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La grande onda dell’arte giapponese. Eros, natura e teatro kabuki

Hokusai

«I disegni di Hokusai…le onde sono come artigli che si aggrappano alla nave e riesco quasi a sentirti», scriveva Vincent van Gogh, che si innamorò dell’arte giapponese, benché lui fosse soprattutto un artista del colore, sfrangiato, materico, potente.

Lo tsunami d Hokusai è diventata l’immagine simbolo dell’arte grafica giapponese, ma raramente in Italia lo si è visto dal vivo, con tutta la sua potenza di linee, di movimento, ma anche, sorprendemente, di colore. In Palazzo Reale a Milano campeggia accanto ad altre ducento opere di Hokusai (1760-1849), di Hiroshige (1797-1858), di Utamaro (1753-1806) e di altri maestri dell’arte giapponese del XVIII e XiX secoli. Dal 22 settembre al 29 gennaio 2017 la mostra curata da Rossella Menegazzo permette di vedere dal vivo le trentasei vedute del Fuji di Hokusai a cui seguirono a distanza di quasi vent’anni le trentasei dvedute del Fuji di Hiroshighe. E poi i sorprendenti manga di Hokusai, le raffinate stampe eroriche di Utamaro e molte altre opere provenienti dalla collezione della Honolulu Museum e che permettono di conoscere più da vicino l’ arte del mondo fluttuante. Accompagnata da un catalogo Skira, la rassegna organizzata da MondoMostre in occasione dei 150 anni delle relazioni tra Giappone e Italia, approfondisce il tema della cultura ukiyoe dei quartieri del piacere nella Tokyo premoderna dove nacque la moda delle stampe erotiche, fra le espressioni artistiche più longeve e diffuse in Giappone, anche fuori dalle ristrette elite di potere di questo paese dell’estremo Oriente che fino al 1868 ha mantenuto una struttura sostanzialmente medievale.

Parliamo di un genere d’arte che ha attraversato quattro secoli di storia, dalla fine del XVI al XX secolo, in varianti originali, grazie a maestri come Hokusai e Utamaro che nseppero creare opere uniche entro un canone rigido e standardizzato fatto di lunghe sequenze di immagini raccolte in rotoli o in libri: scene erotiche al tempo stesso stilizzate in cui figure anonime di uomini e donne si stagliano definite da forti linee nere e da ampie campiture di colore senza chiaroscuro. Immagini all’apparenza seriali ma che ci parlano di una cultura giapponese libera dall’idea di peccato originale e da ogni cristiana condanna del desiderio. Le opere in mostra a Milano trasmettono il senso più profondo della raffinata cultura ukiyoe in cui pittura, teatro kabuki e poesia erano strettamente legate.  Puntando sulle rappresentazioni più delicate e allusive.

Utamaro
Utamaro

La collezione del museo di Honolulu privilegia le immagini di corteggiamento e le storie d’amore  ma l’arte erotica giapponese a hanno toni più espliciti. In Giappone infatti c’era una notevole produzione di arte erotica che conservava un legame con i miti arcaici della fertilità e con l’antica tradizione scintoista nella raffigurazione gli organi sessuali in primo piano; un genere artistico che solo oggi riemerge compiutamente. Perché dopo l’occidentalizzazione il Giappone l’ha censurata, mutando dall’Occidente cristiano un senso di condanna. Diversamente da quel che accadde nel Sol levante, nella storia dell’arte occidentale troviamo poca produzione erotica e molto nudo. Nell’arte fluttuante nata dalla borghesia giapponese, invece, troviamo stampe, grandi dipinti, lunghi rotoli, numerose tavole che illustrano gli atti dell’amore. Perlopiù senza ricorrere al nudo. Nella pittura sacra occudentale dove il nudo inteso in senso erotico era proibito, si ricorreva al mito e agli “dei falsi e bugiardi” per poter rappresentare una bella donna svestita oppure lo si privava di senso leggendo in senso allegorico. In Giappone, invece, come racconta nei suoi libri  un esperto di Giappone Gian Carlo Calza, non se ne sentiva l’esigenza, perché c’era un rapporto più disinvolto con il corpo e persone nude si vedevano ogni giorno nei bagni pubblici come negli attraversamenti di corsi d’acqua e di fiumi. Allora che cosa cercava il pubblico borghese dei quartieri del piacere in questo tipo di rappresentazione del rapporto sessuale fra uomo e donna? Cercava la trasgressione. Non è un caso che molte scene rappresentino amori fugaci o illeciti. Perché la rigida etica samuraica non era favorevole al sesso che, si pensava, distogliesse dalla disciplina. E più la borghesia con cui i samurai erano indebitati prendeva piede, più loro irrigidivano il proprio codice.

