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Il Psoe defenestra Sánchez aprendo le porte alle larghe intese con Rajoy

epa05565792 Socialist Party (PSOE) leader, Pedro Sanchez, speaks during a press conference after he resigned after the PSOE leadership voted against his proposal to hold a primary election and an extraordinary congress, in Madrid, Spain, 01 October 2016. EPA/FERNANDO VILLAR

Il «no es no» di Pedro Sánchez al governo di larghe intese con Mariano Rajoy non è piaciuto ai dirigenti del Psoe. Quando, sabato 1 ottobre, il segretario si è presentato al comitato federale del suo partito è stato accolto tra grida, spintoni e insulti. Per 12 lunghe ore. Finché, alle 20,20, i membri del comitato hanno votato a mano alzata la proposta del segretario di celebrare le primarie per l’elezione del segretario generale. Il 23 ottobre, e cioè prima di tornare in Parlamento per tentare di formare un nuovo governo. I socialisti non hanno dato fiducia al segretario, negando così la possibilità di lavorare a un governo del cambiamento con Unidos Podemos e Ciudadanos: in 132 gli hanno votato contro, solo in 107 a favore. Così, a due anni e tre mesi dalla sua elezione a capo del Psoe, Pedro Sánchez si è dimesso da segretario generale.

E adesso? Il partito viene affidato alla gestora, in pratica un commissario collettivo composto da dieci membri che gestiranno il Psoe fino al prossimo congresso (la prima riunione si è tenuta proprio oggi). A presiederla, ci sarà Javier Fernández, presidente della regione Asturias e segretario della federazione del Principado. E i presidenti delle federazioni autonome, fatta eccezione per la presidente delle Baleares, erano tutti critici nei confronti di Sánchez. La frattura tra l’ormai ex leader socialista e quelli che in Spagna vengono chiamati “barones” – su Left in edicola questa settimana vi raccontiamo di loro – è, evidentemente, insanabile. E, fatto fuori Sánchez, nonostante sia Fernández il commissario, è a Susana Díaz che si aprono le porte del Psoe. Con la presidente andalusa si aprono pure le porte a Mariano Rajoy. Ché c’è un pezzo di Psoe che non impallidisce e non arrossisce nel sostenere l’investitura di Mariano Rajoy. Anzi, questo pezzo è la maggioranza, almeno tra i suoi organi dirigenti. Non resta che aspettare il voto della base, come le primarie per esempio, che Sanchez ha continuato a invocare per il 23 ottobre (quindi prima del voto parlamentare,che si terrà entro il 31 ottobre), ma i barones prevedono che il congresso all’inizio del 2017, quindi dopo il voto parlamentare.

 

Il governo del cambiamento che Sanchez avrebbe voluto costruire con Podemos e Ciudadanos, oramai, è un’ipotesi impossibile. Adesso, il bivio per i socialisti è tra l’investitura al “nemico di sempre” Rajoy e un ritorno al voto entro l’anno. E, a questo punto, non è difficile immaginare cosa deciderà il Psoe senza Sánchez. I commissari già fanno sapere che cercheranno in ogni modo di evitare le terze elezioni, coscienti della «gravità istituzionale» che avrebbe un terzo ritorno alle urne in un anno. A sinistra, e lo sa bene Unidos Podemos, adesso si apre una prateria. Una prateria molto simile a quella che in Grecia il Pasok lasciò alla Syriza di Alexis Tsipras. Una prateria che, di questo passo, potrebbe cambiare i connotati della socialdemocrazia europea.

La guerra di Sánchez ai barones spagnoli su Left in edicola dall’ 1 ottobre

 

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#Czarny protest, le donne in nero polacche contro la legge anti-aborto

Polonia, la Czarny protest per il diritto all'aborto
People attend the anti-government, pro-abortion demonstration in front of Polish Pariament in Warsaw, Poland, Saturday, Oct. 1, 2016. (AP Photo/Czarek Sokolowski)

Oggi le donne polacche scioperano contro il loro governo e contro un disegno di legge, attualmente in fase di revisione da parte delle commissioni parlamentari, che quasi cancella il loro già limitato diritto all’aborto visto che è permesso solo per salvare la vita di una madre. Insomma, la legge attuale è una tra le più restrittive in Europa, ma così diventa peggiore. L’uso dei medici di una “clausola di coscienza” per scegliere di eseguire un aborto ha già escluso molte donne polacche. La proposta di legge eliminerebbe l’accesso all’interruzione di gravidanza anche per le vittime di stupro o incesto. E minaccia addirittura di punire  le donne che vogliono abortire con una pena detentiva. Questa disposizione è anche probabile che serva a spaventare i pochi medici ancora disposti a praticare aborti.

