci ha colpiti. E che ben sintetizza gli errori che non si dovrebbero più fare.

Scalfari, tra le altre cose (memorabile: «È la prima volta che vedo un grillino in carne e ossa») ha chiesto a Di Battista perché non abbia scelto la sinistra per la sua militanza. Di Battista, al netto delle scemenze sulla destra e la sinistra categorie superate, ha risposto così: «Io sono andato in una forza politica che mi ha permesso di esprimermi. Perché anni fa non ci ascoltava nessuno, presentavamo le proposte nei Comuni e ci sbattevano la porta addosso. Abbiamo deciso di candidarci e abbiamo preso nove milioni di voti». In soldoni: tocca aprirsi. Capito?

Brexit, per il Regno Unito un divorzio ancora più difficile

L’Alta Corte britannica si è pronunciata sulla competenza del Parlamento, e non dell’esecutivo, a votare l’esecuzione della Brexit. Un dietro front è altamente improbabile: i parlamentari difficilmente si prenderanno la responsabilità di ribaltare la volontà popolare per come espressa con il voto dello scorso 23 giugno, anche se alcuni analisti attribuiscono al referendum soltanto natura consultiva. Resta il fatto che per il governo guidato da Theresa May è una pesante battuta d’arresto. Non a caso la premier, che conferma di voler avviare in ogni caso le procedure di uscita entro marzo 2017 facendo scattare la procedura dell’articolo 50 del Trattato del’Unione, ha promosso ricorso alla Corte Suprema e il responso degli 11 giudici è atteso tra un mese.

Nel caso di un ulteriore stop, il governo sarebbe costretto a percorrere la via parlamentare e il suo progetto potrebbe essere modificato; addirittura c’è chi pensa a un nuovo referendum. Qual è intanto il clima nel Paese e che segnali arrivano sul fronte economico? Per i Brexiters il regno Unito diventerà una grande potenza commerciale, per i Bremainers il risultato del referendum è stato falsato dalle menzogne. Su Left in edicola un approfondimento di 5 pagine con i contributi di Antonia Battaglia da Bruxelles ed Emanuele Ferragina da Londra.

 

Ne parliamo su Left in edicola dal 5 novembre

 

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“Punto di non ritorno”: il cambiamento climatico nel documentario di Leonardo Di Caprio

«Dobbiamo eleggere leader che capiscano la gravità dei problemi che stanno trasformando il clima, leader che credano alle innegabili verità della scienza. Non c’è nazione o società immune dai sintomi del cambiamento climatico e in molte regioni americane se ne vedono già gli effetti. Possiamo ancora fare qualcosa per impedire che queste crisi diventino un problema generalizzato del futuro del nostro Paese. Abbiamo l’opportunità di guidare il mondo in una delle questioni più importanti di tutti i tempi», ha dichiarato l’attore Leonardo Di Caprio durante un’intervista rilasciata a National Geographic.
Invito che sembra quanto mai attuale oggi, sia perché negli Stati Uniti si stanno svolgendo le elezioni presidenziali, sia perché oggi entra ufficialmente in vigore l’accordo sul clima di Parigi, ratificato un anno fa durante il summit Cop21 nella capitale francese.
L’accordo è considerato un evento storico, perché per la prima volta i leader politici mondiali di 94 Paesi – tra cui i maggiori produttori di gas serra, Stati Uniti, Cina e India – si sono impegnati a mantenere l’aumento della temperatura al di sotto dei due gradi centigradi, limitando le emissioni di CO2 .

Leonardo Di Caprio, nominato dal segretario generale dell’ONU Ban Ki-moon ambasciatore di pace per il cambiamento climatico, ha prodotto e condotto il documentario “Punto di non ritorno – Before the Flood” on line gratuitamente sul canale youtube di National Geographic fino al 6 novembre, presentato in prima assoluta il 30 ottobre su National Geographic Channel (che ha collaborato alla realizzazione).

 


