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Corbyn al Labour sventola The red flag. La bandiera rossa tanto odiata da Blair

Jeremy Corby, 28 September 2016. EPA/JON SUPER


The people’s flag is deepest red. La bandiera del popolo è di un rosso profondo. Jeremy Corbyn chiude il congresso del Labour a Liverpool con uno schiaffo in faccia a chi lo accusa di esser vecchio. Anzi, con un pugno. Con una moltitudine di pugni. “Il socialismo in cui credo è quando tutti lavorano per lo stesso obiettivo”, ha detto, prima di invitare i militanti sul palco e per cantare “The Red Flag”. In prima fila una donna con una t-shirt rossa con su scritto “Orgogliosa di essere socialista”. “The Red Flag” è l’inno ufficiale del Labour inglese, intonato in Parlamento durante alcuni passaggi politici epocali. Fino al 2006, anno del centenario della fondazione del partito. Dopo, con Tony Blair, la sua esecuzione è stata vivamente scoraggiata. Fino ad oggi.

The red flag sono i versi del militante indipendentista e socialista irlandese Jim Connell, cantati sulla melodia della natalizia “O Tannenbaum” del compositore tedesco Ernst Gebhard Salomon Anschütz, anche se Connell aveva immaginato il ritmo dell’inno pro-giacobita composto da Robert Burns, “La Coccarda Bianca” (The White Cockade). Jim Connell scrive queste parole in treno, da Charing Cross ad Honor Oak, a sud di Londra, casa sua. Di ritorno dalla riunione dei portuali di Londra in sciopero. È l’agosto del 1889, e pare che l’ispirazione sia stata lo sventolio della bandierina rossa del capotreno.

Il bimbo Fela e la sua sacca di dischetti

Questo racconto accompagnato da una selezione musicale è stato realizzato da Daniele de Michele aka Donpasta per sostenere l’appello di Intersos per la protezione dei bambini vittime della guerra. È possibile contribuire inviando un sms solidale al 45501 fino all’1 ottobre

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Arrivai con una borsetta avvolta in una frigolette.
Era pesante per me, ma fu l’unica cosa che lui mi lasciò.
Lo vidi sparire nel mare, ma prima che ciò accadesse mi lasciò una sacca attorno al collo.
Furono gli occhi l’ultima cosa che vidi scomparire, assieme alla mano, che scivolava lentamente dalla barca in tempesta.
Poi gli occhi, i miei, si bagnarono di lacrime e vidi sempre peggio, le mie urla non mi facevano ascoltare le sue parole, l’abbraccio stretto di una donna fu per proteggermi ma mi tolse la forza di gettarmi con lui, papà.
Cosa ci fosse in quella sacca, ve lo spiego ora, a distanza di pochi anni, sufficienti a farmi diventar grande troppo presto, addolorato per sempre.
Mi chiamo Fela ed ho quattordici anni, ma quando mi ritrovai con quella borsetta in collo ne avevo solo otto. Magari lo conoscete in tanti il mio nome, ma non perché conosciate me, che sono piccoletto.
A distanza di anni, posso dire che quel nome era la causa del dolore. Come se babbo e quel nome fossero in fondo legati da un tragico destino. Ma questo l’ho scoperto solo dopo.
Scoprii sopratutto che fu una maledizione quella sacchetta, perché era la ragione della nostra partenza, origine della rabbia sua, prima, e della rabbia mia, poi.
Ma papà alla partenza mi disse che tutto significava quella sacchetta, che fu l’origine di me, e che io non potevo non portarmela appresso la mia origine.
Cosa c’era in quella sacchetta?
Dischi, 45 giri, sette pollici, non so come li chiamiate.
Ebbene si, sono arrivato senza vestiti, senza soldi, senza papà e la mamma non c’era già più.
Arrivai solo, con una piccola sacca di venti piccoli dischi.
“Faremo festa noi con questi venti dischi al nostro arrivo”, mi disse prima di partire papà.
Quando arrivai non avevo nessuna forza, nessuno spazio dove far festa, nessun piatto dove posare i vinili per fare una festa, ma quel sacchetto era l’unica cosa che avevo e me lo tenni stretto al corpo.
Cosa centra un viaggio con dei dischi? E l’amore? E la rabbia, il dolore, l’assenza?
Semplice, nella sua ingiustizia: Papà amava far le feste e le feste sono fatte di felicità e non tristezze, né rabbia. Ed era un maestro di cerimonia con i suoi dischi.
Perché avere un negozietto di dischi può sembrare una impresa commerciale, di qualcuno che vende un oggetto fisico. No, è un luogo dove la gente va a ballare, almeno questo è quel che vedevo.
E poi quei dischi a papà servivano per far ballare anche fuori, nei baretti.
Quello che mi disse è che l’amore con mamma nacque in una di quelle notti, che mamma era troppo bella e che sapeva ballare troppo bene e che loro si amavano e che mi fecero dopo tanti notti d’amore, che poi magari era proprio alla prima notte d’amore, ma insomma poco importa. Mi disse che l’amore nacque a causa di questa canzone.