Così mentre le cortigiane erano dette “rovina castelli”in Giappone, le ragazze di buona famiglia dovevano rigare dritto se non volevano guai. Come racconta uno dei primi capolavori della letteratura giapponese Genji il principe splendente: il primo romanzo psicologico giapponese scritto nel 1008 da una donna di corte. Nel Seicento le grandi cortigiane erano donne colte che sapevano suonare e improvvisare versi, la realtà femminile in Giappone restava in gran parte in ombra e sottomessa. Ed è a a partire dal Seicento che compaiono famose cortigiane nelle stampe erotiche. Poi sempre più raramente. Le giovani donne che vediamo in primo piano nelle stampe erotiche sono perlopiù delle prostitute. Ma in altri casi no, come accennavamo, vengono rappresentate delle scene d’amore. E in questo caso artisti come Hokusai toccano il massimo dell’espressione, anche solo attraverso la rappresentazione di un appassionato scambio di sguardi.

milano

Hokusai Fuji
Hokusai Fuji

Hokusai
Hokusai

E day, su

“Scortate fuori casa”. La colpa delle donne è che non figliano più

Dopo le polemiche suscitate dalla pessima campagna per il #fertilityday, in programma per il 22 settembre, la ministra Lorenzin si è difesa twittando: La campagna non è piaciuta? Ne facciamo una nuova. #fertilityday è più di due cartoline.

E in effetti la ministra ha ragione: oltre alle cartoline, c’è di più. E di peggio. Anche di quello che la ministra ha incredibilmente dichiarato a Sky Tg24, in un cortocircuito totale: «Tra l’altro puoi farmi gli asili, ma se poi sei sterile e non riesci ad avere figli non abbiamo i bambini da metterci dentro». Andando a leggere il Piano nazionale della fertilità, i dubbi sollevati dalla campagna di comunicazione legata al progetto ministeriale non solo vengono confermati, ma addirittura peggiorati.

Se, infatti, è condivisibile e apprezzabile l’obiettivo di informare i cittadini italiani sugli aspetti sanitari e biologici legati a questo argomento, a destare più di qualche preoccupazione è il nucleo centrale del documento, cioè il contributo del “tavolo consultivo in materia di tutela e conoscenza della fertilità e prevenzione delle cause di infertilità”. Si tratta di una lunga e dettagliata disamina degli aspetti giuridici, epidemiologici, statistici, sociali e psicologici “in materia di maternità e famiglia.”

Già dalle premesse, infatti, è chiaro che il problema della natalità è caricato tutte sulle spalle delle donne. La prima nota stonata, però, è quella della coerenza politica. Leggiamo a pagina 20 del piano:

In questo senso impegnarsi per un welfare e anche per progetti di sostegno economico alla natalità (vedi bonus bebè, detrazioni fiscali, forme di lavoro flessibile, maggiore uso del congedo parentale per gli uomini, presenza capillare di nidi aziendali, ecc) non deve essere visto come una sorta di “compensazione” per il “disagio”, ma come un atto di responsabilità e giustizia sociale.

Sempre su questo argomento, a pagina 32 è scritto:

A queste considerazioni…, si lega strettamente la mancanza di un sistema di welfare che punti sulla conciliazione tra vita lavorativa e genitorialità.

Il governo di cui la ministra Lorenzin fa parte ha pesanti responsabilità, in questo senso. Il lavoro del suo collega Poletti tutto lascia intendere, tranne che si prefiguri un quadro di più facile conciliazione tra vita lavorativa e genitorialità.

Ma lasciamo per un attimo da parte la schizofrenia di un Governo che critica se stesso e le sue politiche come se nulla fosse e come se non ci fossero conseguenze, si tratta in fondo di cose a cui lo stesso presidente Renzi ci ha abituato. Appena annusato il flop del #fertilityday ha prontamente scaricato l’intera operazione dicendo di non esserne a conoscenza, pur avendola approvata mesi fa, come riportato dagli atti della Presidenza del Consiglio dei Ministri (comunicato stampa n. 124, 28 luglio 2016).

