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Pretty vacant

Il rottamaattore e le pontilimpiadi

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi durante la sua visita alla Glaxo di Verona dove è intervenuto sul Piano nazionale Industria 4.0, Verona, 27 settembre 2016. ANSA / US PALAZZO CHIGI - TIBERIO BARCHIELLI +++ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING+++

Caduta l’ipotesi Roma Renzi e i suoi fedeli paninari hanno avuto un’idea brillantissima: il team di creativi della presidenza del consiglio (laureati in twitterologia all’università di Vicchio di Rimaggio, più due specializzandi in powerpointologia) hanno partorito un’idea che coniugasse Olimpiadi, Ponte sullo Stretto e pensioni troppo basse.

«Caro premier» gli hanno detto durante la riunione di presentazione del progetto che si è tenuta a Villa San Martino ad Arcore per non dare troppo nell’occhio, «abbiamo pensato alle Pontilimpiadi. Costruiamo un ponte da Messina a Reggio Calabria (possibilmente a binario unico e senza certificazione antisismica per rispettare comunque le nostre tradizioni oltre che l’ambiente) che contenga un’apposita pista per centometri, duecento, tuttiglialtricentoecentodieci e per mezza maratona e maratona intera. Anzi, abbiamo pensato, per spersonalizzare l’opera anche a uno speciale percorso di una maratona e mezza che lei dovrebbe percorrere alla giornata di inaugurazione…»

(Il premier ha annuito. Con il pollice su, come annuisce lui alle riunioni internazionali per non cimentarsi con l’inglese)

«Poi» hanno proseguito i creativi (già licenziati dalla Lorenzin perché troppo avari di filtro seppia) «abbiamo pensato a un’associazione temporanea di impresa per dividersi il banchetto della valanga dei soldi: Impregilo che impregila, Pessina che pessina, Ilva per il controllo degli scarichi e degli scarti, Montezemolo che Montezemola in tutte le trasmissioni per magnificare l’opera, Malagò che picchetta il Campidoglio sullo zerbino della Raggi, lo Stato che al solito renzizza e Cosa Nostra alla direzione dei lavori…»

(E i gufi? Ha chiesto Matteo ormai schiavo della sua gufofobia)

«Per i gufi abbiamo pensato a un cordone sanitario di vecchietti che fissano a turno acca ventiquattro tutti i cantieri. E per evitare sterili polemiche dei signornò tutto il giorno continueranno a ciondolare in la testa in senso confermativo. Sarà un successo.»

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma non ci ha pensato già qualcuno? chiede Matteo)

«Assolutamente no. Quell’altro voleva solo un ponte. Il nostro invece è l’Italia che cambia. A forma di ponte» hanno risposto.

Applausi. Tappi di champagne e l’Italia che riparte. Un tripudio.

(Ma le pensioni? Che cazzo c’entrano le pensioni?)

«Beh, signor presidente, anche le cene eleganti di quell’altro non c’entravano un cazzo. Quindi le pensioni ce le buttiamo dentro così. Alla cialtrona. Anzi: alla moderna.»

Ben fatto. Ora però viene il difficile: bisogna preparare le slide.

Buon mercoledì.

Born to run, ma anche per soffrire e far volare. Ecco l’autobiografia di Springsteen

epa05450331 US musician Bruce Springsteen (L) performs during his concert at the Letzigrund Stadion in Zurich, Switzerland, 31 July 2016. EPA/WALTER BIERI

Se non hai visto il New Jersey, i suoi pier (moli) sbeccati e decadenti (o volgari e trash come Snooky Polizzi, la reginetta di Jersey Shore), le file di case a doghe, un tempo di legno e oggi di plastica, il paesaggio corrotto dall’uomo e immerso nell’acqua delle paludi accanto all’Hudson, i ponti arrugginiti e la natura selvaggia dell’interno… se non hai visto il New Jersey forse non capirai mai Bruce Springsteen. O forse lo capirai benissimo, perché la grande arte, popolare o colta che sia, parla degli umani, non di un posto X in un tempo Y. E quella di Springsteen è grande arte. Meglio ancora, è l’essenza del rock’n’roll.

