Photo of my premature twin girls born eight weeks earlier. Their height is 42 cm, weight - 1.7 kg.
Il Mondo nuovo (1932) di Aldous Huxley racconta di una società del futuro in cui i bambini non nascono più da un rapporto sessuale ma con l’aiuto delle biotecnologie. Il sesso non scompare ma viene praticato con regolarità con partner di volta in volta diversi, perché non è più al servizio della riproduzione, ma soltanto un’occasione di piacere. A quasi un secolo dalla pubblicazione del romanzo di Huxley, la distanza che separa la riproduzione umana dalla sessualità sembra, inesorabilmente, ridursi sempre più. A qualcuno sembrerà fantascienza, ma diventerà presto la realtà delle generazioni future.
Il sesso finalizzato alla riproduzione scomparirà nel momento in cui ci saranno tecnologie che permettono di correggere e potenziare il patrimonio genetico del nascituro. Oggi è già possibile scegliere il genoma delle persone che nasceranno, sulla base dei risultati di una diagnosi genetica pre-natale sul feto o pre-impianto sull’embrione. Domani con lo sviluppo delle tecniche di ingegneria genetica potremo non soltanto selezionare gli embrioni, ma anche programmare e rimodellare il loro Dna. Qualcuno ipotizza che in questo modo potremo addirittura decidere la loro personalità, predeterminando disposizioni del carattere come l’altruismo e il senso di giustizia.
Film come Gattaca (1997) già provano a immaginare la riproduzione del futuro: non c’è più la camera da letto e l’odore del sesso, ma ambienti freddi e anonimi. Il momento del concepimento, poi, è condiviso con gli esperti che raccomandano la combinazione genetica che meglio si adatta alle aspettative della coppia. Forse sarà un atto dovuto rendere la persona che nasce più resistente a certe malattie, mentre altre caratteristiche genetiche potranno essere scelte liberamente dai genitori. Alcuni interventi di potenziamento genetico (sia cognitivo che fisico), potrebbero essere a pagamento – e questo potrebbe acuire e perpetuare le ingiustizie sociali -, mentre altri saranno garantiti dal servizio sanitario come prestazioni di base. È possibile, inoltre, che non avremo più la libertà di riprodurci sessualmente e che, come nel romanzo di Huxley, le persone che lo faranno verranno considerate irresponsabili perché impediscono al nascituro di avere un patrimonio genetico migliore.
Supporters of Republican presidential candidate Donald Trump watch as he speaks during a campaign rally, Tuesday, Sept. 20, 2016, in Kenansville, N.C. (AP Photo/ Evan Vucci)
Frank non ci crede più al sogno americano e spera che uno che «dice le cose come stanno» e che ha fatto fortuna sia meglio di una politica navigata: «Questi sono esperti di tutto, ma non hanno saputo prevedere la crisi e le cose vanno peggio di 30 anni fa».
Come Frank sono milioni, sempre meno, ma pur sempre la componente preponderante dell’elettorato. Specie negli Stati ex industriali, dove i posti di lavoro andati persi negli ultimi trent’anni sono molti e dove lo spauracchio è l’operaio super lavoratore e mal pagato cinese. Ed è in questi Stati che Hillary Clinton deve recuperare terreno. Se fossimo in Francia, vivrebbero nei vecchi porti in decadenza dove un tempo vincevano i comunisti e oggi Le Pen, in Inghilterra saremmo nel Sud rurale spaventato dai musulmani.
Secondo un sondaggio Nbc, a fine agosto, Clinton inseguiva Trump tra i lavoratori bianchi in Ohio, Pennsylvania, Iowa e in tutti gli Stati cruciali per ottenere la vittoria. A livello nazionale, il voto dei “bianchi senza un diploma di college” (la formula che nei sondaggi significa più o meno lavoratori bianchi), dava il repubblicano avanti 68% a 24. Il problema democratico è serio.
Ma da cosa derivano tanta disillusione e astio nei confronti dei democratici? Qui le teorie si sprecano, alcuni optano per l’economia, altri per lo sconforto e il disorientamento, altri ancora guardano con sospetto al ritorno di un razzismo non militante. Ciascuna ha un fondamento. «Certo che quei liberal di sinistra che dai loro quartieri metropolitani guardano e giudicano con disprezzo questa gente e predicano correttezza politica, guardando inorriditi a Trump, sono una parte seria del problema dei democratici con questa gente» è la lettura di Zaitchik. La globalizzazione, l’impressione che la ricetta avviata negli anni 90 con il Nafta e l’ingresso della Cina nel Wto sia alla radice dei guai è molto forte.
Partiamo con l’economia. Sarà l’ansia da lavoro che scompare o che è scomparso? In parte.