Nel documentario, la cui lavorazione è durata quasi tre anni, il premio Oscar esplora i cinque continenti, ascolta le opinioni di scienziati, politici, attivisti e imprenditori, al fine di raccogliere delle testimonianze convincenti sul riscaldamento globale e sensibilizzare l’opinione pubblica.
Le interviste e le immagini, alternate dai racconti personali di Di Caprio e dalle immagini del backstage di The Revenant – il cui set si è spostato dal Canada all’Argentina perché in Canada si era sciolta la neve anzitempo – vogliono essere “una chiamata alle armi” per tutti.
Ma l’attore sembra rivolgersi in primo luogo al popolo americano, per il peso che ricopre nel condizionare la politica, perché gli Stati Uniti sono il primo produttore di CO2 del mondo e perché nel suo Paese il cambiamento climatico è bersaglio di critiche da parte di molti negazionisti (anche all’interno del Congresso). Quelli che altrove sono considerati dati oggettivi – e in alcuni casi guidano le decisioni politiche ed economiche, come in nord Europa – negli Stati Uniti sembrano lontani dall’essere di dominio pubblico e sono spesso considerati bugie degli scienziati.
In Punto di non ritorno l’attore incontra alcuni dei leader mondiali più influenti, tra cui Barak Obama e papa Francesco (cui riconosce il merito di aver scritto l’Enciclica sul cambiamento climatico), e promuove iniziative imprenditoriali come quella di Elon Musk, l’industriale sudafricano che ha messo sul commercio americano “Tesla”, l’automobile elettrica che si ricarica gratuitamente.
The Noodle (“testa dura”, da sempre il soprannome di Leo) – che si dice “ossessionato” dal cambiamento climatico da quando ha incontrato l’allora vicepresidente degli Stati Uniti Al Gore, nel 1998 – paragona la condizione attuale del pianeta al secondo pannello del “Trittico del Giardino delle Delizie” di Hieronymous Bosh dal titolo “L”umanità alla vigilia del diluvio”

L’incontro Cop22 che si terrà a Marrakesh tra il 7 e il 18 novembre tra i Paesi che hanno ratificato l’accordo a Parigi potrebbe essere una buona occasione per consolidare e attualizzare gli impegni presi un anno fa, ma forse, come suggerisce Di Caprio nel film, il vero cambiamento deve arrivare dal basso.

Usa, che succede se la California legalizza la marijuana

Coltivatori di marijuana, la Claifornia vota la legalizzazione
In this Wednesday, Oct. 12, 2016 photo, Anthony Viator, center, and other workers harvest marijuana plants on grower Laura Costa's farm near Garberville, Calif. Costa opposes the passage of Proposition 64, the November ballot initiative which would legalize the recreational use of marijuana, fearing that corporate interests and big farms will put her and other small growers out of business. (AP Photo/Rich Pedroncelli)

Martedì prossimo i californiani e i cittadini di altri 9 Stati votano anche sulla legalizzazione della marijuana. California, Arizona, Massachusetts, Maine, e Nevada votano per la piena legalizzazione. Florida, Montana, Nord Dakota e Arkansas per quella medica. Ovunque è in vantaggio il Sì. Sei anni fa i californiani ebbero già l’occasione di rispondere alla domanda e nel 53% dei casi votarono No. Stavolta il 58% delle persone interrogate nei sondaggi spiega che voterà a favore – compreso il 46% degli over 65. Quest anno la legge proposta prevede la possibilità di coltivare fino a sei piante e di comprare erba nei negozi autorizzati. La marijuana sarebbe tassata al 15%.

A oggi gli Stati che hanno legalizzato il consumo di marijuana in qualche forma (medica o ricreazinale) sono 26, se i sondaggi sono corretti, la maggioranza degli Stati e della popolazione statunitense avrà la possibilità di fumare senza finire in carcere. E sarà finita una volta per tutte quella guerra alla droga dichiarata negli anni 80 che anche l’Onu, nell’Assemblea di quest anno sulle droghe, ha dichiarato fallita.

Cosa è successo in questi sei anni? Intanto l’elettorato è diventato più giovane e diverso e, soprattutto, leggi simili sono entrate in vigore in Colorado e nello Stato di Washington senza che la cosa generasse una crescita esponenziale nei consumi (del resto il 43% degli interrogati dai sondaggi in California dice di aver provato a fumare). Un aumento c’è stato, ma i sondaggisti spiegano anche che il fatto che la sostanza sia divenuta legale rende più facile ammettere di essere consumatori – prima insomma, alla domanda del sondaggista, il consumatore avrebbe spesso risposto di non esserlo.
In compenso i processi legati a questioni di droga sono calati, così come gli arresti e gli episodi di violenza. Unico dato negativo è il numero degli incidenti d’auto, ma l’aumento è minimo e non certamente legato alla marijuana.

Questi dati sono entrati nel dibattito in California e altrove. Lo Stato confina con il Messico dei cartelli dei narcos e l’idea di togliere il giocattolo (una parte di esso) alle mafie messicane è un punto a favore anche per chi non consuma né ha mai consumato marijuana. Non solo: c’è anche in California l’idea che legalizzando l’erba diminuirà il numero di arresti inutili, di guai legali alla vita di persone che non hanno fatto nulla e che, la polizia e i tribunali, potranno occuparsi di reati violenti o di altro tipo.

