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Dall’agroindustria alla Costituzione, il tempo dei “too big to fail” è scaduto

Protesta contro fusione Bayer Monsanto
epa05321225 Protesters take part in a march against the multinational agrochemical and agricultural biotechnology companies Monsanto and Syngenta in Basel, Switzerland, 21 May 2016. The EU on 18 and 19 May did not renew a licence for the herbicide glyphosate which is produced by Monsanto. EPA/GEORGIOS KEFALAS

Il mercato globale del cibo presto passerà dalle mani dei “6 Grandi” a quelle dei “3 Enormi”. Sono gli stessi big dell’agroindustria che controllano la filiera della produzione agricola, dai fertilizzanti ai pesticidi, passando per semi e – soprattutto – brevetti. Ora lavorano alacremente per rafforzarsi a suon di fusioni: il colosso tedesco Bayer ha appena concluso l’accordo per acquisire la statunitense Monsanto con un esborso di 66 miliardi di dollari; Dow Chemical ha annunciato, a fine 2015, la fusione con DuPont, un affare da 130 miliardi; China National Chemical Corp rileverà l’elvetica Syngenta per oltre 43 miliardi di dollari. Diminuiscono i soggetti in campo ma si ingigantiscono i rischi per contadini e consumatori. Presi singolarmante, questi big dell’agroalimentare hanno già curricula di tutto rispetto quanto a potere di lobby e imposizione dei loro interessi.

Ora tre mega-presidenti dietro altrettante mega-scrivanie decideranno cosa coltiveremo (quindi cosa mangeremo) e a che prezzo, infischiandosene di ogni eventuale volontà popolare. I loro mezzi potenti di persuasione sono stati già dispiegati. Ci raccontano di scenari ottimistici che si aprono, di quelle che definiscono “partnership e strategie di efficientamento preziose per il consumatore finale”. Mentre gli addetti ai lavori si indignano e si mobilitano. Fanno l’elenco dei rischi che corriamo, dal campo alla tavola, e gridano alla perdita di sovranità. E noi, cittadini comuni, come spesso accade per le notizie che riguardano questioni globali, percepiamo il pericolo ma non abbiamo strumenti per reagire. O almeno non li individuiamo facilmente.

Ora voglio proporvi un cambio di scala e di argomento (ma neanche troppo). Italia. Riforme costituzionali: il presidente del Consiglio, forte del fatto che il testo non apporta modifiche esplicite in materia, ci spiega che la sua riforma «non tocca minimamente il sistema dei poteri del premier, del controllo e delle garanzie». Eppure basta leggere la riforma per verificare che, se dovesse passare, il presidente del Consiglio avrebbe un controllo ancora maggiore sul procedimento legislativo. E questo pur non volendo considerare il peso della legge elettorale, l’Italicum dei cui destini costituzionali sapremo probabilmente soltanto dopo il referendum. Sembra una battuta, ma si voleva evitare l’uso politico dell’eventuale bocciatura. Con la riforma Boschi-Renzi, ad esempio, il presidente del Consiglio eserciterebbe uno stretto controllo sulla Camera dei deputati e finirebbe perciò per avere più peso del presidente della Repubblica (eletto dalla Camera e da un Senato svuotato di senso), mettendone a rischio l’imparzialità.

Non è una concentrazione di poteri che dovrebbe allarmare anche questa? Non sappiamo se – come sostiene Giuliano Pisapia – «non è in gioco la democrazia», ma certamente è in gioco un’idea di democrazia. Quella in cui la sovranità appartiene al popolo e non alle consorterie di turno, quella in cui si ha tanto il diritto quanto il dovere di esercitare il dissenso, in cui si decide nell’interesse generale. Quella in cui per governare non serve l’uomo solo al comando ma «il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese» (e non è necessario, purtroppo, non toccare i primi articoli della Costituzione per non vederli stravolti).

Alcuni osservatori fanno notare che in realtà le fusioni tra i big dell’agroindustria rappresentano anche un segnale di debolezza. I fatturati calano e loro sono costretti – per puro spirito di autoconservazione – a fare squadra. Segno che il tempo dei “too big to fail”, quello del potere nelle mani del famoso 1 per cento che decide per il 99 per cento, sta per scadere e che sono costretti ad asserragliarsi nella roccaforte per mantenere il timone del comando. Sarà pure un paragone inappropriato, ma dietro questa riforma costituzionale c’è la stessa logica conservatrice e accentratrice. Che si tratti dello scrittoio di palazzo Chigi o della mega-scrivania all’ultimo piano del grattacielo di proprietà di una multinazionale, ormai il re è nudo. Mezzo miliardo di agricoltori nel mondo e, in Italia, 51 milioni di elettori stanno prendendo coscienza del fatto che a volte servono No decisi per spianare la strada ai tanti Sì su cui fonderemo un Pianeta e un Paese più giusti.

Ha ragione Briatore: serve più lusso. Anche noi ce ne prendiamo uno

Un momento della manifestazione a milano per l'operaio ucciso a Piacenza, 16 Settembre 2016. ANSA/ SALVATORE GARZILLO

Ha proprio ragione Flavio Briatore: il problema dell’Italia dev’essere che non c’è abbastanza lusso. Non si spiega, altrimenti, come possa accadere che le sue parole sugli alberghetti pugliesi e sulla necessità di hotel stellati costruiti sulla spiaggia abbiano tanto spazio sui media. Persino più di Abd Elsalam Ahmed Eldanf, l’operaio della logistica che nelle stesse ore veniva messo sotto e ucciso da un altro operaio, un camionista di cui non si sa molto ma che certo non se la passava meglio della sua vittima.
È il lusso il problema, già, bravo Briatore, ha colto nel segno. Da buon coach ci offre il consiglio giusto. E non è un caso che prima di lui, negli Usa, il boss di The Apprentice sia stato Donald Trump. Stessa scuola.

