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Se potessi avere mille scec al mese

Elisa risponde al citofono e dopo qualche minuto entra in casa Gianni, il quale saluta e si mette subito all’opera per riparare la lavatrice. Dieci minuti e la pompa per la centrifuga è sostituita: Gianni compila la ricevuta e incassa uno “strano” compenso. La padrona di casa estrae dal portafogli 60 euro e 15 Scec e il tecnico registra entrambe le voci: la prima, in euro, come cifra incassata, la seconda come voce di sconto del 20% in cambio di “banconote” Scec, quindi non soggetta ad Iva. Che ne farà Gianni di questi foglietti colorati simili ai soldi del Monòpoli? Dove li ha presi Elisa? «Lavoro la sera per pagarmi gli studi e l’affitto, ma non basta» racconta la ragazza, «così nel tempo libero preparo torte agli amici. Dato che mi vergogno di chiedere soldi, dopo che mi sono stati offerti la prima volta ho cominciato a scambiare Scec. Io li chiamo le monete solidali».

Come ti attivo l’economia locale
La definizione è tecnicamente discutibile ma va dritta al cuore della questione. «Passando di mano in mano, lo “sconto” rappresentato da quel pezzetto di carta crea ricchezza localmente, evitando di disperderla al di fuori del circuito territoriale» ci spiega Pierluigi Paoletti, presidente e fondatore di Arcipelago Scec, l’associazione che promuove il sistema di scambio locale. Da analista finanziario, Pierluigi ha verificato da vicino i reali interessi che ruotano attorno alle politiche monetarie e alla finanziarizzazione dell’economia. E ora racconta: «Oltre a darli a Gianni per la riparazione, nella bottega sotto casa, Elisa paga parte degli ingredienti per le sue torte con gli Scec: così la liberalità, il regalo fatto ai clienti abituali riattiva un’economia, perché il commerciante può ragionevolmente pensare di recuperare parte della cifra che incassa in Scec, e che invece avrebbe perso riconoscendo lo sconto, quando farà un acquisto presso altri commercianti». Contrariamente alla moneta con corso legale, accumulare Scec (acronimo che per inciso sta per “solidarietà che cammina”) non ha senso: non a caso vengono immessi nel circuito gratuitamente, perché è solo il loro utilizzo in una comunità legata da fiducia reciproca che innesca il meccanismo virtuoso e potenzia l’economia reale. Un modo per “facilitare” gli scambi sui territori, fidelizzare le clientele ed evitare che i nostri soldi finiscano in circuiti economici che non investono localmente, come i franchising monomarca o la grande distribuzione.

L’euro insostenibile
Lo Scec è uno dei tanti strumenti di compensazione messi in campo localmente per far fronte agli squilibri creati nelle economie occidentali e accentuati nell’Eurozona dall’avvento della moneta unica. Come conferma nel suo ultimo libro – The Euro and its Threat to the Future of Europe – il Nobel Joseph Stiglitz, le condizioni imposte alla costruzione dell’euro dai trattati di Maastricht hanno accentuato gli effetti della crisi economica. E la moneta unica, vincolata al monopolio privato della Banca centrale europea, è diventata più uno strumento utile alla sopravvivenza di banche e finanza che un veicolo di scambi commerciali nell’economia reale. «Perfino la forte immissione di liquidità operata dalla Bce – riprende Paoletti – piuttosto che tramutarsi in prestiti alle imprese e alle famiglie è stata trattenuta dagli istituti di credito e investita in finanza, con il paradosso che siamo in pieno credit crunch, le banche cioè non concedono crediti per paura di non vederli ritornare, proprio in un momento in cui c’è una liquidità mostruosa a livello finanziario». Così si spiegano da un lato le diseguaglianze crescenti e dall’altro il fiorire di strumenti e strategie di correzione messi in campo dal basso.

