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Quando i poteri forti bocciarono l’idea di Keynes

Un sacco di dollari

Henry Ford una volta affermò che se la gente capisse la natura del nostro sistema finanziario e creditizio scoppierebbe una rivoluzione domani mattina. In effetti, uno dei principali meccanismi di controllo della società e dei sistemi economici risiede nella generazione della moneta. Da tempo, infatti, la moneta ha perso ogni valore intrinseco: è solo carta, anzi la stessa carta è ormai sostituita da informazioni sui debiti e crediti trasmessi tramite computer. Essa viene generata nel momento in cui un ente o un’istituzioni effettua una richiesta di credito. Se, ad esempio, un governo ha bisogno di finanziare una spesa, potrebbe stampare un titolo del debito pubblico, venderlo alla Banca centrale e ottenere danaro per coprire il debito stesso. La moneta nasce dunque da uno scambio di carta (il titolo) con carta (la moneta), a cui segue la spesa governativa.

Se un’impresa industriale o una famiglia ha bisogno di un prestito per un’investimento, o per acquistare una casa, cede alla banca una garanzia – eventualmente sull’immobile stesso – e la banca attiva sul suo conto una certa somma che può essere spesa per l’investimento in questione. La banca può anche girare questa o altre garanzie alla Banca centrale e ottenere del contante per la propria clientela. Il sistema finanziario nel suo complesso pertanto non ha limiti materiali nell’ammontare delle proprie operazioni. Il vincolo, infatti, è costituito solo dall’opportunità di concedere o meno il credito al soggetto che richiede. In questo contesto, pertanto, la moneta tende ad essere facilmente disponibile per chi è già ricco – le garanzie che i ricchi possono offrire riducono il rischio di perdite per chi concede il credito – e scarsa per chi è povero.

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Se Grillo ruberà alla Sinistra anche la forza del dire No

Beppe Grillo alla festa del M5S a Palermo, in una immagine tratta da suo profilo Facebook, 24 settembre 2016. ANSA/FACEBOOK BEPPE GRILLO +++ ATTENZIONE LA FOTO NON PUO' ESSERE PUBBLICATA O RIPRODOTTA SENZA L'AUTORIZZAZIONE DELLA FONTE DI ORIGINE CUI SI RINVIA +++

«9.369 parole, 480 periodi. E in ogni periodo non più di 20 parole. Così l’avevano pensata e poi scritta la nostra Carta i costituzionalisti di allora. Perché la capissero tutti. Anche quelli che avevano la terza media». Oggi questa Riforma è incomprensibile e, per provarlo, sabato scorso dal palco di Palermo, Grillo ha citato la modifica all’art. 70. Solo una delle tante cose contro cui ha gridato da quel palco. Sui quotidiani è arrivato ben poco. Al solito. Il suo intervento, più o meno, è stato riassunto dai media in due passaggi: 1. Grillo ha detto che torna a fare il capo. 2. Grillo ha detto che il nostro premier è un “menomato morale”. Il piombo restante era per le beghe reali o presunte della “classe dirigente” grillina. Una veloce ricerca su youtube e 27 minuti di tempo. Io il video dell’intervento l’ho visto. E ci sono cose che, in qualche modo, ritengo indimenticabili. Quasi un avvertimento per chi sta a sinistra. Un sussulto. Il leader risorto “dal lato” – racconta – non riesce a stare a lato. La notte non dorme, ha la gastrite, sente l’obbligo impellente di immaginare un altro mondo: «Voi che avete la mia età – apostrofa il pubblico che lo ascolta – ve lo ricordate quel sentimento del vaffanculo? Ve la ricordate quella ribellione? Ecco noi dobbiamo cercare di trasmetterlo a questa generazione che non lo conosce». La capacità di ribellarsi, di rifiutare questa politica e ricominciare «a fare le cose per gli altri». Ha detto così. E ha aggiunto: «Quello che dicono e poi scrivono di noi è una proiezione di quello che sono loro. Loro non percepiscono più le emozioni degli altri, perché non hanno emozioni». E poi «siamo nati dalla rabbia buona, e la abbiamo portata dentro le istituzioni perché è una rabbia non violenta». «Voi, noi, siamo dei disadattati, siamo “costretti” a immaginare un altro mondo». Cita Joseph Stiglitz, Muhammad Yunus, padre del microcredito moderno, la Blue Economy, racconta di come aveva previsto il crack della Parmalat già due anni prima e solo leggendo un bilancio. Perché lui è «un ragioniere» precisa. Perde la calma parlando di Jobs act e di flessibilità: «Flessibile vuol dire che si flette ma poi torna allo stato di prima, questa è una presa per il culo invece». E chiede il reddito di cittadinanza, per iniziare, e poi quello universale. Perché prima devi avere un reddito e poi ti vai a cercare un lavoro. E perché quella che dobbiamo costruire è «l’economia della conoscenza e della solidarietà, nessuno deve rimanere indietro e non si tratta di essere passionevoli ma di avere i coglioni. Perché la povertà è un bellissimo concetto filosofico ma oggi è miseria e la miseria è una cosa seria». E urla sempre, e perde la voce. È sboccato Grillo non c’è dubbio.
Stesso giochino con Virginia Raggi. Le uniche cose che avete letto sui giornali sono un balletto, indecente per i nobili colleghi giornalisti, e un termine detto e ridetto “bello, bellissimo”. Ma anche qui, per onestà, se avete tempo e voglia, ascoltate i 14 minuti di intervento del sindaco di Roma che, dopo aver ripetuto più volte “bello e bellissimo”, ha – con altre parole – espresso tre concetti: 1. dobbiamo ricominciare a «fare ciò che serve. Per gli altri». 2. «il futuro è nelle nostre mani. Mani libere». 3. «il No alle Olimpiadi ha messo paura al potere. E il No al Referendum li seppellirà», facendo riferimento alla classe di governo. Parole semplici. Già immagino le critiche: volgare, demagogico, populista, un movimento pericoloso, la politica è altra cosa, la democrazia poi, figuriamoci. Sì certo, la politica è altra cosa, la democrazia pure. Io però la mattina del lunedì dopo Palermo, in uno studio televisivo, accanto a me avevo Italo Bocchino che mi spiegava quanto fosse fondamentale tornare al proporzionale per permettere a Renzi di governare con Berlusconi: Pd+Pdl, «l’unica soluzione possibile». Anzi, Bocchino si è preso la briga di spiegarmi la riforma all’Italicum su cui già si lavora, in accordo tra le parti: se la sera delle elezioni nessuno raggiunge il 40%, si passa al sistema proporzionale, che permette alleanze. E sarà possibile governare. Ancora. Insomma, le truppe – le solite – si riorganizzano. Chiaro?
E io ho avuto un sussulto. Per chi sta a sinistra, se questa è l’alternativa, alternativa non c’è. Rimane Grillo e quella rabbia buona. Perché la Sinistra – al momento – non perviene o non produce sussulti. Non fa le cose per gli altri. Ci ruberà anche il No Grillo, ho pensato. Persino quell’indomabile senso di ribellione che “obbliga” a “immaginare un altro mondo”. Perché la sinistra che viviamo si è persa nei giochini. Non ha forza, neanche quella di dire No. Produce No parziali o si perde a distinguere un No dall’altro, in un’infinito gioco al ribasso o al rialzo che uccide tutto. Ve la ricordate invece – dice Grillo – «quella roba di quando avevate 20 anni»? Quel sentimento, la reazione a fior di pelle, la ribellione? Io sì.