Letta M’bulu – What’s Wrong Is Grovin

Poi arrivò dopo la rabbia, in lui prima, ragione della nostra partenza, e ora in me, al mio arrivo.
Ma sapevo anche che io non sarei potuto esser fatto di sola rabbia, perché in quella borsetta c’era l’origine di un amore tra un uomo e una donna che diedero vita a un bimbo, che sono io, Fela.
Ma sapete voi chi fosse Fela Kuti, da cui ricevetti il nome in eredità?
Un rivoluzionario, un uomo che faceva festa, amava tanto, forse male, ma che usava parole di fuoco contro tutti gli ingiusti.
Ecco papà era lo stesso, faceva festa bellissime sotto la luna, la gente era felice, ma tra una canzone e un’altra usava il microfono e urlava e inveiva, e la gente ballava e si infiammava anch’essa.
Ci stavano togliendo ogni cosa, c’erano i cattivi che rubavano, c’erano i cattivi per le strade, noi non avevamo niente e poi vedevi delle grandi macchine con uomini bianchi e neri assieme. E noi niente e niente. Questo diceva papà al microfono.
Solo che quelli non vanno mai per il sottile. Non andarono per il sottile con Fela Kuti tanti anni fa, non andarono per il sottile con papà.
Entrarono nella sera tarda, alla fine, quando erano in pochi. E papà e mamma ballavano, come sempre a fine festa. Io dormivo dietro il bancone del bar.
Mi svegliai per le urla e il dolore, riconobbi le strilla di mamma. Papà lo distrussero di botte e presero lei. Ma quello che vidi dopo non lo ricordo bene, qualcuno mi portò via da li, chiudendomi la bocca perché non strillassi.
Andarono come macellai su mia madre, questo l’ho capito solo ora, perché dopo quella notte io e papà scappammo di corsa, senza di lei, noi e quella sacca ancora piena di sangue.
Papà mi disse che avremmo fatto festa dopo quel viaggio, ma non sorrideva più, si assentava, mi stringeva forte ma non pensava a me, pensava a mamma.
Quando arrivai, qualcuno mi vide solo e con quella sacchetta, con gentilezza la aprì.
C’erano venti vinili, troverete i titoli, in fondo alla mia lettera.
C’era anche una lettera di papà, per fortuna non si rovinò e non si bagnò.
No, non ho più rabbia in corpo, forse sorrido poco.
Ma quell’uomo che mi accolse organizzò una grande festa per me e mi regalò un piatto dove mettere i miei venti dischi, che poi diventarono tanti e poi tanti, perché molti iniziarono a venire alle mie feste.
Allora ricordate sempre che ogni bimbo porta tante cose in cuore.
Io avevo una valigetta, dei dischi e una storia d’amore che mi diede nascita.
E ci fu qualcuno che fu pronto ad ascoltarla.

Dal contenuto della lettera di papà:

Ciao Fela, Amore Mio
Non ho resistito, sono stato un disastro.
Per l’amore a te, l’amore a tua mamma, dovevo star zitto, dovevo star calmo.
Dovevo guardare senza incazzarmi.
Ci sono tante volte in cui anche con il peggio infame è meglio cambiar strada, che tanto loro quella strada se la sono presa militarmente. E tu puoi anche incazzarti, ma loro sono più forti.
L’ho sempre saputo, me lo hanno sempre detto.
Ma io troppo scemo sono stato, egoista.
Pensavo che tutta quella gente a far festa, quella musica, che ci rendeva felici, le danze con tua mamma, il tuo sorriso, ci avrebbero sorriso per sempre.
Stiamo scappando e non so cosa il destino ci riserverà.
Chissà se qualcuno si porrà mai la questione del perché un uomo scappi, del cosa un uomo debba fare per andare via, del dolore da lasciare.
Come un uomo può non capire un altro uomo che ha perso tutto, ha perso l’amore più profondo, ha perso la certezza stessa di essere uomo, al punto di esser pronto a non aver più nulla pur di continuare a esistere in quanto uomo.
Ti porto con me in questo viaggio, conseguenza di un errore e un amore.
Sei il frutto di qualcosa di sacro, tu bimbo io e spero che qualcuno ti proteggerà, perché sappilo, tra te e me, se dovrò salvare qualcuno, sarai tu, costi quel che costi.
Io resterò in te, per sempre.
Tu affidati all’amore che ti ha dato nascita, portalo nei tuoi occhi.
Spera che dall’altra parte del mare ci sarà qualcuno che prima della pietà ne riconoscerà la bellezza.
E poi fagli sentire la nostra musica.
Magari piacerà anche a loro.

Tuo, papà, per sempre.

Una valigetta, dei dischi e una storia d’amore.
La playlist di Donpasta per Intersos

Amnesty contro l’Ungheria sui migranti: xenofobia, violenze e diritti violati

Migranti e profughi bloccati nella 'terra di nessuno' al confine serbo-ungherese di Horgos davanti alla barriera di filo spinato eretta dagli ungheresi, 15 settembre 2015.

«Il primo ministro Viktor Orbán ha sostituito lo stato di diritto con uno stato di paura. Il suo intento di impedire a rifugiati e migranti di entrare in Ungheria è stato accompagnato da una serie ancora più preoccupante di attacchi nei loro confronti e contro le garanzie internazionali che dovrebbero proteggerli», accusa John Dalhuisen, il direttore di Amnesty International per l’Europa, a commento della pubblicazione del rapporto-denuncia di Amnesty Speranze abbandonate: l’attacco dell’Ungheria ai diritti dei rifugiati e dei migranti.

Il report di Amnesty si basa su 143 interviste (a 129 rifugiati, di cui 21 bambini, 41 donne e 67 uomini) svolte tra il 5 e l’11 agosto 2016 nelle zone di frontiera e nei centri di accoglienza in Serbia,  Austria e Ungheria.

«Il trattamento orribile loro riservato e l’adozione di procedure d’asilo labirintiche rappresentano un cinico stratagemma per scoraggiare i richiedenti asilo a raggiungere e varcare una frontiera sempre più militarizzata. Nel contesto della deleteria campagna referendaria, la velenosa retorica anti-rifugiati sta raggiungendo i suoi massimi livelli», continua John Dalhuisen.

La condanna di Amnesty alla militarizzazione e alla criminalizzazione delle procedure di accoglienza da parte del governo di Orbán giunge dopo numerosi appelli rivolti alla comunità internazionale contro la “prassi dei respingimenti”, che ha messo in allarme anche la Commissione Europea e UNHCR.

 

Il sistema di “accoglienza” ungherese

Lungo la barriera di filo spinato che percorre i 175 chilometri di confine tra Serbia e Ungheria, si aprono due varchi chiamati “zone di transito”. Le zone di transito sono dei container metallici in cui la polizia frontaliera interroga trenta migranti al giorno, mentre a pochi metri stanziano, anche per mesi, quelli che non possono entrare – quando Amnesty ha svolto le interviste erano 600 le persone in attesa di entrare o di essere rispediti indietro.

Per chi proviene dalla Serbia non c’è nessuna possibilità di entrare in Ungheria, perché le autorità magiare considerano al Serbia un “terzo paese sicuro” da cui non è necessario scappare. Ai migranti rispediti indietro non resta che trovare rotte alternative per raggiungere l’Europa via terra. 

Una volta superato l’esame nelle “zone di frontiera”, i trenta richiedenti asilo giornalieri sono smistati in centri di accoglienza e di detenzione – soprattutto gli uomini senza famiglia – dove stazionano anche per settimane, in condizioni igieniche, fisiche e psicologiche pessime. «La polizia e gli addetti alla sicurezza sanno che ci sono un sacco di telecamere in giro, così portano i detenuti in parti del centro dove nessuno può vederli e li picchiano», racconta un richiedente asilo palestinese intercettato da Amnesty in Ungheria. I poliziotti che ha incontrato e che lo hanno picchiato – continua il testimone – gli hanno intimato «Possiamo farvi tutto, pure se fate denuncia non vi darà retta nessuno».