Ma la proposta di legge è anche una minaccia alle donne che hanno un aborto spontaneo: potrebbero infatti venire indagate perché possibilmente sospette di aver causato la morte di un “bambino concepito”, reato punibile con il carcere. La legge insomma, farà in modo di ridurre ulteriormente il numero di medici non obiettori. Il testo di legge è il frutto di una petizione firmata da 450mila persone promossa dall’organizzazione Ordo Iuris e sostenuta dalla chiesa cattolica locale. L’unica ragione tollerata dalla legge per consentire l’aborto è il grave pericolo per la vita della donna.

Il logo della manifestazione su twitter
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Per protestare contro una legge che i sondaggi dicono essere impopolare (il 42% è per lasciare le cose come stanno, il 25% per liberalizzare) sabato e domenica in migliaia hanno manifestato, vestite di nero, davanti al Parlamento di Varsavia. Oggi si misurerà la forza dell’opposizione alla legge durante uno sciopero, la #CzarnyProtest, la protesta in nero. Piccole proteste anche da diverse comunità emigrate: su twitter abbiamo trovato foto dall’Europa e dagli Stati Uniti. Anche diverse eurodeputate sono partite per la Polonia e davanti all’Europarlamento c’è stata una piccola manifestazione. Mercoledì in aula se ne discuterà.

 

Immagini delle manifestazioni di oggi

Le donne che si oppongono alla nuova legge spiegano, tra l’altro, che il numero di aborti non è affatto diminuito come si dice, ma che, come è sempre successo, le donne ricorrono a pratiche clandestine, costose o pericolose.

La Polonia è già sotto la lente delle autorità europee per una serie di leggi che limitano la libertà di stampa e rendono politiche le nomine della corte costituzionale. Per questo il governo di Legge e Giustizia ha annunciato che proporrà una legge meno restrittiva che introduce comunque nuovi limiti. Il tema, come molti altri sui quali il partito di destra nazionalista ha deciso di perseguire la propria strada, è di quelli che ha poco a che vedere con i problemi del Paese dove ad esempio quasi non ci sono rifugiati. La scelta è quella in voga in diversi paesi dell’est europeo in questi anni, quella populista estrema: rilanciare di continuo parole d’ordine, crociate, battaglie epocali nazionali. Ha funzionato piuttosto bene, nonostante la sconfitta di misura del premier ungherese Orban al referendum sulle quote di rifugiati. La speranza è che la battaglia intrapresa dalle donne polacche contribuisca a cambiare il clima asfittico che si respira in Polonia.

Pizzarotti lascia il Movimento. «Faccio un favore a Grillo»

Pizzarotti in conferenza stampa lascia il Movimento 5 stelle
Il sindaco di Parma Federico Pizzarotti durante una conferenza stampa a Parma, 23 maggio 2016. ANSA/UFFICIO STAMPA COMUNE DI PARMA ++ NO SALES, EDITORIAL USE ONLY ++

Federico Pizzarotti lascia il Movimento, e verrebbe da dire “finalmente”, perché il tira e molla è durato tantissimo e perché “finalmente”, soprattutto, è quello che pensano dalle parti della Casaleggio associati, dell’ex direttorio, quello che pensa Beppe Grillo. L’ex comico ora ufficialmente capo politico che viene ringraziato dal sindaco di Parma, figurarsi: «Senza Beppe Grillo io non mi sarei alzato dal divano», dice Pizzarotti prima di aggiungere un «Però…». Una serie di però.

«Da uomo libero non posso che uscire da questo movimento 5 stelle», dice dunque Pizzarotti, che ora immagina una ricandidatura alla testa di una coalizione di liste più o meno civiche, guardando a sinistra. Parla di mutazione, Pizzarotti, dice: «Eravamo persone libere, critiche, volevamo le telecamere nei consigli comunali. Adesso invece siamo quelli dei direttori, praticamente nominati, ratificati dalla rete». «Noi non avevamo un capo ma un megafono, si diceva», continua, «e ora ci ritroviamo con un capo politico e tutti che dicono “benissimo aspettavamo da tempo un capo”». Siamo quelli delle gogne, poi, perché «posso immaginare», aggiunge Pizzarotti, «il simpatico trattamento che riceverò questo pomeriggio».