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Viaggio fra gli ultimi pagani

Nel 2001 la “battaglia di Wamat” fu uno dei più violenti scontri a fuoco per i soldati Usa che avevano invaso l’Afghanistan per “liberarlo” dai talebani. Le cronache descrivevano quell’area del Nuristan come una delle più pericolose enclave di Al-Qaida. «Eppure, mentre avveniva quello scrontro mortale a pochi chilometri di distanza in linea d’aria, un insegnante greco, Athanasios Leroinis, dormiva pacificamente. Pur essendo straniero era stato accolto nella festa locale in onore del solstizio», racconta Gerard Russell che per vent’anni ha studiato le culture e le religioni, (molte delle quali pagane) minacciate dai fondamentalisti in Medio Oriente e in Afghanistan, dove in passato ha avuto incarichi diplomatici da parte del governo britannico e delle Nazioni Unite. Il professore greco fu accettato alla festa dopo aver sacrificato alcune capre agli dei e dee che popolano il pantheon del popolo kalasha. Bevve vino e il forte brandy di produzione locale e poi ballò tutta la notte con le donne in costumi tradizionali gialli e rossi e cappelli decorati con conchiglie. Formavano cerchi intorno agli uomini, ondeggiando al ritmo del canto. Eppure si trovavano nel centro geografico dell’Islam più radicale, fa notare Russell. Athaniosis si era trovato a vivere fra gli ultimi pagani del Pakistan. In una zona impervia dell’Afghanistan vicina al confine, una valle circondata da montagne che avevano protetto le tribù locali dagli invasori, fin dai tempi di Alessandro Magno. E poi da Tamerlano e da incauti missionari cattolici che avrebbero voluto convertire le popolazioni autoctone. Nel XVIII secolo alcuni di loro si erano avventurati nell’Hindu Kush, racconta Russell nel libro Regni dimenticati (Adelphi); arrivati nella regione del Kafiristan uno di loro fu ucciso perché scambiato dai bellicosi kafir delle montagne per “uno spirito maligno”. I Kafir sono ancora oggi suddivisi in molti clan e i Kalasha sono un sotto gruppo molto particolare. «Sono sopravvissuti a molte minacce perché vivevano in aree molto isolate, difficilissime da raggiungere», ci spiega Gerard Russell.

«Lo stesso è accaduto agli Yazidi, oggi non solo nel mirino dei miliziani dell’Isis, ma molto a rischio anche perché sono stati sospinti in zone di conflitto vicino al confine curdo. Nei secoli gli Yazidi hanno subito innumerevoli attacchi. Anche l’impero ottomano cercò di sterminarli. Sono sempre riusciti a scamparla perché si nascondevano in grotte e altri luoghi segreti». Parliamo di centinaia di migliaia di persone distribuite fra l’Iraq settentrionale e alcune zone della Siria, della Georgia, dell’Armenia settentrionale. Gli Yazidi professano una religione sincretistica caratterizzata da curiosi divieti come quello di indossare vestiti blu. Gli uomini devono portare i baffi. Credono nella reincarnazione, offrono i tori alla divinità, mentre venerano i pavoni. La leggenda che fossero adoratori del diavolo è stata spesso usata come “giustificazione” per attaccarli.
«Ciò che colpisce e che gli yazidi tengono molto alla propria identità culturale, anche se la loro religione, come quella di altri popoli che ho raccontato in questo libro, è esoterica, dunque segretissima. Non c’è una precisa teologia e molti di loro non sanno che cosa insegnano gli antichi riti, ma si sentono ugualmente parte di quella collettività, di quella tradizione, e vogliono continuare ad esserne parte, come se questo fosse un elemento di “forza”, per loro è un orgoglio».
Tanto che Russell racconta di aver incontrato insospettabili mandei, drusi ecc. fra giovani professionisti “in giacca e cravatta” e ben inseriti nella società occidentale trovandoli ancora legatissimi alla loro cultura di origine. Il massimo della sorpresa, dice Russell (che parla correntemente più lingue, fra cui l’arabo e il persiano) fu quando, in un mercato di Detroit sentì una signora parlare in aramaico, la lingua franca del Medio Oriente in epoca pre islamica.
Nel 2009 in un Caffè di Manhattan, invece, incontrò una giovane donna mandea di nome Nadia Gattan. Veniva dall’Inghilterra dove aveva avuto asilo. Cresciuta in una famiglia benestante e laica di Bagdad si definiva una irachena sfegatata («emotiva e passionale non come gli europei») ma anche mandea, appartenente a una tradizione che si era sviluppata nelle zone paludose dell’Iraq dove vissero gli ultimi babilonesi. Ma la religione mandea è monoteista e con molte anologie con il cristianesimo. I Mandei credono in Adamo, ma rifiutano Abramo. Mentre il rito del battesimo viene praticato con un’immersione rituale nel fiume Tigri.
Di fatto per lunghi periodi di tempo culture e religioni differenti sono coesistite in Medio Oriente avendo molti rapporti di scambio. Accadde anche nella latinità pagana che ospitò il culto di Mitra, poi sussunto dal cristianesimo, e quello esoterico di Iside che prevedeva il sesso rituale come iniziazione. A Roma arrivò anche Eliogabalo dalla siriana Homs portando un meteorite nero per il tempio latino più grande. Divenne imperatore nel III secolo e sostituì il culto di Giove con quello del Dio sole.
I Drusi in Libano, invece, adoravano l’Uno, «assolutamente senza tempo e privo di imperfezioni umane». Di derivazione pitagorica questo e altri antichi culti pagani furono in gran parte spazzati via dal Cristianesimo, una volta diventato religione di Stato. «Non so se si possa dire che l’Islam sia stato tollerante in passato. Lo stesso vale per il Cristianesimo», risponde Gerard Russell quando gli chiediamo della particolare ferocia con cui i cristiani si scagliarono contro i pagani e i loro templi nel IV secolo. «Io penso che tutte le religioni abbiano le stesse forme di violenza. Per quanto possa apparire tollerante, una religione monoteista presenta sempre dei momenti in cui emerge l’idea di uccidere nel nome di Dio. A volte anche a livello “popolare”, non solo dei capi. Pensiamo per esempio a quel che accadde ad Alessandria di Egitto, quando incitati dal vescovo Cirillo, gruppi di cristiani uccisero la filosofa neoplatonica Ipazia». E non meno crudele è oggi l’Isis, sottolinea l’ex diplomatico che dopo la laurea ad Oxford è diventato ricercatore al Carr Center for Human Rights della Harvard Kennedy School.
«Anche se per lunghi periodi minoranze di religione differente vissero fianco a fianco in Medio Oriente, anche se gli Ottomani non obbligavano alla conversione popoli conquistati (che così pagavano più tasse), in generale i religiosi pretendono che tutto il mondo diventi credente», afferma l’autore di Regni dimenticati. La storia dice però che nelle regioni irachene i pagani continuarono ad essere più numerosi dei monoteisti anche dopo la conquista musulmana. «L’Islam non aveva un impero» commenta Russell. «Con il Cristianesimo l’impero romano divenne un governo molto funzionale e impose il monoteismo in modo assai efficiente. Non accadde lo stesso nel mondo musulmano. Gli arabi non cercarono di interferire con la religione altrui per molti secoli, anche perché non ne avevano la forza». Quanto all’attualità, per cercare di capire cosa sta accadendo nel mondo arabo, Gerard Russell invita ad osservare in primis due fenomeni: «Il primo è che cento o duecento anni fa il mondo arabo era molto più inclusivo dell’Europa. Il secondo è che il Medio Oriente ha fatto un balzo indietro molto preoccupante negli ultimi quaranta o cinquant’anni. In periodi di guerra e di conflitti le religioni si radicalizzano, prendono alla lettera il testo sacro, sbandierato come giustificazione per attaccare “gli infedeli”. Fino agli anni Cinquanta del Novecento potevamo essere ottimisti riguardo alla possibilità di superare una volta per tutte il fondamentalismo religioso; la fiducia veniva dalla scuola, dalla politica che tentava di smontare l’odio verso culture diverse. Oggi sembra di essere piombati nel medioevo».
Anche la distruzione del patrimonio artistico da parte dell’Isis rientra in questo quadro? «Il problema è sempre lo stesso: i fondamentalisti dell’Isis pretendono che la condanna degli idoli venga presa in senso letterale. Ma la maggior parte dei musulmani non la pensa così, sono orgogliosi di essere siriani o iracheni e vogliono preservare il proprio patrimonio artistico. È un grosso problema quando arriva qualcuno che dice: abbiamo trovato nel libro sacro la giustificazione per quello che stiamo facendo. Nella furia distruttiva di questi estremisti vedo la fine della fiducia nello Stato, la volontà lucida di distruggere le nazioni più “liberali” e il loro patrimonio culturale. L’unica cosa che deve esistere è l’Ilslam. In questo senso dico che mi sembra una questione molto politica. Il punto è che le iniziative democratiche sono state pigre, estremamente deboli». Il risultato, conclude l’ex diplomatico, è quello che vediamo: «Un mondo arabo molto frammentato e diviso da laceranti conflitti»