La prassi ungherese, dichiara Amnesty, è la detenzione: durante le sue indagini (agosto 2016), Amnesty ha verificato che il 60 per cento del 1200 richiedenti asilo registrati in Ungheria si trovava nei centri di prigionia. 

 

Il “modello ungherese”

Amnesty la definisce la “campagna della paura”, Orbán la chiama il “modello ungherese” la barriera fisica e legale anti-migranti che il governo magiaro ha innalzato negli ultimi due anni.

A luglio del 2015 l’Ungheria ha ultimato la costruzione del muro di filo spinato al confine con la Serbia, poi prolungato lungo il confine croato, e poco dopo ha cambiato la legge sull’asilo politico, per velocizzare i controlli sulle richieste e per rimpatriare gli immigrati clandestini.

Contro quelli che Orbán definisce “il veleno della società”, ad aprile scorso il primo ministro ungherese ha proposto alla Commissione e al Consiglio Europeo un piano di controllo frontaliero nuovo chiamato “Schengen 2.0.”.

In risposta alla proposta della Commissione Europea di distribuire a ogni paese membro delle quote obbligatorie di migranti, Orbán ha presentato un progetto che in dieci punti propone la formazione di una polizia frontaliera comune europea, rifiuta le quote dei migranti obbligatorie e accusa le politiche migratorie europee di essere dei veri e propri “inviti” ad attraversare il mare.

In risposta alla nuova legge sull’asilo politico e ai provvedimenti proposti da Orbán all’Europa, a dicembre 2015 Bruxelles ha risposto con l’apertura di un procedimento contro l’Ungheria per incompatibilità con il diritto europeo, soprattutto in materia di asilo, e per il mancato rispetto del diritto alla traduzione che spetta ai migranti.

Ma il paese di Orbán continua a muoversi in autonomia rispetto ai migranti e il 2 ottobre andrà al voto in un referendum popolare sull’abolizione delle quote obbligatorie dei migranti, rispondendo alla domanda: “Volete che l’Unione europea, anche senza consultare il Parlamento ungherese, prescriva l’immigrazione in Ungheria di persone che non sono cittadini ungheresi?”

I sondaggi sembrano non avere dubbi: il popolo magiaro sarà in linea con il governo e voterà no.

 

OCD Love. Sharon Eyal fa danzare l’ossessione d’amore

L’amore come compulsione, ansia, mania, ossessione. L’amore come un pugno stretto attorno al cuore, letto nelle sue mille sfumature, è questo il tema attorno al quale ruota OCD Love, la coreografia di Sharon Eyal della L-E-V Company, proposto all’interno della programmazione del Romaeuropa festival e in scena fino a questa sera al Teatro Argentina. ODC è una sigla che sta infatti per disturbo ossessivo compulsivo, ovvero quel disturbo psichiatrico che porta una persona ad eseguire una serie di rituali anancastici, di gesti ossessivi e compulsivi per placare i propri stati d’ansia: spegnere e accendere la luce più e più volte prima di uscire da una stanza, controllare mille volte se il gas è chiuso, camminare evitando di calpestare le fughe delle piastrelle o le crepe dei marciapiedi, lavarsi le mani di continuo. E in OCD Love Eyal riesce a tradurre alla perfezione in danza, armonia e movimento il ritmo scomposto della compulsione, ricomponendo in un insieme armonico le ansie, i tic e le paure dell’universo relazionale.

OCD LOVE Trailer 2 from L¬E¬V Sharon Eyal | Gai Behar on Vimeo.

 

Ad ispirare la coreografa israeliana nella realizzazione dello spettacolo è stato lo slam poem “OCD” scritto da Neil Hilborn (qui una sua performance per farvi capire meglio di cosa si tratta).
Avvolti dal buio e illuminati da fari che creano un costante gioco fra luci e ombre, bianco e nero, i muscoli e i corpi perfetti dei ballerini rapiscono completamente l’attenzione dello spettatore, lo emozionano, lo accarezzano, lo soffocano, lo travolgono.

OCD LOVE trailer 1 from L¬E¬V Sharon Eyal | Gai Behar on Vimeo.

«Per tutti i miei spettacoli la mia fonte di ispirazione primaria è la vita – racconta Eyal – la vita, in ogni suo istante. In questo caso lo è anche l’amore che è dappertutto. Sono attratta dalle emozioni forti, amo piangere, divertirmi, provare empatia, sentirmi debole. Mi piace sentirmi come se il mio cuore si muovesse da una parte all’altra del corpo e, nel frattempo, immaginare, pensare, sognare». Ed è esattamente così che ci si sente di fronte a OCD Love.


«Sono attratta dalle emozioni forti, amo piangere, divertirmi, provare empatia, sentirmi debole. Mi piace sentirmi come se il mio cuore si muovesse da una parte all’altra del corpo e, nel frattempo, immaginare, pensare, sognare.»

Sharon Eyal


Complice del successo della performance è anche la musica che trasforma l’intera coreografia in un sogno dolce e al tempo stesso animalesco, quasi a ricordarci quanto l’amore, come raccontavano già i lirici greci, sia una «dolce amara invincibile fiera».
Il merito è tutto di Ori Lichtik, musicista e amico fraterno di Eyal, che durante lo spettacolo realizza, dietro le quinte, un vero e proprio live set evocando e mixando ritmi tribali, a sonorità clubbing e musica classica.

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L’effetto che si ottiene è straordinario. Assoli sulle punte e movimenti lenti si alternano a contorsioni e ad una gestualità a tratti quasi frenetica nella quale anche i tremori diventano danza. A fare da sfondo alla fenomenologia d’amore l’eco dei violoncelli che si fondono con il ritmo dei bassi, frammenti di techno che arrivano a confondersi con il battito del cuore e che spesso i ballerini accompagnano con il suono delle mani battute sul petto come a ricordarci che il corpo è una gran cassa, uno strumento che suona e che parla tanto quanto la nostra testa.

