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Socialisti spagnoli al bivio: con Podemos o con Rajoy? I nodi sono giunti al pettine

Pablo Iglesias e Mariano Rajoy al Congresso

Alle elezioni in Galizia e Paesi Baschi vincono tutti, tranne i socialisti di Pedro Sanchez. All’indomani dell’ennesima sconfitta nel Psoe, ormai, è guerra è aperta. E da questa guerra, e dalla formazione delle sue trincee, dipende il prossimo governo di Spagna. Che il partito di Sanchez sia spaccato in due non si può più nascondere: da una parte “el guapo” che ha in mente un “governo del cambio” con Podemos (e Ciudadanos), dall’altra i “baroni socialisti”, più propensi a un governo di larghe intese, a costo di sostenere Rajoy, e che oggi vedono nella debacle elettorale una buona occasione per chiedere a Sanchez di arrendersi.

 

La partita delle regionali doveva essere lo scossone per sbloccare la paralisi a Madrid. E siamo a poco più di un mese dall’ultima data utile – se prima che cominci novembre non si sarà trovata una soluzione di governo, re Felipe dovrà sciogliere le Camere e riconvocare le elezioni. A Pedro Sanchez non resta che accelerare. E giocare in anticipo, invitando al confronto aperto i “baroni” del suo partito che sono pronti a “chiedere la sua testa” dopo il terzo risultato deludente incassato (anche nelle due precedenti elezioni nazionali, il Psoe ha perso voti, molti voti).

 

Uscita a sinistra
Nella Galizia che ha dato i natali a Mariano Rajoy – e che oggi decide di riconfermare il suo erede Alberto Núñez Feijoo con la maggioranza assoluta (47,5%, 41 seggi sui 75 del parlamento locale), i popolari potrebbero ritrovare la strada del governo a Madrid. In Galizia e nei Paesi Baschi si consuma la terza vittoria alle urne per Rajoy. E anche alla sinistra del Psoe si registrano avanzamenti, la coalizione di sinistra “En Marea” (con Podemos), che è già al governo di A Coruna, esordisce alla regione con il 19% e sorpassa il Psoe (17,8%). Il sorpasso della sinistra sui socialisti si registra pure nei Paesi Baschi dove, però, a cantar vittoria sono i nazionalisti del Partito nazionalista basco (Pnv), una conferma per il presidente Inigo Urkullu che, però, con il 37,6% dovrà trovare degli alleati per una maggioranza stabile. Di fronte a lui, al momento, in ordine: gli indipendentisti di EH Bildu (21,2%), Podemos (14,8%), e le due forza tradizionali di Madrid in coda: i socialisti dimezzati (11,9%) e i popolari di Rajoy fermi al 10,1%.

Se la minoranza Psoe investe Rajoy

Se Pablo Iglesias questa mattina – e nonostante le polemiche con il suo numero due Íñigo Errejón – si è svegliato con un “tweet a pugno chiuso” ad Alberto Garzon, Pedro Sanchez al risveglio ha trovato il fiato sul collo di mezzo partito. La linea di Sanchez che vuole trattative con Podemos e governo “di cambiamento” non piace ai “baroni del suo partito” che puntano sull’andalusa Susan Diaz per sostituire “el guapo”. Lo scontro frontale dentro il Psoe, ormai, è vicino, il primo ring si terrà al consiglio federale del primo ottobre. Intanto Sanchez convoca un congresso straordinario per ottenere dai militanti una conferma della sua leadership ora azzoppata. In caso di scissione, la parte anti-Sanchez del Psoe potrebbe decidere di contribuire all’investitura di Rajoy prima della scadenza fatidica del 31 ottobre. Andando ad aggiungersi ai 170 deputati su cui il Pp può contare, e i cinque del Pnv, raggiungendo quota 175 su 350 al Congresso, e quindi la maggioranza.

Oggi Colombia e Farc firmano per la pace (il 2 ottobre il referendum)

Membri delle Farc in attesa del risultato del voto sul processo pace
epa05553569 Photo made available 23 September 2016 of FARC guerrilla members attending an event to pay homage to the late guerrilla commander Jorge Briceno, known as the 'Mono Jojoy' on the 6th anniversary of his death at the 10th National Guerrilla Conference in El Diamante, Colombia, 22 September 2016. At the conference, FARC will choose a new commander who will be responsible for guiding the armed group in the transition to peace. EPA/MAURICIO DUENAS CASTANEDA

«La pace dopo 267,162 morti. Oggi si firma la pace dopo 52 anni di guerra», titola il quotidiano colombiano El Tiempo.

Si sigla oggi un accordo che senza retorica può essere definito storico tra il presidente del governo Juan Manuel Santos e il comandante delle Farc (Forze armate rivoluzionarie della Colombia).  

Dopo quattro anni di trattative, mediate da statunitensi e cubani (che intanto negoziavano tra loro), la guerra civile che ha causato la morte di più di 220 mila persone, ha fatto perdere le tracce di 45 mila desaparecidos e ha creato 7 milioni di sfollati volge al termine.

L’accordo reso pubblico dal presidente Santos, affronta sei punti necessari alla concretizzazione delle promesse di pace: la giustizia per le vittime della guerra civile, l’accesso alla terra per i contadini meno abbienti, la partecipazione politica degli ex ribelli, la lotta al traffico di droga, il disarmo e il monitoraggio del mantenimento degli impegni presi.