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SOMMARIO ACQUISTA

Perché una mamma ed una moglie deve farsi carico anche di questo: proteggere

Ilaria Capua, direttrice del dipartimento di Scienze biomediche comparate dell'Istituto Zooprofilattico Sperimentale delle Venezie, durante la presentazione del nuovo canale di scienza e tecnica dell'Ansa all'Accademia dei Lincei di Roma, 18 settembre 2012. ANSA / GUIDO MONTANI

Ilaria Capua è una delle più apprezzate ricercatrici italiane all’estero. Ilaria è finita in Parlamento per la sua eccellenza professionale:incredibile di questi tempi. Ilaria Capua ha subito un processo che ne ha messo in discussione non solo la lealtà ma anche tutta la carriera. Ne è uscita pulita, alla fine, ma ha deciso di dimettersi. L’editoriale più bello sono le parole delle dimissioni di Ilaria Capua dal Parlamento. Perché ci vuole coraggio a versare umanità lì dove viene considerata una debolezza e ci vuole dignità, tanta dignità, a scrivere parole così pulite nonostante il sudore e la polvere. Se questo buongiorno deve essere un buon mattino allora meglio lasciarlo a Ilaria:

«Sì, perché non ci piace pensarlo, ma ognuno di noi ha un tempo limitato che gli resta da vivere – e utilizzare al meglio quel tempo è una forma di rispetto verso se stessi e verso gli altri. Anzi un dovere. Ho sentito quindi, che fosse giunto il momento di tornare ad usare il mio tempo al meglio, di tornare nel mondo scientifico, purtroppo non in quello italiano, in un ambiente nel quale non avessi mai perso la credibilità e nel quale fossi riconosciuta ed apprezzata. Ho accettato, su richiesta di una organizzazione internazionale, un incarico di Direttore di un Centro di Eccellenza all’Università della Florida. Ho deciso di trasferire la mia famiglia negli Stati Uniti per proteggerla dalle accuse senza senso ma nel contempo infamanti che mi portavo sulle spalle.

Perché una mamma ed una moglie deve farsi carico anche di questo. Proteggere. E aggiungo, una donna di scienza nel quale questo Paese e l’Europa hanno investito ha il dovere di non fermarsi. Ha il dovere di continuare a condurre le proprie ricerche nonostante tutto, perché la scienza è di tutti ed è strumento essenziale per il progresso.

Venti giorni dopo il trasferimento negli Stati Uniti la Procura di Verona in sede di udienza preliminare ha smontato il castello accusatorio pezzo per pezzo, prosciogliendomi dai molteplici capi d’accusa perche «il fatto non sussiste». Secondo la giudice una sola accusa meritava di essere eventualmente approfondita in dibattimento, ma il presunto reato era ormai prescritto da tempo e quindi sarebbe stato inutile proseguire. La sentenza è passata in giudicato e nessuno l’ha impugnata. Nessuno. Ora che è finita, potrei tornare indietro, ma vi dico la verità, non me la sento. Devo recuperare forze, lucidità e serenità, devo lenire la sofferenza che è stata provocata a mia figlia e a mio marito. Devo recuperare soprattutto fiducia in me stessa, appunto perché voglio usare al meglio il tempo che ho a disposizione. Lo devo ai miei genitori che mi hanno fatto studiare, ai miei maestri, ai miei amici e ai miei allievi di ieri e di domani.»

Buon venerdì. Anche a te, Ilaria.

TorPiùBella, periferie alla riscossa. All’incontro di domani anche Left

Nella Capitale ancora alla ricerca di se stessa, le periferie cercano in qualche modo di reagire allo stato di abbandono in cui versano da anni. Nello sterminato territorio che circonda il centro di Roma nascono comitati e associazioni che cercano di dare voce ai bisogni e alle esigenze dei cittadini. TorPiùBella è una di queste associazioni e la sua storia è particolare. Nata ufficialmente a a Tor Bella Monaca ad inizio 2016, in realtà le sue radici risalgono però a fine 2014. C’è un gruppo di donne dietro a TorPiùBella.

Il 30 dicembre di quell’anno infatti un black out riduce al buio una palazzina di 14 piani. Quel corto circuito produce però un’altra scintilla che mostra a Tiziana, Antonietta, Anna i problemi che dovevano affrontare nel complesso delle case popolari. La diffidenza lascia il posto a una complicità tesa al recupero di un senso di dignità nel vivere a Tor Bella Monaca accompagnata da una forte amicizia che continua ancora oggi. A loro si affiancano nei mesi successivi, grazie ai social network che diffondono il lavoro di queste donne, altri giovani del quartiere intenzionati a dare maggiore solidità a questo movimento spontaneo e a promuovere una simile esperienza di autorecupero in tutto il quartiere.