Lasciamo perdere questa follia nella follia, perché le cose da leggere in questa piccola galleria degli orrori sono molte, e forse persino più gravi.

Sistema di welfare e condizioni socio-economiche della nostra popolazione (specie quella più giovane, in questo caso) sono, infatti, marginali, agli occhi di chi ha stilato il piano nazionale per la fertilità. È il documento stesso, a illustrare in maniera molto precisa quale sia il punto di vista che ne sta alla base, un esempio è quanto scritto a pagina 31:

I giovani tendono, ormai, a procrastinare le scelte decisive. Da un punto di vista psicologico sembra diffuso un ripiegamento narcisistico sulla propria persona e sui propri progetti, inteso sia come investimento sulla realizzazione personale e professionale, sia come maggiore attenzione alle esigenze della sicurezza, con tendenza all’autosufficienza da un punto di vista economico e affettivo.

È quasi incredibile a leggersi, tale è la gravità di quanto scritto. Una visione della società che sarebbe apparsa conservatrice e retrograda persino 50 anni fa. Non paghi, gli estensori del documento proseguono e le loro argomentazioni vanno di male in peggio, sempre a pagina 31:

Nelle donne, in particolare, sono andati in crisi i modelli di identificazione tradizionali ed il maggiore impegno nel campo lavorativo e nel raggiungimento di una autonomia ed autosufficienza ha portato ad un aumento dei conflitti tra queste tendenze e quelle rivolte alla maternità.

L’attacco alle donne e ai progressi nella loro condizione prosegue imperterrito, a pagina 33:

Col tempo, invece, sempre più donne hanno raggiunto livelli di istruzione elevati fino a superare, anche se di poco gli uomini, negli anni di studio, concentrandosi sul raggiungimento di una sostanziale parità con il genere maschile.

Ecco che il “tavolo consultivo” ci suggerisce la prima vera causa del basso tasso di natalità del nostro Paese: il miglioramento dei livelli di istruzione delle donne italiane. Il suggerimento, poi, assume i contorni di una vera e propria tesi, a pagina 35:

L’analisi non può prescindere dal mettere in relazione la tematica più generale dell’istruzione con il ritardo nei tempi della maternità/paternità. La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia, per il raggiungimento dell’indipendenza economica e sociale.

Le donne che studiano mettono su famiglia e fanno figli troppo tardi, quindi. E investono meno nel rapporto di coppia (!), tutte volte come sono alla loro realizzazione (che assume addirittura i tratti di un’inaudita indipendenza), cosa che evidentemente non vale per gli uomini, che non dovendo figliare fisicamente non hanno di questi pensieri e di queste responsabilità.

Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità? (pagina 37)

Il solo fatto di usare il verbo “scortare” per descrivere l’uscita di casa (dalla cucina?) delle donne è sufficiente per comprendere come tutta l’impostazione del “giorno della fertilità” sia sbagliata. L’idea che le donne siano “sospinte” verso “ruoli maschili” le confina in una perenne minorità, come se le donne, una volta uscite di casa, non potessero fare altro che trasformarsi in maschi.

Vale anche per chi assume incarichi politici, cara ministra? Il ministro è un “ruolo maschile”? Forse il ministro può aiutarci a capire. Contrapporre il lavoro e l’uscita di casa alla maternità poi è imperdonabile, da ogni punto di vista. Il tentativo di inserire in un contesto tecnico e in un’analisi di tipo scientifico opinioni degne del peggior conservatorismo patriarcale è vergognoso. Il documento, infatti, presenta buone basi teoriche sul piano sanitario, statistico ed epidemiologico, ma queste sono irrimediabilmente inquinate da un substrato ideologico reazionario, non degno di un’istituzione come il Ministero della Salute.

Vale la pena ripeterlo, il tema della natalità nel nostro Paese è senza dubbio meritevole dell’attenzione delle istituzioni, così come lo è quello dell’educazione sanitaria e del potenziamento dei sistemi di welfare a supporto del legittimo desiderio delle nostre cittadine e dei nostri cittadini di avere figli, nei modi e nei tempi da essi preferiti. Il governo s’impegni a rimuovere gli ostacoli sociali, economici e sanitari che impediscono a chi vuole figli di averne, invece di avanzare ipotesi discutibili sulle motivazioni private di chi sceglie di non averne.

