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Lussemburgo: «Ungheria fuori dall’Ue se non cambia sui rifugiati»

epa05212432 Hungarian Prime Minister Viktor Orban delivers a speech during a ceremony celebrating the national holiday, the 168th anniversary of the outbreak of the 1848 revolution and war of independence against the Habsburg rule, at the Hungarian National Museum in Budapest, Hungary, 15 March 2016. EPA/TAMAS KOVACS HUNGARY OUT

«Lo sapevate che Bruxelles vuole trasferire l’equivalente di una città di immigrati clandestini in Ungheria?». «Lo sapevate che dall’inizio della crisi immigrazione le molestie delle donne è aumentato notevolmente in Europa?». Queste due frasi fanno bella mostra di sé su cartelli pagati dal governo ungherese, che evidentemente non è neutrale nel referendum sulle politiche migratorie dell’Unione europea a cui i cittadini ungheresi sono chiamati a rispondere il prossimo 2 ottobre. I soldi per pagare i cartelloni, come anche un opuscolo da 18 pagine spedito a 4 milioni e 100mila ungheresi è costato 16 milioni di euro.

Tra le altre cose, sull’opuscolo leggiamo (qui tradotto in inglese):

Abbiamo il diritto di decidere con chi vogliamo vivere (…) più di 1,5 milioni di immigrati illegali è entrato in Europa. Bruxelles, invece di fermare le migrazioni, prevede l’ulteriore insediamento di decine di migliaia di migranti. Non possiamo permettere che il futuro del nostro Paese per essere deciso da altri. Solo noi ungheresi possiamo decidere con chi vorremmo vivere. A tal fine, il governo ha avviato un referendum contro l’insediamento forzato (di poco più di un migliaio di rifugiati, ndr)

Anno dopo anno, il numero di immigrati illegali cresce. Le élite europee negano il problema e l’Europa non protegge i suoi confini. Bruxelles ritiene che l’immigrazione sia un buon modo per affrontare il declino della popolazione e la carenza di manodopera. L’Ungheria rifiuta questo approccio. L’élite di Bruxelles sostiene che la nuova manodopera sia necessaria. Tuttavia ci sono già 21,4 milioni di disoccupati in cerca di lavoro in Europa. Il numero di immigrati illegali arrivato in Europa: 336.000 nel 2012, 432.000 nel 2013, 627.000 nel 2014, 1,5 milioni nel 2015

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L’opuscolo (una pagina qui sopra) parla anche degli attacchi terroristici e, nota bene, parla di immigrati irregolari e non di profughi in fuga dalla guerra destinati a chiedere asilo. Ora, se c’è una certezza, è che i flussi imponenti passati per l’Ungheria nel 2015 coincidevano con l’esodo dei milioni in fuga dalle bombe in Siria. Il libello parla anche di “no go zones” zone delle capitali d’Europa dove è impossibile accedere per via della presenza di immigrati che le rendono pericolose. Da ricordare che persino il quesito referendario sul quale gli ungheresi sono chiamati ad esprimersi è fuorviante: «Siete d’accordo che l’Europa possa decidere di spostare persone non ungheresi in Ungheria senza il parere del Parlamento nazionale?» è una domanda che non vuol dire nulla. L’Ungheria ha l’obbligo, fino a quando aderisce ai trattati internazionali sul diritto d’asilo, ad accogliere persone non ungheresi, a prescindere dall’Europa.

Per questa campagna e per i comportamenti tenuti in questi anni nei confronti dei rifugiati l’Ungheria andrebbe espulsa dall’Unione europea. O almeno così la pensa il ministro degli Esteri lussemburghese Asselborn, che in un’intervista al tedesco Die Welt sostiene che il Paese ha trattato i rifugiati «peggio di animali selvatici – e che – Chiunque, come l’Ungheria, costruisce recinzioni contro profughi di guerra o che viola la libertà di stampa e l’indipendenza della magistratura dovrebbe essere escluso temporaneamente, o se necessario, in maniera permanente dall’Unione europea». Il ministro lussemburghese chiede nuove regole per mettere ai margini un Paese come «l’unico modo per preservare la coesione e i valori dell’Unione europea».

