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Hillary contro Donald L’ABC delle elezioni USA

A

Advertising. La pubblicità televisiva serve sempre meno a vincere le elezioni, ma aiuta. Obama ha girato uno spot in spagnolo e diversi mirati per sostenere candidati senatori e rappresentanti. Questo è l’anno degli spot negativi: Hillary è corrotta e Trump impreparato e pericoloso. I più duri sono quelli pagati dai SuperPac, comitati indipendenti dalle campagne che si possono permettere toni esagerati. Clinton ha speso molto più di Trump: nelle ultime 5 settimane di campagna investirà 42 milioni di dollair contro i 34,7 di Trump. Nello stesso periodo, nel 2012, Obama ne spese 74 – Romney tre in più.

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B

Battleground States (o Swing states o Purple States). Le elezioni non si decidono a New York. E nemmeno in California o Texas. Tutte, sempre, si combattono in una manciata di Stati che tendono a cambiare colore o ad assegnare la vittoria a un partito per pochi voti. Qui si concentra la campagna elettorale, qui si spendono i soldi, qui si corteggia ogni singolo gruppo, ogni singolo voto. I più swing di tutti sono Florida e Ohio. Dal 2008 in poi il numero di swing states è aumentato: i nuovi entrati sono Virginia, North Carolina, Colorado dove l’afflusso di giovani bianchi e le minoranze storiche hanno cambiato la demografia e gli orientamenti elettorali.

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C

Collegi elettorali. Un sistema astruso che non garantisce che chi prende più voti vinca le elezioni. Sono le delegazioni degli Stati che eleggono il presidente. Il voto popolare, infatti, elegge dei superdelegati di ciascuno Stato in numero pari alla delegazione di eletti in Congresso (2 senatori per ogni Stato e un numero di rappresentanti calibrato sulla popolazione) che a loro volta esprimono il voto per il presidente. I componenti del collegio non hanno vincolo di mandato, ma alcuni Stati puniscono l’eventualità in cui il grande elettore decide di non seguire le indicazioni degli elettori. Per vincere servono 270 voti. Nel 2012 Obama ne ottenne 265, nel 1984 Reagan 525.

Illustrazioni Antonio Pronostico

Lo speciale elezioni Usa2016 ontinua su Left in edicola dal 29 ottobre

 

SOMMARIO ACQUISTA

Le mail di Clinton tornano per colpa del “sexting”. Ecco cosa è successo

Hillary Clinton
epa05607410 (FILE) A file photo dated 26 September 2016 showing Democrat candidate Hillary Clinton debating Republican Donald Trump during the first Presidential Debate at Hofstra University in Hempstead, New York, USA. Media reports on 28 October 2016 state FBI has said they will reopen their investigation into the emails of Hillary Clinton after discovering a number of emails 'in connection with an unrelated case'. EPA/PETER FOLEY

Chissà cosa pensa Hillary Clinton ogni volta che preme il tasto “Invia” dopo aver scritto una email. La molto probabile presidente degli Stati Uniti ha di nuovo dei guai di immagine. Piuttosto seri. Siamo a 10 giorni dal voto e per colpa della leggerezza commessa nell’aver usato un server privato di posta – e quindi per aver spedito informazioni su cui c’era il timbro “confidenziale” attraverso canali della rete non protetti dal Dipartimento di Stato – siamo di nuovo a parlare del fatto che di Hillary, come sostengono i repubblicani, non ci si può fidare perché tende a nascondere le cose e ad agire al di sopra delle regole. A fare come pare a lei. Un’esagerazione per una leggerezza commesa? Certo, ma un guaio a cui Donald Trump si attaccherà con le unghie.

La storia ha mille rivoli e di questo si parlerà per almeno un paio di giorni. Vale la pena di ricostruirla.

Con una mossa a sorpresa, il direttore dell’Fbi James Comey ha comunicato al Congresso che durante l’inchiesta che riguarda le mail di Anthony Weiner e la possibilità che siano state spedite a una minorenne, ha trovato mail provenienti dall’account di Hillary Clinton. E lo ha comunicato al Congresso come atto dovuto. Weiner è un ex rappresentante democratico di New York la cui promettente carriera politica è finita malamente a causa della sua ossessione per il sexting (sex texting, ovvero mandare messaggi contenenti foto di se stesso a donne X in rete). Dopo un primo scandalo nel 2011, che gli costò le dimissioni, un secondo nel 2013, che gli costò la corsa da sindaco della sua città, l’ultima idiozia Weiner l’ha fatta spedendo na foto di sè stesso a una ragazza. Nella foto, che lo ritraeva a letto, c’era anche il figlioletto – il contenuto della chat pietoso, ma il fatto che Weiner mandi anche in giro le foto di sè, in mutande a letto con suo figlio, è stato giudicato troppo pietoso.

anthony weiner e Huma Abedin
Anthony Weiner e Huma Abedin nel 2013 EPA/ANDREW KELLY

Cosa ha a che vedere Anthony Weiner con Clinton? Il nostro è l’ex marito di Huma Abedin, ombra, amica, confidente, aiutante di Hillary. Lei lo ha lasciato dopo l’ennesima dimostrazione testosteronica da cellulare di Anthony. Nel 2011 aveva fatto come l’ex first lady ai tempi di Monica Lewinsky: conferenza stampa contrita al fianco di un marito a testa bassa. E le mail di Hillary erano conservate in un pc che i due condividevano. Il ridicolo di questa vicenda è che nasca dal sexting di Weiner, che non ha nessun ruolo nelle elezioni del 2016. In qualche modo i comportamenti sessuali vogliono per forza fare capolino nelle presidenziali 2016 – le accuse a Hillary per aver protetto Bill, le “chiacchiere da spogliatoio di Trump”.