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Tra le iniziative realizzate ricordiamo: 
Punto d’Incontro: iniziativa settimanale presso la sede dello Spi Cgil di Tor Bella Monaca. Ogni due settimane questi incontri sono moderati dall’Ambulatorio Territoriale di Psicologia (Atèpsy). Pedalata Resistente: insieme ad Anpi, Libera Roma e Collina della Pace l’associazione ha organizzato un percorso in bici tra le vie del VI Municipio per parlare della Resistenza Romana. Il percorso sarà ripetuto il 4 Giugno del 2017. Ripijiamose er parco: nel corso dei mesi l’Associazione ha realizzato una serie di pulizie del parco di via Cigola. Natale e Carnevale: feste popolari organizzate in collaborazione con le altre associazioni locali tese ad aggregare i più piccoli e a farli incontrare con i coetanei. L’Europa siamo noi: l’Associazione è stata la prima ad ospitare nel proprio territorio le discussioni irriverenti sull’Europa insieme all’associazione promotrice Costituzionalmente. La tavola rotonda per riflettere sull’Unione Europea oggi è itinerante e gira per i bar di Roma coinvolgendo gente comune e esperti secondo il format “tutti relatori”. NottInSogni: l’Associazione ha organizzato sei iniziative che compongono una rassegna chiamata NottInSogni. L’idea è controcorrente: partendo dall’assunto per cui in un quartiere come Tor Bella Monaca si può solo dormire i soci di TorPiùBella hanno creato questa iniziativa per ribaltare proprio questo dogma. Incentrate sui temi della partecipazione consapevole e dell’amministrazione condivisa, dell’azzardo e del contrasto alla povertà mirano a riflettere sui problemi principali di Tor Bella Monaca per far partire percorsi con scuole, associazioni, università e amministrazione per migliorare le condizioni in cui si trova il quartiere. Tra queste attività anche la visita guidata al quartiere da un punto di vista diverso. Dall’Antica Roma al Piano di Zona degli anni 80 passando per l’età medioevale per familiarizzare il territorio per gli abitanti. L’obiettivo è insegnare così a riconoscere la bellezza negli angoli nascosti del quartiere per facilitarne la salvaguardia.

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Domani venerdì 30 settembre penultimo appuntamento di NottiInSogni. “Con i poveri” è il tema dell’incontro a cui partecipa anche Left. Gli altri ospiti sono Martina Di Pirro, referente Libera Presidio IV “Francesco Borelli”; Giuseppe de Marzo, coordinatore nazionale della campagna Miseria Ladra, Pierluigi Cervelli, docente di Scienza Semiotiche presso La Sapienza di Roma, Francesco Casarell, della comunità di Sant’ Egidio di Roma; Carmen Vogani, Associazione DaSud.
Appuntamento alla Comunità di Sant’Egidio, via dell’Archeologia 74.

Le proteste tardive americane non fermano la devastazione di Aleppo

Aleppo, una strada devastata dalle bombe di Assad
In this photo provided by the Syrian Civil Defense group known as the White Helmets, Syrians inspect damaged buildings after airstrikes by government helicopters on the rebel-held Aleppo neighborhood of Mashhad, Syria, Tuesday Sept. 27, 2016. With diplomacy in tatters and a month left to go before U.S. elections, the Syrian government and its Russian allies are using the time to try and recapture the northern city of Aleppo, mobilizing pro-government militias in the Old City and pressing ahead with the most destructive aerial campaign of the past five years. (Syrian Civil Defense White Helmets via AP)

Ad Aleppo è in corso una carneficina. Da anni. Ma in questi giorni le cose sono peggiorate grazie agli aerei russi e siriani che cercano di evacuare la città dai civili per portare l’assalto finale alle aree nelle mani dei ribelli. L’escalation sul campo sta anche determinando un inasprimento dei toni usati tra le diplomazie americana e russa.