Sono parole forti, ma tutto sommato giuste. L’Europa, presa dalla paura della Brexit e consapevole che il tema dei rifugiati è potenzialmente delicato e politicamente scivoloso – in Gran Bretagna il Sì ha vinto anche sulla retorica anti-immigrazione – fischietta invece di aprire procedure di infrazione, come ad esempio ha fatto con la Polonia.

L’intervista è destinata a provocare una risposta violenta da parte di Budapest e degli altri del gruppo di Visegrad – Polonia, Repubblica ceca, presidente di turno dell’Ue, e Slovacchia – che lavora per far saltare la politica di asilo Ue e utilizza l’esito del referendum britannico per avvalorare la sua tesi che l’Ue è impopolare.

Hanno degli argomenti e ne è conscio Donald Tusk, che in vista del vertice di Bratislava, venerdì prossimo, lavora per cercare di tenere assieme le varie istanze provenienti dall’Unione, con i Paesi dell’est ossessionati dall’immigrazione e dall’eccessivo potere di Bruxelles, la Germania e gli altri nordici attenti all’austerity e tutto sommato favorevoli a riscrivere le norme di libera circolazione delle persone in Europa e i Paesi del Sud che chiedono flessibilità e un cambio di passo della politica economica.

Tra le cose che Tusk proporrà a Bratislava – come rivela politico.eu che ha ottenuto una bozza di documento di discussione – ci sono il sostegno alla frontiera bulgara con la Turchia, gli accordi con i Paesi terzi , guardia costiera, ma anche strumenti per verificare e tracciare gli spostamenti dei cittadini Ue all’interno dei confini. L’idea, insomma, è proprio quella di riqualificare un po’ l’Unione mostrando che è efficace nel fermare le migrazioni. Come se quelle a cui abbiamo assistito nell’ultimo anno e mezzo, quelle che hanno impressionato la società europea, fossero appunto migrazioni e non fuga dalla guerra.

Il problema, con il governo ungherese, così come con quelle parti di società che sono spaventate dall’immigrazione e chiedono risposte brutali sognando un passato in cui tutto andava bene, l’economia correva e non c’era delinquenza (passato che non esiste come ha scritto il vice capo dell’Alto commissariato per i diritti umani Zeid), è che nulla sembra bastare. È normale, le sfide e le difficoltà dell’Europa ci sono eccome e servirebbe inventiva e capacità di rilanciare l’ideale europeo (così chiedono 171 organizzazioni delle società civile che hanno firmato un appello al consiglio chiedendo di rigettare le soluzioni per la crisi europea avanzate dai populisti).

Camminare sul filo, non fare uno scatto, rincorrere un po’ le idee della destra, spiegando che non bisogne esagerare, è quel che si fa da due anni. E in questi due anni, le destre europee hanno ottenuto solo successi. E alzano la testa: c’è il gruppo di Visegrad, c’è la propaganda come quella dell’opuscolo ungherese, ci sono i leader ungherese e polacco che una settimana fa si incontrano e dicono scherzano tra loro: «C’è un detto in Ungheria che, se ti fidi di qualcuno, ci puoi rubare cavalli insieme» ha detto Orban «Ci sono un paio di stalle, e una particolarmente grande di nome l’Unione europea, dove siamo in grado di rubare i cavalli con gli ungheresi» ha risposto Kaczynski. Prima avevano parlato di «puzza di grande capitale a Bruxelles» che vuole «annullare le identità nazionali»:

Sarebbe il caso, come spiega la responsabile per l’Europa di Human Rights Watch Lydia Gall, che la presidenza della Commissione si muovesse, anziché inseguire i leader dell’Europa populista sul loro terreno.

 

 

Quando Ermanno Rea si scagliava contro «il Partito della nazione senza Nazione»

Left aveva intervistato Ermanno Rea, lo scrittore scomparso oggi, il 29 novembre 2014. Riproponiamo qui le sue parole, ancora attualissime.