Il sindaco di Parma ne ha per tutti. Per Di Maio («Son diventati di moda i lobbisti e gli incontri bilaterali», è la stoccata, «al posto degli streaming») e gli altri volti nazionali: «Persone che non hanno idea di cosa significa governare», dice spiegando che il Movimento 5 stelle dovrebbe rompere il tabù delle alleanze, almeno con forze civiche: «Quando noi pensiamo a un governo 5 stelle e poi parliamo di non dialogare con nessuno, diciamo una cosa che non ha senso. Perché bisogna includere, dialogare, allargare, un po’ come facevano le prime liste civiche 5 stelle».

E ne ha per Virginia Raggi, che per lui è un po’ il paradigma di come si siano usati più pesi e più misure per giudicare gli eletti del Movimento. «Siamo diventati quelli delle stanze chiuse», dice, pensando a come è stata nominata (più volte) la giunta romana o a come si è arrivati al No alle Olimpiadi. E lui, dunque, è stato sospeso solo perché scomodo, solo perché «io penso le cose e le dico, non come certi parlamentari, e lo faccio proprio per far crescere il Movimento». Solo perché lui non ha pensato alla sua carriera, non è uno di quelli «partiti dall’essere cittadini con l’elmetto e finiti a farsi dei selfie per andare in televisione», non è uno «dei tanti consiglieri comunali che non si sono ricandidati per il secondo mandata, in giro per l’Italia, in attesa del 2018». Lui, assicura, continuerà a dedicarsi a Parma, «dove abbiamo la maggioranza», e però dice «dobbiamo ancora decidere se ricandidarci», ma è un modo per prender tempo, scansare le accuse di chi prevede un futuro con il Pd, e lasciare tempo al suo gruppo consiliare, «perché il sospeso sono io».

Left su Instagram racconta la Libertà con gli scatti di giovani talenti fotografici

Questa settimana a gestire l’account Instagram di @LeftAvvenimenti è la giovane fotografa Tay Calenda che si presenta così:

Ciao a tutti!
Sono Tay Calenda fotografa romana che vive a Parigi da ormai 7 anni. Per sette giorni le mie foto verranno pubblicate sull’account Instagram di @leftavvenimenti.
Mi è stato chiesto di esplorare con i miei scatti il concetto di libertà, spero che il mio lavoro vi piaccia!

«Je recommence ma vie
Je suis né pour te connaître
Pour te nommer
Liberté. »

Paul Eluard

Nell’attesa di imparare a conoscerla meglio ecco qualcuno degli scatti di Tay:

Riflessi e riflessioni

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Dinner is served

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Pretty flower

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Window with a view

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Work, work and more work…. For nothing! Young man protesting #loielkhomri in #Paris

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Hard work.

Una foto pubblicata da Tay Calenda (@tay_calenda) in data:

Potete seguire i giovani talenti fotografici selezionati da Left sul nostro account Instagram qui. Se volete sapere di più sul progetto invece potete leggere come funziona qui

Progetto a cura di Francesca Fago

Colombia, vince il No alla pace. Farc e Santos verso nuovi negoziati

Colombia, sostenitori del Sì alla pace con le farc
Supporters of the peace accord signed between the Colombian government and rebels of the Revolutionary Armed Forces of Colombia, FARC, follow on a giant screen the results of a referendum to decide whether or not to support the deal in Bogota, Colombia, Sunday, Oct. 2, 2016. Colombia's peace deal with leftist rebels was on the verge of collapsing in a national referendum Sunday, with those opposing the deal leading by a razor-thin margin with almost all votes counted.(AP Photo/Ariana Cubillos)

Non tutto è perduto e le figure chiave responsabili dell’accordo di pace dicono di voler andare avanti, ma certo, la bocciatura dell’accordo di pace tra governo colombiano e Farc da parte degli elettori è un drammatico passaggio a vuoto. I colombiani hanno votato per il No alla ratifica al 50,2% contro 48,8% di Sì, 63mila voti su 13 milioni di schede. Molto bassa l’affluenza, attorno al 40%, segno che qualcuno era convinto che il Sì vincesse o che in ceerte aree del Paese dove si è sentita meno la guerra, l’importanza della cessazione delle ostilità non era avvertita.