Foto Roberto Monaldo / LaPresse13-09-2013 RomaPoliticaIl Partito Radicale deposita alla Camera le firme per la proposta di legge di iniziativa popolare per l'eutanasia legale Nella foto Gli scatoloni sono stati trasportati dalla sede del partito, in via di Torre Argentina, fino alla Camera. In testa alla fila, Mina Welby e Marco CappatoPhoto Roberto Monaldo / LaPresse13-09-2013 Rome (Italy)The Radical Party delivery to the Chamber of Deputies the signatures for legal euthanasiaIn the photo The transport of the signatures
La chiamo, lei vuole rimanere anonima. “Ti aspettavo” mi dice. “Chi sei?”, le chiedo. “La mia storia è comune, ho 44 anni, lavoro… Questa è in soldoni la mia vita”. La sento male, si sposta, mi dice, in una parte dove può stare più tranquilla. La sento. “Cosa ti è successo?”. “Ho avuto una prima gravidanza, era andato tutto bene, era nato un bambino che tutti percepivano, anche i medici, sanissimo. Eppure io, già dal primo mese, ho cominciato a sentire che c’erano dei problemi. Nel senso che la normalità per un neonato è di evoluzione in positivo, è una continua conquista di capacità… mentre mio figlio le perdeva. Se da un lato il suo iter cognitivo andava bene, i suoi movimenti si riducevano. Ho cercato aiuto, che si è trasformato in una serie di indagini mediche per capire cosa stesse succedendo e il risultato è stato che abbiamo scoperto che aveva una malattia neuromuscolare ad esito infausto per la quale in tutti questi anni non è stata trovata alcuna cura. E che sarebbe morto in tempi rapidi, perché ne aveva una forma molto severa. Particolarmente severa. Ci è stato detto sin dall’inizio che non c’era alcuna possibilità che sopravvivesse”.
«L’arte è sempre politica», dice Ai Weiwei. E un messaggio esplicitamente politico, che riguarda l’oggi e il dramma dei migranti è quello che l’artista cinese lancia installando gommoni arancioni, come il colore delle giubbe di salvataggio, intorno alle finestre a bifora di Palazzo Strozzi a Firenze, dove dal 23 settembre al 22 gennaio 2017 si può vedere la sua prima retrospettiva italiana, che racconta il suo intero percorso, dalle prime, ironiche opere realizzate quando andò negli Stati Uniti per studiare arte e conoscere le novità della scena internazionale, alle opere via via sempre più ispirate a temi urgenti e scottanti, come la violazione dei diritti umani nelle carceri cinesi (che Ai Weiwei ha sperimentato sulla propria pelle quando, senza processo, è stato incarcerato e messo in isolamento per reati fiscali mai dimostrati).
La mostra di Firenze evoca quei drammatici giorni con una inquietante ala metallica, mentre il piano nobile di Palazzo Strozzi è abitato dall’enorme serpente fatto con 360 zaini, quelli dei bambini che persero la vita nelle scuole crollate durante il terremoto nel Sichuan del 2008. Proprio la denuncia che Ai Weiwei fece pubblicamente, mostrando che le scuole erano costruite in modo inadeguato e non erano messe in sicurezza, segnò l’inizio del suo pedinamento da parte delle forze dell’ordine, culminato quando Ai Weiwei, fu fermato e picchiato quasi a morte. «In Cina, il rifiuto governativo di informare è una lunga storia, quindi per i cinesi è difficile sapere la verità, ora e sempre. Per questo è vitale resuscitare la verità», si legge in Weiweismi, il libro Einaudi curato da Larry Warsh che raccoglie sue testimonianze.
A Firenze ci sono poi le poetiche installazioni con sedie di legno e ruote che evocano la Cina rurale, ancora poverissima, nonostante il super capitalismo (di Stato) che impera in metropoli come Shanghai. E ancora, fra le installazioni che hanno il coraggio di toccare temi scomodi ecco Objects, che evoca con inquietanti riproduzioni di pezzi anatomici il mercato di organi in Cina. A Firenze, insomma, ci sono tutte le realizzazioni più significative di Ai Weiwei dagli anni Ottanta a oggi: dai primi, laconici, assemblaggi di utensili ai recenti progetti politici sulle migrazioni; lavori che spesso rileggono in modo originale la tradizione cinese, anche attraverso l’uso di legni pregiati, della giada e della porcellana. Ma al contempo Ai Weiwei guarda al futuro, anche esplorando le potenzialità della rete, fin dal 2005 facendone uno dei suoi mezzi di comunicazione privilegiati.
Nell’intervista al direttore artistico di Palazzo Strozzi Arturo Galansino pubblicata sul settimanale Left ad agosto, abbiamo ripercorso la genesi di questa importante mostra toscana, a cui ha collaborato Galleria Continua e che nasce dal lavoro di Galansino all Royal Academy di Londra, ma anche da ripetuti incontri con l’artista in Cina, dal momento che fino al 2015 non aveva ancora la possibilità di viaggiare, poiché le autorità cinesi gli avevano sequestrato il passaporto. In quel servizio, il docente di storia dell’arte alla Facoltà di studi orientali de La Sapaienza Filippo Salviati ci aiutava a contestualizzare l’opera di Ai Weiwei, collegando la sua ricerca alla generazione che ebbe il coraggio di ribellarsi al regime cinese, che poi intervenne con la repressione di piazza Tienammen. Poi sarebbe venuta la generazione dei pittori, iper pop e iperrealisti, che hanno invaso il mercato internazionale con prodotti sgargianti, molto commerciali e senza contenuto.