Poi c’è l’economia. Il Colorado ha avuto entrate fiscali dalla vendita di marijuana che sono servite a finanziare molti programmi sociali senza aggiungere deficit. Un po’ di entrate, senza aumentare le tasse fanno sempre comodo. Le vendite legali di marijuana negli Stati Uniti dovrebbero raggiungere i 7,1 miliardi di dollari quest’anno, e alcuni analisti sostengono che l’industria dell’erba sia quella in più rapida crescita nel Paese – intendiamoci, il volume di affari è comunque un atomo rispetto all’hi-tech, le telecomunicazioni, la finanza, il cibo. Un paradosso se si pensa che a livello federale eroina ed erba sono regolate allo stesso modo. Se i referendum passassero e la California, lo Stato più popoloso, approvasse la legalizzazione, la crescita sarebbe esponenziale.


 

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Su Left in Edicola analisi e un lungo reportage dall’Ohio: siamo stati nei quartieri diseredati afroamericani, parlato con community organizer, operai bianchi, esperti


Brevi elettorali:

– Clinton è in vantaggio di tre punti nell’ultimo sondaggio del Washington Post, ma la rimonta di Trump è un fatto. Su economia, questioni internazionali, immigrazione, la gente la ritiene più pronta e preparata (di poco). Sulla corruzione della politica, la maggioranza ritiene che Trump sia la figura migliore per combatterla. Non è vero però che Clinton sia sotto i 272 voti elettorali come si dice su molti media italiani. O meglio, ha perso, in un solo sondaggio, la maggioranza die voti elettorali, ma Trump resta comunque molto indietro. Aumentano semplicemente gli Stati in cui il risultato è molto indeciso.
– In questi giorni, oltre a Obama, Biden e Sanders, scendono in campo le star: Stevie Wonder a Philadelphia, Jon Bon Jovi in diversi Stati e Kate Perry domenica assieme a Clinton.
– La Pennsylvania è considerato il bastione di resistenza di Clinton: domenica il concerto con Perry, lunedì il comizio finale con Hillary, Bill, Chelsea, Barack e Michelle Obama. La campagna Clinton, in vanaggio in Virginia, Colorado, Michigan, ritiene che vincendo quelal si può perdere in Ohio e Florida (dove pure i due sono appaiati)
– In Florida i numeri sul consenso ai democratici tra i latinos sono impressionanti e più alti di quattro anni fa. È l’anno in cui la minoranza più in crescita contribuirà alla vittoria del presidente?

Su Left in edicola dal 5 novembre reportage e analisi sulle elezioni Usa

 

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Essere donne e fotoreporter di guerra

© Maysun. Egitto. La madre di uno dei ragazzi uccisi dall'esercito a Port Said

Ancora fino alla fine della prossima settimana è possibile visitare la mostra “In prima linea. Donne fotoreporter in luoghi di guerra” a Torino (Corte medievale di Palazzo Madama a Piazza Castello).
Settanta immagini di quattordici giovani donne “armate” solo della loro macchina fotografica, in prima linea nei punti caldi del mondo dove ci sono guerre, conflitti e drammi umani e sociali.
A colori e in bianco e nero, scattate con macchine digitali o ancora con la pellicola, quasi a testimoniare senza filtri ciò che accade davanti all’obiettivo, le immagini in mostra, 5 per ogni autrice, sono esse stesse “articoli” scritti con la fotocamera che non hanno bisogno di parole, se non una sintetica didascalia che precisa il dove e il quando, per raccontare “la” storia.

Linda Dorigo, Virginie Nguyen Hoang, Jodi Hilton, Andreja Restek, Annabell Van den Berghe,
Laurence Geai, Capucine Granier-Deferre, Diana Zeyneb Alhindawi, Matilde Gattoni, Shelly
Kittleson, Maysun, Alison Baskerville, Monique Jaques, Camille Lepage, con la loro capacità di catturare non solo un’azione, ma anche un’emozione, testimoniando e denunciando con le immagini le violenze perpetrate sui popoli e le persone più deboli e indifese, si muovono coraggiosamente in atroci e rischiosi campi di battaglia per documentare e denunciare quella “terza guerra mondiale” che è in corso in molte parti del mondo.

«L’attività del fotoreporter è ancora oggi, nell’immaginario di tutti, svolta
prevalentemente da uomini. Di fatto non è così. Ci sono, infatti, numerose donne che
affrontano lo stesso lavoro con grande forza e coraggio. Professioniste che seguono azioni
di guerra ed emergenze in tutto il mondo e che raccontano attraverso i loro scatti le
realtà difficili dei diversi continenti». Racconta Andreja Restek, giornalista fotoreporter ideatrice e curatrice della mostra, e prosegue: «Dagli scatti delle 14 reporter coinvolte appare evidente la differenza di approccio, legata alle diverse sensibilità individuali e culturali. Alcune di noi mostrano la drammaticità della guerra con la propria tenerezza, cogliendo attimi di vita quotidiana. Altre sono più “dure” e fanno vedere i lati più feroci dei conflitti, ma tutte desideriamo raccontare, in modo professionale e senza ipocrisia, la
verità e i momenti difficili delle vite spezzate».