Alle cinque in punto nel Patio de Banderas del Centro dei Congressi di Cartagena, alla presenza di Santos, il leader delle Farc, Rodrigo Londoño Echeverri, noto come Timoleón Jiménez, il segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon, Raúl Castro e di altre 2000 persone, tra cui 400 vittime, 120 membri della Farc, 1200 giornalisti, uomini di Stato e gente comune, si porterà a compimento un “cessate il fuoco” già più volte immaginato e tentato in Colombia negli ultimi 50 anni.

Dopo un pre-accordo di fine conflitto siglato a Cuba il 23 giugno, le parti sono finalmente pronte a firmare, nell’entusiasmo generale: «Oggi posso dire, dal profondo del mio cuore, che ho realizzato il mandato che mi avete assegnato», ha affermato il presidente Santos rieletto nel 2014, e  «Abbiamo vinto la più bella di tutte le battaglie» ha commentato Ivan Marquez, il negoziatore delle Farc, «la guerra con le armi è finita, ora inizia il dibattito delle idee».

Dopo la firma, il 2 ottobre l’accordo sarà sottoposto al giudizio popolare in un referendum, che Santos aveva promesso al suo insediamento, per siglare ufficialmente le decisioni prese, a patto che a votare si rechi una soglia minima di 4,3 milioni di colombiani, il 13 per cento. «Colombiani, la decisione è nelle vostre mani. Mai prima d’ora i cittadini del nostro Paese hanno avuto a portata di mano la chiave per il loro futuro», ha dichiarato in una trasmissione televisiva.

Se il referendum sarà approvato, i settemila ex ribelli si sposteranno dalla giungla ai campi di disarmo dell’Onu e poi saranno introdotti progressivamente nel mondo politico: gli ex Farc avranno una rappresentanza politica in parlamento senza diritto di voto fino al 2018, quando potranno conquistare i seggi come ogni altro partito politico. Uno dei passaggi più delicati dell’accordo è il disarmo e la condanna delle violenze perpetuate per mezzo secolo.  

A questo proposito è stato istituito un tribunale speciale che giudicherà i reati commessi durante la guerra civile, che grazierà con l’amnistia quelli più lievi, mentre condannerà regolarmente quelli quelli più gravi come massacro, tortura, stupro.

Per suggellare simbolicamente la deposizione delle armi, gli armamenti ribelli, una volta consegnati ai campi di disarmo, verranno fusi per realizzare diversi monumenti dedicati alla pace.

Ma non solo feste e cortei di pace si sono visti nei giorni scorsi a Bogotà, perché l’opposizione di centro-destra si dice in disaccordo con i trattati di pace gestiti da Santos, riconoscendo la necessità della pace, ma non ad ogni costo.

La popolazione colombiana, che determinerà l’esito dell’accordo sembra guardare favorevolmente al processo di pace: il 67 per cento si dice a favore all’accordo e il 32 per cento contrario.

La sfiducia e il sospetto non animano soltanto l’opposizione o una parte della popolazione, ma anche e soprattutto i combattenti Farc che – memori di accordi precedenti non andati a buon fine –  si sono detti pronti a tornare alla lotta armata se qualcosa dovesse andare storto.

A maggio scorso il Consiglio di Stato colombiano ha riconosciuto alle Farc lo status di gruppo guerrigliero, rimuovendo l’etichetta di gruppo terroristico, mentre gli Stati uniti di Obama si stanno facendo promotori della pace, con il programma “Peace Colombia” che prevede lo stanziamento di 450 milioni di dollari a sostegno di Bogotà.

La vera sfida, se il referendum convincerà gli elettori, – anche a detta di Santos – sarà reintegrare i sette mila combattenti dopo decenni di vita nella giungla e iniziare un processo di integrazione delicato.


Il lungo cammino verso l’accordo di pace

Le Forze armate rivoluzionarie della Colombia sono state fondate nel 1964 in risposta all’operazione militare “Marquetalia” del governo colombiano appoggiata dagli USA contro le  organizzazioni agrarie e contadine che autogestivano le terre nelle regioni di Tolima e di Huila. L’obiettivo principale dei combattenti era instaurare una democrazia socialista e popolare, su ispirazione della rivoluzione cubana. I primi accordi tra il governo e le Farc risalgono al 1984, a vent’anni dall’inizio della guerra civile, ma sono svaniti quando il partito politico delle Farc “Unión Patriótica”, dopo regolari elezioni, è stato sterminato fisicamente dalle truppe governative.

A questo primo tentativo è seguito negli anni ‘90 il rafforzamento delle Farc sul territorio e la fondazione del “Partito comunista clandestino colombiano”. Nel 1998 hanno avuto inizio altre trattative di pace, che ha dato vita all’”Agenda comune per il cambiamento verso la nuova Colombia”, accordo di 12 punti firmato dall’allora presidente Andrés Marulanda. La successiva entrata in campo degli Stati Uniti – che li aveva nel 2001 inseriti nella lista nera dei gruppi terroristici – con il “Plan Colombia” ha motivato le Farc a creare il “Movimento Bolivariano” clandestino e a interrompere le già fragili intese con il governo.

All’epoca le Farc controllavano il 25 per cento del Paese, concentrato nella giungla a sud-est. Combattimenti più o meno intensi sono proseguiti fino al 2011.