Così noi – noi giornalisti intendo – da buoni apprendisti apriamo il dibattito sul lusso e, già il giorno dopo, ci dimentichiamo che un operaio è morto. Un tempo il cinico direttore avrebbe cavalcato la notizia “approfittando” della contemporanea morte di altri tre lavoratori: un dipendente dell’Atac a Roma, un operaio dell’Ilva a Taranto e una persona impiegata in un agriturismo a Trieste. «Una ferita per l’Italia», ha detto pure il Presidente Mattarella. Troppo cheap, l’austero Sergio. Pensate se avesse detto “abbattiamo l’Ilva e facciamoci un resort esclusivo”. Allora sì che c’era la notizia.

I 562 morti sul lavoro da gennaio a luglio 2016 sono dunque soltanto l’effetto collaterale di un Paese che, sì, si prende il lusso di dimenticarsi degli ultimi, ma non punta ancora abbastanza sui “primi”: i miliardari russi, gli sceicchi sauditi, i petroldollari e altre mirabilanti ricchezze sono pronte a invaderci e noi, “personaggetti” capaci solo di “alberghetti”, ce le lasciamo sfuggire. Certo, abbiamo altro a cui pensare noi – noi cittadini consumatori intendo stavolta. Dobbiamo garantirci i nostri piccoli lussi, fare la fila davanti agli store per l’ultimo modello di smartphone, lavorare a più non posso per comprare. “Armi di distrazione di massa”, di cui il potere approfitta per alimentare il lusso dei Briatore, alla faccia degli ultimi ma anche alla faccia degli imprenditori seri che hanno a cuore i destini del Paese tutto e non soltanto dei super-ricchi.

Allora anche noi di Left ci prendiamo il nostro piccolo lusso: sul numero che trovate oggi in edicola non ci sono resort e alberghi sulla spiaggia ma storie di vita e di morte. Di operai uccisi come Abd Elsalam e di lavoratori messi gli uni contro gli altri da un sistema economico e politico che trae vantaggio dalla guerra tra dimenticati. Vi raccontiamo di lavoratori che vengono discriminati se si organizzano per reagire e però, nonostante tutto, riprendono coscienza di essere magari non “di classe” ma sicuramente “classe”. Tornano a protestare non soltanto per se stessi ma per garantire le libertà di tutti noi. E a volte – pensa un po’ Briatore – si prendono anche il lusso di morire.

Continua su Left in edicola dal 24 settembre

 

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Soft Cell

Libertà non è avere un buon padrone. È non averne.

referendum costituzionale
Alcuni membri del comitato del si al referendum consegnano le firme in Cassazione a Roma, 14 luglio 2016. ANSA/GIORGIO ONORATI

Questa banda di disonesti ha reso pubblica la scheda elettorale della scheda elettorale per il prossimo (quando?) referendum sulla riforma costituzionale:

«Approvate il testo della legge costituzionale concernente “disposizioni per il superamento del bicameralismo paritario, la riduzione del numero dei parlamentari, il contenimento dei costi di funzionamento delle istituzioni, la soppressione del Cnel e la revisione del Titolo V della parte II della Costituzione”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta ufficiale n. 88 del 15 aprile 2016?»

In poche parole è come se domani vi chiedessero se siete disponibili a non usare la vostra auto elencandovi il numero delle vittime di incidenti stradali oppure se vi chiedessero di abolire la pioggia per eliminare il rischio di essere colpiti da un fulmine.

Diceva Macchiavelli: «Per molto tempo non ho detto ciò che pensavo, né penso sempre ciò che dico, e se invero mi accade talvolta di dire la verità, la nascondo tra tante menzogne che è difficile scoprirla.» In sostanza un governante che racconta bugie al proprio popolo è uno che lo ritiene indegno. Il quesito referendario è assai peggio del razzismo ovulatorio della Lorenzin e anche peggio del peggior Berlusconi.

Ma la teoria del meno peggio è il punto di forza di una campagna referendaria che vede tra i sostenitori del Sì un’accolita di questuanti impegnati a imbellettare questa misera realtà. Sono pronti a tutto pur di far passare il referendum: bugie, manipolazioni, millanterie e trucchi da piazzista sono le armi del governicchio.

L’aspetto più grave, del resto, è proprio questo: abbiamo vissuto momenti talmente bui che siamo pronti a firmare per un buon padrone. Che si possa fare senza padroni proprio non ci passa per la testa. Se esistesse il reato di referendum ingannevoli questi sarebbero tutti a patteggiare.

E invece no.

Buon venerdì.

Gli etiopi di Roma al governo: «Fermate il massacro nel nostro Paese»

Il regime di Addis Abeba semina violenza nel Paese del Corno d’Africa e gli etiopi in Italia dicono basta. Questo pomeriggio, un nutrito gruppo di etiopi residenti nel nostro Paese (in tutto sono oltre 20.000) si è dato appuntamento per manifestare la vicinanza ai tanti connazionali che in patria sono stati recentemente vittima di massacri, arresti e sparizioni di migliaia di oppostori, compresi studenti e giornalisti.

Feyisa Lilesa
Feyisa Lilesa a Rio

Iniziative analoghe sono in corso di svolgimento in contemporanea in altriPaesi, grazie alle comunità etiopi locali che stanno mettendo una protesta simbolica: il gesto delle braccia legate dalle manette che Feyisa Lilesa, l’atleta etiope di etnia Oromo che ha conquistato l’argento alla maratona alle ultime Olimpiadi di Rio, ha fatto al taglio del traguardo in segno di protesta.