 

© Annabell Van Den Berghe. Syria
© Annabell Van Den Berghe. Syria

© Andreja Restek. Confine tra Ungheria e Serbia. Un gruppo di rifuggiati cerca di attraversare il confine in modo illegale. Dopo 30 km a piedi, il gruppo non è riuscito a passare il confine, così hanno dovuto tornare in Serbia, dicendo goddbye con le parole "vieni con noi? Sei fortunato, puoi scegliere, puoi fare quello che vuoi, sei libero"
© Andreja Restek. Confine tra Ungheria e Serbia. Un gruppo di rifuggiati cerca di attraversare il confine in modo illegale. Dopo 30 km a piedi, il gruppo non è riuscito a passare il confine, così hanno dovuto tornare in Serbia, dicendo goddbye con le parole “vieni con noi? Sei fortunato, puoi scegliere, puoi fare quello che vuoi, sei libero”

© Virginie Nguyen Hoang. Ucraina, 2015. Shyrokyne, Ucraina. Soldati in prima linea il 26 giugno 2015.
© Virginie Nguyen Hoang. Ucraina, 2015. Shyrokyne, Ucraina. Soldati in prima linea il 26 giugno 2015.

© Maysun. Egitto. La madre di uno dei ragazzi uccisi dall'esercito a Port Said
© Maysun. Egitto. La madre di uno dei ragazzi uccisi dall’esercito a Port Said

© Camille Lepage. Sudan, 2012 – 2013. Una coppia cammina sopra le ceneri della propria casa distrutta da un bombardamento dopo il bombardamento del villaggio di Kauda. L’offensiva ha distrutto quattro case e tutte le colture annuali che erano stati raccolte. Le famiglie non avranno cibo fino al prossimo raccolto nel mese di settembre dell'anno successivo. (Novembre 2012)
© Camille Lepage. Sudan, 2012 – 2013. Una coppia cammina sopra le ceneri della propria casa distrutta da un bombardamento dopo il bombardamento del villaggio di Kauda. L’offensiva ha distrutto quattro case e tutte le colture annuali che erano stati raccolte. Le famiglie non avranno cibo fino al prossimo raccolto nel mese di settembre dell’anno successivo. (Novembre 2012)

© Shelly Kittleson. Siria, 2013-2015. Una donna mostra sul telefono cellulare la foto di uno dei suoi figli uccisi durante la guerra. Lo Stato Islamico ha massacrato centinaia di uomini e ragazzi della sua tribù, gli Shaitat, nella Provincia orientale di Deir Al-Zor, a seguito della loro ribellione nell’agosto 2014.
© Shelly Kittleson. Siria, 2013-2015. Una donna mostra sul telefono cellulare la foto di uno dei suoi figli uccisi durante la guerra. Lo Stato Islamico ha massacrato centinaia di uomini e ragazzi della sua tribù, gli Shaitat, nella Provincia orientale di Deir Al-Zor, a seguito della loro ribellione nell’agosto 2014.

© Monique Jaques. Repubblica Democratica del Congo, 2014. Virunga è il più antico parco nazionale dell’Africa e ospita oltre 200 degli 800 gorilla di montagna rimanenti al mondo. Da vent’anni è al centro di una guerra tra milizie armate, che pretendono di sfruttare le risorse naturali del Parco, e i Rangers che difendono con coraggio il territorio. Oggi 14 donne lavorano come ranger, addestrate militarmente allo stesso modo dei colleghi maschi per svolgere un lavoro estremamente pericoloso, che ha già visto la morte di oltre 150 guardaparco.
© Monique Jaques. Repubblica Democratica del Congo, 2014. Virunga è il più antico parco nazionale dell’Africa e ospita oltre 200 degli 800 gorilla di montagna rimanenti al mondo. Da vent’anni è al centro di una guerra tra milizie armate, che pretendono di sfruttare le risorse naturali del Parco, e i Rangers che difendono con coraggio il territorio. Oggi 14 donne lavorano come ranger, addestrate militarmente allo stesso modo dei colleghi maschi per svolgere un lavoro estremamente pericoloso, che ha già visto la morte di oltre 150 guardaparco.