Perché se “davvero” s’intende (come si legge a pagina 1, punti 4 e 5) «operare un capovolgimento della mentalità corrente» e “celebrare” una «rivoluzione culturale», occorre abbandonare stereotipi reazionari per guardare invece alla possibilità di trasformare la società, di renderla più giusta. E se è vero che, come ha detto qualcuno, «il Ministero della Salute non fa le politiche del lavoro e neanche i servizi di welfare», dobbiamo ribadire che magari non le fa, ma se ne dovrebbe occupare e ne dovrebbe anche tener conto. Lavoro, welfare e cultura sono determinanti primari per la Salute degli individui e della cittadinanza tutta. Un ministro che non se ne occupa è un ministro delle strutture sanitarie, non della Salute.

*Francesco Foti è membro del Comitato organizzativo di Possibile

La mesta ritirata degli oligarchi olimpici

scemo Italian Olympic Committee (CONI) President Giovanni Malago' delivers a speech during a press conference in Rome, 21 September 2016, after Rome's Mayor Virginia Raggi said no to Rome's bid for 2024 Olympic Games. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Proviamo a sforzarci di essere seri. Tentiamo anche di svestire per un secondo i panni dei tifosi e disinteressiamoci dei colori del M5S e dell’orrido balletto alla ricerca di assessori e delle polemiche di questi giorni. Attenzione: non perché non siano rilevanti fatti politici (parliamo di Roma e del movimento politico tra i più importanti in Italia) ma semplicemente perché su questo punto non c’entrano. Mischiare le carte e le cose serve per dibattere e propagandare. Non ora, per favore. No.

Liberi di tutte le sovrastrutture immaginate una sindaca che si presenta alle elezioni ripetendo in ogni dove (e scrivendolo nel suo programma elettorale) che non avrebbe accettato la candidatura della propria città alle olimpiadi nel caso in cui sia eletta. Facciamo che venga eletta con un risultato che non lascia spazio a dubbi. E poi (tu pensa) mantenga la parola data. Mi si perdoni la domanda: che c’è di strano? Anzi, di più: che c’è da discutere?

Virginia Raggi ha mantenuto la promessa. E non solo: ha spiegato più volte la sua scelta convincendo evidentemente la maggioranza degli elettori. Intorno intanto si levano i gridolini dei renzini servili: mentre la Raggi parla di “scelta di responsabilità” loro, dopo aver deposto il sindaco Marino con una firma dal notaio per la vergogna di passare dal consiglio comunale, gridano alla mancanza di coraggio. Loro, il Pd e molti dei cognomi di quel tempo, che leccarono Monti quando prese la stessa decisione con le stesse identiche motivazioni. Un PD con le idee politiche funzionali al padrone di turno. Evviva.

Poi c’è Malagò, presidente del Comitato Olimpico, con la voce rotta dalla rabbia di avere dovuto fare anticamera. Lui, il sindacalista degli oligarchi, che si deve abbassare ad aspettare e poi non vede accolte le sue pretese. E a pensarci oggi a Malagò e quei cenci di vampiri già pronti ad abbuffarsi rimasti con le mani in mano viene voglia di credere che almeno per una volta, su un tema, la rappresentanza abbia funzionato.  E come risuona patetica la minaccia di pretendere chissà quale danno erariale: questi che volevano le olimpiadi dovrebbero risarcirci per gli ultimi vent’anni. Loro.

Brava Virginia.

Buon giovedì.

Cosa è successo sull’Italicum (nulla, ovviamente)

L'Aula di Montecitorio durante le dichiarazioni di voto sul ddl sulla prescrizione, Roma, 24 marzo 2015. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

La sintesi della giornata a Montecitorio, del dibattito che si è svolto sull’Italicum, è semplice. Le opposizioni hanno ricordato – ognuna con il suo peculiare tono, più aggressivi i 5 stelle (con Di Battista che evoca le consuete banche e lobby), più sconsolata Sinistra Italiana – le innumerevoli dichiarazioni con cui Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Giorgio Napolitano, Matteo Orfini o Lorenzo Guerini hanno nei mesi difeso la loro legge elettorale, che era la più bella del mondo, che era immodificabile, che tutti ci avrebbero copiato, e da cui non si poteva tornare indietro. Loro ripescavano dai ritagli stampa queste dichiarazioni, e la maggioranza invece andava dritta per la sua strada, sostenendo che il parlamento è sovrano e che l’Italicum si può modificare eccome, incurante dei tre voti di fiducia messi a suo tempo sulla legge elettorale.