 

 

Sia il presidente Santos che il leader del gruppo ribelle hanno dichiarato che intendono riprendere i negoziati e tentare una nuova strada e che il cessate il fuoco a tempo indeterminato resta in vigore. Non c’è dunque il pericolo di un ritorno immediato alle armi, ma resta molto difficile capire in che cornice legale si potrà definire un nuovo accordo. Santos era convinto della vittoria e non sembra avere in mente un’alternativa. In teoria le Farc avrebbero dovuto cominciare a deporre le armi e avviare la transizione verso una partecipazione alal vita politica del Paese come partito. Il leader Rodrigo Londono (Timoshenko) ha fatto sapere di voler proseguire su quella strada: «Ribadiamo di voler perseguire il cambiamento con le parole e non con le armi». Le parti torneranno a vedersi a Cuba.

Persino l’ex presidente Uribe, che è il leader del fronte che si oppone all’accordo ed è il vincitore politico di questa partita, ha detto che una strada va cercata, aggiungendo «Vogliamo avere una parte nel negoziato». Lui, come coloro che si sono dichiarati contrari al “trattato di pace” di quasi trecento pagine negoziato a Cuba, lo criticavano perché troppo generoso nei confronti delle Farc. Ora vuole un posto al tavolo delle trattative, se bastasse questo – restituire a un politico sconfitto nell’urna visibilità – andrebbe anche bene.

I punti critici sono l’amnistia per chi dichiara di aver ucciso in cambio di lavoro sociale come la partecipazione allo sminamento o altre attività e un salario di ingresso per un periodo di tempo per reintegrare le migliaia di guerriglieri nella società colombiana. Chi ha votato No ritiene che amnistia e soldi siano una concessione eccessiva a un gruppo tutto sommato in grande difficoltà. Gli accordi di pace, del resto, sono sempre così: si cedono cose in cambio della fine della violenza e si inventano stratagemmi legali – l’amnistia in cambio del lavoro – per evitare il ritorno alla violenza di chi cede le armi.

 

Brio c’è

Non c’è il quorum ma c’è Orbàn

il premier ungherese Viktor Orban
Hungarian Premier Viktor Orban looks at supporters before delivering a speech in Budapest, Hungary, Sunday, Oct. 2, 2016. Hungarians overwhelmingly supported the government in a referendum on Sunday called to oppose any future, mandatory European Union quotas for accepting relocated asylum seekers but nearly complete official results showed the ballot was invalid due to low voter turnout. (AP Photo/Vadim Ghirda)

1300. Milletrecento rifugiati sono lo scoglio politico su cui Orbàn sta costruendo la proprio credibilità politica come nazionalista à la page in un’Europa che mette i brividi tutti i giorni, anche solo sfogliando i giornali. Milletrecento, per intendersi, è un numero infinitamente inferiore ad esempio agli ungheresi criminali ancora impuniti, agli evasori fiscali, ai colpevoli di omicidio o ai truffatori, agli evasori fiscali, ai ladri, ai pedofili o agli stupratori. Su una popolazione totale di quasi dieci milioni di ungheresi milletrecento persone sono l’assembramento fuori da un supermercato per qualche offerta promozionale.

Eppure su quello sparuto numero (di bisognosi) un mediocre politico come Orbàn è riuscito a fare leva per essere su tutti i giornali del mondo. Gli è bastato poco: se soffi sulla paura alla fine si perdono le dimensioni e anche gli stronzi si notano a pelo d’acqua. Così Orbàn, ne siamo certi, alla fine sarà ben fiero di avere convinto il 43,23% degli aventi diritto a prendersi la briga di votare per accreditare il suo delirio e il 95% dei votanti addirittura per dargli ragione.

Orbàn ha perso il referendum, è vero, ma del referendum se ne strafotte. A quei livelli di manipolazione della paura e di prostituzione intellettuale non ci si ferma di fronte a una consultazione andata male (per altro così poco male) e i votanti sono comunque un ottimo volano per continuare. Anche l’Ungheria entra di gran lena nel mazzo dei Paesi che rovistano nella spazzatura degli istinti umani. Questo è il punto vero. E, ancora una volta, l’Europa appare come una maestrina sciatta che non è più credibile nemmeno per gli alunni più tranquilli seduti in prima fila.

Non c’è il quorum ma c’è Orbàn. E siamo pieni di Orbàn perché la politica europea ha l’empatia di un bollo obbligatorio sulle spese del nostro conto corrente. Il solito discorso del dito e della luna solo che qui anche la luna non sembra messa molto bene.

Buon lunedì.