Da novembre scorso, spiegano gli organizzatori della manifestazione romana, le numerose iniziative di protesta sparse nel Paese hanno spinto il governo etiope a mettere in atto una vera e propria strategia del terrore con i connotati della guerra interetnica. Amnesty Intarnational parla di una crisi umanitaria senza precedenti negli ultimi anni, soprattutto per l’enorme numero di persone proenienti dalla regione Oromia arrestate. Gli oromo sono il 34% della popolazione e già alla fine dello scorso anno avevano iniziato a protestare contro il piano del governo di allontanare forzatamente decine di migliaia di abitanti dalle proprie terre d’origine inglobandole in una macroregione controllata dalal capitale Addis Abeba. Il vero obiettivo di questo piano (poi ritirato ma gli oromo non si fidano), spiegano i manifestanti, è di svendere quelle terre a imprese se gruppi affaristici spesso occidentali o mediorientali.

Oltre agli oromo, anche l’etnia degli amhara (che rappresenta il 27% della popolazione etiope e che si era associata alla richiesta di fermare la discriminazione etnica) è in agitazione da settimane, dopo che le forze dell’ordine hanno accusato i leader della comunità accisandoli di attività criminali. Tra il 6 e il 7 agosto scorsi, la più grande mobilitazione che l’Etiopia abbia mai conosciuto dalla fine della dittatura del Derg è stata repressa nel sangue, con più di cento morti, e altre 70 sono le vittime delle manifestazioni del 29 agosto nel distretto di Gondar.

Nel corso della manifestazione di oggi davanti alla Camera, la comunità etiope ha incontrato il presidente della Commissione affari esteri e comunitari Arturo Scotto e chiedendo con una lettere-appello allo Stato italiano (che – ricordano – è anche partner commerciale del Paese africano) di fare pressione sul governo etiope per mettere immediatamente fine alle violenze, liberare i prigionieri politici e permettere l’ingresso in Etiopia di osservatori stranieri inviati sotto le insegne delle Nazioni Unite, con lo scopo di investigare e individuare le responsabilità di queste atrocità. Scotto a ha assicurato che porterà la questione all’attenzione delle Camere e dell’esecutivo, oltre che davanti alla commissione Diritti umani, che potrebbe presto ricevere in audizione una delegazione della comunità etiope in Italia.La comunità etiope in Italia protesta a Montecitorio

Festa per Gianmaria Testa. E il racconto di Erri De Luca

Gianmaria Testa

«Ho scritto una cosa per Gianmaria e per me, una cantata a due voci», disse Erri De Luca. S’intitola Chisciotte e gli invicibili. Nessuno poteva pensare che quell’opera pubblicata da Fuorivia fosse l’ultimo lavoro che il musicista Gianmaria Testa e lo scrittore De Luca facevano assieme. Lo scrittore solitario, per il rapporto profondo con l’amico di una vita,  disse di trovarsi bene sul palco e il gruppo si allargò coinvolgendo il violoncellista Mario Brunello, il jazzista Gabriele Mirabassi e Marco Paolini in veste di affabulatore. Era l’inizio di un percorso che avrebbe certamente prodotto molte altre perle, se non fosse sopraggiunta la malattia che ha stroncato il cantautore cuneese il 30 marzo scorso, a soli 57 anni.

Adesso Erri De Luca torna a ricordare lo schivo musicista nato da una famiglia contadina nelle langhe e che, prima del grande e inaspettato successo internazionale, per vivere aveva fatto il capostazione.  Lo ha fatto in una intensa “lettera al pescatore di coralli” che Einaudi pubblica come introduzione all’autobiografia di Gianmaria Testa intitolata Da questa parte del mare. «Ciao socio, compare, fratello che non mi è capitato in famiglia e che ho cercato intorno, grazie di avermi accumunato alla tua vita. Hai messo insieme pezzi del tuo tempo senza ricavarne un’autobiografia, perché non riesci a dire di te senza altri. Ti scansi dal centro, lasci il tuo capitolo all’ospite di turno». E in effetti, più che una autobiografia quella che Gianmaria Testa ci ha lasciato, è una biografia polifonica, in cui affiorano le voci e volti delle persone che  il musicista piemontese ha cantato anche nelle sue composizioni e nelle fiabe per bambini, protagonisti sono spesso i migranti, i e poi personaggi romantici come Rrock Jakaj, il violinista di Scutari, come lo scrittore Jean Claude Izzo, il cantore di Marsiglia, terra di frontiera, a cui Testa era legatissimo, come lo era alla Francia che lo ha celebrato come uno dei maggiori chansonier contemporanei. Gianmaria Testa, fin dal suo primo disco, Mongolfières,  uscito in Francia nel 1995. A cui seguì un anno dopo  Extra-Muros, che gli aprì le porte dell’Olympia.  Il valzer di un giorno, il primo disco pubblicato in Italia,  arriva solo nel 2000 cui segue nel 2006 il concept album dedicato ai migranti “di ieri e di oggi”, Da questa parte del mare, come l’autobiografia Einaudi. L’ultimo disco è Men at work, registrato dal vivo.  Un lavoro struggente pubblicato da Egea Music in vinile.

Il 22 settembre, all’Auditorium parco della musica di Roma, musisti, attori e intellettuali  rendono omaggio a Gianmaria Testa e al suo lavoro di musicista e scrittore. Sul palco ci saranno  gli attori Giuseppe Cederna e Lella Costa, il jazzista Stefano Bollani, il violoncellista Mario Brunello, i trombettisti Paolo Fresu ed Enrico Rava. E ancora: Nada,  Rita Marcotulli,  Gabriele Mirabassi, Mauro Pagani, Enzo Pietropali, Riccardo Tesi, Omar Pedrini e molti altri, compreso Paolo Rossi che oltre ad essere il comico stralunato che conosciamo ha anche un talento per la musica e dedica a Gianmaria Testa, cantautore abituato a confrontarsi con il teatro un intenso recital che riprenderà la tournée il 19  ottobre al  Teatro Menotti di Milano, per approdare il 28  al Puccini a Firenze.