Già, ma perché l’Fbi le indaga? Non lo sappiamo, Comey non ha detto se le mail abbiano un contenuto in qualche modo delicato dal punto di vista della sicurezza nazionale. Probabilmente no. Sono solo mail di quell’account trovate nel corso di un’altra inchiesta. Questo almeno sperano i democratici. Donald Trump invece parla di «una vicenda più grande del Watergate». E tutti i repubblicani corrono in Tv a ripetere la stessa cosa. Per una volta, in una fase nella quale vanno ciascuno per conto suo, prendendo o meno le distanze da TheDonald a seconda dell’elettorato che si trovano ad affrontare a livello locale, sono tutti d’accordo.

La reazione della campagna Clinton è stata furiosa: una dichiarazione di John Podesta, il capo delle operazioni, e poi della stessa chiedono al capo dell’Fbi di dire quel che c’è da dire: se ci sono contenuti di cui parlare che se ne parli, altrimenti l’aver lanciato questa bomba sulle elezioni è da interpretare come un colpo contro Clinton. Trump e compagni, a loro volta, si aspettano che i contenuti vengano resi pubblici subito nella speranza di trovare qualcosa di cui parlare. In un momento in cui i giochi sembrano fatti, questa vicenda è ossigeno per loro. «L’Fbi sta riparando all’errore di non averla condannata prima» dice Trump nel video qui sotto. Non è così, la questione è procedurale. Ma certo Comey doveva sapere che conseguenze avrebbe avuto l’annuncio fatto a un passo dal voto.

 

E qui veniamo a Comey. Il direttore nominato nel 2013 è un repubblicano e ha lavorato nell’amministrazione di George W. Bush. Una di quelle mosse bipartisan di Obama, che non sono servite a guadagnare un po’ di collaborazione da parte dell’opposizione e che oggi molti gli rinfacciano.

Comey probabilmente era obbligato a fare la comunicazione che ha fatto: ci sono mail dell’account di Clinton che l’Fbi non aveva visto e, quindi, deve riaprire le indagini per studiarle. L’inchiesta era finita e, oggi, è riaperta. Procedura. Ma oggi Comey si trova in una posizione scomodissima. Specie dopo che ha scagionato Clinton in una conferenza stampa in cui ha definito deplorevole il suo comportamento. Già allora era finito in una luce cattiva: i democratici ci vedevano un accanimento, i repubblicani sostenevano che dovesse incriminare Hillary Clinton.

Conclusione? Un’altra volta ci troviamo a parlare di cose che non riguardano le politiche che il prossimo presidente degli Stati Uniti metterà in atto. Non di salario minimo (o di taglio delle tasse), non di riforma della polizia, non di ampliamento dell’assicurazione sanitaria pubblica per gli anziani (Medicare). Ma di comportamenti dei candidati. In questo senso Trump e il suo modo di fare politica hanno vinto. Vedremo se lo scandalo email produrrà anche una flessione di Hillary nei sondaggi. Attenzione però: 17 milioni di americani hanno già votato e molti lo faranno in questi giorni. Magari prima di un potenziale effetto email. Inoltre lo scandalo delle email va avanti da anni, i repubblicnai lo hanno spremuto in ogni modo, danneggando l’immagine di Hillary, certo, ma non riuscendo a darle un vero colpo.

Una certezza? I repubblicani hanno già detto che apriranno nuove commissioni di inchiesta contro la nuova presidente. Insomma, sentiremo parlare delle mail, anche di quelle di Weiner, per anni.

La Francia e le forze del disordine

Mercoledì 26 ottobre, il Presidente della Repubblica francese, Francois Hollande, ha promesso di stanziare 250 milioni di euro a favore delle forze dell’ordine del Paese. L’intervento finanziario è stato concordato con i sindacati di categoria e rappresenta la base di un piano di “sicurezza pubblica” che dovrebbe partire a gennaio 2017.

Quella che potrebbe sembrare una notizia innocua, nasconde, in realtà, un fenomeno politico importante. Sono due settimane che gli agenti delle forze dell’ordine francesi marciano per le strade di Parigi, Marsiglia, Nizza e Tolosa. Come mai?
La goccia che ha fatto traboccare il vaso risale all’8 ottobre, giorno in cui alcuni agenti in servizio a Viry-Chatillon, 30 chilometri a sud di Parigi, sono rimasti gravemente feriti a causa di un attacco a base di molotov. Aggiungeteci un contesto generale di tensione, dovuto a due anni di attentati terroristici su scala nazionale ed ecco che le condizioni sono date. Sta di fatto che dieci giorni dopo l’agguato di Viry-Chatillon, sono spuntate manifestazioni di protesta “spontanee” in tutto il Paese.
Le rivendicazioni? Più sicurezza e maggiori risorse economiche per le forze dell’ordine nonché un intervento legislativo volto a rafforzare il “diritto alla legittima difesa”. A Parigi, gli agenti hanno protestato per tre giorni, scandendo slogan che hanno preso di mira soprattutto il capo della polizia nazionale, Jean-Marc Falcone, accusato di non difendere a dovere la categoria. Il 20 ottobre, il Ministro dell’interno, Bernard Cazeneuve, ha convocato d’urgenza i sindacati annunciando l’inizio di una negoziazione per la definizione del piano di “sicurezza pubblica”. Venerdì 21 ottobre, si è fatto vivo anche Hollande: «Dobbiamo dare una prospettiva e risposta immediata [alle forze dell’ordine]. Devono sapere che il governo e il Presidente della Repubblica sono disposti a un dialogo imminente». Il giorno stesso Cazeneuve ha poi inviato una lettera a tutti gli ufficiali sottolineando la vicinanza dello Stato.