Cinque assessori al bilancio che avremmo nominato al posto di Raggi

Virginia Raggi in Campidoglio
Il sindaco di Roma Virginia Raggi nell'aula Giulio Cesare durante l'assemblea capitolina straordinaria sulla presentazione della candidatura di Roma ai giochi olimpici 2024, 29 settembre 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Roberto Saviano dalle nostre pagine ha suggerito una strada a Virginia Raggi: «Alessandro Di Battista assessore al bilancio». L’idea di Saviano, per nulla sbagliata, era quella di riconoscere così che quello dell’assessore al Bilancio è un incarico politico, che i tecnici si possono sempre prendere come consulenti, ma che decidere dove allocare le risorse è l’azione fondamentale di una giunta, da cui poi dipende tutto – o quasi. La sindaca sembrava escludere un’ipotesi così. Voleva un tecnico, magari un giudice. I no però son stati molti (anche per effetto dei veti incrociati nel Movimento) e qualcosa è dunque cambiato. Al bilancio del Comune andrà Andrea Mazzillo, suo fedelissimo, commercialista, docente a Tor Vergata ma soprattutto suo tesoriere elettorale e (brevemente quindi) capo dello staff in Campidoglio.

In qualche modo è così passata l’idea di Saviano, anche se con un profilo certo meno pesante di Alessandro Di Battista. Noi di Left però avevamo pronta una lista, altri nomi per Virginia Raggi, altri suggerimenti. E visto quanto sono durati gli assessori al bilancio finora, la lasciamo qui per ogni evenienza.

È un po’ un gioco un po’ no, viste le reali difficoltà della sindaca. Sappiamo sarebbe tentato, ad esempio, Ernesto Longobardi. Per noi è un prezioso collaboratore, ma siamo pronti a concederlo in prestito. Economista, professore di Scienza delle finanze presso il Dipartimento di Scienze economiche e metodi matematici dell’Università degli studi di Bari “Aldo Moro”, è anche consigliere economico del sottosegretario per gli Affari regionali, le autonomie e lo sport, Gianclaudio Bressa. Collabora quindi con palazzo Chigi ma con il governo è spesso critico, non è certo compiacente. Così ad esempio ha stroncato la proposta di abolizione indiscriminata della tassa sulla prima casa: «Con l’annuncio della detassazione dell’abitazione principale, Matteo Renzi emula in maniera sfacciata Silvio Berlusconi, il quale, esattamente con la stessa proposta, vinse una prima volta le elezioni, nel 2008, e una seconda volta, nel 2013, rimediò all’ultimo momento a una ormai certa sconfitta elettorale, impedendo al Pd di Bersani una piena vittoria». Per capire il personaggio, il suggerimento è di sentire il suo intervento alla nostra festa, nel 2014, quando citando largamente il maestro Bruno Trentin, ci spiega perché «l’attacco al lavoro di questi anni sia anche l’attacco al tempo libero».

Altro economista – ma di solida cultura politica, di sinistra – è Emiliano Brancaccio. Un economista critico (e che tiene all’indipendenza, quindi forse lui non accetterebbe), docente di Economia politica presso l’Università del Sannio e promotore del “monito degli economisti” pubblicato nel 2013 sul Financial Times. Quando già si potevano mettere insieme gli elementi oggi alla base dello scetticismo sulla tenuta del processo di unificazione europea. Per contrastare il processo (ricercato) di svalutazione del lavoro, Brancaccio è tra quelli che hanno più volte sostenuto l’urgenza di uno standard retributivo europeo. Inascoltato.

Ancora più politica sarebbe la scelta di Vladimiro Giacché. Come Brancaccio il lavoro di Giacché è più sulle dinamiche europee e i mercati globali, ma i principi (marxiani) sono molto ben formati e si possono applicare a un comune come Roma, che peraltro ha il suo penare nella finanza creativa. Giacché – che si è candidato una volta, però, con Ingroia e non sappiamo se sia un problema – lavora nella finanza, a Sator, ma ha formazione filosofica, con un dottorato di ricerca alla Normale di Pisa. Lettura più agevole dei suoi molti (e godibili) volumi (Anschluss. L’annessione. L’unificazione della Germania e il futuro dell’Europa, Costituzione italiana contro trattati europei, entrambi Imprimatur, sono gli ultimi), suggeriamo in questo caso di riprendere questa intervista a La Stampa, su Mps, rilasciata proprio ai tempi della candidatura con Rivoluzione civile.

Il quinto nome è più complicato. Ricevere un no per risposta è molto probabile ma anche solo chiedere sarebbe un gesto politico sorprendente. Si potrebbe chiedere il sacrificio a Francesca Balzani, già assessore al bilancio a Genova ma soprattutto nella Milano di Pisapia. Balzani è stata anche candidata alle primarie del centrosinistra milanese (dividendo il fronte della sinistra, e favorendo così indirettamente Sala, in effetti) ma alcune sue proposte starebbero benissimo nelle linee programmatiche del Movimento. In campagna elettorale lanciò ad esempio la prospettiva della gratuità dei mezzi pubblici. Si scatenò la polemica, ma l’idea non era poi male.