Il Fertility Day mette tutti d’accordo: «#LorenzinDimettiti!»

Demonstrators protests against 'Fertily Day' out of Congressi Roma Eventi during ''Fertility Day'' in Rome 22 September 2016. n conjunction with the Minister's speech Beatrice Lorenzin there have been protests against the 'Fertily Day'. ANSA/GIUSEPPE LAMI

«Ministro Lorenzin si dimetta». Se non altro, il Fertility Day è riuscito a unire una bella fetta di voci, associazioni, movimenti e partiti. Tutti contro la campagna del Piano nazionale della fertilità dal sapore reazionario e lesiva dei diritti della donna, della coppia e anche della collettività, figli o non figli. L’ultimo episodio, l’opuscolo dall’immagine razzista su Stili di vita corretti per la prevenzione della sterilità e dell’infertilità ne è una dimostrazione. I buoni, rappresentati da biondi e sorridenti giovanottoni, e i cattivi – in oscurità – raffigurati da un ragazzo di colore e altri più o meno “fricchettoni” che fumano spinelli.

Oggi, durante i primi appuntamenti del Fertility Day a Roma, si è svolta una dura contestazione al Piano del ministro Lorenzin da parte dei partecipanti al FertilityFake (qui l’elenco delle piazzela protesta promossa tra gli altri, da Cgil, Arci, Act, Artemisia, Rete della conoscenza, Anddos, Unite in rete, Libere tutte, Coordinamento contro la violenza di genere e il sessismo, A Sud e Udi, Unione donne in Italia. «Nel Fertility Day parliamo di salute, poi c’è l’aspetto politico e nella politica ci sono le strumentalizzazioni, e mi sa che c’è un sacco di gente che aspira a fare il ministro della Salute: va benissimo, ma io intanto mi occupo di cose vere», si è difesa Beatrice Lorenzin parlando oggi all’inaugurazione della tavola rotonda a Roma.

Sinistra Italiana ha presentato una mozione di censura nei confronti del ministro. «Temo che non basti: tolga il disturbo, e se non lo fa – ha detto Nicola Fratoianni del direttivo di Sinistra italiana – ci pensi il Presidente del Consiglio a farglielo fare. Stavolta non ci sono alibi di sorta». Anche Marisa Nicchi, sempre di Sinistra Italiana chiede le dimissioni del ministro «invece di licenziare il direttore della comunicazione ed usarlo come capro espiatorio»

Interviene anche chi di questi temi ne ha fatto oggetto di ricerca e di battaglia per tutelare i diritti delle donne. Filomena Gallo, segretario dell’associazione Luca Coscioni per la libertà della ricerca scientifica invita al Congresso che si terrà a Napoli dal 30 settembre al 2 ottobre, dove si parlerà e si approfondirà la vasta problematica legata alla fertilità (qui il programma completo) e ricorda poi come il ministro Lorenzin non dica una cosa importante. E cioè che già la legge 40 prevede prevenzione e informazione sui temi della fertilità. «Abbiamo chiesto a gran voce in questi anni che fossero realizzate campagne informative su cosa sono le tecniche PMA, sulla prevenzione dell’infertilità, la preservazione della fertilità e sulla donazione dei gameti: non un solo giorno all’anno, ma con costanza per assicurare un’informazione il più possibile ampia». Chiaramente non è successo nulla. Anzi. Gallo aggiunge che «la comunicazione diffusa in questi giorni sul Fertility Day porta la firma di chi dopo anni si ostina a difendere i divieti della legge 40 che sono stati cancellati dalla Corte costituzionale». Insomma, nonostante il grande attivismo del ministero della Salute in realtà si alimenta ancora una «cultura che bolla come negative le opportunità che la scienza offre per superare problemi di salute come l’infertilità e la trasmissione di patologie genetiche».
«Chiedo quindi al Governo – continua Gallo – di garantire libertà e corretta conoscenza: diritti tutelati dalla nostra costituzione. E di intervenire affinché realmente in Italia siano garantite possibilità di lavoro non precario, vi siano più asili nido e scuole per l’infanzia, assistenza per una popolazione che invecchia e ai malati. Insomma: politiche efficaci di welfare e lavoro». Basta con la politica basata sulle discriminazioni e le colpevolizzazioni. «Non ci sono buoni e cattivi, ma cittadini da rispettare. Solo in un Paese che rispetti il diritto allo studio, al lavoro, alla famiglia, alla ricerca, potremo guardare al futuro anche con nuovi nati», conclude Filomena Gallo.

Anche Possibile mette in evidenza come l’Italia non sia un Paese per piccoli.
Ecco quali sono le proposte del partito di Civati. «Il nostro #fertilityday è la parità salariale sancita dall’articolo 37 della Costituzione, da perseguire attraverso la totale trasparenza e l’impossibilità di partecipare agli appalti pubblici per chi opera discriminazioni. È la riduzione dell’Iva sui prodotti e i beni per l’infanzia (pannolini, latte in polvere, biberon, eccetera), tassati al 22% come i beni di lusso, ma fare figli non può essere un lusso. Sono gli asili nido (anzi: che fine hanno fatto i mille asili nido proposti da Renzi?) e i congedi parentali per donne e uomini, è la possibilità di adottare più facilmente anche da parte di singoli e omosessuali, è la garanzia di poter accedere alla fecondazione assistita». Conclude Giuseppe Civati «Ci vorrebbe una cultura politica molto lontana da quella rappresentata dal ministro Lorenzin».