«Il signor Renzi vuole fare il partito della nazione? Prima pensi a unirla, la nazione, perché adesso è spaccata». Parla della frattura tra Nord e Sud dell’Italia, Ermanno Rea, e parla anche del presidente del Consiglio e del suo programma di «unanimismo elettorale» che però, avverte lo scrittore, non serve al Paese. Anzi, potrebbe renderlo ancora più immobile: un’altra occasione persa dopo 150 anni di unità rimasta sulla carta. E le ricette del presidente del Consiglio, a proposito di integrazione nazionale, continua Rea, non portano nulla di nuovo rispetto ai suoi predecessori Berlusconi, Monti e Letta.

Abbiamo incontrato lo scrittore napoletano nei giorni in cui lo scontro tra sindacati e premier aveva raggiunto una durezza mai vista finora a sinistra. Anche se già in precedenza Renzi non aveva risparmiato – talvolta con uscite non propriamente tenere – chi all’interno del Pd aveva mostrato di avere un pensiero diverso dal suo. Insomma, quella del premier – per iperbole, certo – potrebbe sembrare una gestione del potere che richiama la «polverizzazione di ogni forma di dissenso» come scrive Ermanno Rea in Mistero napoletano (Einaudi) la storia di una donna comunista, allo stesso tempo utopista e ribelle, schiacciata dall’ortodossia comunista nella Napoli degli anni Cinquanta.
Durante l’incontro con Rea nella sua bella casa romana popolata di libri e fotografie («scattate con la Leica») verrebbe quasi da azzardare una domanda su un eventuale, ipotetico parallelismo tra i due partiti e i due leader. «Ma quelli di Togliatti e Renzi sono due mondi diversi!» esclama sorridendo questo elegante signore di 87 anni dalla barba candida e dagli occhi chiarissimi. Giornalista de l’Unità negli anni Cinquanta – quando dominava la figura di Giorgio Amendola, il “maestro” del presidente Napolitano – Rea ha vissuto in prima persona quel clima politico di controllo e di sospetto che si insinuava lentamente nelle vite delle persone, fino a distruggerle. Accadde alla Francesca di Mistero napoletano, così come al personaggio dell’ultimo libro Il caso Piegari (Feltrinelli) fatto impazzire dal comunismo allora imperante sotto il Vesuvio. Ritorna poi lo scrittore sul confronto tra passato e presente: «Io non sono un difensore a oltranza di Togliatti ma devo dire che era di una cultura sterminata, di una raffinatezza… Renzi, invece, nella sua aggressività rivela una rozzezza di fondo, percepisce come un primitivo che il proprio successo sta lì e cerca di cavalcarlo nel modo più spregiudicato». Ma un parallelismo tra la politica di ieri e quella di oggi, utile a comprendere la crisi attuale, invece è evidente e drammatico allo stesso tempo. «La questione meridionale», afferma convinto lo scrittore.

Nel suo ultimo libro Il caso Piegari quando parla di «attualità di una sconfitta» si riferisce alla questione meridionale?
Sì, è proprio la questione meridionale che può essere affrontata solo come questione nazionale. È questa l’attualità della storia che racconto nel libro. A Napoli negli anni Cinquanta c’era un medico di grandissimo talento, Guido Piegari, uno scienziato che aveva una cultura storica gigantesca e che gestiva il gruppo Gramsci, molto importante in città in quegli anni. Lui dissente da Giorgio Amendola (responsabile della Commissione meridionale del Pci, ndr), critica la sua visione del meridionalismo e giudica il dirigente comunista uno che non promuove una politica a favore dell’integrazione nazionale, gramscianamente intesa nell’incontro della classe operaia del Nord con i contadini del Sud. Piegari viene espulso dal Pci. Come sempre, mettendo in moto una macchina del fango – si dice che è mezzo pazzo – e provocando in lui anche un disastro psicologico. Come il mio amico Gerardo Marotta, presidente dell’Istituto per gli studi filosofici, che faceva parte del gruppo Gramsci, io opto per la visione proposta da Guido Piegari che affermava la necessità dell’integrazione nazionale.