Jodi Hilton. Grecia, 2016. Quest’anno, centinaia di migliaia di richiedenti asilo hanno affrontato un viaggio difficile e pericoloso attraverso Turchia e Balcani verso l'Europa occidentale. Per rallentare la migrazione, la classe politica ha deciso chi ammettere e chi no. Tra gli esclusi sono stati i Palestinesi, Yemeniti, Iraniani, Pakistani, Somali, Eritrei, ora ammassati in campi profughi ad Atene.
Jodi Hilton. Grecia, 2016. Quest’anno, centinaia di migliaia di richiedenti asilo hanno affrontato un viaggio difficile e pericoloso attraverso Turchia e Balcani verso l’Europa occidentale. Per rallentare la migrazione, la classe politica ha deciso chi ammettere e chi no. Tra gli esclusi sono stati i Palestinesi, Yemeniti, Iraniani, Pakistani, Somali, Eritrei, ora ammassati in campi profughi ad Atene.

© Capucine Granier-Deferre. Ucraina, 2014. Debaltseve: soldati combattenti nello scontro tra l'esercito ucraino e le forze filo-russe. Un tempo centro fiorente dell’industria mineraria, la regione di Donbass è oggi al centro della crisi ucraina. Nel maggio 2014 un referendum ha proclamato l’indipendenza della Repubblica autonoma di Donbass e le elezioni hanno dichiarato la vittoria di Petro Poroshenko. Una parte della popolazione però non ha accettato questo cambiamento: negli ultimi due anni, l’Ucraina vive in uno stato di conflitto crescente. Nello scontro politico, le bombe e carri armati hanno ormai preso il posto delle parole.
© Capucine Granier-Deferre. Ucraina, 2014. Debaltseve: soldati combattenti nello scontro tra l’esercito ucraino e le forze filo-russe. Un tempo centro fiorente dell’industria mineraria, la regione di Donbass è oggi al centro della crisi ucraina. Nel maggio 2014 un referendum ha proclamato l’indipendenza della Repubblica autonoma di Donbass e le elezioni hanno dichiarato la vittoria di Petro Poroshenko. Una parte della popolazione però non ha accettato questo cambiamento: negli ultimi due anni, l’Ucraina vive in uno stato di conflitto crescente. Nello scontro politico, le bombe e carri armati hanno ormai preso il posto delle parole.

© Laurence Geai. Repubblica Centro Africana, 2014. Soldato Seleka nella sua base a Bambari. Dal mese di marzo 2013 il Paese è devastato dal conflitto tra le milizie Anti-Balaka, di fede cristiana, e la coalizione ribelle Seleka, a maggioranza musulmana, che ha preso il potere con la forza.
© Laurence Geai. Repubblica Centro Africana, 2014. Soldato Seleka nella sua base a Bambari. Dal mese di marzo 2013 il Paese è devastato dal conflitto tra le milizie Anti-Balaka, di fede cristiana, e la coalizione ribelle Seleka, a maggioranza musulmana, che ha preso il potere con la forza.

© Matilde Gattoni. Libano, 2012. Donne fuggite dalla Siria e rifugiate in Libano. Coprono il viso per ragioni di sicurezza poiché temono di essere rapite, uccise o violentate. Non sono riconosciute come rifugiate e dunque non possono né lavorare né mandare i figli a scuola. Molte di loro hanno visto uccidere i propri famigliari.
© Matilde Gattoni. Libano, 2012. Donne fuggite dalla Siria e rifugiate in Libano. Coprono il viso per ragioni di sicurezza poiché temono di essere rapite, uccise o violentate. Non sono riconosciute come rifugiate e dunque non possono né lavorare né mandare i figli a scuola. Molte di loro hanno visto uccidere i propri famigliari.

© Linda Dorigo. Kurdistan, 2014-2016. Kurdistan iracheno, combattenti del PKK. L’identità del popolo curdo si trova sulle montagne, che ne hanno conservato vergine la lingua dagli influssi arabi, turchi e persiani, conquistatori e dominatori per secoli di quelle terre. Dalle montagne del Grande Kurdistan sgorgano il Tigri e l’Eufrate, e la leggenda vuole che sull’Ararat, al confine tra l’attuale Turchia e Iran, si sia incagliata l’arca di Noè. Negli anni le vette di Qandil hanno dato rifugio ai peshmerga e alla guerriglia del Pkk di Abdullah Öcalan in lotta contro il governo turco.
© Linda Dorigo. Kurdistan, 2014-2016. Kurdistan iracheno, combattenti del PKK. L’identità del popolo curdo si trova sulle montagne, che ne hanno conservato vergine la lingua dagli influssi arabi, turchi e persiani, conquistatori e dominatori per secoli di quelle terre. Dalle montagne del Grande Kurdistan sgorgano il Tigri e l’Eufrate, e la leggenda vuole che sull’Ararat, al confine tra l’attuale Turchia e Iran, si sia incagliata l’arca di Noè. Negli anni le vette di Qandil hanno dato rifugio ai peshmerga e alla guerriglia del Pkk di Abdullah Öcalan in lotta contro il governo turco.