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A Firenze, infine, nel pomeriggio, dalle 16 alle 19 la contromanifestazione Sessoday, promossa dal Consiglio regionale e da Si Toscana (Sala Gigli Consiglio regionale). Paolo Sarti, oltre ad essere consigliere regionale eletto con Si Toscana è anche pediatra e fondatore del progetto Maschio per obbligo attivo nelle scuole. «Abbiamo pochi figli perché c’è una infertilità sociale che significa mancanza di asili, di lavoro, di prospettive per i giovani. Ma c’è anche anche infertilità culturale, un disvalore del fare i figli. Dobbiamo parlare di tutte queste cause. Non possiamo dire che siamo infertili perché magari non stiamo attenti a quello che si mangia», dice a Left riferendosi al Piano nazionale della fertilità di Lorenzin. «La campagna – continua – è stata condotta in maniera cattiva, le donne le hanno fatte sentire come apparati riproduttori e basta. Il documento, insomma, è pieno di incongruenze che vede solo l’aspetto della infertilità biologica».

E allora che cos’è Sessoday, qual è la prospettiva alternativa al Fertility Day?«Vogliamo richiamare il bisogno di fornire una cultura sessuale dei giovani che poi sarà quella che li farà scegliere di fare figli o no. Il problema è talmente vasto e complesso che non può essere banalizzato», sottolinea Sarti. Oggi quindi in Consiglio regionale, ci sarà una lettura da parte di Antonio Branchi di brani tratti dal libro Stai zitta e va’ in cucina (Bollati Borighieri) di Filippo Maria Battaglia. Poi seguiranno gli interventi responsabili dei Consultori giovani, consultori in piazza, dei centri antiviolenza, di Medici per i diritti umani, di coordinamenti Lgbt. Sarti tiene molto al problema della necessità di un cambiamento del ruolo maschile. «Riguarda non solo il disvalore dell’infertilità ma anche il problema della violenza sulla donne. I maschi vengono allevati con una cultura terribile. Per questo noi dobbiamo dare un contributo sulla cultura sessuale del giovane, compreso l’aspetto della salute riproduttiva. Ma con uno sguardo ben più ampio di quello mostrato dal ministro Lorenzin».

La rivolta di Charlotte dopo l’ennesima morte di un nero

Tre afroamericani uccisi in pochi giorni da parte della polizia. In Ohio, in Oklahoma, in North Carolina, Stati diversi, circostanze diverse, stesso risultato. E ora un uomo in ospedale, colpito da un’arma da fuoco durante le proteste esplose a Charlotte, dove il governatore ha proclamato lo stato d’emergenza, schierato la guardia nazionale e diversi negozi sono stati saccheggiati. Le proteste, nella maggior parte dei casi e come sempre in questi mesi, sono sostanzialmente pacifiche – e questo è uno dei motivi che le rende di impatto, forti e durature.

 

  • Tyre King, 13enne è stato ucciso mentre fuggiva dopo aver fatto una rapina da 10 dollari a Columbus, Ohio. Finito in un vicolo, ha tirato fuori una pistola ad aria compressa che il poliziotti che lo ha ucciso dice essere stata identica a una Luger.
  • Terence Crutcher, è invece stato fermato a Tusla, in Oklahoma, forse era sotto effetto di droghe sintetiche. Fatto sta che il video che ne registra l’uccisione non mostra particolari segni di comportamenti pericolosi da parte sua e la versione che questi avrebbe cercato di prendere qualcosa nell’auto viene contestata dai familiari, che mostrano una foto nella quale si vedono schizzi di sangue su un finestrino chiuso.
  • Keith Lamont Scott è invece morto a Charlotte mentre la polizia effettuava un arresto. Chi lo ha ucciso sostiene che Scott sia uscito armato dalla sua macchina. La famiglia sostiene che la vittima stava aspettando la figlia in auto e mentre aspettava stava leggendo un libro. Quello sarebbe stato scambiato per un’arma.

Tre casi diversi, stessa tragica fine. Il terzo è quello che ha scatenato l’ultima esplosione di rabbia della comunità afroamericana. Proteste calme che sono sfociate in violenza dopo che un uomo è stato ferito. Un primo comunicato della polizia parlava di un morto – ma è stata corretta. Charlotte e la North Carolina sono un tipico esempio di centro urbano segregato. Che non vuol dire necessariamente che i neri vivano in ghetti, ma che c’è separazione: un piccolo centro con una strada centrale con ristoranti, un business centre molto grande che negli ultimi anni ha attirato diversi quartier generali di multinazionali e poi una immensa distesa di sobborghi.

Le immagini delle proteste a Charlotte

(Leggi anche: Che cos’è e come è nata Black Lives Matter)

Negli Stati Uniti la polizia uccide gli afroamericani con una frequenza 2,5 volte più alta che i bianchi. Ma, sostengono alcuni, è anche vero che il numero di neri coinvolti in reati è più alto – quali siano le cause è un altro e più difficile discorso – e che, dunque, non c’è nulla di strano. I morti ammazzati dalla polizia sono poco meno di un migliaio l’anno e i morti tra i poliziotti non sono in aumento, nonostante la strage di Dallas di inizio estate.

Uno studio di Roland Fryer, economista di Harvard, ha messo insieme una quantità enorme di dati relativi alle interazioni tra polizia e civili in quattro grandi aree (New York, Los Angeles, Houston e sei contee della Florida). Il lavoro ha verificato che, quando si parla di morti ammazzati, le differenza statistiche non sono enormi – ma, dice l’autore, non sappiamo se i dipartimenti di polizia che rendono pubblici i dati lo fanno perché sanno che non sono imbarazzanti per loro –  ma che il dato esplode se parliamo di interazioni durante le quali la polizia usa maniere forti. Si tratta di un dato interessante perché spiega bene la reazione della comunità: il problema non sono i morti ammazzati ma la quotidianità, la paura di essere fermati, multati, percossi anche quando non ce ne è motivo. A causare la rivolta di BlackLivesMatter è la normalità vissuta dai neri d’America.