La strage in corso

Ad Aleppo e dintorni due milioni di persone sono senza acqua corrente o quasi e spesso senza elettricità. La situazione rende più terrorizzanti i bombardamenti e più difficili i soccorsi ai feriti, in una città rasa al suolo da anni di guerra a mesi di assedio. L’Unicef fa sapere che negli ultimi cinque giorni 96 bambini sono morti e 220 feriti sotto le bombe. I bambini di Aleppo «sono intrappolati in un incubo, non ci sono più parole per descrivere questo orrore» ha detto il direttore esecutivo di Unicef, Justin Forsyth. Da giorni si parla inoltre di bombe a grappolo e altri ordigni mai utilizzati fino a oggi. Le immagini postate in un video da Syria campaign mostrano le voragini fatte da queste bombe.

Le distruzione dei missili su Aleppo est

Medici Senza Frontiere racconta del bombardamento mirato di due ospedali, in un caso colpendo l’ingresso del pronto soccorso – e uccidendo persone che portavano i loro familiari feriti – in un altro costringendo l’evacuazione dei casi più gravi. I chirurghi ancora vivi in città sono solo sette, gli attacchi a strutture mediche, secondo il gruppo Medici per i diritti umani, quasi 400 (circa 300 perpetrati dalle truppe di Assad e da aerei russi). Le bombe sugli ospedali sono arrivate quasi contemporaneamente, segno probabile di un attacco deliberato. D’altro canto, la nuova offensiva delle truppe di Assad ha determinato l’arrivo di forniture d’armi – missili – per i ribelli, non è ben chiaro da dove. Certo è che anche i ribelli hanno più potere di fuoco, con tutte le conseguenze negative del caso. Un esponente dei Caschi bianchi – che hanno vinto il Nobel per la pace alternativo – ha spiegato ad al Jazeera che presto non ci saranno più modi per curare i civili che il suo gruppo recupera tra le macerie.

Alla domanda: «Avete colpito voi gli ospedali?» L’ambasciatore di Assad all’Onu ha risposto così

La diplomazia

Di fronte agli attacchi, il segretario generale Onu ha parlato di «Crimini di guerra perpetrati volontariamente». Mentre il Dipartimento di Stato Usa ha minacciato di interrompere ogni collaborazione con Mosca se gli aerei non rimarranno a terra, accusando Putin e Assad di non cercare la strada diplomatica. In effetti Assad non ha nessuna intenzione di far tacere le armi fino a quando non avrà riconquistato la città chiave del Paese. Mentre Mosca, come spesso accade, non è conseguente alle decisioni prese in sede Onu.

L’inasprimento dei toni da parte americana ha determinato però una presa di posizione più secca e dura da parte della diplomazia russa. La Russia, che sostiene di aver bombardato sempre e solo «terroristi» risponde per bocca del vice ministro degli Esteri Sergei Ryabkov. Mosca vuole fermare la violenza perché teme azioni da parte di terroristi islamici contro interessi russi e su territorio russo e aggiunto che le prese di posizione americane «non possono essere interpretate che come sostegno al terrorismo». Ryabkov parla di «inviti sottili a usare il terrorismo contro la Russia» e di un punto basso dell’approccio statunitense in Medio Oriente e Siria.  Infine, il vice capo della diplomazia russa ha rigettato l’idea di una nuova pausa di sette giorni, proponendo piuttosto una pausa di 48 ore – abbastanza per fare scappare i civili e poi riprendere l’offensiva. Parlando con al Jazeera, l’inviato Onu De Mistura parla di responsabilità internazionali diffuse: «Ho visto molte guerre, lavorato nella ex Jugoslavia, ma una situazione così intricata e con tanti avvoltoi non l’avevo mai vista», ha detto. La riconquista di Aleppo continua, i russi hanno scommesso sull’inazione di Stati Uniti ed Europa e stanno vincendo quella scommessa.