Sessantasette anni qualche giorno fa, Springsteen ha appena tenuto il concerto più lungo di una lunga storia di concerti lunghi a Philadelphia: 4 ore, tre minuti e 46 secondi. E adesso, da oggi, manda online e sugli scaffali delle librerie del mondo Born To Run, la sua autobiografia che prende il titolo dalla sua canzone icona (già, quante ce ne sono?). E anche il libro è destinato a vendere una montagna di copie.

In Born to Run il Boss ripercorre vita e carriera, il padre depresso, come molti altri nel suo ramo della famiglia, la madre italiana, la rabbia e il disagio placati solo suonando, la depressione che sbuca più di una volta e che gli fa temere di ammalarsi gravemente come il suo vecchio, l’etica del lavoro assorbita dall’ambiente circostante, quello del New Jersey fatto di comunità di gente e dalla testa dura, immigrata decenni prima dall’Europa. E poi la E Street Band, esempio inossidabile di tenuta per un gruppo che gira, suona e invecchia assieme.

I fan del Boss – che quasi non nomina il nomignolo, che non gli piace – sanno già praticamente tutto quel che troveranno, ma qui è scritto con un punto di vista personale, intimo e apparentemente senza filtri, con una prosa bella, fatta di immagini chiare, nitide come quelle delle sue canzoni. Che parli del padre e delle figure paterne eternamente cercate perché sempre in cerca di qualcuno che si occupi di te, o del complicato rapporto con le donne.

La copertina del libro di Springsteen

La relazione con il padre, i suoi modi bruschi figli della malattia e di una cultura rude (che in New Jersey alla gente piace chiamarsi Jersey strong), i suoi six-packs (i pacchi di lattine di birra degli operai) torna molto nel libro come nelle canzoni di Springsteen. Quella fatica di vivere è una costante della sua vita fin da piccolo: i comportamenti strani della famiglia (lo strapparsi i capelli, le urla nella notte dello zio), non nominati, mai detti o affrontati come qualcosa di cui occuparsi, «per un bambino, erano semplicemente misteriosi, imbarazzanti e ordinari». E per questo la nascita del primogenito e alcuni altri momenti di intimità e affetto tra sé e Dutch Springsteen, vengono richiamati nella loro semplicità: una pacca, uno sguardo, una parola che per un momento – e per una vita – colmano la ricerca di relazione intima, di affetto.

Poi c’è il rapporto con il pubblico, con lo show da tre ore e mezzo come luogo per andare altrove, come ha detto di recente in un’intervista al Late night show di Steven Colbert : «La notte (lo show, il concerto) ha una sua vita…è organica e crea da sola i propri limiti, il proprio tempo e il proprio spazio. Io sono lì per portarti fuori dal tempo, per giocare con lo spazio e il tempo». Le quattro ore di concerto passano così, come una specie di terapia per sé e per i milioni di fan che viaggiano pur di vederlo suonare.

Con le sue canzoni e la verve dei suoi concerti, il ragazzo che, come lo ha descritto Steve Van Zandt, Little Steven, il suo chitarrista e amico, «guardava verso sempre il basso ed era considerato uno strambo» ci racconta come si possa essere sofferenti dentro e capaci di dare e darsi enorme energia e anche allegria e gioia. Nelle sue canzoni Springsteen racconta l’America e i suoi patimenti, quelli del New Jersey che decade, quelle di Youngstown, Ohio, dove le fabbriche non ci sono più, quelle della crisi del 2008. È l’America bianca che in parte pensa di votare Trump perché si sente lasciata indietro. È l’America bianca che Springsteen ama, racconta, cerca come può di rendere meno rancorosa. Il libro, come le sue canzoni, ci portano anche dentro a quella storia. Oltre a quella di un fenomeno musicale e culturale fuori dal tempo, che riempie stadi di giovani e vecchi come se dai giorni dello Stone Pony, il locale di Ashbury Park dove ha cominciato a suonare, non fosse passato un minuto.