Il 26 settembre si tiene il primo dibattito televisivo tra Clinton e Trump, sia i neri che i bianchi d’America, dicono i sondaggi, sentono che le relazioni tra comunità vivono una fase difficile. Il tema è delicato: Trump soffia sul fuoco, che non ha voti neri da perdere (il suo consenso è intorno all’8% nella comunità), mentre Clinton dovrà camminare in equilibrio tra la necessità di dare risposte concrete alla protesta, rassicurando quei bianchi spaventati dalla retorica di alcuni media.

Protesters block an intersection at Trade and Tryon Streets in Charlotte, N.C., Wednesday, Sept. 21, 2016. The protesters were marching and rallying against a police officer's fatal shooting of Keith Lamont Scott on Tuesday evening at The Village at College Downs apartment complex in the University City area. Authorities in Charlotte tried to quell public anger Wednesday after a police officer shot a black man, but a dusk prayer vigil turned into a second night of violence, with police firing tear gas at angry protesters and a man being critically wounded by gunfire. North Carolina's governor declared a state of emergency in the city. (Jeff Siner/The Charlotte Observer via AP)
(Jeff Siner/The Charlotte Observer via AP)

 

 

 

Arrestata Nicoletta Dosio, No Tav in marcia per la libertà

A moment of 'No Tav' supporters protest after that a court on Tuesday sentenced 47 defendants to a total of 140 years in prison in connection with protests against a high-speed rail (TAV) line being built in Piedmont's pristine Susa Valley, 27 January 2015. Prosecutors had requested a total of 193 years in prison on charges included bodily harm and battery of a public official in connection with clashes between protesters and police on June 27 and July 3, 2011. Another six defendants were acquitted in the trial that took almost two years. The sentences were greeted with shouts of "Shame" from the public. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

Oggi a casa di Nicoletta Dosio, storica attivista No Tav si è presentata la Questura di Torino che le ha notificato la misura cautelare agli arresti domiciliari, in sostituzione di quella dell’obbligo di dimora. Nel numero 33 del 13 agosto dedicato ai ribelli, avevamo pubblicato l’intervista all’insegnante che spiegava a Left il perché della disobbedienza all’obbligo di firma. 

 

“Cammina leggero in primavera; Madre Terra è incinta”, raccomandavano i nativi americani. E cammina leggera, quasi a carezzare la sua terra, Nicoletta Dosio. Passeggia per le vie di Bussoleno oppure si arrampica sui sentieri della via Francigena sbarrati dalle barriere che blindano il cantiere del Tav. Non vuole che anche qui diventi uno scenario di fiumi prosciugati, borgate senza più acqua, resti di cave e di cantiere come quelli che Wu Ming 2 ha trovato nel Mugello o camminando a piedi da Piazza Maggiore fino a Milano seguendo i binari dell’alta velocità (Il sentiero luminoso, Ediciclo).
È dal neolitico che la Valle vede passare viandanti. Il ronzio dell’autostrada del Frejus si fa più rombo col procedere del cammino. Su un pilone, l’immagine di San Rocco: è il protettore della Valle ma pure della polizia e anche delle ’ndrine che si sospettanno controllare cantieri come questo, proprio sotto il viadotto, sulla terra molle dello scavo e su vecchie vigne lasciate andare perché avvelenate dai fumi della benzina: il vino al piombo fa venire il saturnismo, insomma fa diventare cretini.
Il cantiere ha sradicato le 1.500 piante – pino, sorbo e biancospino – che gli abitanti della Libera Repubblica della Maddalena avevano seminato. La sede del museo preistorico è diventata il bivacco per i manipoli, reduci da altri fronti della guerra globale. Costano 98mila euro al giorno per un’occupazione militare che dura ormai da cinque anni. Tutto intorno è un fragile ecosistema e un museo a cielo aperto con vasi, spade, punte di freccia, corredi funebri che risalgono a 6mila anni fa più modernissimi bossoli di candelotti (ne sono stati sparati oltre 40mila), più ciò che resta del villaggio di casette sugli alberi sgomberato con la violenza alla fine del febbraio 2012, dopo due anni di presidio. E infine lo “Zigurrat” tossico, monumento alla ferocia dell’alta velocità rappresentato dai cumuli dei materiali dello scavo esplorativo, intrisi di uranio e amianto, che nessuno porta via. «Un posto senza pace e senza notte», commenta, osservando i fari potenti delle polizie sui reticolati, Nicoletta, che ha l’età di chi ha militato in Lotta continua, in Dp e infine in Rifondazione.
Camminare è un dispositivo di conoscenza: serve a portare il corpo con tutti i sensi a riappropriarsi del paesaggio. Una relazione sempre politica. Ma perfino il passeggio può essere un atto di ribellione se vivi nella giurisdizione della Procura di Torino. Quella «con l’elmetto», come dicono i No Tav: oltre mille denunciati – erano 200 quattro anni fa – molti dei quali alle prese con accuse abnormi (si pensi ai quattro ragazzi incolpati – finora invano – di terrorismo, all’antropologa Roberta Chiroli, al romanziere Erri De Luca o al giornalista Davide Falcioni, processati perché troppo empatici con i soggetti di cui dovevano scrivere).
All’inizio di questa estate, Nicoletta spiccava in una lista di 23 persone destinatarie di misure cautelari per una manifestazione dell’anno scorso: 3 andranno in carcere, 9 ai domiciliari con le restrizioni, per tutti gli altri obblighi di firma quotidiani. «Ero presente anche alla camminata del 28 giugno di un anno fa da Exilles a Chiomonte – rivendica Dosio – per ricordare la Maddalena. Una grande giornata popolare, un serpentone colorato e gioioso di tutte le età, interrotto a un certo punto da barriere inaccessibili e inaccettabili, avvelenato dal fumo dei lacrimogeni, dagli spruzzi degli idranti. Siamo tornati indietro ma abbiamo trovato il ponte sulla provinciale sbarrato. E loro dall’altra parte a deriderci. A un certo punto le reti sono venute giù. C’ero ed ero davvero incavolata!».