© Alison Baskerville. Afghanistan, 2011-2012. Un elicottero del British Medical Emergency Response Team.
© Alison Baskerville. Afghanistan, 2011-2012. Un elicottero del British Medical Emergency Response Team.

© Diana Zeyneb Alhindawi. Sudan del sud, 2015. L’epidemia di malaria. Vittima dell’epidemia di malaria portata al centro di assistenza primaria di Panthou, nella contea di Aweil. Nel Sudan del Sud è in atto un conflitto sanguinoso, ma nel 2015 la malaria ha ucciso più dei proiettili. Nel paese sono stati segnalati 2,28 milioni di casi. La poverissima regione di Northern Bahr al Ghazal, per una popolazione di circa 1,2 milioni ha un solo ospedale a servizio completo nella città di Aweil, gestito da Medici Senza Frontiere in collaborazione con il Ministero della Salute.
© Diana Zeyneb Alhindawi. Sudan del sud, 2015. L’epidemia di malaria. Vittima dell’epidemia di malaria portata al centro di assistenza primaria di Panthou, nella contea di Aweil. Nel Sudan del Sud è in atto un conflitto sanguinoso, ma nel 2015 la malaria ha ucciso più dei proiettili. Nel paese sono stati segnalati 2,28 milioni di casi. La poverissima regione di Northern Bahr al Ghazal, per una popolazione di circa 1,2 milioni ha un solo ospedale a servizio completo nella città di Aweil, gestito da Medici Senza Frontiere in collaborazione con il Ministero della Salute.

#InstaLeft Roma, museo a cielo aperto

A curare il profilo di Instagram di Left questa settimana è Valeria Trasatti. Qui alcune delle foto selezionate per voi:

Ti cerco tra un raggio e una nuvola❣ V.🌸 #vsco #landscapelovers @sunset_vision #roma #noidiroma #igersroma #tramonto

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

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Valeria nasce a Martinsicuro (TE) nel 1994. Si avvicina alla fotografia nel
periodo adolescenziale sperimentandola. Frequenta il Liceo Artistico di Teramo dove apprende lo studio dell’immagine, la storia dell’arte e la pittura. In seguito vince una borsa di studi nel corso di fotografia allo IED di Roma ampliando le sue conoscenze verso la tecnica e la teoria fotografica, laureandosi con la lode.
Nel 2015 Il suo progetto -The Smoker- vince il concorso di -Body Worlds, Il ciclo della Vita- esposto in mostra a Roma insieme alle opere del grande artista Gunter von Hagens. Attualmente a Roma collabra con brand di moda e agenzie, continuando a sperimentare la fotografia fine-art. Il suo sogno è quello di lavorare facendo quello che ama di più, creare e fotografare.
Trovate i lavori di Valeria anche su questi canali:

Facebook: Valeria Trasatti Photography-https://www.facebook.com/Valeria-Trasatti-Photography-149078758457361/
Behance: https://www.behance.net/ValeriaTrasatti
Instagram: @valeriaveba @valeriatrasattiphotography

Progetto a cura di Francesca Fago

L’Europa ai piedi del “Pinochet del Bosforo”