 

Perché il dibattito Tv tra Trump e Clinton (stavolta) è importante

Il logo del dibattito Tv tra Trump e CLinton

Finalmente è arrivato: stanotte, alle 3 italiane, Hillary Clinton e Donald Trump si sfideranno nel primo di tre duelli televisivi che potrebbero rivelarsi decisivi per la corsa alla Casa Bianca. Non è sempre così, le sfide televisive non sono necessariamente passaggi cruciali, ma stavolta dovrebbe essere diverso. Un sondaggio Washington Post fotografa una corsa molto più in bilico di chiunque si sarebbe aspettato dopo le convention: 46% Clinton e 44% per Trump – la candidata democratica va meglio tra i “probabili elettori” e meno bene, ma sempre in vantaggio, tra gli “elettori registrati al voto”, qui una grafica da navigare. Si dice che sarà uno dei dibattiti più visti delal storia Tv. Possibile: Trump attira anche un pubblico di curiosi e di persone che non guardano la politica in televisione.

Come sia stato possibile questa ripresa del consenso per Trump è una cosa che cercheremo di capire per anni (ci abbiamo provato su Left in edicola), l’unica certezza che abbiamo è che agli americani non piace granché la scelta che hanno davanti: entrambi i candidati sono considerati dalla maggioranza degli interrogati nel campione “degli di fiducia”, “onesti”. Clinton è in vantaggio con le donne, le minoranze e va bene tra i maschi bianchi con un’istruzione superiore. Una novità per i democratici. Crolla tra i bianchi non istruiti, o meglio è Trump che piace ai blue collars bianchi. Anche Gallup pubblica un sondaggio nel quale il campione indica che nessuno dei due candidati sarebbe un buon presidente.

Come funziona

Il dibattito dura 90 minuti senza interruzioni pubblicitarie, si tiene alla Hofstra University, su Long Island, a due passi da New York. Ci saranno sei segmenti da circa 15 minuti, ciascuno su un tema diverso.  Tre dei temi già annunciati sono: Che direzione per l’America; Come raggiungere la prosperità e Proteggere l’America. Suonano fumosi ma vuol dire: economie, terrorismo, visione. Sono in programma tre domande relative agli eventi nelle notizie di questa settimana.

I preparativi per il dibattito Clinton Trump
Studenti impersonificano Donald Trump e Hillary Clinton per la prova luci alla Hofstra University. EPA/ANDREW GOMBERT

Il difficile mestiere del moderatore

Il moderatore è Lester Holt della Nbc e avrà molti occhi addosso: due settimane fa, Matt Lauer, in un confronto indiretto (interviste una dopo l’altra) è stato massacrato per non aver incalzato Trump, che in più di un’occasione si è contraddetto o ha detto cose false. Ad esempio ha dichiarato di essere stato da sempre contro la guerra in Iraq. Stanotte Holt dovrà costringere i due a rispondere, richiamare notizie che nei giorni scorsi hanno messo in difficoltà Trump, far rispondere Clinton sulle email. Una domanda per Trump sarà sul certificato di nascita di Obama e sul fatto che il miliardario newyorchese ha detto di recente che a mettere in dubbio il luogo di nascita del presidente – che se non fosse nato in America non potrebbe ricoprire la carica – ha cominciato Hillary (falso). In generale, Trump ha contraddetto se stesso decine di volte, Holt dovrà incalzarlo su questo senza apparire schierato.

Come ci si prepara al dibattito?

Meticolosamente, se non sei Donald Trump. Si lavora per cercare uno sparring partner che somigli il più possibile all’avversario e un conduttore che incalzi. Si studiano i dossier, i modi dell’avversario, battute di attacco e di difesa e le si manda a memoria. E poi si fanno le prove. Clinton è nota per prepararsi in maniera meticolosa. Trump si prepara ma senza metodo: non fa la prova di dibattito, ma si fa fare domande. Molta attenzione è stata dedicata dal clan Clinton al carattere di TheDonald: nei dibattiti precedenti, quelli durante le primarie repubblicane, il candidato repubblicano ha sperso perso le staffe, si è innervosito se incalzato dal moderatore, è apparso annoiato e distratto. Entrambi sono navigati: Hillary dalla lunga e difficile carriera politica, Trump dall’esperienza televisiva come conduttore di The apprentice.

Che temi sono scivolosi?

Ascolteremo discorsi sulla Siria e sull’Isis, sulla ripresa economica e le tasse ai ricchi. La verità è che i punti caldi potrebbero essere il rapporto tra polizia e comunità afroamericana – e la protesta di Black Lives Matter – l’immigrazione, il rapporto con la Russia di Putin (la notizia è che un collaboratore del repubblicano è onvestigato per i suoi rapporti con Mosca), le email di Clinton, le regole per la vendita di armi. Le questioni di genere e le relazioni tra diverse comunità sono un punto forte di Hillary, ma possono aiutare Trump a rafforzare la sua presa ssu quei bianchi che temono un ritorno della tensione tra comunità.

Chi è favorito?