Nel mezzo di questa scena c’era il dramma della minoranza Pd. Che si è sentita giustamente presa in giro, prima destinataria della strategia di Renzi, che mostrandosi disponibile a modificare l’Italicum (consapevole però che prima del referendum non ci sono i tempi per fare effettivamente le modifiche) vuole stanare Bersani&co spingendoli a sciogliere (o a mantenere con imbarazzo) il Nì sul referendum costituzionale.

Solo che Bersani, Speranza e gli altri non si fanno incastrare così facilmente. Renzi approva la sua mozione, boccia quelle delle opposizioni, ma lo fa senza i loro voti e con la consueta stampella dei verdiniani. Bersani gli dà del furbetto («Attenzione», gli dice in bersaniese, «le volpi diventano pellicce», sostenendo così che con questa mossa Renzi certifica di esser in difficoltà sul referendum), Speranza dice che la cosa «più dignitosa» che può fare è non partecipare al voto (quindi però neanche votare la mozione di Sinistra Italiana che indicava supposti profili di incostituzionalità dell’Italicum).

L’unico risultato del premier, dunque, è aver prolungato la discussione. Ancora per mesi potremo discutere di una legge elettorale che era immodificabile, che non abbiamo mai applicato, che è entrata in vigore da due mesi soltanto, ma che magicamente si può ritoccare. Potremmo discutere di questo e non di altri temi più scomodi. E potremo chiederci se, come dice Alessandro Di Battista, la legge elettorale sia diventata di colpo imperfetta per l’avanzata dei grillini, e quindi sia veramente destinata a esser modificata, o se lo sia diventata, ma solo per finta, per stanare la minoranza dem. Obiettivo per ora, questo, fallito.

È il #FertilityFake, ma la realtà supera la fantasia

Domani è il Fertility day. Ma è anche il #FertilityFake, la protesta che porterà in molte piazze italiane il no al “messaggio” insito nel Piano nazionale della fertilità del ministro Lorenzin. Le famigerate cartoline sono state ritirate, ma il senso della visione reazionaria della società e della donna che pervade il documento ministeriale rimane.

Basti guardare l’immagine che accompagna gli stili di vita propedeutici alla fertilità dell’opuscolo ministeriale (è costato l’incarico al dirigente della comunicazione): quelli buoni sono rappresentati da giovani virgulti biondi, sorridenti, che sprizzano salute da tutti i pori. Mentre i cattivi stili di vita, “i cattivi compagni da abbandonare” sono raffigurati da, nell’ordine: ragazzi di colore e altri che fumano spinelli, capelli incolti e facce da femministe, in una parola “fricchettoni”. Un opuscolo che si presenta con un’immagine decisamente razzista.

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Ora, al di là degli aspetti prettamente sanitari e di prevenzione dell’infertilità – giustissimi – il piano di Lorenzin è un atto d’accusa nei confronti della donna che abbandona «i modelli di identificazione tradizionali» cercando di emanciparsi, trovando un lavoro, studiando. Il piano poi non prende affatto in considerazione il problema dei problemi, quella che potremmo chiamare l’infertilità sociale. La mancanza per le giovani coppie di asili nido, welfare, lavoro sicuro, politiche abitative. In una parola, l’assenza dello Stato che però, come traspare dal Piano nazionale di Lorenzin, “vuole” più figli.

Ci hanno pensato loro, a ricordarlo alla ministra Lorenzin.
«Siamo in attesa caro ministro», comincia così la serie di video curati da Signorina F. (Effe come Fertility), una protesta virale promossa tra l’altro da Cgil, Arci, Act, a cui ha aderito anche la Rete della conoscenza.

Signorina F contesta apertamente anche il messaggio politico dietro il Piano nazionale della fertilità:

La genitorialità dovrebbe essere una scelta. Ma forse il Governo non è d’accordo dato che ci propone idee di donna, di uomo e di famiglia vecchie di un secolo. Sei davvero realizzata solo se fai un figlio, sei utile se fecondi, è famiglia se fatta da un uomo e una donna e i figli sono biologici.