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Ed è proprio da questo stare lì sospesi, in costante equilibrio su un filo teso fra corpo e mente, come funamboli assieme ai ballerini – sulle punte, di corsa, a volte quasi rischiando di cadere nel baratro – che si sviluppa la sensualità passionale e magnetica, compulsa ed elegante di OCD love.
Chiuso il sipario, prima che si alzino di nuovo le luci in sala, vengono in mente le parole di una poesia di Derek Walcott:

Il pugno stretto intorno al mio cuore
si allenta un poco, e io respiro ansioso
luce; ma già preme
di nuovo. Quando mai non ho amato
la pena d’amore? Ma questa si è spinta
oltre l’amore fino alla mania. Questa
ha la forte stretta del demente, questa
si aggrappa alla cornice della non-ragione, prima
di sprofondare urlando nell’abisso.
Tieni duro allora, cuore. Così almeno vivi.

Poi, applausi:

Def, ovvero l’austerity “light” di Renzi e Padoan

Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi (s) e il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan a Palazzo Chigi
Il Presidente del Consiglio Matteo Renzi (s) e il ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan a Palazzo Chigi

Il Consiglio dei ministri ha approvato la Nota di aggiornamento al Documento di Economia e Finanza (NaDEF) 2016 con le nuove previsioni sull’economia e la programmazione per gli anni futuri. Rivedute al ribasso le stime di crescita per quest’anno: solo lo 0,8 per cento contro l’1,2% previsto ad aprile. Il bilancio pubblico segnerà quest’anno un meno 2,4% del Pil. Per il 2017 il deficit viene programmato al 2%, ma il governo dovrebbe riuscire a spuntare un altro 0,4% per finanziare le emergenze: terremoto e immigrazione. Sarebbe un risultato non piccolo considerando che l’impegno con l’Ue era di portare il deficit all’1,8% e che ormai le clausole di “flessibilità” erano già state sfruttate, ma molto meno di quello che servirebbe a far riprendere l’economia.
Continua così l’austerity “light” – meno light per noi e più per altri (come Spagna e Portogallo) – che si inserisce in prospettive di crescita sempre più asfittiche. Nell’autunno del 2015 il governo aveva previsto una crescita dell’1,6% nel 2016, poi abbassata all’1,2% in aprile e oggi, come dicevamo, ulteriormente ridotta a 0,8%. Per il 2017 le previsioni partono dall’1% (erano all’1,4% ad aprile), ma c’è da aspettarsi che la sfiducia crescente sul nostro settore bancario e i riflessi delle tensioni intra-Ue porteranno il dato finale sensibilmente al di sotto di questa previsione.

Risultati così modesti tuttavia non sono solo il risultato di fatti oggettivi, ma anche della linea economica del governo, tutta incentrata alla riduzione delle tasse e non all’aumento della spesa, che ha moltiplicatori maggiori e quindi potrebbe aiutare il paese a crescere. Renzi ha infatti puntato tutto su “bonus” e sconti fiscali ad hoc (tra cui i famosi 80 euro) peraltro non permanenti, e quindi dall’effetto effimero. In più gran parte della manovra di finanza pubblica è incentrata sull’evitare che scattino le “clausole di salvaguardia”, cioè gli aumenti di imposte (in particolare l’Iva) che si attiverebbero automaticamente nel caso vengano mancati gli obiettivi di finanza pubblica. Dei 25 miliardi di interventi previsti per il 2017, infatti, il 60% è devoluto a questo obiettivo. Il che in soldoni significa ridurre le spese per evitare che aumentino le tasse, con un effetto netto che risulterà comunque recessivo. Lo stesso Renzi pare essere cosciente degli errori che ha commesso quando parla di dimezzamento degli investimenti pubblici quale causa del perdurare della crisi. Ma a parte le parole, anche quest’anno la politica economica sarà indirizzata verso la riduzione della spesa.

Nonostante i proclami altisonanti dei giorni scorsi, insomma, la coppia Renzi-Padoan decide di allinearsi alle richieste dell’Ue, trattando sui decimali. Il che significa che di tutte le promesse fatte (“Casa Italia”, flessibilità sul pensionamento, i 13 miliardi promessi da Calenda per l’industria 4.0, e l’ultima, il Ponte di Messina) si riuscirà a salvare ben poco. C’era un’altra strada? Molti ritengono che il governo dovrebbe semplicemente ignorare le richieste della Commissione e aprire un conflitto politico con l’Ue per ottenere non una occasionale flessibilità, ma margini ampi, almeno pari a quelli di fatto concessi ad altri paesi periferici (e in parte anche alla Francia). Forse, avranno pensato Renzi e Padoan, le condizioni politiche non sono ancora mature per una sfacciata disubbidienza. E però se nessuno prenderà presto l’iniziativa il rischio è che ci si trascini ancora nella stagnazione, per poi scoprire tra non troppo che i deficit serviranno comunque per salvare il sistema bancario debilitato da 8 anni di crisi.

Condannato il jihadista che devastò i mausolei di Timbuctù. Ecco perché è una sentenza storica

Timbuctu

Per la prima volta chi ha distrutto il patrimonio culturale  viene condannato dalla Corte Internazionale dell’Aia. La condanna a 9 anni di carcere riguarda il jihadista Ahmad Al Faqi Al Mahdi, reo confesso di aver attaccato nove mausolei di Timbuctu. E segna un punto importante nella giurisprudenza internazionale. Il processo è stato rapidissimo anche perché l’imputato si è dichiarato colpevole. E ora è scritto nero su bianco che la distruzione del patrimonio d’arte è «un crimine di guerra». Per la prima volta è nel testo di una sentenza non solo nelle dichiarazioni, pur significative, dell’Unesco e delle Nazioni Unite.