Nessuno. Entrambi i candidati hanno punti di forze e debolezza in questo format. Clinton deve disperatamente tentare di apparire empatica e non troppo maestra super preparata, non esagerare con i dettagli delle politiche proposte e attaccare Trump senza esagerare. Il miliardario newyorchese non deve perdere la pazienza, deve fare in modo di sembrare almeno un po’ presidenziale e non farsi beccare troppe volte in contraddizione. E non esagerare con gli insulti. Si dice che una delle questioni dibattute nella campagna sia: chiamare o no Clinton “crooked Hillary”, Hillary la corrotta, come Trump la definisce nei comizi? Molto pesa anche il modo di stare sul palco, il modo di essere. Quanto arrogante sarà TheDonald? Riuscirà Clinton a fargli perdere le staffe senza apparire come una provocatrice? Lei ha da perdere di più perché ci si aspetta che sia lei a vincere. Ma è un’attesa sbagliata: i dibattiti non si ricordano per quanto un candidato è disciplinato e preparato.

 

Nixon

Quanto conta il dibattito

Dipende. Il primo dibattito Tv fu quello tra Kennedy e Nixon. Un massacro. Una delle ragioni fu l’apparire calmo, sereno e pronto (e bello) di Jfk, a confronto di un Nixon nervoso, preoccupato, teso. Il momento in cui si asciuga il sudore, si dice, è stato un disastro per l’allora vicepresidente. Si è parlato molto di quel dibattito e di come Nixon patisse l’essere gioventù dorata di Kennedy. There you go again, “ci risiamo, ci ricadi di nuovo” è la frase rimasta epocale detta da Reagan a Carter dopo una lunga disamina di politiche sanitarie fatta dal presidente democratico in carica. Frase rimasta negli annali e riutilizzata molte volte. Reagan era un maestro nell’infilare la battuta giusta, quella che fa dimenticare l’argomento di cui si parla e cattura l’attenzione. Trump potrebbe avere questa abilità. La verità è che i dibattiti spostano in maniera relativa. Qui sotto le variazioi percentuali nei sondaggi dopo il primo dibattito in un grafico del Center for Politics dell’Università della Virginia. Ci sono casi in cui i numeri si spostano molto, altri in cui si spostano poco. Ma la vittoria nel dibattito non garantisce affatto la vittoria finale. Nel 2012 Obama perse male il primo dibattito, nel 1992 Clinton perse. Il 2000, quando Gore perse dibattito ed elezioni (ma in maniera controversa) è un caso in cui il sorpasso avviene dopo lo scontro televisivo. Come si diceva, quest’anno il dibattito potrebbe cambiare le cose in un senso o nell’altro. Sia per l’audience attesa che per l’imprevedibilità di Trump. Entrambi devono usare l’occasione per parlare a tutti coloro che non sanno ancora chi votare. Dar da mangiare ai propri fan non è roba da dibattito Tv, questi sono già convinti.

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Cosa guardare e cosa succede dopo

Durante un dibattito con Sanders, Hillary si è presentata con qualche secondo di ritardo alla ripresa della diretta. Era andata in bagno. Se ne parlo a lungo. L’assenza di interruzioni pubblicitarie è pericolosa: se uno dei due avesse bisogno di andare a fare pipì, apparirebbe nervoso per una parte del dibattito.

L'ex amante di Bill Clinton, Gennifer Flowers
Gennifer Flowers nel 1995 EPA PHOTO AFP-FILES/MIKE NELSON

In queste ore si è aperta la contesa su Gennifer Flowers, che ebbe una relazione con Clinton. La campagna Trump l’ha invitata o no nel parterre del dibattito? Lui, il candidato, ha minacciato di portarla. La campagna dice: nessun invito è stato fatto. Un trucco come un altro per far tornare in alto nei media l’idea che Hillary è pronta a qualsiasi cosa pur di rimanere al potere, anche perdonare il marito. Altri dicono che si tratti di un modo di Trump per non parlare della sua infedeltà. Quale che sia l’idea, il polverone Flowers può aiutare il miliardario a rafforzare l’idea di una Clinton affamata di potere, ma anche apparire come un colpo basso contro una donna, rilanciare un’idea di Trump insensibile, sessista e maschilista. Durante le primarie si è già fatto massacrare per una battuta sull’uncia donna allora in corsa, Cary Fiorina e per aver insultato la moderatrice di FoxNews Magyn Kelly.

Quanto si farà incalzare Donald Trump senza rispondere menando colpi a casaccio? E come saprà, Hillary, rispondere un’altra volta sulle sue email? Vedremo. L’altra cosa da guardare è il dopo. Quando in uno studio televisivo si montano gli highlights di una partita di calcio si possono raccontare partite diverse. Lo stesso vale per un dibattito. Se ci saranno momenti difficili, battute efficaci o altri passaggi cruciali, questi rimbalzeranno per giorni sui media. E aiuteranno a stabilire chi ha vinto. A cercare di spostare le opinioni dei media e del pubblico ci sarà anche la macchina dello spin, che comincia immediatamente dopo il dibattito, con una sostenitori importanti dei candidati che si precipitano a parlare con i media (c’è una spin-room) per convincerli che il loro candidato ha senza dubbio vinto. Qui Clinton ha un vantaggio: spesso lo staff di Trump e lo stesso Donald esagerano. Certo, i momenti memorabili aiutano.