Nico è tra chi decide di non firmare. Le misure cautelari dovrebbero servire a evitare inquinamento delle prove o evasioni. Invece, a un anno dai fatti, sono solo l’ennesima misura punitiva, come sta accadendo a centinaia di persone a Torino e nel resto del Paese. «Lo fanno con noi, con chi lotta per la casa, con gli antifascisti e gli antirazzisti, senza alcun giudizio e senza prove». Per questo Nico non firmerà mai continuando a girare la Valle per le iniziative estive del movimento. Ma alcune settimane dopo la Digos bussa ancora alla sua porta: stavolta è un inasprimento delle misure. Due attivisti che hanno violato i domiciliari saranno trasferiti in carcare, per Nico si tratta dell’obbligo di dimora a Bussoleno, con prescrizione di non allontanarsi dall’abitazione di residenza dalle ore 18 alle ore 8. «Amo troppo la mia casa e il mio paese per doverci stare forzatamente. Libera sono, libera resto».
Le motivazioni dell’ordinanza puntano l’indice contro «una personalità estremamente negativa, intollerante delle regole e totalmente priva del minimo spirito collaborativo». «Sì, non tollero la loro arroganza, non accetto le regole del potere che vorrebbe l’uomo e la natura proni al suo dominio, non collaborerò mai con coloro che si credono padroni del mondo, della vita di ognuno di noi, del futuro di chi verrà dopo di noi. Mi sento libera e felice».

Anche stavolta continua le sue passeggiate ribelli dopo il coprifuoco e il lavoro quotidiano alla “Credenza”, un po’ sede politica, un po’ osteria. Il riferimento è all’eresia dolciniana dei vignaioli in fuga dal Trentino che trovarono rifugio qui dalle persecuzioni dell’ultima crociata. La “regola della credenza” – «Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni» – anticipa di 600 anni il marxiano Programma di Gotha. In questo palazzetto nel centro medievale di Bussoleno ci sono una sede di Rifondazione, un centro di documentazione, gli studi della radio, una palestra e stanze per i frequenti ospiti del movimento. Ovunque bandiere e adesivi di ogni tipo di organizzazione. È uno dei luoghi di un movimento popolare che da venticinque anni non sembra soffrire di liquidità o di riflusso.
«Se le misure sono ingiuste bisogna rifiutarle – spiega decisa questa professoressa di greco in pensione – quando la partita è truccata c’è bisogno di rivoltare il tavolo. Non dimoro affatto! Non faccio la carceriera di me stessa se i tre poteri, oggi, non è più possibile distinguerli».
Quando questo articolo uscirà la libertà di Nicoletta potrebbe essere stata ulteriormente colpita. Lei lo ha messo in conto come tutti coloro che si sono messi in gioco contro il Tav, da anni, marciando in valle, sabotando il cantiere, battendo le reti, arrampicandosi su pali, alberi, tralicci, ruspe, costruendo presìdi, organizzando assemblee, feste, in una contrapposizione frontale al “partito trasversale degli affari”. «Ribellarsi è liberatorio, spontaneo, naturale. Ribellarsi è giusto, non è mica folklore: è amore per il diritto a vivere di tutti i viventi. È cuore e ragione. Sì, vorrei essere una ribelle. Ma è solo il primo passo, il sogno vero è la rivoluzione», dice a Left recitando versi di Nazim Hikmet: «Non vivere su questa terra come un inquilino, o come un villeggiante stagionale. Ricorda: in questo mondo devi vivere saldo, vivere come nella casa paterna». Poi ammette: «Certe volte, come diceva Rosa Luxemburg, sembra di mordere il granito. Ma proprio perché è terribile è il momento che può rinascere qualcosa».
Mentre la procura di Torino costruisce “teoremi” contro i No Tav, il Tribunale permanente dei popoli, un tribunale d’opinione fondato da Lelio Basso, animato da giuristi di rilievo come Livio Pepino, ha definito il movimento (destando l’irritazione di Gian Carlo Caselli) come “sentinelle che lanciano l’allarme, che indicano il cammino”. E ha chiesto di sospendere i lavori come fanno da venticinque anni migliaia e migliaia di persone. Sempre di più.

All’inizio erano solo in cinque alla stazione di Bussoleno per contestare il passaggio del primo Tgv, treno francese superveloce inaugurato in pompa magna da Pininfarina, allora presidente di Confindustria. Ricorda Nicoletta che il Piano Necci (era ad delle Fs) aveva desertificato la stazione di Bussoleno chiudendo il polo ferroviario dove lavoravano in mille. «Saperi, conoscenze, amicizie che se ne andavano dalla valle». Cominciava la privatizzazione delle Ferrovie, lo “spezzatino” aziendale, le dismissioni di stabili e aree, lo smantellamento di 11mila chilometri di linee locali e il potenziamento di 5mila chilometri per l’alta velocità. La polizia tentò di cacciare quelle cinque persone dalla stazione ma avevano tutti comprato un biglietto per Susa. «Così fecero sistemare dei vagoni merci per nasconderci dalla vista di chi sfrecciava sul Tgv».
Ma col tempo quei cinque sono diventati sessantamila, come l’8 dicembre 2005: «La liberazione di Venaus dopo le bastonate di due giorni prima». Le manganellate le avevano mezzo rotto il naso e lesionato l’occhio destro. Ma lei tornò a manifestare, «senza occhiali e, per fortuna aveva nevicato così da poter mettere manate di neve sul naso dolorante». Caso archiviato, come ogni querela, denuncia o esposto per gli abusi, anche quelli gravi compiuti in Valle dalle forze dell’ordine.