 

Gli appuntamenti del #FertilityFake

ROMA P.zza di Spagna alle 10.00
FIRENZE P.zza dei Ciompi alle 18.30
NAPOLI P.zza Bellini alle 18.30
TORINO P.zza Castello alle 18.30
PADOVA P.zza delle Erbe alle 16.30
PESCARA P.zza Salotto alle 16.00
PERUGIA Corso Vannucci ore 18.00
PISA P.zza Garibaldi alle 18.00
BOLOGNA P.zza Ravegnana alle 18.00
MILANO Univ. Milano-Bicocca, P.zza della Scienza, alle 10.00
BARI  Università, P.zza Umberto I, alle 9.00
TRIESTE Università, P.zzale Europa 1, alle 9.00

Se foste un membro del Comitato olimpico, davvero assegnereste i Giochi a Roma?

President of Comitato Promotore di Roma 2024, Luca Cordero di Montezemolo (R) and Coni president, Giovanni Malagò, pose as they introducethe Olympic games logo Roma 2024 at Palazzetto dello sport in Rome, Italy, 14 December 2015 ANSA/MASSIMO PERCOSSI

E così, senza sorprese, il sindaco Raggi e il suo Movimento manderanno all’assemblea capitolina una mozione che recita: «Coerentemente con quanto sempre sostenuto dal M5S si ritiene, anche a fronte di una approfondita analisi, che non sussistano le condizioni per proseguire nella candidatura della Città di Roma ai Giochi olimpici e paralimpici del 2024».

La prima cittadina romana oggi ha evitato di incontrarsi con il presidente del Coni Malagò, l’alfiere della candidatura dei Giochi. La richiesta di streaming dell’incontro avanzata dal capo dello sport italiano – che sa quanto populisti ci possa essere nell’avanzare le ragioni delle Olimpiadi a Roma ed è una vecchia volpe – era stata rifiutata dal sindaco. Avrebbe potuto accettare, che tanto poi l’incontro non si è tenuto.

A Londra, intanto, il primo cittadino Sadiq Khan partecipava al lancio di Euro2020, il torneo di calcio che si svolgerà in 13 Paesi per 13 città diverse e la cui finale sarà a Wembley. La formula di Euro2020 è interessante perché di fatto cancella la questione Paese ospitante, giro d’affari e così via. Gli stadi ci sono già, le città verranno invase solo per qualche giorno. Un po’ come per il Sei Nazioni di rugby, che vede nei weekend in cui si gioca a Roma, turisti-tifosi italiani, scozzesi, gallesi, inglesi e francesi prendere un volo low cost e passare il weekend lungo nella capitale, aggirandosi con il kilt o la maglia della nazionale.

Ma le notizie su questa vicenda non sono il punto. Il punto è la vicenda in sé, grottesca come non mai e, in fondo, priva di senso. Davvero qualcuno crede che il Cio, dopo gli scandali Fifa e il disastro di immagine e i ritardi a Rio de Janeiro, sia pronto ad assegnare le Olimpiadi a una città italiana che ha cambiato due sindaci in tre anni con il primo silurato dal suo stesso partito e che oggi ha una giunta che non riesce a formarsi?

Davvero qualcuno crede che il Cio, dopo che Roma è disseminata di piscine non finite e della città dello sport di Tor Vergata firmata Calatrava in costruzione da qualche anno nonostante fosse prevista per i mondiali di nuoto e si sapesse che non sarebbe mai stata finita in tempo, e con costi cresciuti a dismisura, sia così miope da assegnare le Olimpiadi a Roma?

Davvero qualcuno crede che il Cio assegnerebbe i Giochi del 2024 a una città che da almeno due anni a questa parte non è capace di decidere se davvero le piacerebbe ospitare i giochi stessi?

E infine, davvero qualcuno crede che una candidatura sostenuta da Malagò e Montezemolo, con un dossier che non convince nessuno. L‘ex assessore all’urbanistica di Marino, Caudo, che lavorò alla prima bozza di candidatura, lamenta di non vederne più il segno nell’attuale dossier preparato da Malagò; l’attuale assessore Berdini, in un’intervista video a corriere.it dice: «Potrebbero essere un’occasione se lasciassimo qualcosa di duraturo». Appunto. Il CIO, dopo i disastri di alcuni Giochi olimpici, le gallerie che impazzano sul web di tutto il mondo con le foto di impianti abbandonati, ha cambiato le linee guida che devono ispirare la candidatura olimpica di una città: meno grande evento, più effetto duraturo sull’impianto urbanistico e sociale. 