Springsteen parla di Trump
«Se soffri, se non hai avuto la tua fetta di torta e fatichi a far andare avanti la tua famiglia, le soluzioni semplici di Trump possono essere persuasive. E l’idea che governare sia complesso, che devi aspettare è difficile».

Trump o Hillary? Dopo 10 anni ritorna il cast di Will&Grace con un episodio speciale a tema elettorale

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A dieci anni dalla messa in onda del finale della serie si riunisce il cast di Will And Grace, la famosissima sitcom americana. L’occasione è un mini episodio speciale a tema elettorale: e indovinate chi tra Will, Grace, Jack e Karen è intenzionato a votare per Donald Trump? Qui il video (esilarante) sottotitolato in italiano:

Left su Instagram dà spazio ai giovani talenti fotografici

Ogni settimana sul profilo instagram di Left (@LeftAvvenimenti) un giovane fotografo racconta con i suoi scatti le quattro parole che compongono l’acronimo LEFT: Libertà, Eguaglianza, Fraternità e Trasformazione. Abbiamo iniziato la settimana scorsa con Matteo Armellini che, passeggiando per le strade di Roma, ci ha mostrato scampoli urbani di libertà fra i tetti della capitale visti da una terrazza del quartiere Eur, in un orto segreto scovato per caso nella periferia di Roma sud, facendo un pic-nic sulle rive di un laghetto in un parco, esplorando magazzini che sembrano l’arca perduta.

Gazometro Roma

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

L’ arca perduta. Roma sud

Una foto pubblicata da Left (@leftavvenimenti) in data:

 

Questa settimana invece a gestire l’account di Left su instagram sarà Antonio Strafella, ecco il suo primo scatto alla Rampa Prenestina, un ex parcheggio che ora è utilizzato per ospitare festival o eventi underground.

 

Antonio è nato a Lecce nel 1982 crede fermamente nell’eternità dell’immagine. Con ogni mezzo, insegue e cattura visioni per creare frammenti d’immortalità. Vive e lavora a Roma.

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Antonio Strafella, autoscatto

Progetto curato da Francesca Fago, fotografa

Clinton mette Trump all’angolo. Sorridendo

Clinton e Trump durante il dibattito Tv a Hofstra
Democratic presidential nominee Hillary Clinton and Republican presidential nominee Donald Trump walk to their podiums to start the presidential debate at Hofstra University in Hempstead, N.Y., Monday, Sept. 26, 2016. (Joe Raedle/Pool via AP)

«Se andiamo avanti un altro po’ scopriremo che tutto quel che di male c’è in questo Paese è colpa mia». Non è stato un dibattito memorabile da punto di vista delle battute quello che Hillary Clinton ha vinto contro Donald Trump. Questa, detta con un sorriso sarcastico da parte della candidata democratica non è male: alle accuse di aver creato una situazione per l’economia disastrosa, l’ex first lady ha risposto così.
Il primo duello tra i due concorrenti alla presidenza degli Stati Uniti è stato interessante e ha detto alcune cose sulla capacità di Donald Trump di giocare a un gioco difficile. E mostrato che Hillary è più brava e preparata. E capace di mordere senza alzare troppo i toni.