Nella mente di chi uccise Sharon Tate. “Le ragazze” di Emma Cline

Sharon Tate

«Non appena mi cadde l’occhio sulle ragazze che attraversavano il parco, la mia attenzione restò fissa su di loro. Quella dai capelli neri con le sue accompagnatrici, la loro risata un rimprovero alla mia solitudine. Stavo aspettando che succedesse qualcosa, senza sapere cosa. E poi ecco». Comincia così Le ragazze di Emma Cline che esce il 27 settembre per Einaudi nella traduzione di Martina Testa ed è già un caso editoriale, con la giovane autrice sulle maggiori riviste internazionali ( ecco l’intervista di The Paris Review)  e un dibattito acceso in rete, innescato dal successo in America. Della quale Emma Cline racconta il lato “oscuro” e malato rievocando l’efferato assassinio  della giovane moglie di Roman Polansky, Sharon Tate, da parte di uno psicopatico e di seguaci della sua setta. Accadde nel 1969 in  California e portò in primo piano, nello choc generale, il falimento dell’utopia hippy , i rischi di una  giusta rivolta libertaria, ma fatta senza identità e naufragata fra alcool e droghe. Ma in questa storia c’era di più, c’era un agghiacciante delirio, che porta Manson e i suoi all’omicidio,avendo perso ogni rapporto con la realtà  e con gli altri esseri umani: durante il processo Susan Atkins, la «sexy Sadie» della «Famiglia» di Manson si difese dicendo, «come può essere sbagliato se è stato fatto con amore?».

Evie Boyd, la voce narrante de Le ragazze è una donna adulta alla deriva,  la incontriamo all’inizio del libro mentre rievoca quel  giorno d’estate, che le cambiò la vita. Il personaggio di Evie è ispirato alla figura inquietante di Susan; Emma Cline prova a calarsi in quella mente disturbata che d’un tratto vide quelle tre ragazze «tragiche e isolate come una famiglia reale in esilio», nella calma sonnolenta, fra madri che portano a passeggio i bambini, mentre le ragazze passano in mezzo alla gente «fluide e noncuranti come squali che tagliano l’acqua».

Per sapere cosa abbia portato Emma Cline a scrivere il suo primo romanzo proprio su questa feroce storia di cronaca nera avvenuta quando lei non era nemmeno nata, l’occasione si presenta oggi a Roma, il 26 settembre, la giovane scrittrice presenta Le ragazze  alla Feltrinelli di via Appia, dalle 18,30. Per  tentare  di capire, invece, come nasce questo caso editoriale abbiamo rivolto qualche domanda all’americanista Luca Briasco, l’editor che l’ha scoperta.

 Luca, come ha intercettato Le ragazze?

Le ragazze è stato oggetto di una serie di grandi aste internazionali due anni fa, alla vigilia della Fiera di Francoforte. Il romanzo era rappresentato negli Stati Uniti da quello che forse è il miglior agente letterario in circolazione: Bill Clegg. I libri e gli autori che sceglie, soprattutto se di esordienti, vanno letti sempre con grande attenzione, se si è in cerca di voci nuove e forti. Con Angela Tranfo lo abbiamo letto subito, e deciso, con il sostegno molto forte di tutta la casa editrice, di batterci per averne i diritti italiani, prima ancora che, negli Usa, si scatenasse una battaglia che ha avuto per protagonisti tutti i maggiori editori. E infatti l’Italia è, credo, il primo paese straniero nel quale Le ragazze è stato venduto.

Che cosa le ha fatto dire che quella di Emma Cline è una voce nuova e grande, che cosa l’ha colpita? La qualità della scrittura,torrenziale, potente?
Due cose: la qualità della scrittura, che traspare da ogni dettaglio, in primo luogo dalle descrizioni, dal sottile straniamento cui sono sottoposti anche i dettagli minimi del quotidiano; la qualità dell’indagine psicologica, il fatto cioè che il libro, ben lungi dal ridursi a una rivisitazione del caso Manson, o degli anni Sessanta, riflette su un’età della vita con uno sguardo insieme profondamente “interno” ma anche distaccato e filtrato dallo stile.

Questo nuovo titolo come si inserisce nella ventennale storia di Einaudi Stile libero che ha portato alla ribalta autori come Foster Wallace?
Stile libero ha sempre cercato di prestare attenzione al nuovo, in tutte le sue forme. Al nuovo, e alle voci. I criteri che hanno guidato la collana, in tutta la sua evoluzione, e che hanno portato in catalogo autori che vanno da Foster Wallace a Kevin Powers, sono in fondo molto semplici: un libro, che sia letterario o di genere, fiction o non fiction, deve parlare in un modo tutto suo, presentare una diversità di sguardo, un elemento di originalità che lo distingua dalla massa di titoli che inondano il mercato. Mi sembra, per restare nel solo ambito della fiction e non fiction straniera, un tipo di discorso che, con tutte le differenze del caso, è alle spalle di tanti successi, da Open di Agassi a Il potere del cane di Winslow, ad Infinite Jest, appunto. Cline, in quest’ambito, e proprio perché non somiglia a nient’altro di quel che Stile libero ha pubblicato finora, mi pare una perfetta autrice Stile libero

Il libro fa già discutere, nel dibattito sono intervenuti Christian Raimo e una scrittrice come Claudia Durastanti, da editor e da lettore che ne pensa?