«È la disuguaglianza la minaccia per la democrazia». Pepe Mujica suona la sveglia alla Sinistra

Jose Mujica

«La disuguaglianza è la caratteristica principale dei popoli latinoamericani ed è la “maggiore minaccia” per la democrazia nel mondo». Pepe Mujica non si stanca mai di ripeterlo. E, nell’epoca del cinismo e della complessità, la semplicità pura delle sue parole suona più che mai necessaria.

Questa volta, l’occasione è il terzo Incontro latinoamericano progressista (Elap). E da Quito, in Ecuador, l’ex presidente dell’Uruguay pone la questione della «gigantesca paralisi delle risorse, che non si possono usare per la vita umana e per le questioni sociali». Ma alla platea, composta per lo più da rappresentanti dei governi e dei partiti progressisti del suo continente, non cessa di richiamare con forza: «Il peggior nemico della Sinistra è la divisione interna, che mai deve essere d’accordo con l’estrema destra ma deve stringere alleanze intelligenti in favore dei processi progressisti». E scomoda la storia europea, per fondare la sua tesi, la Germania di Adolf Hitler e la Spagna di Francisco Franco, Paesi in cui «il conflitto interno tra socialisti, comunisti e anarchici fu molto più forte della lotta contro il fascismo».

Mentre il suo continente vede i governi progressisti – proprio quelli che gli siedono davanti a Quito – cadere uno a uno sotto i colpi di stato più o meno bianchi, Mujica, sente l’esigenza di appellarsi alla «necessaria unità nella diversità della sinistra con una sana prospettiva». E insiste sull’importanza del ruolo della militanza e dei partiti come strumenti che esprimono le volontà collettive e che non devono essere trascurati quando si arriva al potere. Prende come esempio l’Argentina dove «non ha vinto Macri ma ha perso il giustizialismo, nonostante avesse una larga maggioranza, con i conflitti interni lo hanno indebolito, fatto a pezzi».

«Vivere in funzione di ciò che si pensa e condurre una vita che rappresenti le idee per le quali ci mobilitiamo». Questo in poche, chiarissime, parole è la strategia di Pepe. Semplicità e coerenza, così del resto lui ha costruito la sua immagine oggi quasi leggendaria. Ricordate la foto del presidente Mujica in fila all’ospedale? Perché la lotta, insiste, non è «per un pezzo di potere o per sedersi su una poltrona, la lotta strategica è per il cambiamento culturale. E va bene che la destra coltivi la sua immagine, ma noi non dobbiamo coltivare quella immagine. Dobbiamo vivere come vive l’immensa maggioranza dei nostri popoli, la questione dell’immagine è una forma di comunicazione e di rispetto». L’autore di La felicità al potere – «Veniamo alla luce per essere felici» – anche stavolta non manca di tenere al centro l’Uomo: «La natura umana è svilita dal denaro», dice Pepe, «tuttavia non è colpa del denaro. La colpa della debolezza umana è del valore che diamo al nostro potere d’acquisto».

A provocare la disuguaglianza, poi, c’è la brutta tendenza alla delega assoluta: «Qualcuno crede che ci siano classi superiori, che, anche con le migliori intenzioni, siano loro le classi dirigenti e pensano che i lorsignori debbano governare per organizzarci la vita. Oggi un’ottantina di signori possiede quanto la metà dell’umanità, dunque questo problema della disuguaglianza è che il tasso di crescita del capitale sia più importante del tasso di crescita del capitale globale dell’economia sono le minacce più feroci per la democrazia nel mondo intero. Abbiamo visto comparire soggetti economici con tali dimensioni da pesare più degli Stati, ma che possiedono il vantaggio di non avere una bandiera, né un inno né vergogna… però accumulano e continuano ad accumulare».

Mujica mette in guardia sul fatto che il commercio delle imprese multinazionali cresce più del commercio interno. «L’economia sta crescendo a scossoni ma molto di più cresce la concentrazione della ricchezza». La disuguaglianza «è la caratteristica contemporanea più forte ed è la minaccia più grande per la democrazia nel mondo perché i governi devono farsi carico del peso delle lobby impegnate nella concentrazione del capitale». E la speculazione non trova ostacoli: «Dobbiamo porre un freno a questo sistema o l’umanità potrà vivere il crepuscolo della democrazia. Le nostre repubbliche possono trasformarsi in reliquie» ancora prima che questa sorte tocchi le multinazionali, continua.

Nel lungo discorso, Mujica non si risparmia. E considera anche le prossime Presidenziali Usa. Ci sono nordamericani che voteranno per Trump, avverte: «È la stanchezza della classe media statunitense», avverte. E ricorda il caso dei lavoratori metallurgici negli Stati Uniti, che continuano a guadagnare «quanto guadagnavano i loro nonni».

Deutsche Bank, che succede e perchè Usa ed Europa litigano sulle regole

Deutsche Bank
epa05542104 A Deutsche Bank logo in front of a board with the German stock index DAX graph on the floor of the stock exchange in Frankfurt am Main, Germany, 16 September 2016. The threat of a multi-billion dollar fine for Deutsche Bank in the USA dampens the mood in the German stock market. Stocks from the bank dropped more than 8 percent. EPA/ARNE DEDERT

Le borse europee e non solo sono in allarme per Deutsche Bank: il colosso bancario tedesco che il governo di Berlino – che smentisce come si fa sempre in queste occasioni – potrebbe acquisire (bail in) per salvare dal tracollo. Due settimane fa l’ultimo colpo: la multa da parte del Dipartimento di Giustizia per il ruolo giocato nella crisi dei subprime, 14 miliardi di dollari.

La direzione della banca parla di «forze del mercato che vogliono affossare l’istituto», accusando gli hedge fund che, preoccupati per le condizioni dei conti della banca, hanno deciso di disinvestire. La dirigenza rassicura sullo stato di salute della banca, i cui titoli hanno toccato i minimi storici. E sostiene che riuscirà a spuntare un taglio della multa come capitato a molti istituti americani già colpiti dai provvedimenti del Dipartimento di Giustizia.

In questo contesto va segnalata la disputa tra Europa e Stati Uniti sugli accordi di BasileaII, le regole bancarie internazionali rinegoziate negli anni passati per cercare di impedire nuovi collassi bancari come quelli degli anni immediatamente successivi alla crisi dei subprime. La situazione è paradossale: fino a pochi mesi fa era lEuropa ad insistere perché le regole venissero applicate in maniera rigorosa – tra le altre cose, queste prevedono quantità di capitali disponibili più alte rispetto alla quantità di investimenti fatti, proprio per evitare uno scoperto eccessivo in caso di crisi. Oggi il commissario ai servizi finanziari europeo Valdis Dombrovskis, si dice pronto a lasciare Basilea se le riforme alle regole verranno implementate. Il motivo è semplice: la ripresa europea è lenta e faticosa e il settore bancario in difficoltà non è particolarmente propenso a prestare soldi. Le nuove regole, ritengono in Europa, aumenterebbero questa propensione a non prestare.