Lo ricordiamo qui perché negli attacchi che questa monografica di Ai Weiwei ha ricevuto non solo da giornali di destra (ed era prevedibile, visti i temi che Ai Weiwei tratta, a cominciare dall’emigrazione) ma anche da critici non certo conservatori come Francesco Bonami, non abbiamo visto traccia di approfondimento del percorso, del senso e del contesto in cui il lavoro di Ai Weiwei nasce e si è sviluppato. Attacchi che ci sono sembrati francamente gratuiti da parte del critico fiorentino che ha avuto successo a New York, in particolare nell’articolo I gommoni sgonfi del furbo Ai Weiwei, pubblicato su La Stampa, in cui sostiene che «l’arte vera è un’altra cosa» dal parlare di diritti umani. Sentir dire proprio da Bonami che le opere di Ai Weiwei non sarebbero arte ma solo delle trovate efficaci, se non altro stupisce, vista la lunga collaborazione di Bonami con Maurizio Cattelan.
Bonami addita Ai Weiwei come «un arrampicatore stratega furbissimo che pur di diventare famoso avrebbe fatto di tutto», tanto da passare quasi tre mesi in carcere, «ufficialmente per evasione fiscale solo per poter avere successo internazionale come artista». Certamente Ai Weiwei è un artista che si espone al rischio, ma senza contare che era già molto famoso all’epoca dell’internamento, sembra poco plausibile che una persona che ha rischiato di morire di botte e che poi è stato operato alla testa per i danni subiti lo abbia fatto per avere qualche titolo di giornale. Sull’opera di Ai Weiwei che incontra l’attualità con un’urgenza politica si potrà forse dire che non sempre riesce a trovare un segno e una traduzione in immagini originali. Il suo percorso è certamente punteggiato di altri e bassi creativi – come del resto l’opera della maggior parte degli artisti che non si rinchiudono in una formula ma sono sempre alla ricerca – ma perché degradare la critica d’arte ad un attacco personale? E perché se si vuol considerare la sua biografia non allargare lo sguardo a tutto il percorso di Ai Weiwei fin dalla sua formazione segnata dagli anni in cui suo padre, poeta noto in Cina, fu costretto al confino, potendo tornare nella capitale solo nel ’76?
La lotta di Ai Weiwei per i diritti umani in Cina comincia quando era un ragazzino e arriva con coerenza fino ad oggi. «Mio padre non ha mai perso la propria luce. Puliva i gabinetti senza sentirsi umiliato perché in lui respiravano arte e cultura. Mi raccontava la storia romana e mi mostrava riproduzioni della pittura rinascimentale», dice l’artista a Leonetta Bentivoglio che lo intervista su Repubblica del 20 settembre: «Con la rivoluzione culturale quelle stampe meravigliose che mi avevano fatto sognare furono strappate e bruciate. Lui fu picchiato e massacrato, ma restò sempre calmo e gentile. Era colmo di un’energia artistica con la quale seppe proteggermi in giovane età. Mio padre è stato la vittoria dell’umanità di fronte alla barbarie».
Nella appassionata e litigiosa Firenze, questa mostra – che ha il merito di aprire la città rinascimentale al contemporaneo – ha scatenato un dibattito accesissimo, con decine di commenti anche sulla pagina del sindaco Dario Nardella. Commenti dai quali, dispiace dirlo, emerge la parte più conservatrice della città che grida allo scandalo perché la facciata di Palazzo Strozzi sarebbe stata deturpata dai canotti di Ai Weiwei. Le scialuppe dei migranti non dovevano arrivare a turbare il sogno del Rinascimento? Speriamo di sbagliarci, ma anche il duro editoriale in cui il direttore del Corriere fiorentino si è scagliato contro lo storico dell’arte Tomaso Montanari (ex collaboratore cacciato dalla sua testata), sembra iscriversi in logiche locali, molto asfittiche. Più che riportarne il triste dettaglio, vorremmo piuttosto invitarvi a a leggere l’intervento dello storico dell’arte fiorentino. S’intitola Quei gommoni che ci invitano a guardare dentro di noi: personalmente lo condivido dall’inizio alla fine apprezzando anche il fatto che venga da un esperto dell’arte del ‘600 , ma anche profondo conoscitore del Rinascimento fiorentino.