Una storia di “guerra” al patrimonio
Un fatto importantissimo perché l’attacco al patrimonio culturale è spesso usato come strumento di guerra, compiuto scientemente per destabilizzare e distruggere l’identità dell’altro. Come si è visto, purtroppo, durante la guerra nella ex Jugoslavia, con il rogo della biblioteca di Sarajevo nel 1992 e quando i croati fecero saltare, senza alcuna ragione militare e strategica, il ponte di Mostar. Ma anche quando i serbi distrussero le moschee e alcuni sindaci dissero poi che non erano mai esistite. Basta guardare a quel che sta accadendo in Medio Oriente dove imperversano i miliziani dell’Isis. Cancellare perfino la memoria del passato preislamico della Siria è l’obiettivo dei fondamentalisti. Per questo hanno fatto saltare alcuni dei monumenti simbolo dell’antica Palmira. Lo stesso è accaduto a Musul, a Ninive e in altri siti dell’antica Mesopotamia.
Anche i nazisti lucidamente attaccarono l’arte d’avanguardia, bollata come “degenerata”, ma soprattutto la nascosero, la tesaurizzarono in collezioni private e la vendettero in segreto. Gravissima fu  la loro azione di saccheggio e di razzia dell’arte antica. Al processo di Normberga Goering e altri nazisti furono accusati di aver razziato e saccheggiato il patrimonio d’arte italiano, francese e di altri Paesi. Ma quello era un capo di accusa “secondario”, rispetto agli altri agghiaccianti crimini che i nazisti avevano commesso. In questo caso, invece, l’attacco al patrimonio culturale è l’unico capo di accusa per  Ahmad Al Faqi Al Mahdi. E non era mai accaduto prima. Questo significa che presto anche i talebani, i miliziani dell’Isis e altri integralisti che  hanno compiuto devastazioni di siti archeologi e monumenti saranno presto processati per crimini di guerra? La condanna di Mahdi è stata un modo per la Corte anche per lanciare un segnale, ha detto Alex Whiting, professore della Harvard Law School ed ex alto funzionario presso la Corte internazionale. Ma le risorse e le forze per raccogliere delle prove  che la Corte ha disposizione da dedicare a questi tipi di processi sono scarse. Inoltre il suo operato  è limitato da alcuni vincoli,  a cominciare dal fatto che la Corte può perseguire solo casi in Paesi che rientrano nel trattato che sovrintende, o casi che sono stati sollevati dal  Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Nel caso della  distruzione dei monumentali Buddha del Bamyan, fatti saltare dai talebani nel 2001, la Corte non può intervenire. Nonostante l‘Afghanistan sia un Paese che riconosce la Corte internazionale dell’Aia la distruzione di quelle monumentali statue avvenne prima dell’avvio dei lavori da parte della Corte che, per statuto, non può intervenire su eventi che precedono la firma del trattato nel 2002.  Quanto gli attacchi dell’Isis al patrimonio dell’antica Palmira e alle distruzioni avvenute nell’attuale Iraq la Corte non può intervenire perché  la Siria e l’Iraq non sono fra i Paesi membri della Corte internazionale e il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite non ha chiesto al tribunale dell’Aia di intervenire.

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Un attacco emulato da altri fondamentalisti

Ahmad Al Faqi Al Mahdi è un tuareg e leader di Ansar Dine,  il movimento fondamentalista maliano legato ad Al-Quaeda. Il 22 agosto 2012 è stato accusato di crimini di guerra per aver “intenzionalmente diretto degli attacchi” contro nove mausolei di Timbuctu e contro la porta della moschea Sidi Yahia tra il 30 giugno e l’11 luglio 2012. Si è detto pentito e pieno di rimorsi,  anche perché quell’attacco è stato emulato poi da altri gruppi fondamentalisti. Nel 2012 gruppi ispirati da Al-Quaeda hanno attaccato con scalpelli e zappe il cimitero di Djingareyber, nel sud di Timbuctù, e poi la moschea Sidi Yahia. Si è temuto il peggio quando hanno assaltato e incendiato l’antica biblioteca. Per fortuna  gran parte della collezione di rari manoscritti era stata messa in salvo per tempo, quando la crisi in Mali si stava acuendo. Nel 2015, grazie all’aiuto dell’Unesco, sono cominciati i lavori di restauro e di recupero dei monumenti. Il 19 settembre 2016 è stata inaugurata della porta restaurata della moschea di Sidi Yah.

 

La storia dei manoscritti di Timbuctu

Quasta suggestiva città del Mali, con le sue originali costruzioni che sembrano dei castelli  di sabbia, è stata tra il XIII e il XVII secolo un importante centro di produzione e di commercio manoscritto, con i commercianti che portavano testi islamici provenienti da tutto il mondo musulmano. Nonostante numerose  occupazioni e invasioni studiosi  e bibliotecari locali sono riusciti a preservare e persino restaurare centinaia di migliaia di manoscritti risalenti al XIII secolo. Ma con il farsi avanti di islamisti militanti sostenuti da al-Qaida a partire dal 2012, quel patrimonio è stato preso di mira. La scusa, il cavillo usato dai fondamentalisti come giustificazione è che non sarebbe lecito costruire monumenti sopra delle tombe. La linea dura dei jihaidisti, come è noto, non è basata sul corano dove non c’è nessuna esplicita condanna delle espressioni artistiche e nemmeno delle immagini, ma sugli “hadith”, i detti di Maometto raccolti due secoli dopo la sua morte. Fu così – come scrive Tahar Lamri in un limpido intervento sul suo blog,   che i fondamentalisti cominciarono ad uccidere per un disegno.  In Mali  anche attaccando importanti icone culturali come i  mausolei di sufi musulmani del XV secolo. E poi dando assalto alla storica biblioteca e i tesori che custodiva.

Marrocan style biography manuscript of the profet Mahoma at the CEDRAB ( Centre de Documentation et Recherches Historiques Ahmed Baba ), Timbuktu, Mali. (Photo by Jordi Cami/Cover/Getty Images)
Manoscritto in stile marocchino Timbuktu, Mali.

Il bibliotecario Abdel Kader Haidara

Il bibliotecario Abdel Kader Haidara è uno degli “eroi civili” di questa storia.  Nel 2012  fu lui a scoprire un complotto segreto per il contrabbando di 350mila manoscritti medievali di Timbuctù. La storia è stata raccontata da Joshua Hammer sul Wall Street Journal  e in un libro uscito negli Stati Uniti in cui ripercorre l’avventurosa biografia di Abdel Kader, bibliotecario e restauratore di libri antichi che ha salvato migliaia di manoscritti dalla distruzione. Tornato da un viaggio all’estero, trovò una brutta sorpresa: l’esercito del Mali era stato battuto e Timbuctù era occupata da un migliaio di miliziani affiliati ad Al-Queda.  Si rese immediatamente conto del rischio che correvano le migliaia di libri e manoscritti antichi che si trovavano in città e che potevano scatenare la furia dei fondamentalisti, anche perché alcune opere esprimono una visione dell’islam moderata, oppure si occupano di temi ritenuti inappropriati dai fondamentalisti, come la filosofia o la scienza. Fu così che insieme ad altri bibliotecari cominciò a nascondere quei preziosi libri in case private e in luoghi il più possibile sicuri. Fu un’impresa che coinvolse centinaia di persone per otto mesi. Nel 2013, quando Timbuctù fu liberata, quattromila testi erano stati distrutti, ma ben 400mila erano stati preservati grazie all’operazione salvataggio messa in campo proprio da Abdel Kader e dai suoi colleghi.