Una protesta contro il presidente Erdogan ad Istanbul

La Turchia non esiste più. Al suo posto è nato l’”Erdoganistan”, un Paese senza libertà né diritti, retto da un regime islamo-nazionalista che sfruttando uno pseudo golpe ha realizzato il disegno che covava da tempo: risolvere manu militari il problema curdo, azzittire la stampa indipendente, riempire le patrie galere di giornalisti, professori universitari, funzionari pubblici, attivisti dei diritti umani. E ora anche di parlamentari dell’opposizione. E tutto questo con la complicità dell’Europa. Complicità, non silenzio. Perché di parole ne sono state utilizzate tante ad accompagnare le retate, le epurazioni, gli arresti di massa, lo scempio di qualsiasi diritto umano e civile, che scandiscano dal post-15 luglio la quotidianità della Turchia retta dal “Sultano di Ankara”. Quelle parole sono un insulto a quanti nell’Erdoganistan” si sono battuti e continuano a battersi per i diritti delle minoranze, perché non siano azzerate quelle istanze di libertà, in ogni sfera della vita politica, sociale, dei costumi sessuali, di un Paese che oggi è sotto il tallone di una dittatura spietata. Una dittatura finanziata dall’Europa. Perché questa è la realtà. Vergognosa. Indecente. Perché i leader Europei non hanno solo chiuso gli occhi di fronte alle decine di migliaia di funzionari pubblici, di accademici, di quadri, di insegnanti dell’esercito, epurati da Erdogan, non solo non hanno raccolto gli appelli dei giornalisti incarcerati o zittiti o costretti all’esilio dal regime, ma quel regime hanno innalzato a interlocutore privilegiato nell’unica cosa che conta oggi nell’Europa dei muri, delle frontiere blindate, dei respingimenti forzati, degli hotspot-lager: fare della Turchia di Erdogan il “Gendarme” delle frontiere esterne. Perché l’unico timore che questa Europa indegna di definirsi democratica ha, è quello che il “Sultano di Ankara” apra i “rubinetti” dei migranti e ritorni a popolare le rotte della morte, a cominciare da quella balcanica. Al “Gendarme” turco l’Europa della vergogna ha promesso 6 miliardi di euro, sottoscrivendo un accordo nel quale non c’è una riga, non c’è alcun riferimento, non c’è alcun vincolo che riguardi il rispetto degli standard minimi di democrazia. Niente. E niente è stato fatto dopo che il “Sultano” osannato dalla folla ha promesso il ripristino della pena di morte e ottenuto il via libera per l’arresto di parlamentari nel pieno delle loro funzioni. L’Europa ha subito dimenticato gli anni in cui Erdogan lasciava aperta la frontiera con la Siria perché vi entrassero migliaia di jihadisti, di foreign figheters, per ingrossare le fila del Daesh, in funzione anti-Assad. L’Europa ha dimenticato che mentre i combattenti curdi difendevano Kobane, i carri armati turchi posti alla frontiera non spararono un solo colpo contro i miliziani di al-Baghdadi. L’Europa è stata complice della guerra scatenata dall’esercito di Ankara nelle città turche a maggioranza curda; una sporca guerra fatta di assedi durati per mesi, di civili assassinati solo perché curdi, di città e villaggi ridotti a un cumulo di macerie. Ed ora l’Europa frigna di fronte alle immagini dei parlamentari dell’Akt in manette, si dice preoccupata, chiede moderazione. Moderazione al “Pinochet del Bosforo”! A questa Europa che finge d’indignarsi, ma che non ha nemmeno il coraggio di convocare l’ambasciatore turco a Bruxelles (e a Roma, Berlino, Parigi…) per esprimere uno straccio di protesta diplomatica, consegniamo le parole di Selahattin Demirtas, il leader dell’Hdp, arrestato assieme ad altri 11 dirigenti e parlamentari del suo partito: “Siamo certamente un punto di riferimento nella lotta per ottenere i diritti fondamentali a lungo negati al popolo curdo e portare la democrazia in Turchia. Siamo sempre stati dalla parte dei diritti del popolo curdo, una lotta storica”. Questo Demirtas è riuscito a twittare prima di essere ammanettato. L’Europa ai piedi di un dittatore che studia da “Califfo”. A questa bassezza siamo arrivati. Vergogna.

Brexit può ancora saltare. Ecco perché

Giovedì 3 novembre, l’Alta corte del Regno Unito ha deciso che il Governo britannico non può attivare l’articolo 50 del Trattato di Lisbona – valido per l’uscita del Paese dall’Ue – senza un voto di approvazione da parte del Parlamento nazionale.

La legittimità di un’azione unilaterale da parte del governo britannico era stata messa in discussione da un gruppo di privati cittadini guidati dalla manager e filantropa, Gina Miller. Il giorno dopo la sentenza Miller è stata ripresa da quasi tutte le prime pagine del Regno Unito. Del resto, nelle ultime settimane era già diventata una delle figure di riferimento del fronte pro-Ue nella società civile.

In ogni caso, Theresa May avrebbe già deciso di andare oltre. A pochi minuti dalla sentenza, il ministro per il Commercio internazionale, Liam Fox, ha commentato di fronte alla House of Commons (Camera bassa del Parlamento britannico, ndr.) che il governo farà ricorso alla Corte costituzionale, di fatto scavalcando un secondo grado di giudizio. La data per il nuovo verdetto è il 7 dicembre prossimo. Se dovesse cadere nel vuoto anche quello, Theresa May potrebbe addirittura fare appello alla Corte europea di Strasburgo.

La sentenza di giovedì ha ovviamente scatenato una turbinio di reazioni politiche. I primi a farsi vivi sono stati quelli dello Ukip, ai quali la sentenza dell’Alta corte ha dato nuova linfa – il partito era infatti entrato in una profonda crisi politica e finanziaria dopo il voto del referendum. Nigel Farage, rivolgendosi all’intera classe politica britannica, ha affermato: «Non hanno idea della reazione pubblica che scatenerebbe un blocco dell’art.50». Su toni simili Suzanne Evans, candidata alla guida dello UKip:  «Come si permettono questi giudici “attivisti” di ribaltare la volontà popolare? È un colpo di mano che minaccia la democrazia». Dal canto suo, il governatore della Banca centrale del Regno Unito ha detto che la sentenza provoca ulteriore incertezza per l’economia del Paese.

Ma la vera domanda che, a questo punto, si fanno in molti è: Brexit può ancora essere ribaltata e svanire nel nulla?