Si arriva quindi all’incontro di mercoledì scorso con la promessa dei 250 milioni. Questi dovrebbero servire a migliorare le condizioni lavorative e la sicurezza degli agenti.
Tutto bene ciò che finisce bene? Non proprio. Se c’è una cosa che rende questi fatti abbastanza inquietanti, è la scarsa legittimità politica accordata ai sindacati da parte del movimento di protesta delle forze dell’ordine. Durante uno dei tanti raduni delle scorse settimane, alcuni agenti intervistati da Le Monde hanno affermato: «I colleghi ne hanno abbastanza dei sindacati; difendono soltanto sé stessi e seguono gli ordini dei politici».  Ma c’è dell’altro. Come ha documentato sempre Le Monde, il giorno stesso dell’accordo governo-sindacati, Parigi è stata di nuovo teatro di due cortei: da un lato alcune sigle sindacali, dall’altro il movimento.
Nel primo, Yves Lefebvre, Segretario generale del sindacato “Unité SGP Police FO” ha fatto di tutto per non farsi sfuggire di mano il movimento: «Se ne fregano della base. Che non pensino che qualche giacchetto o arma in più calmeranno i poliziotti». Un agente presente al raduno avrebbe poi ammesso: «Aspettiamo le promesse elettorali del 2017, ma secondo me bisognerà di nuovo scendere per strada». Poi ha aggiunto che «i problemi materiali non sono tutto» e che è necessario combattere una giustizia «lasca» e chiedere più «fermezza da parte dei magistrati».
Nel secondo corteo invece – quello “spontaneo” per intenderci – si sono fatti vedere, guarda caso, Nicolas Dupont-Aignan, deputato del Front National (Fn) di Vaulcuse, ma soprattutto Marion Maréchal-Le Pen. Jean-Cristophe Cambadélis, Segretario del Partito socialista aveva denunciato fin dall’inizio delle manifestazioni lo zampino del Fn. Alcuni membri della base del movimento, interrogati a proposito, avevano però risposto: «Quello che facciamo non ha nulla a che fare con il Fn. Per me, i politici sono tutti uguali». In effetti, a dire il vero, nel corteo “spontaneo” era presente anche Olivier Falorni, del “Front de Gauche” (la sinistra radicale guidata da Jean-Luc Mélenchon). Quest’ultimo prima ha assicurato di aver fatto visita anche ai sindacati; poi ha affermato: «C’è bisogno di politici di sinistra al fianco dei poliziotti, i quali hanno bisogno di un riconoscimento visto che sono stati abbandonati dalla Repubblica da troppo tempo».

 

Massimo Carlotto indaga la violenza nascosta del serial killer

Massimo Carlotto

«Venezia. Stazione ferroviaria di Santa Lucia. Fu il rumore disinvolto e arrogante dei tacchi ad attirare la sua attenzione sulla donna. Si voltò quasi di scatto e la vide avanzare fendendo il folto gruppo di passeggeri che erano appena scesi da un treno ad alta velocità proveniente da Napoli. L’uomo ebbe il tempo di osservare la falda del soprabito primaverile che si apriva a ogni passo, permettendo un’occhiata fugace alle gambe dritte e tornite, messe bene in mostra da un vestito corto e leggero», con questo incipit, nel suo primo thriller dal titolo Il turista (Rizzoli),  Massimo Carlotto ci porta in una Venezia segreta, un percorso di calli, osterie, antichi palazzi, sconosciuti al turismo di massa. Riuscendo a farci sentire di nuovo l’odore di salmastro nella laguna, che in questo romanzo appare in tutta la sua misteriosa bellezza, riscattata dalle aggressioni delle grandi navi. Riprende vita così una Venezia non più solo piatto scenario da cartolina, come in tantissimi thriller americani.  E’ lei la vera protagonista, quasi fosse animata e più vitale degli stessi personaggi. Anche perché il protagonista, Abel Cartagena, è uno psicopatico che ha ben poco di umano. Non prova alcuna emozione, ma è un abile e freddo manipolatore, mima i sentimenti, fa finta di provare qualcosa con la moglie e perfino con l’amante snocciolando solo frasi fatte. Lo fa lucidamente per mantenere una apparente normalità, per avere una copertura, un alibi, quando uccide – per i motivi più futili – donne adocchiate casualmente per strada, magari solo per una borsetta, per un modo di camminare. Lo fa spogliandosi dei suoi abiti di storico della musica e calandosi nel ruolo di un anonimo turista delle città d’arte. Che colpisce e fugge. Ogni volta dopo aver strangolato la vittima, il solito rituale di stendere su un lenzuolo bianco gli effetti personali della malcapitata e contemplarli ad uno ad uno. Il suo rapporto con gli oggetti, con la realtà materiale è perfetto. (Abel non passa mai con il rosso, è puntuale nel consegnare il lavoro…). ma ha perso completamente il rapporto con gli esseri umani. E Massimo Carlotto lo racconta in modo scientifico, quasi clinico. Riuscendo a trasformare una narrazione avvincente in un palinsesto, in cui si intrecciano molti fili,  fra i quali quello psichiatrico di descrizione della gravissima patologia mentale di cui è affetto il protagonista e quello storico politico  di denuncia mettendo in luce come  «i regimi, le mafie, ma anche le multinazionali ingaggino proprio personalità psicopatiche per fare il lavoro sporco, per torturare, per perseguitare, per licenziare». Perché, spiega Carlotto, lo fanno in maniera fredda, lucida, senza essere sopraffatti dal dolore e dal senso di colpa, senza provare pietà.