Quanto a Deutsche Bank, a luglio scorso dedicammo la copertina a quella che chiamavamo una bomba a orologeria. Qui sotto l’articolo di Guido Iodice che pubblicammo allora.


È Deutsche Bank la bomba a orologeria sotto la sedia del capitalismo

schermata-07-2457584-alle-12-35-19(di Guido Iodice)

 

La fragile situazione del Monte dei Paschi di Siena tiene occupata gran parte della stampa italiana e non solo italiana. Ma mentre le preoccupazioni per il piccolo Istituto senese si ingrossano, molta poca attenzione viene dedicata al vero, gigantesco bubbone del sistema bancario mondiale: Deutsche Bank (DB). Nata nel 1870 per liberare i mercanti tedeschi dal predominio della finanza anglosassone, che lucrava sul commercio internazionale del nascente Secondo Reich, dopo quasi un secolo e mezzo di attività è divenuta una delle più grandi banche d’investimento del mondo, comparabile con Goldman Sachs o JP Morgan: 100mila dipendenti in 70 Paesi, oltre 1.600 miliardi di asset e interessi che spaziano in tutte le direzioni, dalle valute (è la banca leader nel “forex”) ai mutui, fino ai derivati. E come vedremo proprio i derivati rappresentano la vera incognita del colosso tedesco. DB accusa la crisi finanziaria globale del 2008 ma sembra uscirne abbastanza bene, nonostante fosse pesantemente esposta al crollo dei mutui subprime e una dei maggiori operatori nel mercato delle obbligazioni collateralizzate (Cdo). Anzi, come rivelerà un’inchiesta del Senato americano, DB continuò imperterrita a trattare debiti dubbi con i suoi Cdo anche negli anni successivi.

I guai grossi per DB però iniziano con lo scandalo Libor, ovvero la manipolazione dei tassi di interesse, che ha coinvolto molte delle principali banche d’affari mondiali. DB viene multata nel 2013 per 259 milioni di euro dalla Commissione Europea e poi per circa 2,5 miliardi di dollari dalle autorità americane e britanniche nell’aprile 2015. Nell’ottobre dello stesso anno DB annuncia una pesante ristrutturazione: taglio del 9% del personale, ritiro da 10 Paesi e una pesante sforbiciata alle consulenze. Ma tutto ciò non basta e il titolo continua a soffrire in borsa. La corsa di DB sembra quella di un altleta che, già azzoppato, riceve uno dietro l’altro delle sprangate alle gambe. Solo pochi giorni dopo la maximulta, DB è multata nuovamente dalle autorità americane di altri 257 milioni di dollari per aver lavorato con Paesi colpiti da sanzioni. Nel gennaio 2016 DB annuncia che il 2015 è andato molto male, con una perdita di 6,8 miliardi di dollari. Il resto è storia delle ultime settimane. Il 23 giugno la Brexit fa precipitare il titolo di DB che perde l’11% (-45% dall’inizio dell’anno).

Il 29 giugno il Fondo Monetario Internazionale definisce DB «il più grande contributore del rischio sistemico», vale a dire la banca più grande e fragile del mondo. E già nel marzo 2016 la banca aveva dichiarato un valore “nozionale” dei derivati in suo possesso pari a 52mila miliardi di dollari, una cifra stratosferica grande oltre 13 volte il Pil tedesco. A questo va aggiunto che la “leva finanziaria” di DB (vale a dire il rapporto tra impieghi e capitale) è pari ad un fattore 40 secondo l’analisi di Berenberg Bank. Il che significa che una svalutazione degli attivi (ad esempio dei crediti inesigibili) pari ad appena il 2,5% azzererebbe il capitale del colosso tedesco. Il giorno dopo, 30 giugno, la Federal Reserve, in qualità di autorità di controllo del sistema finanziario americano, boccia DB agli “stress test”, accusandola di cattiva gestione del rischio. La crisi di DB pare non avere mai fine. Per averne un’idea, le azioni della banca tedesca valevano il 7 luglio 2016 solo 11,7 euro, un decimo di quanto valessero nel maggio 2007 prima del tracollo che ha preceduto la “Grande Recessione” mondiale. Attualmente il valore in borsa di DB, una delle più grandi banche al mondo, è circa quello della piccola azienda che ha creato la famosa applicazione Snapchat. Pensiamo pure a salvare Mps, ma la bomba inesplosa della finanza globale non è certo sepolta sotto Piazza Salimbeni.

E se la serie A aiutasse lo sport per tutti? Tommasi e Ulivieri sponsor della proposta di legge

Il presidente dell'Associazione Italiana Calciatori Damiano Tommasi, in occasione del consiglio direttivo Associazione Italiana Calciatori, 6 ottobre 2014. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

I grandi del calcio, quelli che guadagnano decine di milioni che danno una mano allo sport sociale, ai campetti di periferia, alle squadre dilettanti. Un sogno, un’utopia? Quando l’estate scorsa Higuain è stato venduto per 90 milioni, il mondo della scienza ha fatto notare che più o meno era la stessa cifra che ogni anno viene data ai Prin, i progetti di ricerca degli scienziati italiani.

La proposta di legge presentata ieri alla sala stampa della Camera dal deputato Giulio Marcon (indipendente di Sinistra italiana) non eliminerà certo questa stortura colossale tutta italiana – perché all’estero la ricerca viene finanziata molto, molto di più – ma almeno potrebbe consentire la sopravvivenza e lo sviluppo dello sport sociale, di quelle decine di milioni di sportivi della domenica o di giovani che non hanno strutture né palestre per praticare un’attività che li appassiona. Ispirandosi a una legge analoga francese, Marcon e molti altri firmatari di diversi schieramenti, hanno elaborato un testo molto semplice, «da migliorare, certo», afferma il deputato. In Francia tutte le discipline sportive sono coinvolte.

La proposta di legge italiana prevede di dedicare il 5% dei diritti televisivi relativi alle partite di calcio di serie A e B “al finanziamento dello sport sociale e per tutti e dello sport paralimpico”. «Il 3% allo sport sociale e il 2 % alle società dilettantistiche e all’impiantistica. Visto che dai diritti televisivi si ricava 1 miliardo e 200 milioni, il 5% sarebbero 60 milioni, una cifra che servirebbe a far ripartire un settore che in questo momento di crisi langue e ha bisogno di risorse». Certo, decisamente qualcosa in più rispetto ai 500mila euro che la deputata Laura Coccia (Pd) era riuscita a strappare con un suo emendamento sulla proposta di legge sul riconoscimento e promozione sociale dello sport. Proposta di legge che, come dice Filippo Fossati (Pd), primo dei firmatari, dal 2013 è finita arenata in qualche cassetto.

Marcon ha presentato il progetto di legge insieme a Vincenzo Manco, presidente dell’Uisp e a due grandi del calcio italiano: Renzo Ulivieri, presidente dell’associazione allenatori italiani e Damiano Tommasi presidente dell’associazione calciatori. Due sportivi impegnati in prima persona in attività di impegno sociale, come ha ricordato Marcon. «Quando ho chiamato Ulivieri era a Beirut ad allenare una squadra di profughi, mentre Tommasi l’ho conosciuto vent’anni fa nelle missioni di pace nella ex Jugoslavia».