Il dossier Malagò, chiamiamolo così, ha perso le caratteristiche che aveva quello Marino (chiamiamo così anche questo), in linea con la nuova idea di Giochi del Cio. Lasciamo stare la mangiatoia, i costi che crescono, le clientele. Facciamo finta che non esistano. Il problema è che i dirigenti dello sport nazionale e il loro comitato hanno un’idea vecchia e superata del grande evento. E che, anche per questo, con ogni probabilità (ma certo, la Fifa ha assegnato i Mondiali 2022 al Qatar), il comitato che si riunisce a Losanna per assegnare i Giochi del 2024 a una città, non assegnerebbe le Olimpiadi a Roma. A prescindere da quel che decide la giunta Raggi. Da mesi, forse, stiamo discutendo di nulla.

Al via il Romaeuropa festival. Shechter esplora amore, passione e libertà con Barbarians

Arriva l’autunno e con se porta nella Capitale il Romaeuropa Festival. Giunto ormai alla 31esima edizione il festival animerà la vita culturale della Città Eterna a partire dal 21 settembre fino al 3 dicembre con spettacoli di danza, teatro, musica contemporanea e arti performative.
Il programma si apre proprio il 21 settembre con Barbarians di Hofesh Shechter al Teatro Argentina (prima italiana in scena fino al 24 settembre), un trittico dal ritmo forsennato per il quale il coreografo anglo-israeliano firma danza e musiche.

Shechter, i cui lavori sono internazionalmente acclamati, porta sul palco sei interpreti vestiti completamente di bianco e li fa danzare come fossero un solo corpo sulla partitura barocca Les Concerts Royaux di François Couperin, dando vita a un costante dialogo con le musiche elettroniche dalle derive rock scritte e composte dallo stesso coreografo.
«Non mi era mai capitato finora di esplorare la passione. Quella fra un uomo e una donna, fra persone dello stesso sesso» racconta il coreografo al Corriere della Sera «con Barbarians lascio esplodere tre diversi tipi di energia, quanti sono i momenti dello spettacolo: la passione può essere incoraggiata, e da voi in Italia ne vedo fiammate, proibita, o sfociare in un rapporto conflittuale. Lo so bene io, nato e cresciuto in Israele. I miei danzatori si calano nel trinomio amore/passione/libertà partendo da un disagio, espresso anche fisicamente attraverso i costumi per niente confortevoli».

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Ad esplorare amore e sentimenti anche OCD Love, intrigante crescendo di sensualità su musica elettronica della coreografa Sharon Eyal (27 e 28 ottobre al Teatro Argentina) Passione di Emio Greco con il Ballet National De Marseille (30 settembre e 1 ottobre).
Ma il programma del Romaeuropa non si ferma qui, sarà infatti poi la volta, il 25 settembre, dei Maritime Rites al laghetto di Villa Borghese. Riti marittimi che riportano in vita e riattualizzano le tradizioni della Roma Antica, una cifra questa del legame fra passato e presente che è stata filo conduttore anche nella sessione di anteprima estiva del festival. Gli spettatori potranno assistere gratuitamente a un vero e proprio concerto galleggiante, ad esibirsi Alvin Curran e la Banda della Scuola Popolare di Musica di Testaccio.

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Da segnalare anche Sabina Meyer con Ninfa in Lamento, spettacolo in bilico tra musica contemporanea e prassi barocca, che verrà messo in scena dal 29 settembre al 1 ottobre nella splendida cornice di Villa Farnesina.
Spazio anche ai giovani cantautori del panorama italiano. Al Monk Club il 13 ottobre con Un mondo raro i siciliani Fabrizio Cammarata e Antonio Di Martino omaggiano il talento di Chavela Vargas, scomparsa nel 2012, che rimane indubbiamente una delle voci più importanti dell’America Latina, tanto da essere definita dal regista spagnolo Pedro Almodóvar «la ruda voce della tenerezza». Un mondo raro dà vita a una vera e propria performance, eseguita da Cammarata e Di Martino insieme ad altri tre musicisti, che rievoca l’animo rivoluzionario della Vargas e allo stesso tempo tesse un filo sottile tra le atmosfere palermitane e lo spirito latino di Città del Messico. Non è un caso infatti che il progetto per omaggiare la ‘chanteuse’ messicana, amante di Frida Kahlo, sia nato proprio da un viaggio dei due cantautori dalla Sicilia al Messico.