Mi sembra che i pezzi di Raimo e Durastanti, al di là delle differenze di valutazione, partano da una premessa condivisa: l’altissima qualità della scrittura. Raimo segnala quasi un eccesso di pienezza e di «voler dire» Durastanti «un dispiego fiducioso di tutti i mezzi a disposizione». Ed entrambi concordano su un dato di fatto: Emma Cline ha scritto questo romanzo prodigioso non tanto ” nonostante”, ma proprio perché ha ventisette anni (ventiquattro, in realtà, durante la stesura), e ha scelto di riversare tutto il proprio talento e la propria ansia di perfezione nella scrittura. Che poi questa ricerca di perfezione ed esattezza dello sguardo e della scrittura sia un pregio assoluto o abbia i suoi limiti, può essere ovviamente oggetto di dibattito. Una cosa è certa: la lettura de Le ragazze non delude, e – lo dico da editor e da appassionato di letteratura americana – porta sulla scena letteraria una voce di straordinaria potenza, destinata a rimanere.

 

L’effetto Corbyn non è finito. Ma per il leader Labour la strada resta difficile

il leader laburista Corbyn e il suo sfidante Smith
epa05554324 Re-elected Labour party leader Jeremy Corbyn (R) greets his contestant Owen Smith (L) at the Labour Party leadership declaration in the Liverpool Arena and Convention Centre ahead of the party's 2016 Conference, in Liverpool, Britain, 24 September 2016. Corbyn has won the Labour leadership election between Jeremy Corbyn and Owen Smith at the Leadership Conference in Liverpool. EPA/JOEL GOODMAN UK OUT

Anthony Giddens, il profeta della “terza via” blairiana, ha definito il nuovo Labour di Jeremy Corbyn, «una setta». Sarà, ma il signore dai capelli bianchi e dall’immancabile cravatta rossa, è uscito dalle primarie con un consenso maggiore rispetto al 2015 quando venne eletto con grande sorpresa di tutti.

Corbyn ha stracciato il suo avversario Owen Smith con circa il 62% dei voti contro il 59% con cui aveva battuto gli avversari un anno fa. La mobilitazione popolare continua. Anche da parte dei giovani che erano stati forse i più delusi dalla Brexit con critiche nemmeno velate allo stesso Corbyn, accusato di non aver fatto abbastanza per impedire l’uscita della Gran Bretagna dalla Ue. E soprattutto, all’interno del partito, la contestazione era stata quella di non aver approfittato dell’occasione per affondare i conservatori. Comunque con le primarie il fronte “corbynista” si è ricompattato. Corbyn ha ottenuto 313.209 voti contro 193.222 dello sfidante Owen Smith che nonostante avesse scelto contenuti piuttosto radicali non è riuscito a convincere gli elettori, che, ricordiamo, hanno pagato 25 sterline per esprimere la propria opinione. L’immagine del Labour come una setta stride anche con il suo numero di iscritti: 600mila, mai stati così numerosi.

I giovani continuano ad essere affascinati dai grandi temi cavalli di battaglia di Corbyn: la lotta alla diseguaglianza, la nazionalizzazione delle ferrovie, la politica per la casa e per il welfare, il pacifismo a oltranza. Non a caso, il giorno dopo la vittoria, il segretario è andato a festeggiare nella sede di Momentum, il movimento giovanile che è nato un anno fa dopo la sua vittoria e che aveva promosso il convegno The word transformed. Sono 17mila gli iscritti e circa 100mila i seguaci, anche non giovanissimi.

Ma il successo non è così limpido e il futuro non si presenta roseo per Corbyn. La mozione di sfiducia di 172 deputati laburisti subito dopo la sconfitta sulla Brexit pesa. La lotta adesso più che contro i conservatori di Theresa May sembra che sia all’interno del partito laburista che i sondaggi danno sotto undici punti rispetto ai conservatori. Nei primi discorsi subito dopo la vittoria alle primarie il segretario ha ribadito la necessità di unità e ha cercato di tranquillizzare i ribelli che temono di non essere più ricandidati, ma certo qualcosa dovrà cambiare nella sua strategia.

Lo stesso Owen Jones, il giovane opinionista del Guardian, una delle voci più autorevoli della sinistra britannica ha scritto che ha preferito Corbyn a Smith «per dargli un’altra possibilità, ma questa volta c’è bisogno di agire in modo diverso». Se i sondaggi non migliorano prima delle elezioni, ha aggiunto, dovremo pensare a qualcosa di nuovo.

Chissà com’è essere Salvini e morire di salvinismo.

Il confine Italia Svizzera, i ticinesi hanno votato per chiuderla
Il confine tra Italia e Svizzera a Ponte Chiasso. ANSA / MATTEO BAZZI

Lombardia, zona Varese vicino al confine svizzero. Il presidente della regione è Roberto Maroni, quello del “Prima il nord” stampato sui cartelloni elettorali e ripetuto come mantra: aveva urlato di voler trattenere le tasse dei lombardi in Lombardia (promessa da pacchista all’autogrill, visto che la competenza non è regionale) e rivendicava il diritto di pensare prima ai padani e solo poi al resto d’Italia. Chi volete che possa credere a un cialtrone così? Maroni ha vinto le elezioni regionali e dal 2013 è presidente. Appunto.

Seguitemi, perché la storia è gustosa: nel profondo pensiero politico leghista il “bene” è un valore direttamente proporzionale alla sua posizione sulla cartina geografica. “Prima il nord” è uno slogan che sbrodola tutta la sua pericolosa faciloneria (razzista) con la miopia di chi, a forza di spingere sul turbo federalismo, finisce per perdere lo sguardo generale sul mondo.