Un modo per vedere quel che succede ad Aleppo è il documentario sui White Helmets prodotto da Netflix


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«Io, vittima di violenza sessuale ho reagito così. Con un romanzo»

«Quando l’editore mi ha proposto di scrivere che era una storia vera, ci ho pensato molto. Poi mi sono detta “Domi ci sei, a questo punto chiudi il cerchio una volta per tutte”». La “storia vera” è quella di Domitilla Shaula Di Pietro, una donna romana, bella e solare, che da un po’ di tempo ha trovato la sua strada anche nella pittura. Dodici anni fa è stata vittima di una violenza sessuale, per sei ore e 23 minuti. E Sei ore e 23 minuti è il titolo del romanzo che esce oggi pubblicato dall’editore Fanucci. Per dodici anni Domitilla non ha mai parlato di quella notte, di quella passeggiata sotto la luna finita nel terrore, dopo essere aggredita e sequestrata sotto la minaccia di una pistola e un coltello da un uomo che conosceva di sfuggita. In seguito aveva scritto qualcosa, «come sfogo», dice. Ma quando ha saputo che quell’uomo era morto dopo un ictus, a quel punto «è stata una liberazione totale, l’ho finito in un mese».

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Intervistare una donna vittima di una violenza sessuale non è semplice, anche se su questa tremenda esperienza ha scritto un romanzo. Ma Domitilla racconta con voce sicura e una forza che traspare dalle parole. Perché non ha denunciato quell’uomo, chiediamo. «Lui mi ha minacciata, mi ha detto «so chi sei tu e dove vanno a scuola i tuoi figli». Era troppo grave quello che mi aveva fatto, troppo grande la responsabilità di denunciare sapendolo poi fuori, un uomo così instabile e pericoloso. Io allora ero “piccola”, le leggi non erano quelle di oggi».

Il libro l’ha scritto, ripete spesso «perché le donne riescano a denunciare ma soprattutto perché siano nella condizione di poterlo fare, perché io non ho potuto». Domitilla ricorda come molte delle donne che ogni anno vengono uccise in Italia dal proprio partner o ex abbiano alle spalle denunce e richieste di aiuto. Che non sono servite a nulla. «E poi mettiamo la violenza psicologica, continuamente tu vivi in uno stato di terrore. La denuncia diventa una cosa difficilissima a meno che non ci sia alla base una struttura che ti assicura che quest’uomo non torni a farti del male».

Un problema notevole, visto che i centri antiviolenza sono sempre più penalizzati dai tagli, come dimostrano le chiusure di alcune strutture “storiche” negli ultimi tempi, mentre il Piano d’azione nazionale contro la violenza sessuale e di genere dopo più di un anno di ritardo ha visto riunirsi la cabina di regia solo ai primi di settembre. Insomma, c’è molto da fare a livello delle istituzioni. Per Domitilla però si deve cominciare prima a lavorare contro la violenza sessuale. «Tutte queste leggi e forme di protezione sono comunque dei tappabuchi, perché significa agire dopo che ormai la donna ha subito una violenza. Allora l’unica forma di prevenzione è inserire la materia di educazione sessuale, di “non violenza” nelle scuole. Tu pensa a quanti bambini subiscono violenza nelle famiglie, una volta a scuola dove se ne parla, sai che aiuto sarebbe per loro e anche per le famiglie?».

Veniamo al romanzo, scritto con la formula dello sliding doors. L’autrice immagina due protagoniste, Frida 1 e Frida 2: la prima è quella che ha subito la violenza, la seconda no, la sua vita scorre normale. «Non saprò mai come sarebbe andata se non fossi uscita quella sera. Comunque mi sono detta che Frida 2 sono io lo stesso, quella prima della violenza e anche quella dopo, con la vita che riprende, nonostante tutto». Lo stile narrativo è incalzante, un turbinio di rapporti e personaggi circonda la protagonista. Raccontare con le parole scritte quello che ha vissuto in quella notte, dice Domitilla, «non è stato difficile, sono abituata fin da piccola a scrivere, diari, poesie. Mi rimane più difficile parlarne alle persone». Infatti non ne ha mai fatto cenno a nessuno, né al marito, da cui si stava separando, né ai genitori e nemmeno ai figli. Lo hanno saputo al momento della stesura del romanzo. «Soltanto mia nonna, mia sorella e una mia amica sapevano. Mi hanno aiutato tantissimo, sono stata circondata da un grande amore». È la nonna la figura centrale del libro e Domitilla spiega che ha sofferto di più a scrivere della sua morte che non di quelle “sei ore e 23 minuti”.