New York. Centinaia di giubbotti di salvataggio lungo l’Hudson per richiamare l’attenzione sulla crisi dei rifugiati prima del vertice delle Nazioni Unite dedicato al tema (AP / Mark Lennihan)
17 Settembre, 2016. I ribelli delle FARC durante l’inaugurazione della loro 10 ° conferenza. L’esercito ribelle si prepara a diventare movimento politico (AP / Ricardo Mazalan)
18 Settembre, 2016. Mosca, Russia. Una donna nella sua abitazione si prepara a compilare la sua scheda elettorale (AP / Pavel Golovkin)
18 settembre, 2016. Barcellona, Spagna. Una coppia balla in strada, durante la lunga festa di Poblenou (AP / Emilio Morenatti)
19 settembre 2016. Una donna passa davanti a una fabbrica di mattoni locale nella periferia di Kabul (AP Photo / Rahmat Gul)
19 settembre, 2016. Kinshasa, Repubblica Democratica del Congo. Polizia antisommossa durante una protesta nella capitale del Congo. I testimoni dicono che almeno quattro persone sono morte dopo le proteste dell’opposizione contro il ritardo delle elezioni presidenziali. (AP / John Bompengo)
20 settembre, 2016. Charlotte, Poliziotti in formazione davanti ai manifestanti. (Jeff Siner/The Charlotte Observer via AP)
20 Settembre, 2016. Karachi, Pakistan. Pescatori pakistani preparano le reti per la pesca. (AP/Shakil Adil)
20 settembre 2016. Un poliziotto di frontiera israeliano controlla i manifestanti palestinesi durante gli scontri nella città cisgiordana di Hebron (EPA / Abed Al Hashlamoun)
21 settembre, 2016. Charlotte, nuovi scontri tra manifestanti e polizia (Jeff Siner / The Charlotte Observer via AP/Ansa)
22 settembre, 2016. Sirte, Libia. Combattenti delle forze libiche affiliati del governo di Tripoli ricaricano le armi durante i combattimenti contro i militanti dell’Isis. (AP Photo/Manu Brabo)
Gli aborigeni australiani avevano ragione: sono il popolo più antico del mondo.
I risultati di uno studio genomico dell’università del Queensland e di Cambridge dimostrano che gli uomini moderni discendono da un’unica ondata migratoria dall’Africa iniziata 72 mila anni fa che ha portato gli aborigeni a insediarsi in Australia 50 mila anni fa.
«Questa storia era scomparsa da lungo tempo dal campo della scienza» – commenta Elke Willesrlev, uno dei direttori della ricerca, – «Ora sappiamo che i loro parenti più lontani sono stati anche i primi esploratori umani reali. I loro antenati si sono attivati per affrontare questo eccezionale viaggio attraverso l’Asia e l’oceano».
La ricerca scientifica
Lo studio, pubblicato su Nature, si è servito del genoma di 280 persone di diverse popolazioni aborigene e – partendo dal presupposto che ogni genoma contiene la storia di tutti gli antenati precedenti – ha dimostrato che gli antenati degli aborigeni e dei papuanesi si sono messi in viaggio alla conquista dell’Oceania insieme 58 mila anni fa, dopo essersi separati dal gruppo principale.
Una volta raggiunto il continente di Sahul, che comprendeva Tasmania, Australia e Nuova Guinea, i due gruppi sono rimasti lì fino alla separazione del continente in varie isole 8 mila anni fa, creando due popoli distinti.
Nel viaggio dall’Africa, secondo lo studio, gli aborigeni hanno acquisito i genomi dei Neanderthal e dei Denisoviani (ominidi siberiani) che oggi rappresentano il 4 per cento del loro genoma, facendo decadere la teoria che i non-Sapiens fossero dei goffi preistorici molto diversi da noi.
La tradizione orale aborigena
Che la cultura nativa australiana sia una delle più viventi del mondo lo sanno bene gli aborigeni che da millenni si tramandano oralmente di generazione in generazione “Il Tempo del Sogno” (Dream Time), la narrazione mitica della genesi della terra e della civilizzazione umana. «Questo studio»- commenta Aubrey Lynch, un’aborigena dell’area Goldfields – «conferma le nostre convinzioni che abbiamo antichi collegamenti con le nostre terre e siamo stati qui molto più a lungo di chiunque altro.»
Le analisi al carbone fossile sulle pitture rupestri, infatti, confermano da tempo i risultati della ricerca sul genoma, ma gli archeologi si sono a lungo divisi sulla datazione dell’insediamento aborigeno, sul quale gli antropologi sembrano avere le idee più chiare già da prima.
Lo studio della cultura aborigena – sostengono i prof. Nick Reid e Patrick D. Nunn dell’University of England – dimostra che la tradizione aborigena del “Tempo del Sogno” contiene inestimabili dati sui cambiamenti geologici del continente australiano, come la progressiva comparsa della barriera corallina prima sommersa e del Golfo di Spencer o l’improvviso innalzamento della marea 7000 mila anni fa.
Il patrimonio culturale aborigeno ha sempre destato poco interesse tra gli occidentali, che per secoli hanno considerato la loro mitologia un passatempo per bambini, senza fondamento artistico o storico, eccezion fatta per qualche antropologo come Walter Baldwin Spencer che si è spinto fin lì già nel 1800.