Il problema non calcolato dai leghisti è che c’è vita anche più a nord della Lombardia. Per Salvini e Maroni probabilmente la giornata di ieri è stata un mosto di terrore e disperazione al pari di coloro che scoprirono la terra non essere piatta: a nord della Lombardia c’è, ad esempio, la Svizzera. E cosa combina la Svizzera nel suo cantone ticinese? Lancia un referendum al grido “Prima i nostri” contro i sudisti italiani che vorrebbero andare lì a lavorare e la maggioranza degli elettori dice sì alla regolamentazione (sinonimo morbido di “chiusura”) dei lavoratori italiani. Italiani sporchi, maleducati e cattivi che “rubano il lavoro”.

Da oggi i 60.000 italiani pendolari che si recano in Ticino a lavorare sono ufficialmente indesiderati. E fa niente se l’Europa in realtà vieterebbe chiusure di questa sorta: “I ticinesi – ha detto il presidente della sezione ticinese dell’Udc Piero Marchesi citato dalla Radio svizzera italiana – non vogliono farsi intimorire dall’Unione europea”. Sembra di sentire Salvini e invece Salvini questa volta è l’immigrato.

Giuro che non ho voluto nemmeno ascoltare la risposta della Lega. No. Mi sono seduto davanti al caffè immaginando i dirigenti padani, ora, in questo preciso istante, mentre impazziscono a studiare un corso contro le discriminazioni comprato via posta, me li vedo cercare in libreria il vocabolario dell’integrazione. Chissà com’è essere Salvini e morire di salvinismo.

Buon lunedì.

Dal vivere

Cosa fanno i militari italiani che addestrano i peshmerga curdi alla guerra contro il Daesh

Siamo andati a vedere come lavorano i 200 militari italiani che a Erbil addestrano i peshmerga curdi che combattono il Daesh. Una delle quattro missioni delle forze armate italiane, attive in Iraq ormai con quasi 1.000 uomini. E che rischio c’è che le armi fornite dall’occidente ai soldati curdi finiscano nelle mani dei miliziani dell’Isis?

Underground sempre, “cattivisti” mai. Gli Zen Circus presentano il nuovo album

Questa è una storia underground. Fatta di punk e di rock ma anche di ballate pop e di canzoni che sono denunce e da tenere come coltelli fra i denti. Fatta di chiacchiere con i kebabbari la notte, di anime ammaccate, di insulti sui social, di sogni e disillusioni e dei quarant’anni che prima o poi compiamo tutti. Questa è la storia de La terza Guerra Mondiale (La Tempesta Dischi), l’ultimo album degli Zen Circus. Il nono per l’esattezza che è anche il disco della “maggiore età” perché gli Zen Circus, fondati da Andrea Appino a Pisa nel 1994, hanno compiuto 18 anni. È una storia underground. Non solo perché gli Zen vengono da un panorama musicale di nicchia che è riuscito negli anni a conquistarsi un pubblico sempre più vasto. Non solo perché Appino, Karim e Ufo, i tre componenti della band, nel 2009 cantavano “Andate tutti affanculo”. Ma anche perché le dieci tracce di La terza Guerra Mondiale scivolano in profondità e si insunano sotto pelle fin dal primo ascolto. «Questo disco è una fotografia collettiva e allo stesso tempo intima del momento storico in cui viviamo. Un album sociale, senza intenzioni politiche» racconta Karim Qqru il batterista del gruppo.

La terza Guerra Mondiale è un ritratto del (non sempre) Belpaese. Già colpisce dalla copertina…
È una foto scattata da Ilaria Magliocchietti e cu ritrae, noi tre imbecilli (ride), mentre siamo al bar a fare l’aperitivo. Con i nostri begli spritz davanti e i cellulari in mano a farci i selfie, mentre dietro di noi campeggia una città completamente distrutta dalla guerra. È una copertina forte, per noi funziona come una sorta di “Giano bifronte”, vuole sottolineare la costante antitesi che viviamo in questo momento storico. Da un lato l’evoluzione tecnologica, l’invasione dei social nella nostra vita quotidiana, la routine del web 2.0 per cui siamo sempre connessi; dall’altro un mondo lontano, fatto di città polverose dai nomi strani, ormai distrutte dalle bombe. Quella guerra che guardiamo attraverso lo schermo della tv, del computer o dello smartphone e per la quale ci commuoviamo al massimo quanto? 30 o 40 secondi a settimana?
Hai detto che dietro questo disco non c’è un’intenzione politica. Eppure “Zingara”, con cui raccontate “il cattivista” del web, è estremamente politica.
C’è un’“involuzione umana” che dilaga soprattutto sui social. Se prima entravi in un bar e sentivi degli imbecilli dire delle emerite stronzate, ora apri facebook e tutti quei discorsi, che non potevi o non volevi sentire, te li ritrovi spiattellati davanti. Qualsiasi luogo online diventa un posto in cui, potenzialmente, c’è qualcuno che confonde la libertà d’opinione con il diritto di offendere. Hai ragione quando dici che “Zingara (il cattivista)” è un pezzo politico, ma va anche oltre perché rappresenta un’ignoranza crassa che ormai non è nemmeno più identificabile con un solo partito. Se prima c’era una divisione dogmatica su certi argomenti, penso all’immigrazione, alla qualità dei diritti, al razzismo, ora mi capita di leggere commenti di un certo tipo scritti anche da gente che vota Pd. Tutto si riduce a un gran calderone. Nell’epoca del 2.0 ognuno vuole dire la sua, dalla pallanuoto alla guerra in Iraq, solo per il fatto di avere davanti una tastiera e una connessione adsl. Tra l’altro il testo di “Zingara” è perfettamente realistico visto che riprende pari pari gli screenshot di alcune frasi trovate su facebook e su twitter.
Canzoni come questa possono aiutare a combattere “i cattivisti”?
Facebook è un po’ la giostra dell’ego e tira fuori il cattivista che c’è in ognuno di noi. Non credo che la musica possa cambiare la testa della gente, bisognerebbe insegnare a contare fino a 10… o forse dovremmo tassare gli status. Quando fai un post lo paghi 20 euro e hai 10 minuti per dare conferma e accorgerti se stai scrivendo una cazzata (ride di gusto).