In un venerdì romano capita così che lettori attenti e sorprendentemente preparati affollino una bella libreria un po’ fuori mano, nel centro commerciale I Granai per discutere insieme a Carlotto e Stefania Parmeggiani (a sua volta autrice di un bel noir) per discutere di questi e altri temi che innervano Il turista. Per capire quale sia la fucina in cui è nato questo nuovo libro dell’autore che ha inventato un personaggio impareggiabile e irregolare come l’Alligatore. La prima domanda dunque non può che essere perché un autore di noir, genere che affresca realtà complesse e sfumate, abbia deciso di misurarsi con un thriller. «Non ho mai scritto un thriller vero e proprio. Questo è il primo», ammette lo scrittore. «Ho provato, ma poi ha ripreso la strada del noir e della spy story. Sono passato da un territorio narrativo ad un altro, forzando i generi». Perché sfidare un genere così rigidamente codificato? «Per anni sono stato diffidente verso il thriller, non avrei mai scritto su un tipo come Pacciani, ( il “mostro di Firenze” ndr), non mi sembrava potesse diventare un personaggio interessante dal punto di vista narrativo». Ma poi è saltata fuori l’idea del turista. «È nato dall’incontro con il criminologo Corrado De Rosa che mi ha suggerito una serie di letture sui serial killer, sulle personalità psicopatiche, sui criminali che spendono la loro vita per eliminare il prossimo». Il pensiero corre a personaggi come Hannibal Lecter (il personaggio inventato dallo scrittore Thomas Harris e interpretato sul grande schermo da Anthony Hopkins) ma ciò che questo nuovo romanzo di Massimo Carlotto riesce a cogliere in modo esemplare, fuori da un’eccessiva spettacolarizzazione, è un preciso fatto medico-psichiatrico: la totale anaffettività del protagonista, la sua schizoidia. «Il mio personaggio non è un schizofrenico che sente le voci. Abel appare perfettamente capace di intendere e volere. È uno psicopatico funzionale, che nasconde la propria malattia mentale. Lo fa mistificando». Anche nel lavoro. Si occupa di autori che nessuno conosce o pochissimo conosciuti. «Finge di capire e sentire la musica. In realtà raccoglie notizie e le assembla», sottolinea Carlotto. Anche andando a frugare nella sua infanzia, apparentemente non ci sono drammi, non ci sono traumi, ma scopriamo una madre molto sollecita, che lo accudisce e non gli fa mancare niente sul piano materiale. Addirittura cerca di aiutarlo pagando laute cifre per coprirlo. La peggiore pazzia si nasconde sotto una apparentemente irreprensibile normalità. «Non tutti gli psicopatici diventano apertamente dei criminali – commenta Carlotto – altri hanno una vita normale, ma arrivano sempre a rovinare la vita degli altri, sono dei grandi manipolatori. Non a caso ci sono molti psicopatici fra i politici. Ne abbiamo diversi esempi sotto gli occhi».

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Christophe Chassol, il miglior segreto della musica francese