Dalla commessa del Duce al Ponte sullo Stretto. Chi sono i Salini alla guida di Impregilo

«Se siete nella condizione di sbloccare le carte e di sistemare quello che è fermo da 10 anni noi ci siamo», ha detto Matteo Renzi a Pietro Salini. Più che sull’oggetto, questa volta, ci fermiamo sul soggetto: Salini-Impregilo. È alla festa per i 110 anni del gruppo delle costruzioni (capofila del consorzio che aveva vinto la gara per la realizzazione del Ponte) che il capo del governo e segretario del Pd annuncia la propria disponibilità. Pochi giorni prima, sul Corriere della Sera, l’ad Salini aveva “mandato a dire”, nemmeno troppo tra le righe, «noi siamo pronti. Bastano sei anni. Certo non dipende da noi».

Il premier Matteo Renzi a Milano per i 110 anni di Salini Impregilo, 27 settembre 2016. Ansa/Daniel Dal Zennaro
Il premier Matteo Renzi a Milano per i 110 anni di Salini Impregilo

Il Ponte è inutile (cattedrale nel deserto), è dannoso (messa in sicurezza del territorio), sulla sua realizzazione non sono d’accordo i sindaci delle due città metropolitane interessate (Reggio Calabria e Messina). Ma il premier insiste. Vuole spendere questi 8,5 miliardi di euro, questo il costo secondo il cda della Stretto di Messina Spa. Da un anno e mezzo governo e Impregilo si corteggiano: prima con Alfano, poi con lo stesso Renzi a Porta a Porta: ricordate «ogni cosa a suo tempo»? E poi: 40mila posti di lavoro (Renzi ne annuncia 100mila, come Cetto Laqualunque) e vantaggi economici miliardari: «Dieci miliardi per lo Stato tra maggiori tasse, imposte dirette, mancati contributi alla disoccupazione». Giubilo. Anche perché sul cielo azzurro di un radioso futuro grava la minacciosa penale dovuta a seguito della “rottura” del contratto per decisione del governo Monti: oltre un miliardo per il consorzio Eurolink, di cui Impregilo è parte. «Siamo disponibili a rinunciare alle penali e a ricominciare. Vogliamo lavorare, non incassare penali per cose di cui il Paese ha grande necessità. Il Ponte non è né di destra né di sinistra. Serve ai siciliani e agli italiani».

Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano consegna le insegne di Cavaliere dell'Ordine "Al Merito del Lavoro" a Pietro Salini (Infrastrutture - Lazio), Roma, 15 ottobre 2013. ANSA/Antonio Di Gennaro-Ufficio Stampa della Presidenza della Repubblica ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++
Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano consegna le insegne di Cavaliere dell’Ordine “Al Merito del Lavoro” a Pietro Salini

Vediamo chi è Pietro Salini, che ha molto a cuore la sorte dei siciliani. «Lo Stretto separa 5 milioni e mezzo di siciliani, la Sicilia è grande come la Danimarca. Se non investiamo per collegare l’Europa alla Sicilia – non la Sicilia all’Europa -, perdiamo una occasione straordinaria», ha detto un anno fa al Corriere. Primo dei dieci figli di Simonpietro (classe 1932), patron del Gruppo che veste i panni di presidente, Pietro nasce il 29 marzo di 58 anni fa a Roma, a 20 anni entra nel gruppo di famiglia (Salini Costruttori Spa) e intanto prende una laurea in Economia e commercio a La Sapienza. Piano piano, Pietro, fa la sua scalata dentro il suo gruppo, fino alla nomina di amministratore delegato della Impregilo Spa nel 2012. Quando, un anno dopo, il gruppo arriva a detenere il 92% del controllo di Impregilo, parte il progetto di fusione, dando così vita a Salini Impregilo nel 2014. Prima di giungere alla magnifica sede di via della Dataria, ai piedi del Quirinale, i Salini percorrono una lunga strada. Per trovare il primo appalto bisogna tornare indietro fino ai tempi del Duce, quando nel 1936 nonno Pietro ottiene la commessa per uno stadio da 100mila posti in cui il regime fascista voleva ricevere Adolf Hitler. Una pausa dovuta alla guerra e poi venne la Democrazia cristiana: gli affari crescono negli anni del boom e i Salini si lanciano nel mercato internazionale. La prima occasione si presenta con la costruzione di 250 chilometri di strada, 200 di acquedotto, 50 ponti e la bonifica di 20mila ettari a Tana Beles, in Etiopia, il progetto sponsorizzato da Giulio Andreotti. In due anni i Salini portano a termine le opere. Guadagnata la fama di affidabili, moltiplicano gli affari in Africa. E non solo: autostrade in Georgia, Bielorussa, Ucraina e Turchia, la metro di Stoccolma (1,7miliardi di euro) e molte commesse italiane (tra cui la metro B1 di Roma). I Salini non li ha fermati nemmeno lo scandalo della P2, eppure il padre di Pietro, Simonpietro, risultò iscritto negli elenchi della loggia massonica di Licio Gelli. Infine, recentemente, i Salini si sono sobbarcati i 200 milioni di euro di debiti per acquisire la Todini costruzioni di Luisa Todini, ex europarlamentare vicina a Silvio Berlusconi e Gianni Letta.

Un tunnel idraulico per 'dissetare' Las Vegas: è quanto sta realizzando Salini Impregilo nel Nevada, a Lake Mead. Un progetto che vale circa 450 milioni di dollari. Il lago artificiale, formato dalla diga Hoover e fonte quasi unica di rifornimento per la comunità di oltre due milioni di persone della capitale mondiale dei casinò, è stato bucato da un progetto innovativo del gruppo italiano nella sponda fino a una profondità di 200 metri e 'intubato' sotto il livello dell'acqua con una galleria di 4,6 chilometri. Salini Impregilo ha realizzato nel mondo 230 dighe ed è prima nel settore acque secondo l'Engineering news record (Enr). Las Vegas (USA), 26 marzo 2015. ANSA/SALINI IMPREGILO +++ ANSA PROVIDES ACCESS TO THIS HANDOUT PHOTO TO BE USED SOLELY TO ILLUSTRATE NEWS REPORTING OR COMMENTARY ON THE FACTS OR EVENTS DEPICTED IN THIS IMAGE; NO ARCHIVING; NO LICENSING +++
Un tunnel idraulico per “dissetare” Las Vegas: è quanto sta realizzando Salini Impregilo nel Nevada, a Lake Mead. Un progetto che vale circa 450 milioni di dollari