Nel romanzo a un certo punto Frida 1 si chiede «Se avessi visto i segnali», che significa? Se ne poteva accorgere prima e poteva evitare quell’incontro sfociato nel dramma? «Ognuna di noi che ha subito violenza e parlo anche delle donne vittime dei mariti o dei compagni, ha pensato per un attimo che quell’uomo non era persona così giusta e così normale. Ma non abbiamo dato retta al nostro intuito che difficilmente sbaglia. Quest’uomo io l’ho sempre incontrato – poche volte – in mezzo ad altra gente, comunque avevo sentito una grande aggressività verbale nei confronti delle donne, una fortissima misoginia, insomma, era una persona spiacevole, ma nessuno poteva immaginare che potesse arrivare a tanto. Io ne sono certa, che questi uomini una base di mostruosità la devono in qualche modo avere».

Il racconto della violenza è scarno e asciutto. E Domitilla sottolinea come «in assoluto è la prigionia psicologica che si subisce che fa soffrire, più di quella fisica. Noi donne siamo abituate alla sofferenza fisica, ci spaventa, io stessa pensavo di non uscirne viva ma veramente la più grande ferita, al di là della profanazione del corpo – chi se ne frega – sono i tre giri di chiave alla porta, la chiave sopra l’armadio. Io mi sono astratta dopo la prima ora, le altre cinque e 23 non sentivo più neanche dolore, non c’ero più io in quella stanza ma la ferita peggiore è proprio trovarsi in una situazione di non poter scegliere».

Dodici anni dopo è come se con il romanzo Domitilla si separasse definitivamente da quella “storia vera”. «Sono fiera di essere arrivata a questo punto e di poter combattere affinché non ci sia un’altra donna al mio posto domani». E poi aggiunge «Voglio dire che oggi mi sento molto più forte, per assurdo, sono sicura di essere migliore di quella che ero, la violenza non mi ha spaventata rispetto alla vita, mi ha reso più forte e forse più positiva. Io lo so che la vita può riservare brutte cose, importante è non permettere che ti inaridiscano. Le donne sono forti e propositive, bisogna reagire».

Sempre più un partito, sempre più un leader. Come cambiano i 5 stelle

Beppe Grillo dal palco di Italia 5 Stelle durante la festa organizzata a Palermo, 25 settembre 2016. ANSA/MICHELE NACCARI

A Left l’aveva detto Roberto Biorcio, attento studioso di movimenti politici e sociali, esperto del Movimento 5 stelle e, prima, della Lega nord. «Il modello di organizzazione finora adottato dal Movimento 5 stelle», ci ha spiegato il professore di sociologia politica all’università Bicocca di Milano, nei giorni più caldi delle liti sulle nomine di Raggi, «cioè l’assenza di incarichi circostanziati e di una classe dirigente diffusa nei territori, può andare bene per fare opposizione o per amministrare un piccolo paese». Non per governare Roma, né per entrare, con speranze di successo, a palazzo Chigi.

In un’intervista per il nostro settimanale, Biorcio ci spiegava così che il Movimento 5 stelle si sarebbe dovuto fare un po’ partito, crescere nell’organizzazione, burocratizzarsi un po’, anche e soprattutto per chiarire alcune procedure finora poco lineari, modificate troppo spesso all’occorrenza: «Il Movimento deve darsi un’organizzazione», dice Biorcio, convinto che «per operare in istituzioni importati le forze politiche che le vogliono governare devono dotarsi di strumenti di deliberazione più rapidi ed efficaci». Più efficaci del direttorio, ad esempio, «che si è rivelato tutt’altro che utile».

Ecco dunque quello che sta accandendo al Movimento. Sta diventando sempre più un partito, anche se la parola ovviamente è bandita. Con una serie di votazioni sulla piattaforma Rousseau – la prima, per scegliere il nuovo “Non Statuto” che poi sarà emendabile si è chiusa ieri sera – gli attivisti stanno validando alcune modifiche ai regolamenti. Resta fermo l’articolo 4 del “Non Statuto”, ovvio: «Il Movimento 5 Stelle non è un partito politico né si intende che lo diventi in futuro». Ma in molti passaggi si rafforza il ruolo del “capo politico”, sparisce il direttorio, e si introduce un collegio dei probiviri, insieme a nuove regole per le espulsioni.