Christophe Chassol è stato per anni un segreto. Anzi, il miglior segreto della scena musicale parigina. Oggi, a 40 anni, dopo essere passato d’orecchio in orecchio, è diventato una delle più importanti novità del panorama musicale francese ed europeo. Definire Chassol come un semplice compositore e pianista è limitante. Limitante perché, di fatto, Christophe è un esploratore sonoro che valica confini geografici e ideali. È un poliglotta musicale che ha inventato un linguaggio con gli strumenti che padroneggiava meglio: pianoforte, armonia e accordi.
Nato a Parigi, ma figlio di genitori provenienti dall’isola di Martinica, nelle Antille Francesi, Chassol inizia a immergersi nella musica fin da piccolissimo. A 4 anni entra al Conservatorio, a 20 termina gli studi, poco dopo inizia a lavorare per il mondo del cinema come compositore. Ma, appunto, è uno che valica confini, e quindi lavora anche per la tv, per la pubblicità e con icone dell’electro-pop come Sabastian Tellier e i Phoenix. Soprattutto: si innamora della sincronia fra suono e immagine. Il suo obiettivo è armonizzare la realtà. Ed è così che si inventa un genere musicale: gli “ultrascores”, composizioni tridimensionali orchestrate con materiale musicale e video. Suoni di clacson nel traffico, un discorso di Obama, il canto degli uccelli o quello di una donna indiana si fondono con la musica in una vera e propria sinfonia audiovisiva. Nel 2011, assieme a un team di filmmaker, Christophe realizza Nola Cherie, la prima opera di una trilogia basata sugli “ultrascores”. Dopo Nola, girato a New Orleans e incentrato sui suoni, sulla lingua e la cultura creola, è la volta di Indiamore, realizzato in India nel 2013, e poi di Big Sun, nel quale il compositore francese ritorna alle sue origini traducendo in musica immagini e melodie della Martinica. Ed è proprio con Big Sun che in questi mesi Christophe Chassol sta girando l’Europa e l’Italia.
Come hai inventato gli “ultrascores”?
Da giovanissimo ho lavorato nel mondo del cinema e della pubblicità. Ero affascinato dai film, dai video e ovviamente dai suoni e dalla musica, ma soprattutto dall’idea di sincronizzare immagini e suoni con la musica creando un’armonia che riproducesse la realtà. Gli “ultrascores” sono questo.
Una performance del genere ha un impatto molto forte sullo spettatore.
Accade perché l’effetto che si crea è molto naturale. Se ci pensi non esistono immagini senza che ci sia del suono attorno. Anche quando guardi la televisione a volume abbassato, c’è comunque qualche rumore attorno a te. Non vediamo mai immagini “nude”, associamo sempre l’udito alla vista. La sincronizzazione che realizzo con gli “ultrascores” parte da questo concetto e ha un effetto coinvolgente proprio perché agisce sulla nostra mente in un modo molto naturale, familiare.
Quindi i tuoi lavori sono la dimostrazione che, per dirlo con una frase banale, la musica è ovunque attorno a noi?
Più che altro credo siano il modo migliore per mostrare quanta bellezza si crei quando le cose sviluppano una sincronia. L’armonia fra musica, suono e movimento è qualcosa che per me si avvicina molto alla magia.
Quando componi pensi prima alle immagini o alla musica?
In realtà penso a entrambe le cose contemporaneamente. La musica dipende sempre dalle immagini che stiamo filmando e quello che stiamo filmando dipende sempre dalla musica che ho composto prima di filmare. Sono elementi che si influenzano a vicenda, come in un circolo virtuoso. E i suoni che sento attorno a me mentre filmiamo mi ispirano ulteriormente.
Parlaci di Big Sun, che stai portando in tour.
È girato in Martinica, da dove provengono i miei genitori. Inizialmente volevo fare un pezzo sul Brasile, sono andato lì e ho trovato molte somiglianze tra i due Paesi: persone, paesaggi, colori e musiche nelle strade. Così ho realizzato che dovevo andare anche in Martinica. Di quel luogo conosco la lingua, la cultura… era quasi d’obbligo andarci. Volevo catturare suoni e immagini della natura e della fauna, come il canto degli uccelli, ma anche la melodia del linguaggio.
La tua musica è un’esperienza di viaggio che attraversa confini geografici e sonori. Il concetto di “varcare confini” definisce molto questo momento storico.
Sì e sarà sempre di più così. Per motivi politici, ma anche ecologici. Penso sia qualcosa che va di pari passo con il concetto di opportunità. Trovo sbagliato il fatto che alcuni politici vedano le migrazioni come qualcosa di negativo. L’incontro di nuove culture e persone è un elemento di ricchezza. Quello che sta accadendo è molto triste.
Nella tua musica si mescolano vari generi musicali dal jazz all’ elettronica, passando per la musica classica, a volte quasi per il folk.
In realtà non sento di mescolare così tanti generi. C’è solo un punto focale nelle mie composizioni la passione per trovare dei legami, dei fili conduttori, armonie. Poi certo, utilizzando il computer per realizzare le mie musiche la base elettronica c’è, ma le tecniche di composizione sono tutte derivate dal jazz e dalla classica.
Quali sono i musicisti da cui hai tratto maggiore ispirazione?
Ce ne sono moltissimi. Penso ai compositori di colonne sonore come Ennio Morricone, Jerry Goldsmith, o Bernard Herrmann. Trovo che le musiche realizzate per i film siano sorprendenti. Ma mi ispiro anche a pianisti come George Gershwin o jazzisti come Miles Davis che hanno saputo creare nuovi suoni e linguaggi; alla musica classica francese, da Maurice Ravel a Claude Debussy. E anche alla musica indiana, la trovo ricchissima di spunti.
Com’è stato lavorare con icone pop come Sebastian Tellier o i Phoenix?
Ormai sono passati più di dieci anni… è stato estremamente divertente. Ero in tour con loro e ho imparato moltissime cose da queste esperienze. In particolare a sintetizzare, a diventare un po’ più pop. Ho capito che anche sequenze semplici potevano essere estremamente efficaci.
Perché è importante essere pop?
Non so se è importante (ride) ma io voglio essere pop, voglio che alla gente piaccia la mia musica, essere pop significa anche questo.
Stai progettando qualche nuovo viaggio? Diventerà una composizione?
Più che a un viaggio, adesso sto lavorando a un nuovo soggetto. Si concentra sugli animali, sull’idea di una grande sinfonia naturale. Per un po’ quindi resterò in Francia… poi chi può saperlo.

In concerto a Roma

Dopo aver già toccato altre città italiane ed europee, Chassol arriva a Roma il 4 novembre dove si esibirà al Monk Club nell’ambito del Romaeuropa festival. Le date italiane sono state organizzate all’interno de “La Francia in scena”, stagione artistica dell’Institut français Italia, realizzata su iniziativa dell’Ambasciata di Francia in Italia per promuvere le eccellenze artistiche d’Oltralpe. Il tour europeo si concluderà il 13 novembre alla Philharmonie di Parigi.