Il popolo aborigeno oggi
Il popolo aborigeno, che rappresenta oggi il 3 per cento della popolazione australiana, è stato decimato del 90 per cento dall’incontro con l’Occidente nel XVIII secolo e tuttora non gode di ottima salute: secondo il rapporto del Survival International “Il progresso può uccidere”, gli aborigeni rischiano la morte infantile 6 volte di più rispetto agli altri bambini australiani, si ammalano di diabete 22 volte in più e hanno un’aspettativa di vita di 20 anni inferiore a quella bianca.
Gli aborigeni vivono per lo più nelle riserve o ai margini delle città, scontando il pregiudizio di essere violenti e incivili alimentato da frange intolleranti della politica australiana.
Soltanto nel 2008 sono arrivate le scuse ufficiali del Primo Ministro australiano alla comunità aborigena per la decimazione e la ghettizzazione che ha subito nel corso dei secoli, mentre risale al 1967 il referendum che permette ai nativi di votare e al 1992 l’abolizione del terra nullius, il principio coloniale che espropriava gli aborigeni delle loro terre.
L’anno scorso il parlamento di Canberra ha riconosciuto agli aborigeni lo status di popolazione originaria nel continente prima dell’arrivo dei britannici, ma ancora oggi – secondo Linda Burney, la prima aborigena eletta in Parlamento nella storia – i diritti della comunità nativa sono in pericolo per la proposta di cambiare il “Racial Discrimination act”, che condanna la discriminazione.
In una immagine simbolica di archivio due ragazzi picchiano un coetaneo.
ANSA/FRANCO SILVI
E alla fine la montagna partorì un topolino. O forse nemmeno quello. La legge sulla “Tutela dei minori per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del cyberbullismo”, approvata alla Camera con 242 sì, 73 no e 48 astensioni, e modificata in corso d’opera con emendamenti che la estendono anche ai maggiorenni, rischia di perdere efficacia. Troppe norme che esulano dall’ambito dei minori e da quello scolastico, per cui si va a lambire la libertà di espressione e il potere dei signori della Rete. Insomma, il focus della legge ora nuovamente all’esame delle commissioni del Senato è troppo esteso e per tutelare tutti si rischia non tutelare nessuno. E il bello è che tutto è accaduto all’interno dello stesso Partito democratico, con emendamenti proposti, tra gli altri, da Micaela Campana e Paolo Beni.
«Così tra l’altro, il percorso sarà molto farraginoso, ci sarà bisogno di altre audizioni perché la prima Commissione vorrà approfondire, visto che è cambiata la platea dei destinatari» dice scettica a Left Elena Ferrara, la senatrice Pd che aveva presentato il disegno di legge dopo la tragedia che in qualche modo l’aveva coinvolta. La morte, cioè, a Novara di Carolina Picchio, una sua studentessa che si era tolta la vita dopo la pubblicazione di un video che ritraeva le molestie subite dalla 14enne.
Il testo di legge era stato ispirato anche dal padre di Carolina, Paolo, che della lotta al cyberbullismo aveva fatto una ragione di vita, come ha spiegato in una commovente lettera al Corriere della Sera in cui pregava di non stravolgere la legge. Tra l’altro aveva scritto: “Così oggi vivo per le Caroline che non conosco e che purtroppo, lo so, sono da qualche parte nella rete anche adesso mentre scrivo. Vivo per creare anticorpi, per una società migliore. Per esempio attraverso la proposta di legge per la prevenzione e il contrasto al cyberbullismo che ha firmato per prima l’ex insegnante di musica di Carolina, la senatrice Elena Ferrara”.
La senatrice oggi è molto critica per come è stata cambiata la legge. «La norma era nata per i minori, persone vulnerabili ma tra l’altro da privilegiare nei diritti educativi della formazione per l’uso consapevole della Rete. Avevano tutta una serie di tutele. Se noi estendiamo queste misure, l’aggravante può creare un conflitto tra libera espressione e diritto di cronaca da una parte e diritto alla tutela dei dati personali dall’altra parte». Una norma ritagliata per una fascia d’età particolare, quella dell’età evolutiva, con forme di tutela non solo per le vittime ma anche per gli stessi “bulli” che magari sono stati vittime pure loro, è stata completamente stravolta.
Allora, continua la senatrice, era stato raggiunto un patto educativo a cui si erano dette disponbili anche le aziende che gestiscono i social media e i siti, ma adesso? «Se l’azienda deve dare risposta a una segnalazione di una persona adulta che dice di ritenersi lesa o offesa da un contenuto, a parte il problema legato al fatto che lo decide Facebook e non il giudice, si otterrebbe un sovraccarico di richieste e anche “imbarazzo” sul piano del diritto, per cui va governato tutto il rapporto tra tutela della privacy e libertà di espressione».
La parte che riguarda la prevenzione in ambito scolastico, continua Elena Ferrara, rimane e la Buona scuola implementa con fondi la conoscenza e la formazione dei docenti. Ma così si rischia di non andare da nessuna parte. «Il mio appello era stato questo – conclude la senatrice – una legge non è mai perfetta, ma almeno eravamo partiti con un obiettivo, manteniamolo, visto che tra l’altro il testo era stato approvato all’unanimità al Senato. Così si rischia di infilarsi in un ginepraio, in cui tra l’altro le norme ci sono già, così come i reati e la possibilità, mediamente, di rimozione dei contenuti».