Ulivieri ha ricordato l’importanza di una tale iniziativa di legge e nelle sue parole si è sentito l’uomo di sinistra oltre che sportivo. «Bisogna prendere atto che accanto allo sport d’élite c’è anche un altro sport, e sarebbe giusto che quello che produce spettacolo e risorse dia una una mano a quello vissuto direttamente dal cittadino». Secondo il mister  non ci può essere contrapposizione tra i due sport. «Sarebbe una visione miope: lo sport d’élite se non ha una base poi non sta più in piedi. E dall’altra parte è vitale che i cittadini abbiano il diritto alla salute fisica, mentale e sociale». Ulivieri sottolinea il pericolo che i giovani se ne stiano in casa a giocare davanti al pc: «Quel tipo di pratica significa isolarsi, invece bisogna riprendere la strada per camminare insieme», dice l’“allenatore militante”.

«È la prima volta che calciatori e allenatori vengono interpellati in una iniziativa come questa proposta di legge», dice Damiano Tommasi, spiegando anche lui come non possa esistere separazione così abissale tra i calciatori professionisti e Vip e la massa di sportivi dilettanti. «Ricordiamoci che i calciatori sulle figurine, prima di giocare sono stati anche loro collezionisti di figurine». Il presidente dell’associazione calciatori, sottolinea poi altri problemi che non finiscono mai nelle pagine dei media sportivi, come per esempio cosa succede a un calciatore post carriera, non riferendosi certamente ai campioni o il problema di retrocessioni che costano bagni di sangue. Se ci fosse più mutualità, se i grandi aiutassero i piccoli e permettessero la sopravvivenza del tessuto sociale anche attraverso la pratica dello sport, beh, forse sarebbe un passo avanti. Per tutti, sportivi e non sportivi.

Greta Garbo e le altre divine. Le Giornate del muto

Il fascino del bianco e nero. Di un cinema senza parole, fatto di primi piani.  La stagione d’oro della settima arte rivive ogni anno a Pordenone grazie alla Cineteca del Friuli. Dal primo all’8 ottobre al Teatro Verdi un’intensa settimana di film e musica dal vivo aspetta i cinefili al Teatro comunale Verdi con la trentacinquesima edizione delle Giornate del cinema muto. Ad inaugurare l’edizione 2016 è The Mysterious Lady (La donna misteriosa, 1928), dramma romantico diretto da Fred Niblo in cui la Divina veste i panni di una spia russa.  Mentre dal vivo 61 elementi dell’Orchestra San Marco di Pordenone diretti dal Maestro Carl Davis eseguono una partitura tratta dalla Tosca di Puccini evocata nel film.  A contrassegnare l’apertura contribuisce anche un omaggio a Nizza colpita dall’attentato del 14 luglio scorso, con il cortometraggio À propos de Nice (1930) di Jean Vigo. E poi cult, inediti e ritrovamenti in storici archivi cinematografici come il Danske Filminstitut di Copenhagen da cui è riemerso L’onore riconquistato (1913), un film italiano creduto perduto che contiene rare scene della guerra italo-turca in Libia. E molto, molto, altro. Abbiamo chiesto al direttore delle Giornate del cinema muto,  Jay Weissberg di guidarci nel fitto programma, ecco cosa ci ha detto:

 Greta Garbo, R.H. Louise / Credits: J. Kobal Foundation
Greta Garbo, R.H. Louise / Credits: J. Kobal Foundation

ml06_photoplayJay Weissberg, nel film La donna misteriosa, Greta Garbo, nelle vesti di una spia russa, tornava ad evocare Mata Hari?

È stupefacente vedere come sia ancora forte, dopo un secolo, l’immagine di Mata Hari… Se non esistesse, dovremmo inventarla! Tendiamo subito a pensare a Mata Hari ogni volta che si pronunciano le parole “donna, spia seducente”. La Garbo interpretò Mata Hari nel 1931.  Alcune caratteristiche di quel personaggio tornano in Tania Fedorova, La donna misteriosa. La storia è ambientata negli anni che precedono la  prima guerra mondiale. Lei è una spia russa che fa di tutto per raccogliere informazioni dagli austriaci. Quello che non ha previsto è di innamorarsi dell’uomo che doveva sedurre. La cosa notevole del film, a parte la sua assoluta bellezza visiva, è che la Garbo si realizza, finalmente, come Garbo. Non è più la tentatrice da fumetto di The Temptress o Flesh and the Devil, ma una donna  di avvolgente sensualità, con un cuore vero, che batte. Il regista, Fred Niblo, tratta la sua bellezza da “feticista”, eppure riesce a creare una figura in carne e ossa, ed è impossibile non rimanere a bocca aperta quando siamo seduti a guardarla, ci incanta.

16th May 1928: Swedish-American actress Greta Garbo (1905 - 1990) as the glamorous Russian spy Tania in the romantic drama 'The Mysterious Lady', Greta Garbo (Photo via John Kobal Getty Images)
‘The Mysterious Lady’ Greta Garbo (Photo John Kobal Getty Images)

L’altra protagonista assoluta di questa edizione è Francesca Bertini che accettò una grande sfida: interpretare Shakespeare, senza pronunciare i suoi versi, puntando tutto sull’espressività del volto e dei gesti.

Credo che il pubblico resterà sorpreso vedendo la riuscita di questi film shakespeariani e la loro efficacia narrativa; per non parlare della qualità della recitazione. Sono stati girati per un pubblico che aveva una buona conoscenza delle opere teatrali, il punto non era raccontare la trama per intero, ma rendere vivi passi ben noti che sarebbero stati riconosciuti da tutti. La Bertini aveva solo 18 anni, e in queste opere si esprime in modo meravigliosamente contenuto. Non è ancora la diva. Anche se non dimentichiamo che fu sempre  un’interprete molto più naturale rispetto a tante sue colleghe, senza la loro gestualità esibita e stereotipata. Le scene con Ermete Novelli nel Re Lear, specie quando nelle vesti di Cordelia consola suo padre, sono toccanti perché comunicano la pienezza delle emozioni senza avere bisogno di parole.

La terza personalità femminile che spicca nel programma di quest’anno è Tilde Kassay, che tipo di diva era?

I misteri sono sempre affascinanti, e Tilde Kassay lo è stata e lo rimane: non sappiamo nemmeno i suoi dati anagrafici. Sappiamo solo che comincia a fare cinema nel 1915 e finisce dopo il 1921, anche se i critici lodavano la sua bellezza e che scrivevano che era un’attrice promettente. Se dovessi  definire il suo stile direi che è un interessante mix fra Francesca Bertini e Pina Menichelli, con la sensualità di quest’ultima resa in modo particolarmente evidente in Nanà.

Qual è l’importanza di questo ritrovamento da parte dallo stesso Museo del Cine “Pablo Ducros Hicken” che otto anni fa riscoprì le scene perdute di Metropolis?