(da Left n. 43)

Cosa dirà Renzi da piazza del Popolo

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi a un incontro per il Sì al teatro Carlo Gesualdo di Avellino, 26 ottobre 2016. ANSA/BARCHIELLI/UFFICIO STAMPA PALAZZO CHIGI ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

La manifestazione di piazza del Popolo è curata nei minimi dettagli. E non solo nella sua parte organizzativa, come ovvio, con i pullman (35, per dire, solo dall’Emilia Romagna) e i treni speciali che assicureranno il colpo d’occhio. Non solo perché la scaletta, la scenografia e gli aspetti tecnici sono in mano a Massimo Gramigni, organizzatore di eventi fiorentino, a cui Renzi ha affidato personalmente, un mese fa, la giornata, contando sull’esperienza di Gramigni che portò Patti Smith allo stadio di Firenze nel 1979 e che l’anno scorso ha portato Bergoglio, sempre nella patria renziana. È una piazza strategica per la comunicazione di Matteo Renzi, quella di piazza del Popolo, ed è quello l’aspetto più curato.

«Un’Italia più forte, un’Europa più giusta». La strategia del governo e del Pd è già tutta nello slogan , che sintetizza perfettamente i passi e le battute delle ultime settimane, la scelta di Renzi di radicalizzare lo scontro con l’Europa, combattuto sullo 0,1 del deficit e sulle spese per Casa Italia e migranti, che per palazzo Chigi sono spese straordinarie e per Bruxelles no, sono ordinarie. Renzi è l’unico politico che parlerà, alle 17, e questo chiederà: di esser aiutato, con un sì al referendum, a render più giusta l’Europa, a non farsi dettare «da qualche burocrate» – come ha detto in questi giorni – la manovra di bilancio, idealizzata così neanche fosse una manovra tutta spesa pubblica e redistribuzione.

Alzerà dunque la posta, Renzi, dopo aver legato il suo destino politico al referendum costituzionale e aver innescato – inutili e tardive sono state le smentite – l’insopportabile schema degli schieramenti contrapposti, già tipico dei referendum ma così radicalizzato. Alzerà la posta sul 4 dicembre, giorno del giudizio non solo per lui ma per l’Europa intera. Cosa c’entra l’istituzione di un senato composto da cento sindaci e consiglieri regionali nominati dai partiti con le politiche sulla migrazione o il fiscal compact non è dato saperlo. Ma non è importante, tanto. Conta solo lo slogan. Che suona bene.

Terremoto, unità di crisi beni culturali tutto da rifare. Leopardi “ospitato” a Bologna

A demage church in Villa Sant'Antonio village, near Visso, a day after two big earthquakes shook central Italy, 27 October 2016. At least 200 aftershocks followed the first of two big earthquakes to hit central Italy the previous evening, the National Institute of Geophysics (INGV). The first 5.4 magnitude quake struck at 19:10 Italian time and was followed by an even bigger one, of magnitude 5.9, at 21:18 on 26 October. ANSA/CRISTIANO CHIODI

Beni culturali diffusi lungo l’Appennino, un patrimonio magari poco conosciuto, ma importante. Si tratta di chiese, palazzi storici, interi borghi, musei oltre alle opere d’arte come quadri e sculture e reperti archeologici. Al crollo della chiesa di San Salvatore a Campi di Norcia, abbiamo assistito in diretta, ripreso da un operatore di Rai News 24, poi abbiamo visto il campanile di Castelsantangelo sul Nera squarciato, quello della Chiesa di Santa Maria in Via di Camerino che è crollato su un edificio vicino, centri storici feriti, come quello di Ussita dove il sindaco dice sconsolato che «Il mio paese è finito». A Matelica il palazzo comunale è inagibile, tutto il centro storico di Camerino è “zona rossa”, così come quello di Castelsantangelo, problemi anche per i musei. Il terremoto di mercoledì 26 ottobre – per fortuna senza vittime – ha provocato nuovi danni a edifici e opere d’arte, già lesionate, in alcuni casi, dopo il sisma del 24 agosto. Anzi, talvolta ha dato il colpo di grazia.

E adesso? Abbiamo parlato con gli architetti del Mibact che mercoledì sera si trovavano proprio nelle Marche, intenti a completare il loro lavoro di rilievo e stima dei danni causati dal terremoto del 24 agosto. Lavoro finito e schede pronte da consegnare. In Umbria e nel Lazio l’operazione si era già conclusa. Ebbene, adesso è tutto da rifare, ci dicono. Avevano analizzato e stimato i danni su beni immobili e mobili oggetto di circa 1500 segnalazioni nelle tre regioni colpite dal sisma d’estate.

Tutta l’unità di crisi costituita da architetti del Mibact e ingegneri strutturati della rete Reluis (rete dei laboratori universitari di ingegneria sismica) deve ricominciare da capo. Dopo però che la Protezione civile avrà concluso la fase uno, cioè la verifica dell’agibilità o meno degli edifici da parte delle persone. Perché giustamente prima si pensa all’incolumità dei cittadini e poi alla salvaguardia dei beni culturali. Tutto da rifare anche per loro.