Il 20 ottobre e 21 ottobre sarà invece la volta di una giovane voce della musica italiana, sempre al Monk Club infatti Colapesce presenterà L’isola del fuoco un progetto realizzato in esclusiva per il Romaeuropa festival. Un vero e proprio «concerto per visioni», come lo definisce lo stesso Colapesce, per omaggiare, fra canzoni e immagini, Vittorio De Seta, padre del documentario italiano e autore del film Isola di fuoco girato a Stromboli e premiato a Cannes nel 1955.
La chiusura del festival sarà invece affidata a Senza sangue opera di Peter Eötvös composta a partire dall’omonimo romanzo scritto da Alessandro Baricco ed eseguita dall’Orchestra di Santa Cecilia, all’Auditorium dall’1 al 3 dicembre.
Il programma completo con questi e tutti gli altri appuntamenti è consultabile qui.

Piacenza, l’ultimo saluto all’operaio ucciso. Picchetti in tutta Italia per Abd Elsalam

i compagni di lavoro di Abd Elsalam, pregano davanti alla Gls di Montalto - foto di Riccardo Germani (Usb)

Da Riano a Padova, da Crespellano a Roma, da Torino a Milano. Camion bloccati in fila davanti ai facchini in protesta. L’Usb, il sindacato di Abd Elsalam, l’operaio ucciso da un camion la sera del 14 settembre, ha «confermato tutte le iniziative di sciopero e i blocchi alla Gls».

È il sesto giorno consecutivo di blocchi a Montale, dove lavorava l’operaio egiziano, e si proseguirà a oltranza. Stanotte altri picchetti hanno fermato i camion in uscita da numerosi poli logistici nel resto del Paese.

Sempre a Piacenza, intorno al tavolo della prefettura, proseguono gli incontri tra le unioni sindacali e l’azienda, anche se nessun accordo ancora è stato raggiunto: stabilizzare 15 facchini Gls e reintegrarne altri 6, queste le richieste avanzate dal sindacato.

Questa mattina alle 8 al centro islamico di Piacenza, si sono svolti i funerali di Abd Elsalam. Dopo la preghiera la sua salma sarà rimpatriata in Egitto.

Nel sienzio dei media nazionali, ad Abd Elsalam e alle dinamiche del lavoro nelle fabbriche e nei poli logistici italiani Left dedica la copertina del numero in edicola sabato 24 settembre.

Essere credibili piuttosto che credenti

Rosario Livatino. Il giudice ragazzino. Chissà se oggi con questa moda internettiana di riesumare un morto al giorno riusciremo davvero a raccontare quel giudice antimafioso raggiunto dal colpo di grazia mentre franava lungo una scarpata. Chissà se in questo tempo di antimafia di plastica oggi troveremo la voglia di provare ad essere seri, di approfondire, di esercitare memoria oltre al semplice commemorarla.

Rosario Livatino viene ucciso dalla mafia agrigentina il 21 settembre del 1990 mentre si recava in tribunale. Senza scorta. Erano i tempi della lotta alla mafia che non seminava divismo: erano gli anni in cui lottare personalmente contro la mafia era un gesto incomprensibile; perché buttarsi in una battaglia tanto grande, si dicevano.

«Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili.» scriveva Livatino nei suoi appunti e, al di là, dell’attività giudiziaria forse la caratura di Livatino è tutta qui: il rovesciamento dei pregiudizi da cui non riusciamo a liberarci è il primo passo di ogni rivoluzione culturale. Anche di giustizia.

Ecco, oggi che siamo diventati così bravi a appuntire i nostri giudizi su tutti gli altri, oggi che ci siamo ammaestrati a sentirci assolti mentre condanniamo il resto, oggi che ci sgoliamo nelle pretese concedendoci di non essere nemmeno informati, mi chiedo, oggi, come ne usciremmo noi dai nostri stessi giudizi?

C’è una lezione, nella storia di Livatino: ambire alla coerenza, imparare a praticarla più che pronunciarla o magnificarla. Giocare all’impegno che non si mostra ma ci forma.

Perché il mio terrore più grande, anche oggi per Livatino, è che mentre lo ricordiamo ci stiamo perdendo i vivi come lui. Perché mentre ci sforziamo di commuoverci non abbiamo l’intelligenza dinconfessarci che sarebbe desueto oggi, Rosario. Fuori moda. Nascosto.

Ecco. Scoviamolo oltre che ricordarlo. No?

Buon mercoledì.