Una riscoperta notevole, sotto molti punti di vista: il film fu realizzato nel 1917, non poté essere distribuito prima del 1919 perché la censura insisteva su tagli ripetuti. Non dimentichiamoci che Zola era considerato autore scandaloso. La copia che proiettiamo a Pordenone proviene dallo stesso collezionista privato che possedeva le scene mancanti di Metropolis, e anche se non è una versione integrale, abbiamo scoperto che non è presa dalla versione del 1919 distribuita in Italia, ribattezzata col titolo Una donna funesta, ma dalla versione non censurata del 1917, che dev’essere quella distribuita in Argentina. Basta guardare la danza ammaliante della Kassay – davvero Mata Hari! – e si capisce perché i censori si siano adirati.

 Il ladro di Bagdad
Il ladro di Bagdad

Quali altre “chicche” usciranno quest’anno dal cappello magico delle Giornate?

Oh, tante, tante! La prima mondiale della partitura riscoperta de Il ladro di Bagdad è uno “scoop”, dato che la composizione originale di Mortimer Wilson non è mai stata più ascoltata dagli anni venti,  anche se era stata definita un capolavoro dai critici dell’epoca. C’è anche la bellezza dei nostri 120 anni di cinema a Venezia, con 9 film Lumière degli anni 1896-1898 girati nella Serenissima. Sull’onda del successo della proiezione-maratona di Les misérables di Henri Fescourt, quest’anno presentiamo  il bellissimo Monte-Cristo dello stesso regista (solo 218 minuti!). Penso che possa stimolare qualche curiosità  il nostro speciale sulle  elezioni presidenziali americane. Vedere questi cinegiornali, del periodo 1896-1924, permette di contestualizzare tutto ciò che stiamo vedendo oggi.

ml05_photoplayIl festival è in stretto rapporto con altri festival del muto a Londra e in altre parti del mondo. Chi sono oggi gli amanti di questi incunaboli del cinema?

Credo che il numero in continua crescita di proiezioni di film muti – che poi non sono silenziosi ma con accompagnamenti musicali dal vivo, com’era all’epoca – insieme alla quantità di festival di cinema muto che sono fioriti siano una prova del successo del messaggio diffus dalle Giornate del muto : questi film non sono pittoresche curiosità, ma una forma fondamentale di arte.  Quella contro i pregiudizi è una lotta faticosa, non c’è dubbio, ma comincia ad essere recepito il messaggio che vedere il cinema muto ci rende ancora più consapevoli della bellezza visiva del cinema, di qualsiasi epoca.

Come è cambiato il pubblico in questi 35 anni di vita del festival?

Penso che le persone interessate al cinema muto in passato fossero perlopiù appassionati dilettanti. Oggi c’è un numero crescente di professori e conservatori – mi sembra che i restauratori di film siano diventati un gruppo davvero vivo, e per tanti di loro la passione si è accesa grazie alle Giornate del muto. Festival come il San Francisco Silent Film Festival e l’Istanbul Silent Film Festival che arriva alla terza edizione a dicembre sono stati  ispirati dall’esperienza di Pordenone. E mi emoziona scoprire che rimaniamo un festival molto “ambito”: le persone conoscono la nostra buona reputazione, e comunicano il loro desiderio di partecipare. Una decina di giorni fa, il critico del New York Times Manohla Dargis ha scritto  un pezzo in cui parlava dell’identità incerta del Toronto Film Festival, mettendolo a confrontocon tre altri tre festival con profili invece, a suo avviso, ben definiti: Cannes, Sundance, e … Pordenone. Siamo in ottima compagnia!

Qui il programma completo:

 www.giornatedelcinemamuto.it

gcm_poster2016didascalie foto: Poster delle Giornate del Cinema Muto 2016 / Douglas Fairbanks, il ladro di Bagdad
Credits: Margaret Herrick Library – Academy of Motion Picture Arts and Sciences.
Greta Garbo, La donna misteriosa, (1928) di Fred Niblo credits: John Kobal Foundation
Douglas Fairbanks, Il ladro di Bagdad, US 1924) di Raoul Walsh, Credits: Photoplay Productions

Duterte paragona se stesso a Hitler (in senso positivo)

Il presidente filippino duterte
FILE - In this Aug. 25, 2016, file photo, Philippine President Rodrigo Duterte gestures with a fist bump during his visit to the Philippine Army's Camp Mateo Capinpin at Tanay township, Rizal province east of Manila, Philippines. Duterte raised his bloody anti-crime war rhetoric to a new level Friday, Sept. 30, 2016, comparing it to how Hitler massacred millions of Jews and saying how he would be "happy to slaughter" 3 million addicts. Duterte issued his latest threat against drug dealers and users early Friday on returning to his home in southern Davao city after visiting Vietnam, where he discussed his anti-drug campaign with Vietnamese leaders and compared notes on battling the problem. (AP Photo/Bullit Marquez, File)

Il Punitore vuole sterminare i tossici. Il presidente delle Filippine Rodrigo Duterte si è paragonato a Hitler, o meglio, sogna di emularlo. «Hitler massacrò tre milioni di ebrei … ci sono tre milioni di tossicodipendenti. Sarei felice di macellarli», ha detto difendendo la incredibile serie di morti extragiudiziali che stanno capitando – su suo mandato – nel Paese asiatico. Duterte, aggiunge, «Se la Germania ha avuto Hitler, le Filippine hanno il sottoscritto». Da giugno in poi sono morte 3mila persona, uccise in operazioni di polizia, da vigilantes o da killer assoldati da politici locali.

Non si tratta di narcos o boss della malavita locale, ma di piccoli spacciatori, tossici, criminali minori. Diseredati, la cui vita non conta nulla, che serviranno a rafforzare l’immagine di uomo forte dell’ex sindaco di Davao, città dalla quale parlava e dove, durante il suo mandato, sono sparite e morte centinaia di persone – in alcuni casi, si dice, lo stesso Duterte ha partecipato all’uccisione. Quanto ai tossicodipendenti, questi non sarebbero tre milioni, ma un milione e 800mila. E in questi mesi più di 700mila si sono presentate spontaneamente – per paura – al piano Tokhang, che chiede a spacciatori e tossici di arrendersi. Quale sia il loro destino, nel senso di come queste centinaia di migliaia di persone dovrebbero uscire dalla tossicodipendenza, non è affatto chiaro.

Il presidente filippino ha concluso spiegando che gli occidentali non possono impartirgli nessuna lezione: «Fanno marcire i rifugiati e se la prendono con me per qualche morto». Tutti i gruppi ebraici hanno espresso una condanna senza appello delle parole di Duterte.

Perché accettare il “meno peggio” da Renzi quando potremmo avere il “meglio”?