In questa situazione di emergenza e per il momento di grande incertezza una notizia positiva e di sensibilità rispetto al patrimonio culturale: Bologna ospiterà alcuni testi autografi di Giacomo Leopardi. «Con il sindaco di Visso, Macerata, abbiamo già un rapporto, loro hanno dei testi manoscritti di Leopardi che ospitavano nel loro museo. Li ospiteremo qui a Bologna e attorno a questo daremo tutta la solidarietà che come cittadini sapremo dare», ha detto ieri il sindaco Virginio Merola. C’è anche L’Infinito tra i sei Idilli, cinque sonetti, l’Epistola al Conte Carlo Tiepoli, quattordici lettere e un commento delle rime del Petrarca (totale 27 autografi) che si trovavano custoditi nel museo di Visso, dentro il Palazzo dei Governatori, un edificio che già era stato lesionato dal terremoto del 24 agosto. Ritornano per un po’ da dove erano partiti, visto che erano stati venduti nel 1868 per quattrocento lire dal preside del liceo Galvani di Bologna all’allora sindaco di Visso.

Usa2016/ Le milizie ai seggi e il sondaggio delle tazze da caffé

Milizie radicali di destra, armate alla convention repubblicana di Cleveland
epa05432461 Members of the open carry group West Ohio Minutemen gather in the Public Square on the second day of the Republican National Convention in downtown Cleveland, Ohio, USA, 19 July 2016. Numerous protest groups are expected to gather in Cleveland throughout the four-day-long convention. EPA/JIM LO SCALZO

1. Le milizie armate ai seggi?

Sono notizie che fanno rumore, inquietano e fanno anche un po’ paura: gli Oathkeepers, una organizzazione radicale e patriottica che invita veterani e poliziotti a non obbedire agli ordini nel caso in cui ritengano siano contrarie alla costituzione, hanno invitato ha «vigilare sul regolare svolgimento delle elezioni». È un segnale di come anni di retorica contro le istituzioni e un anno di campagna contro «istituzioni truffaldine» (come dice Trump) abbiano rianimato e irrobustito la destra estrema – ci si tornerà nei prossimi giorni sul tema. Cosa significa vigilare? «Noi, che abbiamo giurato di difendere la Costituzione abbiamo la responsabilità di aiutare la polizia a garantire il processo elettorale libero ed equo. A tal fine, le nostre capacità significative nella conduzione di operazioni segrete, raccolta di informazioni e indagini possono e devono essere sfruttati per contrastare le azioni di qualsiasi partito politico o gruppo criminale che tenta di negare il diritto di voto ai cittadini della nostra nazione» si legge sul sito. L’invito è a raccogliere informazioni – il sito è pieno di teorie del complotto – e a vigilare armati nel giorno delle elezioni. E siccome negli States si può girare armati, non è da escludere che in qualche Stato, in qualche contea, il giorno del voto si aggirino miliziani armati. Non un invito ad andare a votare. E lo scopo, aldilà della retorica, è proprio quello: in uno Stato del Sud, se sei nero e magari anziano, a votare, se in giro c’è della gente armata e con la bandiera confederata, non ci vai.

2. La Clinton Incorporated

Non è stata una bella giornata per Hillary Clinton: un altro leak e una nuova serie di risposte imbarazzate che non entrano nel merito. Wikileaks ha diffuso un memo scritto dall’ex braccio destro di Bill Clinton e suo cervello organizzativo nella fase successiva alla presidenza, quella della Clinton Foundation. Nel memo di 13 pagine leggiamo che Douglas Band, così si chiama, lavorava per ottenere dalle grandi corporation soldi per la fondazione – e fin qui tutto normale, le donazioni sono pubbliche e la fondazione fa cose utili in giro per il mondo – e, parallelamente vendeva anche i discorsi di Bill negli eventi organizzati dalle corporation stesse. Non c’è niente di illegale o strano. Se non che la moglie di Bill era Segretario di Stato e che, una volta di più, il memo conforta la tesi che Donald Trump cerca di vendere, ovvero che la famiglia Clinton è una corporation dedita solo al proprio tornaconto personale. Trump è già all’attacco. Viceversa la campagna Clinton attacca gli hacker russi e Wikileaks ma non risponde nel merito. Il tema per Hillary è sempre lo stesso: aver commesso errori, non saperli ammettere, viaggiare e vivere sopra la testa degli altri e le regole.

3. Il sondaggio con le tazze da caffé

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Dal 2000 a oggi SevenEleven, catena di supermercatini in stile autogrill (un po’ di tutto, sempre aperti) fa un sondaggio chiedendo ai clienti che comprano il caffé, di che colore vogliono la tazza. Niente di scientifico, ci mancherebbe, ma dal 2000 a oggi il loro sondaggio ha funzionato. Non sappiamo cosa dice quest’anno, è ancora in corso. Intanto però nei sondaggi veri, Hillary Clinton accresce la sua forza in Stati difficili o impensabili come l’Iowa e la Georgia. Anche quanto a raccolta fondi il divario è grande: negli ultimi 20 giorni la democratica ha raccolto 57 milioni contro i quasi 29 dell’avversario. Un bel vantaggio: a pochi giorni dal voto si possono organizzare grandi campagne di registrazione e mobilitazione al voto. Cruciali negli Stati dove poche migliaia di preferenze cambiano il risultato. La seconda, i democratici, non la vincono dal 1992. Il comizio del giorno è quello di Hillary e Michelle Obama, che hanno parlato assieme dal palco. La campagna è sempre di più una campagna dei democratici: la sinistra parla negli Stati dove c’è da recuperare il voto bianco e operaio e gli altri altrove. Ohio, North Carolina e Florida i più battuti in questi giorni.