Il Gruppo Salini Impregilo
Oggi, il gruppo Salini Impregilo, è un global player nel settore delle costruzioni, leader mondiale per le infrastrutture nel segmento acqua. Dighe, impianti idroelettrici, opere idrauliche, ferrovie e metropolitane, aeroporti e autostrade, edilizia civile e industriale: con le sue opere di costruzioni e ingegneria è attivo in più di 50 Paesi, con una presenza consolidata in America Latina: Cile, Argentina, Perù, Colombia, Panama, Venezuela e Brasile. Conta 35mila dipendenti e un giro d’affari di 4,7 miliardi di euro l’anno, più dell’80% del suo fatturato è realizzato all’estero, il 20% solo in America Latina. Tra le opere del gruppo: l’ampliamento del canale di Panama (in collaborazione con Sacyr Vallehermoso, Jan de Nul e Constructora Urbana), la Diga Tocoma in Venezuela, per la realizzazione di un impianto idroelettrico nel fiume Caroní (in joint venture con Odebrecht e Vinccler); tre progetti ferroviari in Venezuela (in collaborazione con Ghella e Astaldi), che prevedono la costruzione di tre linee per una estensione totale di più di 580 km; due progetti idroelettrici in Colombia (in collaborazione con OHL), o l’ampliamento a quattro corsie dell’autostrada Ruta del Sol, sempre in Colombia.

Shimon Peres, una vita al centro della politica mediorientale

Con Yitzhak Rabin 1984 in Jerusalem. (AP Photo/Max Nash)

Ha fatto politica oltre i 90 anni, cominciando alle origini della vita politica di Israele. È stato l’architetto degli accordi di Oslo nel 1993 e dopo l’assassinio di Ytzhak Rabin ha visto lentamente evaporare il frutto di un lungo lavoro diplomatico. Shimon Peres è una delle figure cruciali della storia di Israele, Nobel per la pace, leader laburista, ministro, premier e presidente ha cominciato – come molte altre figure politiche israeliane della passata generazione – passando per l’esercito, alla cui organizzazione ha contribuito a costruirlo dopo la nascita dello Stato.

Eletto per la prima volta nel 1959, ricoprì per l’ultima volta l’incarico di premier dopo la morte di Rabin – che a differenza di Peres da leader laburista, in altre occasioni, aveva vinto le elezioni. Durante quel mandato ordinò una disastrosa operazione contro hezbollah in Libano, perse le elezioni e si trovo a dover avere a che fare con l’astro nascente della destra Bibi Netanyahu fino alla morte.

Con Yitzhak Rabin 1984 in Jerusalem. (AP Photo/Max Nash)
Con Yitzhak Rabin 1984 a Gerusalemme (AP Photo/Max Nash)

Con Obama e Netanyahu
Con Obama e Netanyahu

All'internazionale socialista nel 2002 (EPA PHOTO EFE/MANUEL H. DE LEON)
All’internazionale socialista nel 2002 (EPA PHOTO EFE/MANUEL H. DE LEON)

Ai funerali di Rabin, con il presidente egiziano Mubarak
Ai funerali di Rabin, con il presidente egiziano Mubarak

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Con l'allora first Lady Hillary Clinton EPA PHOTO AFP/DAOUD MIZRAHI
Con l’allora first Lady Hillary Clinton EPA PHOTO AFP/DAOUD MIZRAHI

Diritti violati ed etnocidi: la nuova era della corsa globale alla terra

Native Americans head to a rally at the State Capitol in Denver, Colo., Thursday, Sept. 8, 2016, to protest in solidarity with members of the Standing Rock Sioux tribe in North Dakota over the construction of the Dakota Access oil pipeline. The tribe argues that the pipeline, which crosses four states to move oil from North Dakota to Illinois, threatens water supplies and has already disrupted sacred sites. (AP Photo/David Zalubowski)

Il diritto alla terra è sempre più a rischio e i suoi custodi sono in pericolo. Così si legge nel rapporto di Oxfam Custodi della terra, difensori del nostro futuro, presentato a Torino all’interno durante la manifestazione Terra Madre.

Più della metà della terra emersa del nostro pianeta è abitata da popoli indigeni e da comunità agricole locali, che rischiano quotidianamente di dover abbandonare i loro luoghi per lasciare spazio ai progetti industriali di compagnie petrolifere, agroalimentari e minerarie.
I numeri degli ultimi sedici anni non sono rassicuranti: il 59 per cento delle terre acquistate dal 2000 a oggi sono rivendicate dalle popolazioni native, cui non viene riconosciuto il diritto di proprietà che gli spetterebbe per tradizione. Dei casi analizzati da Land Matrix – che raccoglie il più grande database di accordi fondiari su larga scala dal 2000 – soltanto il 14  per cento degli acquisti fondiari di terre abitate da comunità locali hanno richiesto e ottenuto dagli abitanti il  “Consenso Libero, Preventivo e Informato”, mentre nel 43 per cento dei casi ci si è limitati a forme irregolari di consultazione.
Il 2016 ha inaugurato, secondo il direttore generale di Oxfam Roberto Barbieri, «una fase nuova della corsa globale alla terra, più pericolosa» con un numero di accordi siglati che è già il doppio di quelli del 2013. «La frenetica compravendita di milioni di ettari di foreste, coste e terreni coltivati, in molti paesi poveri, – continua Barbieri – porta a omicidi e sfratti delle popolazioni indigene. Un vero e proprio etnocidio. Gli accordi e i progetti realizzati sulla terra che viene accaparrata avvengono nel totale disprezzo del consenso delle comunità locali che lì vivono da sempre. Occorre intervenire con urgenza in questo quadro destinato a generare conflitti sempre più sanguinosi».
Nonostante i diritti dei nativi siano protetti formalmente dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite sui Diritti dei Popoli Indigeni, adottata dall’Assemblea Generale dell’ONU nel 2007, raramente le comunità vengono interpellate dai governi e dalle industrie che intendono acquisire i loro territori, perché le loro attività sui terreni  – per lo più agricoltura e pastorizia – non sono sempre documentate. Senza essere consultati, gli abitanti vengono spesso sfrattati e dislocati con la forza, anche di notte, e un cospicuo numero di attivisti ambientali perde la vita nel corso delle proteste. Secondo Global Witness, infatti, nel 2015 in tutto il mondo sono stati uccisi due attivisti a settimana, la cui metà di provenienza indigena. 