Il robot farmacista e gli altri “dottori” meccanici

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ApotecaChemo è grande come un armadio ed è un robot “farmacista”. Creato dalla azienda Loccioni serve per preparare medicine su misura per i malati di tumore. In questo modo la terapia è velocizzata e più sicura. E al tempo stesso si risparmia su i costi.

La tecnologia, e con essa il futuro, entrano sempre di pi?? in sala operatoria. E' stato presentato alla Clinica Santa Caterina da Siena di Torino il nuovo sistema "Da Vinci", fiore all'occhiello della chirurgia robotica, 26 maggio 2015. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO
Il Sistema Da Vinci è un robot “chirurgo”. Prodotto dalla americana Intuitive Surgical viene utilizzato negli ospedali di tutto il mondo. È costituto da quattro bracci robotici che servono per effettuare operazioni all’addome e al torace.

Presto gli effetti dell'ictus si potranno curare anche da casa grazie a un robot portatile, collegato via web con il fisioterapista, che permetterà al paziente di fare progressi. Il prototipo, pronto per la commercializzazione sui mercati internazionali, è stato sviluppato in Italia da Humanware, azienda pisana, spin off della Scuola Superiore Sant'Anna, in collaborazione con il Laboratorio di robotica percettiva dell'istituto Tecip (Tecnologie della Comunicazione, dell'Informazione, della Percezione) dell'ateneo. Pisa, 16 febbraio 2015. ANSA/UFFICIO STAMPA HUMANWARE
Il robot “fisioterapista” sviluppato da Humanware, azienda pisana spin off della scuola superiore Sant’Anna di Pisa, è uno dei prodotti studiati dall’istituto di Biorobotica. Dove si studiano robot per la chirurgia endoscopica, arti artificiali e robot indomabili (esoscheletri).

Per saperne di più c’è Left in edicola dall’ 1 ottobre

 

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Il comandante peshmerga a Kirkuk: «Truppe italiane sul terreno in Iraq»

Soldati dell'esercito iracheno nei pressi di Kirkuk
epa05552990 A picture made available on 23 September 2016 shows An Iraqi soldier inspecting the site of a suicide car bomb attack inside the recently recaptured city of Shirqat, northern Iraq, 22 September 2016. Iraqi security forces gained full control over the key city of Shirqat, north of the capital province of Salahdin, after days of clashes with Islamic state group, a military source said. EPA/BARAA KANAAN

Il generale Rasul Omar Latif è il comandante generale dei peshmerga curdi al fronte a sud di Kirkuk, nell’Iraq centrale. Quando lo incontriamo nella base K1 (che sta per Kirkuk 1), all’intervista presenzia anche un suo omologo del ricostituito esercito regolare iracheno. Segno della nuova unità pretesa dall’Occidente col comando unificato, ma forse anche della mai sopita diffidenza reciproca. «Qui con noi ci sono anche le forze speciali italiane – rivela non appena gli viene spiegata la nostra nazionalità – in totale una quindicina di uomini che coordinano le operazioni al fronte».

Stando a questa dichiarazione, a differenza di quanto sostenuto ufficialmente dal nostro governo, il nostro Paese qui in Iraq non si occuperebbe soltanto dei bombardamenti e dell’addestramento ma sarebbe impegnata anche direttamente sul terreno. Una conferma indiretta della presenza di militatri italiani al fronte, ma persino oltre le linee nemiche, viene da una nuova missione che vedrà impegnata l’Italia a seguito di una specifica richiesta degli Stati Uniti. «Nell’aeroporto di Erbil, capitale del Kurdistan iracheno, il nostro contingente sta per sostituire gli americani nella Recovery Personnel, che serve proprio a recuperare il personale rimasto isolato sul terreno anche in aree potenzialmente ostili», ci rivela un militare italiano che chiede l’anonimato. In totale, si tratta di circa 130 militari dotati di 8 elicotteri: 4 NH90 da trasporto e altrettanti elicotteri A 129 Mangusta, le cosiddette cannoniere volanti, adoperati come scorta per quelli da evacuazione. Ma a cosa servirebbe una missione del genere se la coalizione non fosse impegnata direttamente sul campo?