Trump, che non ama prepararsi, aveva una strategia di corto respiro: accusarla delle disgrazie economiche che gli elettori della classe lavoratrice vivono. E nulla più: i trattati di commercio, il Nafta, l’economia che non va contrapposti alla capacità ed esperienza nel mondo degli affari. Ma finiti quegli argomenti di attacco e incalzato sulle politiche, Trump ha spesso finito con il bofonchiare cose. Come sulla guerra cibernetica: «Non stiamo facendo le cose come dobbiamo. Ho un figlio di 10 anni, molto bravo con i computer…fanno cose incredibili e l’aspetto della sicurezza è cruciale. E non stiamo facendo bene, come per il resto dlele politiche pubbliche. Ci sono molte cose che dobbiamo fare meglio e la cyber sicurezza è uno tra questi». Ovvero: non ho nulla da dire in materia, ma so che le cose vanno male.
Hillary, dal canto suo, è andata all’attacco del curriculum di Trump: gli affari fatti sulla pelle dei piccoli imprenditori e dei lavoratori (quelli che dice di voler proteggere), le tasse che probabilmente non paga, motivo per il quale non rende pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi.

Non ha dato risposte mirabolanti, non è stata capace di parlare al cuore degli americani oltre una certe misura, che non è il suo forte, ma non è stata prolissa. E, infine, quando incalzata sul tema dell’utilizzo di un server di mail privato, al tempo del Dipartimento di Stato, ha dato la risposta che avrebbe sempre dovuto dare: «Ho sbagliato, è stato un errore di cui mi prendo la responsabilità». Niente giustificazioni o giri di parole, il modo migliore per non dare al moderatore o all’avversario modo di tornare sul tema che la perseguita dall’inizio della campagna elettorale.
Risultato? Qui sotto leggiamo il labiale di theDonald: «Yes, she did a good job», dice, Si, è stata brava.

Ad alcuni attacchi di Hillary, come quello sulle tasse che non paga, la risposta è stata trumpiana: «Vuol dire che sono sveglio». Quando l’accusa era relativa all’aver approfittato, speculando, sulla crisi immobiliare la risposta è stata «Si chiama business». In più di un’occasione Trump ha detto quel che pensava e probabilmente non è quel che la maggioranza degli americani si vuole sentir dire. Tranne quelli già innamorati di lui. Se un dibattito serve a qualcosa è a parlare agli indecisi. E forse Trump non è stato affatto convincente, solido. Tanto più che ha dato segni di nervosismo ogni volta che si è trovato in difficoltà. Una dinamica che si è ripetuta in maniera crescente: più il tempo passava e più il non essersi preparato per il dibattito, non avere risposte adeguate, non aver pensato prima che quello avrebbe potuto essere un punto di attacco o di difesa, ha reso il candidato repubblicano che usa l’arma del populismo indifeso e nervoso.

Politiche? Su tasse e polizia, la contrapposizione è chiara e netta: Legge e ordine e meno tasse, da un lato, la necessità di ristabilire un rapporto decente tra comunità nera e polizia e far pagare di più ai ricchi dall’altro. Clinton ha collegato le proposte di Trump alle politiche repubblicane che hanno prodotto la grande crisi «non credo che dovremmo tornare a quell’epoca», lo ha attaccato per il suo record durante quella crisi (qui c’è la risposta, si chiama business) e spiegato che trasformando l’economia in direzione delle energie rinnovabili si crea lavoro. «Trump non crede al cambiamento climatico, io credo alle prove fornite dalla scienza, invece». La risposta del miliardario newyorchese è «Non ho detto questo». I fact checkers verificheranno su questo come su molta altra affermazioni sulle quali Trump è finito sulla difensiva sul tema del certificato di nascita di Obama o sui suoi privilegi – «Mio padre mi ha dato un piccolo prestito per cominciare» (14 milioni di dollari).
Trump ha spesso interrotto, si è lasciato andare a lunghe spiegazioni riguardanti vecchie polemiche furiose in cui è stato coinvolto (il massacro mediatico della conduttrice omosessuale Tv Rosie O’Donnell nel 2007), ha alzato le spalle, fatto smorfie, è apparso non a suo agio. E siccome lo schermo Tv era spesso diviso in due, in maniera da cogliere le espressioni di entrambi i candidati, uno che parlava, l’altro che ascoltava, il disagio di Trump si è notato.