«Quando siamo al lavoro in quell’area, gli elicotteri passano sulla nostra testa, vediamo alzarsi in cielo i pennacchi di fumo e sentiamo le esplosioni», ci racconta Daniele Morandi Bonacossi, docente di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente Antico all’università di Udine e direttore del progetto “Terra di Ninive”. Lungo la linea del fronte di Mosul, oltre ai peashmerga da un lato e al Daesh dall’altro, abbiamo incontrato anche questo gruppo di “archeologi di guerra” italiani. Sono qui per documentare, monitorare, tutelare e valorizzare lo straordinario patrimonio minacciato, depredato o in parte distrutto dai jihadisti nell’area dell’antica capitale dell’impero assiro, Ninive, l’odierna Mosul oggi diventata invece la “capitale” irachena del sedicente Stato islamico.
Filippo Luini, dalla serie “The young men say hello”, Grecia, 2016
Fondazione Fotografia presenta al Foro Boario di Modena la mostra Lying in Between. Hellas 2016 (dal 15 settembre all’8 gennaio 2017), con il patrocinio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (Unhcr) e dell’Ambasciata di Grecia a Roma.
Il percorso, a cura del direttore Filippo Maggia, espone le opere prodotte in occasione di una missione fotografica in Grecia svoltasi su iniziativa di Fondazione Fotografia nei mesi di maggio e giugno 2016.
Alla missione hanno preso parte sette fotografi italiani caratterizzati da sensibilità e stili differenti: Antonio Biasiucci, Antonio Fortugno, Angelo Iannone, Filippo Luini, Francesco Mammarella, Simone Mizzotti e Francesco Radino.
Ad affiancare le loro opere e a completare l’allestimento della mostra ci sarà inoltre un’installazione video a tre canali, realizzata e prodotta da Fondazione Fotografia. Left è media partner dell’iniziativa. Ecco la gallery con alcune delle foto esposte a Modena.
Credo che il reportage, inteso come applicazione nobile della pratica fotografica, sia pressoché scomparso ormai da quasi tre decenni, dalla guerra dei Balcani quando Peter Arnett trasmetteva in diretta immagini del conflitto al mondo intero. Da allora, i fotoreporter hanno interpretato più che raccontato la quotidianità, gli eventi, le storie, producendo immagini, in questo senso, che sembrano appartenere alla stage photography più che al reportage. Alcune volte hanno addirittura stravolto il mondo, in questo certamente aiutati dall’avvento del digitale che permette di “modificare” a proprio piacimento la realtà.
Nel nostro caso, la violenza della realtà è subito parsa così forte e immediata che, al contrario, ha richiesto un silenzio e una riflessione profonda prima di poterla affrontare e riportare. Il risultato è il racconto di un’esperienza che non solo ha di gran lunga superato le aspettative che il progetto missione si era proposto ma, soprattutto, ha cambiato il modo di vedere e sentire questo dramma così vicino, per quanto noi lo si voglia tenere lontano dalle nostre vite.
Filippo Maggia, direttore Fondazione Fotografia e curatore del progetto
I fotografi: «Noi, dentro l’esodo»
Antonio Biasiucci – The Dream
Sono partito per Kios con molte perplessità. Ero scettico per quanto riguarda la possibilità di realizzare un buon lavoro in un campo profughi dove sono concentrate più persone provenienti da vari paesi con differenze culturali molto diverse. È la stata la loro accoglienza a permettermi di entrare nei loro mondi e cercare una sacralità anche in questo luogo dove sembra estinta, sopraffatta da esigenze pratiche di sopravvivenza e dalla precarietà quotidiana. Gli incontri con persone straordinarie mi hanno permesso di lavorare bene e realizzare un lavoro sul “migrante”. Nel polittico in mostra sono presenti immagini di mani, piedi e volti con gli occhi chiusi dei profughi. Ognuno di questi tre soggetti esprime metafore legate allo spostamento e alla migrazione. Nell’opera l’individuo si denuda mostrando allo straniero la parte di sè più vulnerabile e indifesa
Antonio Biasiucci, particolare dell’opera “The Dream”, Grecia, 2016
Antonio Fortugno – Kwj Kos Coo Co0
Il mio lavoro a Kos si realizza attraverso alcuni momenti o passaggi. Innanzitutto c’è un lavoro di progettazione, una ricerca fatta per prepararmi al viaggio e al reportage fotografico: si tratta della mutazione ortografica del nome Kos da Coo a Co0, formula chimica del monossido di cobalto, materiale con cui ho realizzato il video che mostra la progressiva dissolvenza della superficie dell’isola. È dall’azione poetica di questo breve video che ha origine il tema portante di questo lavoro, incentrato sul viaggio come ricordo: l’azione del tempo sulla memoria, la mutazione della forma nel tempo, la forma come identità, l’identità come memoria. Sono questi i segni distintivi che attraversano i passaggi del lavoro fotografico compiuto sull’isola, segni che ho disposto in parallelo per sinonimia o per antinomia.