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Ci vendono pure la pensione. In 240 comode rate

pensionati in attesa all'Inps
PENSIONI: TREMONTI, DA UE FORTE APPREZZAMENTO RICONOSCIUTA AZIONE GOVERNO SU CONTENIMENTO SPESA (ANSA) - BRUXELLES, 14 FEB - ''Il tempo e' galantuomo. Oggi a Bruxelles c'e' stato il riconoscimento dell'azione di finanza pubblica di questo governo sulle pensioni, che ha riscosso un fortissimo apprezzamento. Siamo avanti a tutti gli altri''. Lo ha dichiarato il ministro dell'Economia, Giulio Tremonti, al termine dell'Ecofin. Nella foto la sala d'atetsaq di u ufficio INPS a Napoli

«Belìn, cinque anni di vita quando ne hai già sessanta non sono come cinque anni quando ne hai venti!». È il disperato sfogo di Riccardo, che nel 2011 ha visto svanire cento progetti per l’imminente pensione e come tanti è stato inchiodato al lavoro dalla riforma Bce-Goldman Sachs-Fornero. Le statistiche gli danno ragione: la speranza di vita in salute è in calo in Italia e in gran parte dell’Occidente. Oggi un cinquantenne, uomo o donna, può aspettarsi di vivere ancora 17 anni senza malattie e limitazioni fisiche, arrivando così a 67 anni, guarda caso l’età minima prevista per la sua pensione. Mentre la vita in salute si accorcia, la vita lavorativa si allunga, portando l’età del ritiro a coincidere con l’esaurimento fisiologico del potenziale produttivo dei lavoratori. Dopo, come per i cavalli, l’ideale sarebbe abbatterli.

I liberisti mirano a posticipare ancora le pensioni, in attesa di abolirle del tutto. La rivista The Economist lo ha esplicitato sotto l’inquietante titolo “Sono i 75 i nuovi 65?”, ammonendo “Tu sei vecchio quanto senti di esserlo” e prefigurando come “l’età calcolata in anni cronologici potrebbe presto diventare irrilevante”. Dietro la coltre di propaganda si cela la solita ragione: tagliare i costi. Riducendo la durata e quindi l’entità complessiva della pensione, potranno ridursi anche i contributi previdenziali, ed eventuali tasse necessarie per integrarli. C’è un’ulteriore ragione inconfessata: allargare la popolazione obbligata a lavorare in un’epoca che vede ridursi la domanda di lavoro alimenta il bacino di disoccupati ricattabili, condizione per abbattere diritti e salari.

Ora il governo scommette sulla bramosia di vita dei tanti Riccardo over 63, mettendo in vendita quei loro anni preziosi. Chi proprio non ce la fa più, e chi verrà spinto dal mobbing, potrà acquistare un po’ del suo tempo con l’Ape, Anticipo Pensionistico, da restituire in 240 comode rate mensili, comprensive di interessi e spese a favore di banche e assicurazioni. Ai più poveri lo Stato compassionevole sconterà o abbuonerà la rata, bontà sua, ma sempre ingrassando le banche.

Perché questa iniziativa? Vari proverbi popolari ignorati dal governo dei professori rammentavano che non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca, l’agnello vivo e il lupo sazio, la frittata e le uova intere. Gli anziani al lavoro fanno certo risparmiare sulle pensioni, ma costano alle imprese molto più dei giovani, conservano articolo 18 e diritti, si ammalano e diventano inidonei alle mansioni logoranti, non si entusiasmano per le nuove tecnologie e per i vaniloqui motivazionali su team building e problem solving. Dal 2011 la già preesistente dinamica “contronatura” di sostituzione di giovani con anziani ha accelerato inarrestabile: gli occupati over 50 sono oggi 1,7 milioni in più, gli under 49 – toh che sorpresa – 1,5 milioni in meno. Di cui 200.000 svaniti durante il governo Renzi. Gli effetti per l’economia nazionale sono deleteri, con la meglio gioventù che accantona o spende all’estero studi e ambizioni.

I liberisti al governo, in Italia e in Europa, non possono permettersi una clamorosa inversione di tendenza, abbassando le soglie di età per la pensione. L’Ape offrirà un modesto sollievo, poi ci si penserà. Le adesioni sono stimate dal governo in 350.000 lavoratori in tre anni, una platea solo ipotetica e comunque esigua, che determinerà risparmi alle imprese, ma impatti risibili sull’occupazione giovanile, perché in gran parte composta da “esuberi” di fatto.

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