C’è poi un aspetto che riguarda Hillary: non è apparsa come la più empatica delle candidate, ma la sua performance ha avuto un tratto femminile nel senso di una relativa leggerezza, sicurezza calma, anche quando era all’attacco. Il contrario del testosterone esibito di Trump. Molti sorrisi, non tirati come spesso le accade. E diverse buone frasi: «Donald mi sta forse criticando perché mi sono prepararata per questo dibattito. In effetti è così. Per cosa altro mi sono preparata? Per essere presidente. E credo che sia una buona cosa». Un atteggiamento che si vede bene nel breve video qui sotto: dopo una serie di attacchi, la risposta è un sospiro e un sorriso. Non male. Clinton ha vinto il primo dibattito in un momento difficile, con i sondaggi che la danno di nuovo quais alla pari. Da domani cominceranno a piovere nuovi numeri. Vedremo. Intanto Donald Trump, nella notte americana, twitta dei sondaggi TV che lo danno vincitore dle dibattito con l’80% dei consensi. Un modo un po’ puerile di fare spin, ma con il suo pubblico potrebbe funzionare.

Perché si vota il 4 dicembre

Il premier Matteo Renzi al teatro Metastasio di Prato per un'iniziativa pubblica a sostegno del Si' al referendum costituzionale, 24 settembre 2016. ANSA/ MAURIZIO DEGL' INNOCENTI

Hanno sicuramente ragione le opposizioni quando dicono che Matteo Renzi ha posticipato il più possibile la data del referendum costituzionale per recuperare terreno, e per far ingranare al meglio la campagna per il sì, che con i primi manifesti sta inondando le città – dopo aver pienamente inondato il web e, soprattutto, i tg – con i suoi argomenti più efficaci. «Per cancellare poltrone e stipendi», dice ad esempio il manifesto arancione, che ovviamente enfatizza la nascita del nuovo Senato (che non è l’abolizione del Senato) e la chiusura del Cnel, sorvolando sul fatto che si sarebbe ottenuto persino un risparmio maggiore se, invariato il numero di eletti, o calato di un terzo sia il numero dei senatori che quello dei deputati, si fossero tagliate banalmente le indennità: non ci sarebbe stato neanche bisogno di una legge costituzionale.

Matteo Renzi sceglie di trasformare quello che per mesi è stato il referendum di ottobre nel referendum di dicembre, però, perché vuole mettere sul piatto della consultazione pesi ben più concreti della pura propaganda elettorale. In particolare, come facile immaginare, Matteo Renzi vuole spendersi la manovra di bilancio, che così arriverà a compimento giusto prima del voto e conterrà, questo è ormai chiaro, una mossa come quella degli 80 euro per le ultime europee. Non per niente il premier sta cercando di rosicchiare mezzo punto di deficit con Bruxelles, passando dall’1,8 previsto magari al 2,4. Bisogna mettere in campo qualcosa in più dei 600milioni promessi per l’anticipo pensionistico, misura che rischia di non esser così popolare (così come scarsamente apprezzato si è rivelato l’anticipo del Tfr, un vero flop) e che ha saldo negativo se paragonata al taglio annunciato per la Sanità: un miliardo, almeno.