Tornando al generale Latif, sotto il suo comando ci sono ben 23.000 peshmerga, ormai diventati le forze armate della Regione autonoma del Kurdistan iracheno.
La linea del fronte dista appena 20 minuti dal centro di Kirkuk, lungo la strada che porta a Tikrit, altro centro da poco liberato, nonché città natale di Saddam Hussein. Ora è assestata una manciata di chilometri dopo un canale artificiale le cui sponde hanno a lungo segnato in quest’area il confine tra Daesh e il resto dell’Iraq. Anche qui, negli ultimi mesi, i peshmerga sostenuti dalla coalizione internazionale – ma addirittura da diverse altre milizie o gruppi paramilitari (c’è chi dice addirittura quelle sciite e il Pkk) – sono riusciti a far avanzare la linea del fronte. Tanto da essere l’unico in questi giorni davvero attivo: da qui col binocolo vedi sventolare la bandiera nera del Califfato.

Il reportage dall’Iraq Left in edicola dall’ 1 ottobre

 

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Tutte le bufale del “si salvi chi può” se vince il NO

London, UK - October 29, 2013: Corporate branding on the headquarter buildings of JP Morgan at day in London.

Crollo delle Borse, un terremoto peggiore della Brexit; ecatombe di posti di lavoro, aumento della povertà e dei poveri, fuga degli investitori e poi il bail-in e l’incubo dello spread. Davvero se il 4 dicembre dovesse vincere il No al referendum costituzionale ci capiterà tutto questo? E una domanda su tutte: ma è proprio colpa della Carta del 1948 se ci troviamo in mezzo alla più difficile crisi economica dall’unità d’Italia? «No, guardi, la Costituzione non c’entra niente. Non fosse perché non si sono mai sognati di attuarla!», taglia corto Marco Bertorello, studioso genovese, autore di testi su debito, euro, movimento sindacale. 

Un’ansiogena copertina dell’Economist (un pullman con la fiancata tricolore, in bilico sul ciglio di un burrone), alcuni articoli sui quotidiani statunitensi, una serie di allarmi lanciati da Goldman Sachs e Morgan Stanley, infine le cifre fornite dal centro studi di Confindustria hanno aperto una danza di titoloni allarmistici, uno storytelling traumatico che entra a gamba tesa nella campagna referendaria.

Secondo Viale dell’Astronomia, il Pil calerebbe di 1,7 punti (0,7 nel 2017, -1,2 nel 2018, risalendo soltanto dello 0,2 nel 2019), con una ricaduta di 589 euro pro-capite contro una crescita prevista del 2,3%. Sparirebbero gli investimenti (-1,6 nel 2017, -7 nel 2018 e -3,9% nel 2019), con 258mila nuovi posti di lavoro in meno contro i 319mila previsti; 430mila i nuovi poveri e altri 600mila posti di lavoro persi. «Confindustria teme che si blocchino le riforme strutturali ma è proprio una bufala: se qualcuno riesce a dimostrarmi che l’abolizione del Cnel fa riprendere l’economia parto domani, e a piedi, per Compostela», dice Vladimiro Giacchè, autore tra l’altro di Costituzione italiana contro Trattati europei (Imprimatur 2015). «Sono proprio curioso di capire  – continua – quali modelli econometrici siano stati adoperati per fornire quelle cifre: quelle di Confindustria ricordano le previsioni catastrofiche usate per la Brexit e che si sono dimostrate un boomerang per chi le sosteneva. Nessuno è riuscito a dare un argomento in positivo per il “Remain” ma solo allarmismo. Così, dopo il voto britannico s’è scoperto che tutti gli scenari horror sono stati smentiti come la recessione del 5% il primo anno. Addirittura ci sarebbe in corso una sorta di mini boom. Siamo davanti a ragionamenti non scientifici ma legati a interessi specifici».

Insomma, si fa molto terrorismo confondendo discorsi diversi, avvertono tutti gli interlocutori di Left. E tutti ricordano quella lettera di JpMorgan, banca d’affari sotto processo per i disastri del 2008, che esortava tre anni fa i governi del Sud Europa a liberarsi dalle Costituzioni nate dalla resistenza antifascista, troppo influenzate dalle idee socialiste: “I sistemi politici e costituzionali del sud presentano le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli nei confronti dei parlamenti; governi centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti dei lavoratori (…) e la licenza di protestare se sono proposte modifiche sgradite dello status quo. La crisi ha illustrato a quali conseguenze portino queste caratteristiche. I Paesi della periferia hanno ottenuto successi solo parziali nel seguire percorsi di riforme economiche e fiscali, e abbiamo visto esecutivi limitati nella loro azione dalle Costituzioni (Portogallo), dalle autorità locali (Spagna), e dalla crescita di partiti populisti (Italia e Grecia)”.

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