La lotta No Tav è diventata il motore di una più generale battaglia per i beni comuni. Da qui il salto di qualità senza precedenti nella repressione. Un sociologo, Loris Caruso, ha individuato (Il territorio della politica, Franco Angeli) gli elementi che hanno permesso la transizione tra un’azione collettiva condotta da minoranze attive a un’azione di massa. La forza dei No Tav consiste nel fatto che il ciclo di vita di un movimento – dal flusso al riflusso – è stato inceppato da azioni innovative che hanno inventato spazi inclusivi, che aspirano all’azione collettiva. Il movimento è stato in grado di rendere costante l’intensità della mobilitazione, di bloccare la competizione interna di aree, di unire la protesta alla prassi (dai progetti di agricoltura biologica fino allo sciopero bancario), di elaborare autentica cultura popolare connettendosi alla storia della Valle e alle sue tradizioni. La convocazione di consigli comunali aperti nei luoghi dei cantieri e la nascita dei presìdi permanenti hanno prodotto la dilatazione dello spazio pubblico istituzionale e la messa al lavoro dei saperi di ciascuno nella gestione quotidiana del presidio e del conflitto. «È la regola della credenza», ripete Nicoletta. Senza attendere indicazioni dall’alto, centinaia di singoli parteciperanno alla lotta coi propri trattori, ad esempio, e la forma stessa dei presìdi (progettati come vere baite) contribuirà a fissare una continuità tra casa, quotidianità e partecipazione finalizzata al conflitto. La socialità diventa una risorsa per il conflitto (forse è anche l’antidoto al leaderismo) e i presìdi sono luoghi di cooperazione e ricostruzione del nuovo legame sociale. Nei presìdi si gioca alle bocce, si mangia insieme, si festeggiano compleanni, si commemorano i morti, si fa la rassegna stampa. Nei presìdi si allacciano alleanze con altri territorie e altre lotte, si accumulano risorse per l’azione e l’«attivismo – scrive Caruso – diventa capace di subordinare a sé la routine della vita quotidiana».

Addio a Gian Luigi Rondi, il monolite del cinema italiano

Si è spento stanotte, all’età di novantacinque anni, Gian Luigi Rondi, uno dei testimoni più longevi del cinema italiano dal secondo dopoguerra a oggi.
Dopo un debutto da critico cinematografico al Tempo negli anni ’40, Rondi ha curato la direzione dei David di Donatello per 60 anni, è stato presidente della Fondazione Cinema per Roma e ha ricevuto numerosi incarichi e onorificenze, come la direzione della Siae per volere di Berlusconi, la carica di Cavaliere di Gran croce dell’Ordine al merito, di Grande ufficiale dell’Ordine e di Cavaliere della Legion d’Onore.

Critico, regista e organizzatore di eventi culturali, il valtellinese Rondi ha trascorso tutta la sua vita a Roma e, tra tutte le etichette che gli sono state affibbiate, ha sempre preferito quella di operatore culturale.
Come penna critica del Tempo di Angiolillo – notoriamente impegnato nella crociata moralizzante dei costumi nel dopoguerra-, con un passato di militanza cattolica antifascista, ha sostenuto i film italiani approvati da un giovanissimo Andreotti, all’epoca sottosegretario Dc allo spettacolo. Con il giovane Divo scrisse la legge sulla censura nel ‘49, riprendendo quella del Regime, contro gli eccessi del Neorealismo, contro la concorrenza americana e contro quei film italiani che offendevano la nostra cultura, come Umberto D di De Sica, che Andreotti liquidò con «i panni sporchi si lavano in famiglia».

Nell’anno in cui il ministro dello spettacolo Matteotti nominò Rondi direttore della Biennale di Venezia (1970), registi ed intellettuali si schierarono contro questa manovra politica tutta a favore della DC e delle sue leggi contro l’immoralità, tanto che l’Espresso gli dedicò l’appellativo di “doge nero”. In quella stessa contingenza Pasolini scrisse per lui un epigramma feroce: «Sei così ipocrita che quando la tua ipocrisia ti avrà ucciso, sarai all’Inferno e ti crederai in Paradiso», mentre Laura Betti e Lino Miccichè raccolsero firme per mettere fine «allo statuto fascista della Biennale». Il rapporto con Angiolillo e con la Dc, a detta di Rondi, ha condizionato il suo giudizio su alcune importanti opere cinematografiche italiane, come Le Mani sulla città di Rosi – premiato con il Leone d’oro a Venezia nel 1963 – che accolse inizialmente con un deciso “No, no, no!”, successivamente smorzato con un «Grazie, De Sica». Famosa rimase anche l’accusa di filo-bolscevismo a Miracolo a Milano di De Sica e la lettera pubblica indirizzata ad Andreotti contro l’immoralità dei film di Vadim e Thieu, Claude Autant-Lara e La ronde di Max Ophüls che lui stesso aveva premiato a Venezia.

Il David di Donatello, da lui gestito dal ‘58, ha penalizzato – a causa dei gusti politici del tempo che lui rispettava – alcuni dei maggiori registi italiani, come Fellini, che non è mai stato premiato per 8 e mezzo, Antonioni che ha vinto solo per La notte e Bertolucci che è stato riconosciuto solo per L’ultimo Imperatore. Nonostante questo, il “Signore dei David” è riuscito a stringere delle amicizie da lui ritenute importanti, come quelle con Pasolini e Fellini e più tardi con Rutelli e Veltroni, quando ormai si era iscritto al Pd.