Dunque Matteo Renzi aprirà (di nuovo) la sua campagna per il sì il 29 settembre da Firenze, e avrà dieci settimane per affermare le sue ragioni. Giorni che servono tutti, anche perché palazzo Chigi – consapevole che questa volta, senza quorum, vince chi porta più indifferenti alle urne – ha deciso di puntare sugli italiani all’estero, più sensibili di chi già da un anno si nutre della sua retorica al fascino del nuovismo. Maria Elena Boschi vola anche per questo il Sudamerica, ed è solo uno dei viaggi previsti. Quattro milioni di connazionali voteranno per posta e voteranno venti giorni prima di noi, e quindi bisogna subito concentrarsi su di loro, andare lì dove il comitato del No fatica più ad arrivare. C’è poi il fattore “giorno del giudizio”, poi, perché il 4 dicembre si vota anche in Austria, dove avanza la destra, e la campagna potrà trasformare il voto in una sorta di spartiacque, da un lato il populismo, dall’altra la responsabilità. Tutto ciò, ovviamente, avendo comunque cura di organizzare una degna exit strategy. Ma il Quirinale sembrerebbe al momento orientato – in caso di sconfitta e crisi – a dare ancora un mandato a Renzi, senza guardare subito al candidato che stanno facendo circolare i bersaniani, che pensano a un maxi governo Calenda per rifare un’altra riforma, più snella, una legge elettorale e traghettare tutti al voto nel 2018.

Peace and Law

Il referendum di ottobre si terrà a dicembre

Il consiglio dei ministri ha deciso la data del referendum
Palazzo Chigi durante il Consiglio dei Ministri, Roma, 26 settembre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Fantastico. Ieri il Consiglio dei Ministri si è riunito per decidere finalmente la data del referendum sulla riforma costituzionale altresì detta Renzi-Boschi: si vota il 4 dicembre. Dice Renzi che i tempi rientrano perfettamente nei termini stabiliti dalla legge, come se ci facesse un piacere e soffia nelle corno della battaglia finale.

Matteo Renzi il 4 maggio ospite di Porro a Virus aveva detto: “spero si voti il 2 ottobre”. Sembra un’altra epoca e in effetti lo è: il referendum che doveva servire per un’incoronazione per acclamazione oggi è un bordo molto scivoloso per il premier e per molti membri del governo. Meglio rimandare, quindi, per riorganizzare le truppe, confidare in dati economici migliori in vista della prossima manovra finanziaria e per un clima prenatalizio e infreddolito che assopisca gli spigoli.

Nella sua newsletter è il solito Renzi: “La partita è tutta qui. Qui e ora. Chi vuole cambiare, ci dia una mano. Dandoci del tempo, chiamando un po’ di amici, facendo il volontario sulla rete o tra la gente. Oppure costituendo un comitato”. Il premier sembra aver cambiato idea sull’eccessiva personalizzazione del referendum: «Come fare è spiegato su www.bastaunsi.it dove chi vuole può anche dare un piccolo contributo economico, prezioso per la campagna di comunicazione, che abbiamo iniziato a far girare. Ogni sforzo è importante – scrive – Può persino essere decisivo. La partita è adesso e non tornerà. Non ci sarà un’altra occasione. Sono certo che non la sprecheremo».

È il tempo della propaganda, quindi. I sondaggi negativi hanno convinto il governo a prendersi tutto il tempo disponibile per invadere le case degli italiani con tutta la banda di giornalisti a disposizione. Ci diranno che è il tempo necessario per parlare del merito della riforma. E fa niente se non si sono concessi il tempo di ascoltare gli emendamenti in Parlamento: Renzi il bulletto ha aspettato il suono della campanella per dirci “vi aspetto fuori”. Sembra una disputa da scuola media. E fa niente se di mezzo c’è la Costituzione.

Ora il segreto è non accettare quella sfida. No. Continuare a illustrare i troppi punti deboli di una riforma che sguarnisce i preziosi contrappesi della Costituzione e la dignità degli elettori e il valore delle autonomie locali. Scriveva Calamandrei (un vecchio gufo partigiano) nel 1935: «Il rinvio, simbolo della vita italiana: non fare mai oggi quello che potresti fare domani. Tutti i difetti e forse tutte le virtù del costume italiano si riassumono nella istituzione del rinvio: ripensarci, non compromettersi, rimandare la scelta; tenere il piede in due staffe, il doppio giuoco, il tempo rimedia a tutto, tira a campa’.»