Un capo politico, dunque, soprattutto, caratteristica fondamentale dei partiti, tanto che ora lo richiede anche l’Italicum. E in attesa che i parlamentari più noti smettano di litigare tra loro, siccome non è prevista una procedura per individuarne uno, il capo politico del Movimento è dovuto tornare a farlo a tempo pieno Beppe Grillo. Lo ha detto dal palco di Palermo: «Sono tornato!». Ma soprattutto lo ha fatto, come dimostra il secco post su twitter con cui ha disposto ai suoi il silenzio.

Ordine rispettato da tutti. O quasi. L’unica che ha sgarrato – senza saperlo, avendo risposto al giornalista poco prima che Grillo twittasse – è stata Barbara Lezzi, una fedelissima, che parlando col Corriere conferma così la nostra analisi. «Grillo per noi è come un padre», dice Lezzi, che poi si lancia in interessanti valutazioni pedagogiche che rendono molto l’idea del ruolo del leader: «Grillo ogni tanto ci bastona. Ma se un padre bastona un figlio lo fa per il suo bene». Grillo è il capo politico di un non partito. Un capo peraltro autoritario.

A sinistra, magari, se unisse, il NO?

Convergenza di obiettivi, ideali e motivazioni: se esistesse una formula matematica per condensare la politica forse si partirebbe da qui, dalla comunione d’intenti e di modi. C’è un fronte del NO che si assomiglia moltissimo: sono gli stessi ostinatamente sparsi che in questi ultimi anni sembra che abbiano avuto difficoltà anche solo per accordarsi per un aperitivo insieme, sono gli stessi che si sfilacciano spesso quando sarebbe il caso di fare fronte comune e sono gli stessi che ci promettono a cadenza regolare di ricostruire ciò che loro hanno demolito.

C’è sinistra, nel NO. Ci sono tutte le sinistre. E se è vero che hanno pensieri diversi sul rapporto con il potere è pur vero che hanno (se non mi sbaglio) un impianto comune nella valutazione negativa degli effetti di questa riforma costituzionale. Allora senza perdersi troppo sulla provocazione del “votate come i fascisti” come dicono i renziani (a proposito: potete tranquillamente rispondere che undici ex Presidenti della Corte Costituzionale sono contro la riforma) si potrebbe per una volta, se non costa troppa fatica, vedere il bicchiere mezzo pieno. Che non è sicuramente un banchetto ricco, per carità, ma è un punto reale e politico da cui ripartire.

Ecco, tra le cose da fare forse ci sarebbe per la sinistra quella di personalizzare il referendum. Coglierne l’occasione di agire in un campo comune per, almeno una volta, non ridursi a accozzaticci raggruppamenti dell’ultima ora a pochi metri da una campagna elettorale. Si potrebbe evitare di duplicare gli eventi moltiplicando piuttosto le forze: si potrebbe, che ne so, almeno in chiusura di campagna, mostrarsi insieme.

Sembra un’idea banale. Ma di questi tempi la banalità e rivoluzionaria, del resto.

Buon giovedì.

Cartoline da Kirkuk, a mezz’ora dalla linea del fronte con il Califfato

peshmerga curdi sulla linea del fronte attorno a Kirkuk
epa05279492 A photograph made available on 27 April 2016 shows a Kurdish fighter taking up position in the city of Tuz Khurmatu, 175km north of Baghdad, Iraq, 26 April 2016. Local sources said clashes continued between the Kurdish Peshmerga and Shiite Hashed al-Shaabi militia for the third day despite calls for a ceasefire in the multi-ethnic city of Tuz Khurmatu. At least nine people were killed in the clashes that also cut the road between Baghdad and the oil-rich city of Kirkuk. EPA/ANDREA DICENZO

Quando arrivi a Kirkuk, ti rendi subito conto che il fronte è vicino. Come in quasi tutti i teatri di guerra le pompe di benzina sono attaccate a dei container, al cui interno c’è il serbatoio. O addirittura direttamente barili al cui interno viene messo l’aspiratore. Motivo per cui la gente le usa solo in caso di estrema necessità, poiché il carburante potrebbe essere sporco, pieno di impurità. Ma nonostante questo sono molto utili: se il fronte viene sfondato e inizia ad arretrare, in meno di un’ora può essere spostata. Giusto il tempo che un camion arrivi a caricarla. Lo stesso vale per i checkpoint, improvvisati al posto di quelle che una volta erano le normali stazioni di servizio.