Theresa May, tramite la sua portavoce, ha dichiarato che i piani del governo non cambiano e che, come previsto, l’articolo 50 verrà attivato entro marzo 2017, con o senza il coinvolgimento di Westminster. Insomma, il Brexit non sarebbe in discussione. Jeremy Corbyn ha subito fatto sapere che «il Labour garantirà una Brexit efficiente per lo UK» e che il suo partito «continuerà a rispettare la scelta dei cittadini britannici di lasciare l’Ue». E a Bruxelles qual è stata la reazione? La Commissione europea ha tenuto un profilo basso. Un portavoce di Palazzo Berlaymont ha ribadito che «una sentenza dell’Alta corte britannica resta un affare costituzionale interno e non riguarda le istituzioni». Allo stesso tempo però, ha anche rivelato che Theresa May avrebbe chiesto un colloquio telefonico al presidente della Commissione europea.

Eppure, le speculazioni riguardo a un ribaltamento clamoroso non sono così infondate. Già prima della sentenza, dalla Germania era arrivato un segnale importante. Il Comitato dei saggi dell’economia, nel suo rapporto annuale per il governo, ha suggerito ad Angela Merkel «di condurre negoziati costruttivi per evitare un’uscita dall’Unione da parte del Regno Unito». Allo stesso tempo, John Kerr, un ex-diplomatico britannico che aveva giocato un ruolo importante proprio nei lavori di preparazione alla stesura del Trattato di Lisbona, ha dichiarato che «l’attivazione dell’articolo 50. non è affatto irrevocabile». Senza contare che in passato il Presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha ammesso che un ripensamento sarebbe benvenuto. Ma non finisce qui.

Due giorni prima della sentenza dell’Alta corte, un gruppo di accademici britannici, guidati dal professor Anand Menon, hanno indicato una serie di condizioni che potrebbero giustificare un clamoroso capovolgimento di prospettiva. Nello specifico, una lista di fattori sufficienti elencati dal rapporto “Uk in a Changing Europe”,  sarebbero: «significativi shock di natura economica o diplomatica, un’aggressione militare, oppure un cambio di governo». Il problema è che Downing Street, dopo la sentenza, ha subito chiuso la porta a chi ha insinuato elezioni anticipate: «La nostra posizione rimane chiara. Non si voterà fino al 2020». Ma è proprio sull’eventualità di una legislatura duratura che si innesta una seconda analisi che punta a un potenziale svanimento del Brexit. È quella di Geoffrey Robertson, noto avvocato e difensore dei diritti umani che, tra l’altro, aveva previsto correttamente il risultato della sentenza di giovedì.

Robertson sostiene che, se si guarda alla legge che ha istituito il voto popolare di giugno, si è costretti a riconoscere che il referendum ha avuto natura consultiva. Un po’ come accadde in Grecia nel luglio del 2015, per intenderci. È anche per questo motivo che l’Alta corte non ha autorizzato il governo di Theresa May ad attivare unilateralmente l’art. 50. Ma se ciò è vero, anche il Parlamento non è tenuto ad attivare l’art.50, anzi. Secondo Robertson, «se il Parlamento avesse il coraggio e l’integrità morale e politica» dovrebbe bloccare l’attuale processo e spingere per un secondo referendum, questa volta con espressa natura vincolante. Secondo Robertson, «la Camera dei Lord agirà proprio in questo senso».

Ma a quel punto, chi si prenderà la responsabilità di indire un nuovo referendum? Lo potrebbe fare la May affermando di difendere “la volontà del popolo”, ma rischierebbe molto, proprio come Cameron. Secondo un recente sondaggio, il fronte pro-Ue avrebbe infatti convinto la maggioranza dei cittadini del Regno Unito –  il 51 per cento –  che non vale la pena uscire dall’Ue. La ricerca sottolinea come il 49 per cento di coloro che a giugno non avevano votato, oggi sarebbero a favore di una permanenza nell’Unione, contro un 27 per cento che appoggia il Brexit. Insomma, sarebbe più facile e sicuro, aspettare le elezioni del 2020. Ovviamente, il ragionamento rimane in piedi solo se la Corte costituzionale britannica e quella di Strasburgo (qualora interpellata) dovessero confermare la sentenza dell’Alta corte di giovedì. Ma secondo Robertson, non c’è motivo di dubitarne.

Insomma, esiste uno scenario paradossale. Quello in cui il governo britannico non riesce ad attivare unilateralmente l’art.50, ma non ha nemmeno la forza politica di indire un secondo referendum. Non è così fuori dal mondo, tanto meno dall’Europa. Un po’ come lo Uk di oggi.

 

 

 

Ne parliamo anche su Left in edicola dal 5 novembre

 

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