Buon martedì. Buona campagna referendaria.

Il commercio di avorio ha decimato gli elefanti africani

FILE--In this file photo of Monday Dec.17, 2012, a herd of adult and baby elephants walks in the dawn light as the highest mountain in Africa, Tanzania's Mount Kilimanjaro, is seen in the background, in Amboseli National Park, southern Kenya. Some African elephant herds are adapting to the danger of poaching by moving out of risky areas, according to one conservation group. The plight of elephants is a key issue at the meeting of the Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora, or CITES, which began over the weekend and ends Oct. 5. (AP Photo/Ben Curtis, File)

Un censimento dall’alto per fotografare un declino preoccupante. È questo il risultato del Great Elephant Census, un censimento degli elefanti africani per contarli. Il rapporto è stato presentato alla conferenza sulle specie a rischio International Union for Conservation of Naturein corso alle Hawaii, mentre a Johannesburg si riuniscono i delegati dei 180 Paesi che hanno firmato la Convention on International Trade in Endangered Species, la convenzione che vieta il commercio delle specie a rischio.

I numeri fanno spavento: gli elefanti africani sono diminuiti di circa 111.000 unità negli ultimi dieci anni a causa del bracconaggio. Si tratta di un tracollo dovuto al commercio di avorio e alle discussioni su come impedirlo – o governarlo. Due visioni opposte: una dice, fateci commerciare, è un modo per evitare il bracconaggio, l’altra è per il divieto assoluto.

Secondo il Censimento aereo degli elefanti, un lavoro cominciato diversi anni fa e concluso anch’esso in queste settimane, gli elefanti africani sono invece 352.271 sparsi in 18 Paesi, e sono diminuiti del 30% (144mila unità) in 7 anni. La mappa interattiva del censimento è qui

In this file photo taken Tuesday, March 9, 2010, elephants use their trunks to smell for possible danger in the Tsavo East national park, Kenya. Some African elephant herds are adapting to the danger of poaching by moving out of risky areas, according to one conservation group. The plight of elephants is a key issue at the meeting of the Convention on International Trade in Endangered Species of Wild Fauna and Flora, or CITES, which began over the weekend and ends Oct. 5, 2016. (AP Photo/Karel Prinsloo, File)
Elefanti in Kenya (AP Photo/Karel Prinsloo)

Secondo il rapporto Iucn presentato anch’esso in questi giorni il numero è più alto: 415mila. In aree turistiche o con più controlli nei parchi, come in Uganda, Kenya e in Ruanda, il numeor è leggermente cresciuto. È nella parte sud del continente africano, dove la presenza del pachiderma è più alta (e dove i governi spingono per il commercio) che si registra la diminuzione più marcata, come pure in Tanzania.

FILE - In this Thursday, June, 2, 2016 file photo, a Zimbabwe National Parks official holds an elephant task during a tour of the country's ivory stockpile at the Zimbabwe National Parks Headquarters in Harare. Africa is divided over how to conserve elephants whose population has plummeted in the last decade.Namibia, Zimbabwe and South Africa favour selling ivory stockpiles but are opposed by about 30 African countries that want to tighten an international ban on the ivory trade. (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi, file)
Un guardiaparco in Zimbabwe in un magazzino di zanne, quelle che il Paese vorrebbe commerciare (AP Photo/Tsvangirayi Mukwazhi, file)

Migliaia di ambientalisti e funzionari governativi si riuniscono per 12 giorni a Johannesburg alla ricerca di nuove regole per il commercio internazionale per proteggere una vasta gamma di specie diverse, con proposte alternative sull’opportunità di restringere o allentare i controlli sul commercio di avorio. Il 2011 è considerato un anno particolarmente disastroso per il bracconaggio. Spesso gruppi ribelli lo praticano come forma di finanziamento – è il caso dei Janjaweed in Sudan, ad esempio.

Immagini aeree di elefanti riprese durante in censimento