Stati Uniti, Sud America, Africa, India, Norvegia, Australia, Nuova Zelanda sono alcuni dei teatri più frequenti delle lotte tra attivisti locali, governi e industrie; in Africa, per esempio, il 90 per cento della terra rurale è ancora considerata terra di nessuno, mentre in Perù c’è un’area grande cinque volte la Svizzera che stenta a ottenere un riconoscimento dal governo.
La salvaguardia delle terre rurali e dei loro abitanti, fa notare il rapporto di Oxfam, non è soltanto un impegno etico a favore delle culture locali e dei diritti di esse, ma è anche un dovere verso l’ambiente in cui viviamo. La deforestazione, infatti, accelera l’emissione di carbonio, che è una delle cause dell’innalzamento della temperatura terrestre, discusso recentemente a Parigi nella Conferenza Internazionale sul Clima.
«Privare milioni di persone della terra su cui hanno vissuto per intere generazioni rappresenta un attacco alla loro identità culturale, oltre che alla loro dignità e alla loro sicurezza. – sostiene Barbieri – Salvaguardare il loro diritto alla terra è essenziale per affrontare in maniera decisa il problema della fame, della disuguaglianza e del cambiamento climatico. Per questo motivo è necessario che i governi se ne facciano carico il prima possibile.» Le foreste gestite attualmente da popoli indigeni – riporta Oxfam – riescono a sequestrare una quantità di CO2 equivalente a quella prodotta annualmente in tutto il mondo. Affidare le terre alle comunità locali, in sintesi, significa proteggere più di 5000 diverse culture umane, più di 4000 idiomi, tutelare l’80 per cento della biodiversità e contrastare l’emissione di carbonio.
Negli ultimi anni la pressione esercitata sugli enti finanziari più importanti ha sortito qualche timido effetto: il Fondo Monetario Internazionale e la Banca Asiatica di Investimento per le Infrastrutture hanno adottato un nuovo standard di procedura basato sull’accordo preventivo con le comunità locali. A livello globale, inoltre, si registra un crescente riconoscimento dei legami tra il diritto alla terra e gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibili (SGDs), e una decisiva confluenza tra attivismo ambientale e attivismo sociale, come il caso del Nord Dakota mette bene in luce (Left lo ha trattato qui).

I giudici di Napoli: “Licenziamento illegittimo”. Reintegro per i 5 operai Fca di Pomigliano

"Siamo colpevoli di aver denunciato i suicidi in Fiat e i sei anni di cigs con soldi pubblici, siamo colpevoli di aver smascherato il reparto fantasma di Nola. Per questo siamo colpevoli e dobbiamo essere licenziati?": e' quanto si legge su alcuni cartelloni esposti dai quattro operai licenziati ieri dal Lingotto per aver inscenato il suicidio di Marchionne, e sui quali campeggiano le foto di alcuni operai che si sono suicidati e di uno morto sul lavoro, il 25 giugno 2014 a Pomigliano D'Arco (Napoli). ANSA/ CESARE ABBATE

I cinque operai di Pomigliano ce l’hanno fatta. Hanno vinto contro Fca. Il loro licenziamento è illegittimo e dovranno tornare in fabbrica. La clamorosa sentenza della Corte di Appello di Napoli ha ribaltato la decisione in primo grado del tribunale di Nola. Mimmo Mignano, Marco Cusano, Roberto Fabbricatore, Massimo Napolitano e Antonio Montella, il 5 giugno del 2014 esposero un “Marchionne pentito”, un fantoccio impiccato a un patibolo, davanti al cancello del Wcl, il polo logistico di Nola. Era una manifestazione satirica per denunciare l’ondata di suicidi tra gli operai mobbizzati da Fiat, sostengono gli operai. In particolare contro i suicidi di due operai cassintregrati del reparto, Pino De Crescenzo e Maria Baratto.

«Una bella notizia, un pò di ossigeno costituzionale», ha commentato il sindaco di Napoli Luigi de Magistris. «Questa decisione sancisce il prevalere dei diritti di un lavoratore a esprimere liberamente, seppur con durezza, la propria opinione rispetto a un abuso perpetrato attraverso il licenziamento che evidentemente è stato giudicato illegittimo».

Al presidio permanente in piazza Municipio, all’arrivo della notizia è scoppiata la festa. I cinque “ex licenziati” sono tutti aderenti al SiCobas e, in quanto tali, deportati da Pomigliano e mobbizzati nel polo logistico di Nola assieme a parecchi iscritti Fiom, tutti i lavoratori con ridotte capacità lavorative e quelli con un contenzioso aperto con l’azienda. Con il groppo in gola, Antonio Montella, 55 anni metà passati in Fiat, dedica la vittoria a chi non c’è più, ai colleghi che si sono tolti la vita. Dice di sentirsi, assieme ai suoi compagni, come Davide quando ha battuto Golia. E, infine, spiega che questa è una vittoria a disposizione della libertà di opinione di tutti i lavoratori, dentro e fuori il gruppo guidato da Marchionne.

gli operai di Pomigliano in corteo verso il tribunale di Napoli
Napoli, gli operai di Pomigliano in corteo verso il tribunale

Il 20 settembre scorso, i cinque di Pomigliano in corteo insieme a centinaia di persone venute da Melfi, Taranto, dalla Val Susa, Roma, Torino, avevano raggiunto il tribunale di Napoli. Un appello in loro solidarietà è stato firmato da migliaia di persone, ma stupisce l’assenza della firma di Maurizio Landini che pure su Pomigliano ha costruito gran parte della sua immagine di lottatore. «La sentenza di Nola nega che si sia trattato di una manifestazione sindacale e che ci sia un nesso di causalità con l’ondata di suicidi – spiega a Left, nel numero in edicola questa settimana, Pino Marziale, legale dei cinque operai – e, soprattutto, estende gli obblighi di fedeltà all’azienda anche fuori dall’attività lavorativa, sebbene i cinque non mettessero piede in fabbrica da quasi sei anni. C’è un clima repressivo che si respira anche nelle aule dei tribunali. La parola magica sembra essere “vincolo fiduciario”, come se il lavoratore appartenesse al datore di lavoro».

Continua su Left in edicola dal 24 settembre

 

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