Il tema della presenza-assenza è evocato dall’acqua, elemento vitale per eccellenza, che si ritrova nelle immagini della piscina dell’ex Hotel Captain Elias, struttura alberghiera abbandonata che è stata luogo temporaneo di accoglienza dei profughi giunti dal mare, il luogo d’acqua per antonomasia, fonte di vita o di morte per i naufraghi.
Antonio Fortugno, dalla serie “CoO”, Grecia, 2016
Antonio Fortugno, dalla serie “CoO”, Grecia, 2016
Angelo Iannone – fotografo (inviato a Samos)
L’emergenza dei profughi porta segni tangibili, imponenti, nella vita quotidiana della popolazione locale, che nonostante tutto continua ad andare avanti, non spinta dalla non curanza ma dal desiderio di superare la situazione.
Ho sentito la necessità di non mostrare quello che quotidianamente i media spettacolarizzano, ma di lavorare in silenzio. Dopo aver vissuto un’esperienza di tale portata, sono diventato molto più critico nella ricerca e nella fase preparatoria di un progetto, sia nei confronti di me stesso, sia nei confronti delle fonti.
Angelo Iannone, dalla serie “Nulla che già non sappiate”, Grecia, 2016
Angelo Iannone, dalla serie “Nulla che già non sappiate”, Grecia, 2016
Filippo Luini – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos)
Un momento significativo è stato l’incontro con una famiglia di rifugiati di Aleppo. Raccontandomi il loro viaggio, il padre mi ha mostrato una fotografia. Ritraeva la moglie e la figlia adolescente sedute su un pullman. Di nascosto sollevavano i burka che erano state costrette ad indossare per attraversare un territorio occupato al tempo dall’Isis. Sorridevano.
Le memorie dei telefonini dei migranti sono colme di fotografie che raccontano la loro storia meglio di molti reportage. Nonostante le disgrazie, spesso appaiono sorridenti, per l’abitudine di mostrarsi felici quando si scatta una fotografia. A posteriori credo che la fotografia delle due donne mi sia stata di ispirazione, per il contrasto tra i loro volti e la drammaticità del contesto.
Il mio progetto fotografico è nato infatti dalla condivisione di un momento ludico con un gruppo di giovani rifugiati, a cui ho chiesto di rivivere, mettendoli in scena, dei momenti del loro tragitto fin qui. Le immagini restituiscono l’idea di un percorso comune, laddove nella realtà i ragazzi viaggiavano da soli. Si può dire che il viaggio sia il frutto di una memoria collettiva, ed esiste solo in forma di racconto per immagini. Il filtro del gioco mi ha permesso di scattare delle fotografie in cui la durezza della situazione appare per un istante sospesa.
Filippo Luini, dalla serie “The young men say hello”, Grecia, 2016
Filippo Luini, dalla serie “The young men say hello”, Grecia, 2016
Francesco Mammarella – fotografo (inviato a Leros, Agathonissi, Pserimos)
La mostra Lying in between è nel suo insieme un evento incredibile, sia per la varietà degli aspetti formali sia per quelli contenutistici. Resterà sicuramente impressa nella mente dei visitatori. Mi sento orgoglioso di farne parte.
Arrivare a vedere coi propri occhi questo dramma storico mi ha portato a comprendere più approfonditamente la parola “esodo”. Scorgere migliaia di individui mettersi in viaggio per moltissimo tempo con pochi oggetti personali e tanta voglia di una vita normale ti mette con le spalle al muro: sei costretto a guardare i dolori della vita. Non volevo mostrare direttamente con le mie fotografie il dolore e le sofferenze dei profughi. Talvolta percepisco l’uso massiccio di queste immagini scioccanti come un atteggiamento inumano nei confronti di chi li vive, che esula dal nobile concetto di denuncia e si concretizza più sotto un aspetto estetizzante. Ho cercato di inserire il concetto di “isola” e “isolamento” nel mio lavoro e ragionando mi sono accorto che molto spesso è l’uomo che ha necessità di creare delle distanze.
Francesco Mammarella, dalla serie “Paura Secondo Grado”, Grecia, 2016
Francesco Mammarella, dalla serie “Paura Secondo Grado”, Grecia, 2016
Simone Mizzotti – fotografo (Idomeni)
Far parte di questa missione è stato motivo di orgoglio e soddisfazione: abbiamo potuto vivere e documentare in prima persona un’esperienza umana unica.
Confrontarsi con queste persone è stato molto importante: prima abbiamo ascoltato e capito cosa hanno vissuto per arrivare alle porte dell’Europa. e poi ci siamo resi conto di essere inermi di fronte a una tale catastrofe umanitaria. Dopo questa esperienza non è cambiato molto del mio linguaggio fotografico, ma è cambiata la mia voglia di poter fare di più per persone che hanno veramente bisogno di aiuto.