Kirkuk, peshmerga curdi
Kirkuk, peshmerga curdi (A. De Pascale)

Kirkuk è una città a maggioranza turcomanna, araba dell’Iraq centrale, nella quale prima della guerra vivevano anche migliaia di cristiani. Essendo il maggiore centro petrolifero del Paese, dal quale poi il greggio arriva in Turchia tramite un oleodotto (si parla di un export di 300.000 barili al giorno), il Daesh cerca in ogni modo di conquistarla. Se non ci è ancora riuscito è soltanto perché quando l’esercito regolare iracheno si è dileguato, qui come altrove, a difenderla sono scesi i peshmerga curdi. Dall’agosto del 2014 la città è di conseguenza nelle loro mani e annessa di fatto alla Regione autonoma del Kurdistan iracheno. Anche se un accordo sul suo futuro tra governo curdo ed esecutivo iracheno, sarebbe stato sciolto proprio in questi giorni.

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La mappa del fronte attorno a Kirkuk (A. De Pascale)

In città l’aria è molto tesa. Il fronte è del resto a meno di mezz’ora di auto dal centro cittadino. Gli infiltrati potrebbero quindi essere tanti. Motivo per cui c’è un militare armato fino ai denti, praticamente ogni 200 metri. Mentre i controlli ai vari checkpoint sono molto più serrati, rispetto a quelli delle altre o città o villaggi che abbiamo visitato. Nemmeno a mezz’ora di auto dal centro di Mosul, la “capitale” irachena del Daesh c’era una situazione similare. La sera del 21 agosto qui a Kirkuk la polizia locale ha fermato un ragazzino di circa 12 anni: sotto la maglia del calciatore Messi aveva una cintura esplosiva. Per il colonnello Arkan Hamad Latif sarebbe proprio di Mosul. Pochi giorni prima del nostro arrivo, nel campo profughi cittadino di Lailan le forze di sicurezza avevano invece arrestato un imam arrivato da Hawija, con l’accusa di essere un reclutatore del Daesh. L’uomo avrebbe poi ammesso sia i suoi rapporti col Daesh che l’obiettivo del suo viaggio.

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L’arresto di un 12enne con una cintura di esplosivo addosso nascosta da una maglietta di Messi a Kirkuk

Da quando la linea del fronte si è assestata nei pressi di questo distretto, che conta poco meno di mezzo milioni di abitanti, da quella zona sono arrivati a Kirkuk oltre mille sfollati. La coalizione sta del resto bombardando in quest’area quasi ogni giorno. Anche perché il Daesh, che sarebbe ormai in grande difficoltà, si sta giocando il tutto per tutto. Sapendo di non avere nulla da perdere. A metà settembre, proprio su questo fronte, gli uomini dell’autoproclamatosi Califfo avrebbero condotto nel giro di 24 ore ben due attacchi chimici, con decine di morti e centinaia di feriti.

La presunta fabbrica chimica, adoperata per armare con gas mostarda e cloro missili convenzionali, sarebbe stata distrutta proprio in un raid aereo della coalizione il 16 settembre a Zab, che si trova 75 chilometri a sud-ovest di Kirkuk, quindi sempre poco oltre l’attuale linea del fronte. In uno di questi attacchi, il 24 settembre, giorno del nostro arrivo a Kirkuk, sarebbero morti anche due quadri locali del Daesh, Al-Giavalì e Abu Qatada. In questi ultimi due giorni una serie di segnali fanno ritenere che stia di nuovo succedendo qualcosa su questo fronte. Ai checkpoint l’attenzione è ancora maggiore e nei campi al lato della strada che porta verso sud c’erano diversi uomini armati. Poco oltre un collega che faceva una diretta televisiva. Nella vicina città di Suleymaniye, la “capitale” economica del Kurdistan iracheno che si trova a soli 45 minuti di auto da Kirkuk, una colonna militare si stava preparando a partire. E ai giornalisti di stanza a Kirkuk, per la prima volta, è stato consigliato di non uscire dall’hotel o, se necessario, muoversi con la scorta armata.

Non c’è trip