Il premier Matteo Renzi al teatro Metastasio di Prato per un'iniziativa pubblica a sostegno del Si' al referendum costituzionale, 24 settembre 2016. ANSA/ MAURIZIO DEGL' INNOCENTI

“Provo ribrezzo per una scheda sfacciatamente e disgustosamente di parte”, commentava un lettore sul blog di Repubblica qualche giorno fa (ma ancora visibile sul sito del quotidiano) a proposito del testo della scheda referendaria partorito da Matteo Renzi. Non dal suo governo o dalla sua maggioranza, poiché siamo ormai al punto in cui il personalismo ha conquistato la questione del referendum costituzionale. Il testo è roba sua, come l’impianto della revisione della Costituzione, riflettendo direttamente il carattere dell’autore: semplificatorio, superficiale, affrettato. L’idea che anima questo progetto è, lo abbiamo ripetuto ad libitum, quella del “meno peggio”. Vi è una pubblicità che circola sulla tv americana nella quale per promuovere un prodotto “made in Usa” si dice: non facciamo il meno peggio e non vi offriamo un prodotto che potrebbe essere migliore; vi offriamo il meglio. Renzi ci offre il “second best”, il meno peggio, e lo sa benissimo, visto che intervenendo in una delle ultime puntate di Porta a Porta ha riconosciuto che il nuovo Senato non è soddisfacente.

E però… meglio un meno peggio che nulla. Fermiamoci per un momento sulla logica del prodotto “meno peggio” prima di passare all’esame della scheda elettorale che lancia il prodotto sul mercato dei voti. Ci sono varie ragioni per dire NO e non tutte vogliono dire “nessuna riforma”. Personalmente non credo che nessuna Costituzione sia immodificabile o che la nostra Costituzione non necessiti di modifiche (del resto di modifiche ne ha avute tante dal 1948 in qua, a dimostrazione che non è scritta sulla pietra). Ritengo però che la revisione proposta ora e che prende il nome dei suoi autori – Matteo Renzi e Maria Elena Boschi – risponda a un criterio dirigistico che limita il potere dei cittadini e mette le istituzioni rappresentative su un gradino più basso rispetto al potere di un organo delegato, come è il Governo.

La logica di questa revisione è quella di adattare il governo della cosa pubblica alla struttura e alla logica di un consiglio di amministrazione – sacrificare la politica per l’amministrazione, la deliberazione larga per la decisione. In aggiunta, e così vengo alla questione che mi interessa qui, è un testo mal fatto e in alcune parti (come l’art. 70) superficiale e illeggibile; nella forma simile a un regolamento aziendale che ha bisogno di esperti per la comprensione – uno stile che non appartiene ad un testo costituzionale il quale dovrebbe invece, ci dicono i padri fondatori, andare quasi a memoria e diventare linguaggio ordinario dei cittadini i quali devono poter capire direttamente, senza intermediari, la legge fondamentale dello Stato. Sfido chiunque a imparare a memoria l’art. 70 e sfido gli estensori della revisione a riassumerlo con le loro parole. è così malfatto questo testo relativo ad un organo che parteciperà comunque alla legiferazione (anzi che potrà intervenire sulla revisione della Costituzione) che perfino i suoi autori (e tutti i sostenitori del Sì) dicono apertamente che non si tratta di un buon testo. E motivano il Sì dicendo, appunto, che è tuttavia meglio questo che nulla! Si tratta di un “meno peggio” necessario. Come non vedere che questo è un argomento infondato? Ragioniamo: se non avessimo un tetto sulla testa anche un tetto di paglia sarebbe utile per ripararci; ma abbiamo un tetto consistente e solido e non si capisce perché dovremmo preferire ad esso un ricovero di paglia. Questa la domanda da rivolgere a Renzi.

Il “meno peggio” ha un senso e una giustificazione quando non vi è nulla, o quando quel che c’è è guasto e pericoloso o disfunzionale. Ma questo non è il nostro caso. Per ritornare all’esempio del prodotto pubblicizzato dalla tv americana, dobbiamo renderci conto che Renzi ci offre un “secondo meglio” quando potremmo avere il “meglio”. Non essendoci emergenza alcuna e avendo una Costituzione che ha mostrato la capacità di resistere a varie traversie, dal terrorismo brigatista al patrimonialismo berlusconiano, non vi è motivo di proporre agli italiani e alle italiane un prodotto scadente. E passiamo alla questione dirimente, ovvero alla scheda referendaria che ci viene proposta dal presidente del Consiglio. Essa è concepita come un manifesto pubblicitario per farci comprare un prodotto scandente. Quindi insiste su quegli aspetti che colpiscono l’occhio (e le tasche) e celano il difetto. La scheda referendaria è scritta e concepita presumendo che la revisione proposta non sia delle migliori, che anzi sia un “meno peggio”. Per questa ragione non può essere resa nel linguaggio imparziale che dovrebbe avere una scheda referendaria. Se la scheda si limitasse a chiedere un Sì o un No a un testo asciutto e senza tinteggiature retoriche, come potrebbe il “meno peggio” avere la meglio? Comparando il testo del referendum del 2006, promosso da Berlusconi, con questo proposto da Renzi non possiamo che concludere quanto nella norma fosse il primo e quanto fuori dalla norma sia il secondo. Il testo del 2006 diceva: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche alla Parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 69 del 18 novembre 2005».

Il testo di Renzi dice: «Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizione per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi per il funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel, e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione” approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016». La riproduzione qui riportata è fedele al contenuto e alla forma, poiché la stessa elencazione delle voci è concepita da Renzi in modo tale che ciascuna salti all’occhio immediatamente e non resti sepolta nell’elenco. Forma e contenuto fanno di questa scheda una scheda pubblicitaria e quindi propagandistica. Conferma la natura plebiscitaria che questo referendum ha sempre avuto, fin dalla sua gestazione, quando in Parlamento si corse per approvare il testo mettendo in conto che occorreva arrivare al popolo. Quindi, ecco l’interpretazione che sottopongo ai nostri lettori e a tutti coloro che vogliono usare la loro testa quando si recano alle urne: se doveva servire per davvero a rivedere quelle parti della Costituzione che più necessitano di migliorie, la proposta di revisione avrebbe potuto mirare ad ottenere una larga maggioranza parlamentare e magari tale per cui non sarebbe stato necessario arrivare al popolo. Invece, l’obiettivo era fin dall’inizio proprio quello di fare una riforma comunque (purché avesse la natura dirigistica come sopra detto), e approvarla a colpi di mozioni di fiducia e di cambi di maggioranza, poiché è lo scopo finale era quello di portare la questione al popolo. Intendiamoci: non sostengo che il Parlamento doveva votare a grande maggioranza per non rendere necessaria la consultazione popolare. Sto dicendo che negli obiettivi renziani c’era fin dalle origini il progetto non di avere una larga intesa sulla riforma ma di “andare al popolo”. Pensando, come si capisce dal testo della scheda, che il popolo, ragionando con la pancia e non con la testa, possa essere incantato.

Il pifferaio che incanta il serpente a sonagli e lo fa ondeggiare a suo piacimento è il senso populista e plebiscitario dell’“andare al popolo” – questo è il senso del testo pubblicitario e propagandistico che Renzi propone. L’appello al popolo che i democratici dovrebbero auspicare è un appello a che tutti i cittadini ragionino con la loro testa. Non tutti coloro che vogliono “andare al popolo” rispettano il popolo; non Renzi, il quale spera di vendere un prodotto che forse è funzionale ai suoi obbiettivi, ma che rispetto agli interessi del popolo è scadente.

*presidente di Libertà e giustizia