Simone Mizzotti, dalla serie “Camp Inn ***” , Grecia, 2016
Francesco Radino
Come tutti noi sono stato orgoglioso di far parte della missione, progetto pubblico, e sottolineo pubblico, dedicato all’emergenza profughi.
Questo ci ha permesso di confrontarci in prima linea con uno dei problemi più rilevanti e dolorosi del nostro tempo e trovare una chiave di lettura per mettere in scena un racconto che non fosse ripetitivo o banale è stata la nostra sfida.
Ho sempre cercato di evitare linguaggi toppo diretti in cui gli aspetti etici e di testimonianza civile prendessero il sopravvento .
La bulimia di immagini caratteristica del nostro tempo ha finito per anestetizzarci e anche le immagini più drammatiche che ci arrivano in tempo reale da ogni parte del mondo non riescono più a scuotere le nostre coscienze per più di un’attimo.
Da qui la necessità di trovare altri linguaggi capaci di dare forma e sostanza alla nostra testimonianza.
Nel lavoro “No news, bad news” ho tentato di mettere in relazione il dramma dei profughi con la bellezza dei luoghi dove “Dolcezza e asprezza si intrecciano e si confondono in ogni piega di questo viaggio, phatos e thanatos affiorano dalla trama dell’esperienza visiva come nei versi ossimorici del Petrarca “O viva morte o dilectoso, male”. Tessere di un paesaggio instabile dove concetti antitetici si mostrano allo sguardo indissolubilmente legati.” (1)
Nel lavoro “una faccia una razza” ho preso spunto dal motto tradizionale d’accoglienza del popolo greco per mettere in scena una gallery dove i volti dei migranti dialogassero con quelli degli abitanti di Lesbos, dei volontari delle Onlus e con le immagini senza tempo dell’iconografia religiosa e civile del passato.
Questa esperienza naturalmente mi ha segnato più di altre e mi ha permesso di dare un senso al mio lavoro di operatore dell’immagine nella consapevolezza, per usare una nota metafora, di essere allo stesso tempo freccia e bersaglio. (1) dal testo introduttivo al mio lavoro in catalogo
Francesco Radino, dalla serie “No news, bad news”, Grecia, 2016
Francesco Radino, dalla serie “Una faccia una razza”, Grecia, 2016
il primo ministro ungherese Viktor Orban e quello bulgaro Boyko Borisov davanti al confine tra Turchia e Bulgaria
Tutto come da copione. A Bratislava, i quattro di Visegrad – Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia – si sono presentati con una proposta comune: «Rafforzare il ruolo dei parlamenti nazionali» e rispettare «i principi di sincera cooperazione ed equilibrio istituzionale tra le istituzioni Ue».
In piena campagna elettorale – in Ungheria si vota per il referendum anti immigrati il prossimo 2 ottobre – il primo ministro ungherese Viktor Orbán rincara: «Non è giusto che la Germania cerchi di distribuire i migranti tra i vari Paesi Ue», Berlino invece «dovrebbe fissare un limite al numero di migranti che desidera accogliere», ha detto, intervistato da Origo.hu. Ma non è finita qui, Orbán si spinge fino a chiedere che tutti i «migranti illegali» vengano rastrellati e trasferiti nei campi profughi sorvegliati e finanziati dall’Unione europea. Dove? «Su un’isola o una costa del Nord Africa» dalla quale possono fare domanda di asilo.
Insomma, guidati indubbiamente dal leader ungherese, i quattro di Visegrad (ovvero 4 su 27 dell’Unione) approvano il Migration compact, concordano sulla cooperazione con la Turchia e sulla protezione – meglio ancora se armata – dei confini esterni in cui l’Ue è impegnata. Ma sulle quote obbligatorie e l’equa distribuzione dei rifugiati proprio non mollano: «Ogni meccanismo di distribuzione deve essere volontario» e propongono il principio della «solidarietà flessibile»: «Ogni Stato dovrebbe poter decidere specifiche forme di contributo, considerando la propria esperienza e il proprio potenziale».
Solidarietà flessibile, una «contraddizione in termini non prevista dai trattati» se si parla di migranti, mette in guardia il sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega agli Affari Europei Sandro Gozi. In effetti “solidarietà” deriva dal latino: solidus, solido. «È il sostegno reciproco, al modo in cui ogni parte di un solido è retta e tenuta salda da tutte le altre: nessuna si ritrova sola nel vuoto. La solidarietà è quindi la compattezza del corpo sociale, il suo essere massiccio». Quindi per definizione non flessibile, termine che invece «indica la facilità a piegarsi, a variare, a modificarsi, ad adattarsi a situazioni o condizioni diverse».
Forse, messa così, nera su bianco, la contraddizione del concetto di «solidarietà flessibile» davanti a vite umane appare più chiara. L’attacco viene sferzato da Visegrad è duro, durissimo. E pensare che per la cancelliera Angela Merkel, quello di Visegrad è «un approccio positivo perché cerca soluzioni». Anche se la soluzione è scaricarli su un’isola africana? Non sarà troppo buona Angela?