4. I millennials del NewYorker

Il NewYorker pubblica una bel servizio fotografico elettorale: un gruppo di elettori per la prima volta (molti giovani, qualcuno no) si fa ritrarre e spiega perché. Le foto e i racconti sono qui, ne segnaliamo un paio perché aiutano a capire il punto di vista, spesso strano, degli elettori. Ce ne sono entusiasti e impauriti: le minoranze sono più per Hillary, i bianchi degli Stati remoti per Trump. Ciascuno ha un motivo diverso: la disoccupazione, la paura, la necessità di riformare la polizia, il razzismo.

Prendiamo il 20 saldatore John Vigil, del Colorado, che voterà Trump. «La ragione principale è il Secondo Emendamento (quello che regola il diritto a portare armi). Per me, questa è una grande cosa. Noi in famiglia cacciamo, ed è così che sopravviviamo. È il nostro cibo. Se ci prendono le armi ci tolgono il cibo. Noi di solito andiamo a ottobre e se siamo fortunati prendiamo cinque alci e quattro cervi. La carne dura un anno e l’anno successivo torniamo. Lo usiamo per tutto, abbiamo bistecche, abbiamo costolette, hamburger. Non compriamo la carne di mucca». Fa quasi ridere ma significa entrare nella testa di una persona del West. Che si è lasciata convincere dal terrorismo di Trump: Né Clinton né un altro presidente potrebbe togliere i fucili da caccia a nessuno. Ma la propaganda ha funzionato.

Najila Abdulelah, 23 anni, nata a Baghdad e naturalizzata è per Hillary. «Voterò per Hillary Clinton ma lo dico esitando. Non è l’unico che ha votato per la guerra in Iraq, è lei a essere a un passo dal diventare presidente. Io però sento di non avere il lusso di molti altri di votare per un candidato terzo. Se io non votassi e Trump vincesse avrei fatto alla mia gente e ame stessa un torto. L’odio che vomita e la paura che sta alimentando hanno fatto credere alla gente che quel che dice sia la verità».

Comunque sia, se votassero solo i giovani per i repubblicani sarebbe una catastrofe. La mappa qui sotto è desunta dai sondaggi sui giovani. È quasi tutta blu, il colore dei democratici.

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5. Twitter chiude Vine

Che c’entra questo con la campagna elettorale? Un po’. Vine è la app che consente di caricare video di pochi secondi. Ma siccome Vine è proprietà di Twitter che continua a non fare profitti e ha annunciato che licenzierà 95 persone, Vine è un costo che si può eliminare. Quattro anni fa, o anche meno, la campagna sarebbe stata anche molto animata da Vine e dai suoi video. Occupy Wall Street e anche Black Lives Matter hanno documentato e diffuso via Twitter e non solo le loro manifestazioni e gli abusi della polizia grazie a questo strumento.Oggi però, tra Snapchat, dirette Facebook e altri strumenti, Vine è vecchio. È il paradosso dell’industria che lavora con la rete: tutto funziona, piace e invecchia alla rapidità della luce. Un’idea di desueto che fa sentire desueti.

Quei due. Con la spasmodica voglia di chiedere scusa

Stazione di Firenze. Tardi. Sono quasi le undici e si sforzano a star svegli gli ultimi treni. Quelli regionali li riconosci perché scaricano gente che non è mica arrivata: corrono per rincorrersi mentre vorrebbero essere già dentro la prossima tappa che sia un altro treno, il tram, un bus o la bici da slucchettare. I treni per Vienna invece sono animali stanchi con addosso attaccate tutte le notti passate a fare il treno, i passeggeri scendono sulla banchina per stirarsi, un comodino a forma di marciapiede delle fermate intermedie.

I treni piùà commoventi invece sono gli “alta velocità” che a Firenze cambiano anche senso di marcia e ogni volta a bordo qualcuno se ne stupisce ridendo a voce troppo alta. Dai treni ad “alta velocità” scendono a Firenze i “pendolari ad alta velocità” con i computer portatili che spuntano da una borsa chiusa di corsa; ci sono i lavoratori in trasferta con la voglia di chiedere più indennità la prossima volta; scherzano a spintoni gli studenti fuori sede; e poi ci sono quelli che sono pronti da tempo con la sigaretta infilata in bocca.

Da un treno per Salerno scende una coppia. Avranno forse ottant’anni mentre ruotano la testa come una bussola che ha perso il nord. Lei lo tiene sotto il braccio nonostante le troppe borse impigliate addosso e lui, più lento e stanco eppure protettivo, trascina una valigia che sembra avere una delle quattro ruote incastrate per come fila sguincia.

Arrivati nel centro della stazione, all’ingorgo tra chi esce e chi entra, si fermano spaesati. Lei gli dice di chiedere a qualcuno, a quel signore là che sembra una brava persona e non ha nè capelli lunghi, nè sguardo torvo e nè tatuaggi in vista. Lui osserva il candidato e poi desiste. No, no, dice alla moglie. Si va per di qua accenna con un movimento, sempre lento, della testa. E partono. Si incamminano.

Non so se sia un caso ma viaggiando molto incontro sempre anziani che sembrano voler chiedere scusa di essere ancora vivi eppure così disorientati, con la loro pudica paura di disturbare e il loro tenersi per mano. E ogni volta mi viene da pensare che abbiamo sbagliato qualcosa anche noi, se temono di disturbarci, loro: se si sentono un peso. E dovremmo andare lì e dirglielo. Si figuri, dire così, mi dica, mi chieda. Dirgli che siamo noi ad essere strani. Che siamo noi a dovergli chiedere scusa.

Buon venerdì.