Veniamo all’oggi: quali sono le conseguenze della mancata integrazione tra Nord e Sud?
I dati dell’ultimo rapporto Svimez parlano chiaro, addirittura si denuncia il rischio di desertificazione per il Sud. Io sono convinto che l’Italia non sarà in grado di uscire dal suo baratro fino a quando non realizzerà una unità nazionale. Se uno oggi mi dovesse chiedere qual è la malattia del Paese, la mia risposta convinta sarebbe questa: un’infezione profonda e lontana mai sanata che si è sempre più aggravata, la frattura tra Nord e Sud. Adesso perdiamo tutti: anche il ricco Nord è in crisi, e le periferie scoppiano là non meno che a Roma o Napoli. Com’è possibile che l’Italia, in una situazione di questo genere, possa riuscire a trovare una sua credibilità anche internazionale e una sua capacità di rigenerarsi? Tornando a ciò che racconto nel libro, esiste una responsabilità comunista? Su questo sono cauto, il Pci ha avuto tanti torti ma anche tanti meriti. Io sostengo solo che non si è mai voluto rivedere autocriticamente la vicenda della questione meridionale e riuscire a separare, come si suol dire, il bambino dall’acqua sporca.

Il partito della nazione lanciato da Matteo Renzi in una direzione del Pd di un mese fa – tra l’altro resuscitando il progetto di Pier Ferdinando Casini – potrebbe rappresentare allora la soluzione per risolvere il problema dell’unità d’Italia?
Per risponderle cito un articolo di Ernesto Galli della Loggia – che scrive cose di cui io non condivido quasi mai nulla – ma che nel 2010 sul Corriere della Sera aveva sollevato il problema dell’unità nazionale. Su cui, fino ad un certo punto, mi trovava d’accordo. Galli della Loggia infatti scriveva che chi fosse riuscito a rinsaldare il patto tra Nord e Sud si sarebbe installato al centro dell’azione politica «diventando forza egemone per un lungo tempo a venire». Va bene, ma se si parla di partito nazionale, per amor del cielo, io lo intendo nel senso di un partito che abbia la possibilità di integrare finalmente un Paese diviso da 150 anni, non di creare una “specie” al contrario. Il rischio è creare un equivoco bestiale perché il signor Renzi quando parla di partito della nazione parla di un consenso generalizzato alle sue idee e alla sua politica, ma cosa c’entra questo con la soluzione del problema? Al contrario, solo una sinistra vera può assumere su di sé questo ideale, questa bandiera e portarla avanti. Il partito della nazione va bene in quanto integrazione della nazione, ma non in quanto unanimismo elettorale che poi è l’obiettivo vero del signor Renzi. Lui vuole un bel pantano immobile. Ma questo è semplicemente un ulteriore modo di degradare quello che invece è un obiettivo politico di grande rilievo.

Lei quindi non vede proposte concrete nella politica del Governo indirizzate a risolvere la frattura esistente tra il Nord e il Sud del Paese?
Renzi non propone nulla di strategico. È un barcamenarsi, cercando di premiare ora una parte e ora un’altra. Le sue scelte tendono a ribadire il vecchio, a riconfermare quello che già c’era. Il mutamento è puramente formale, di facciata. Tutto il processo che va da Berlusconi a Monti fino ad arrivare a Letta e a Renzi, cosa ha portato di nuovo? Cambiare tutto perché tutto resti uguale: mi pare che il Gattopardo trionfi ancora una volta. Il quieta non movere. Tornando poi al successo di Renzi – che io giudico estremamente provvisorio – deriva dalle parti più fragili del Paese oppure da quelle più interessate. Infatti, il ceto imprenditoriale plaude fragorosamente a questo personaggio perché si sente rassicurato in quello che fa. E poi, se la politica è rappresentanza, Renzi chi rappresenta? Per il momento c’è una massa amorfa che applaude.

Nel sottotitolo del suo saggio La fabbrica dell’obbedienza si legge del «lato oscuro e complice degli italiani». Che cosa significa?
Qui mi rifaccio al filosofo napoletano di metà Ottocento Bertrando Spaventa. Lui sosteneva una tesi affascinante di cui mi approprio. La tesi è questa: il cittadino responsabile viene inventato in Italia con l’Umanesimo, la piazza, il palazzo comunale. Ma con la Controriforma costui viene in pratica espulso dal Paese e da cittadino reponsabile diviene suddito deresponsabilizzato. Perché? La storia è semplice, la raccontiamo anche ai ragazzini alle scuole medie. Mentre Lutero in Germania traduce la Bibbia in tedesco, esorta il popolo ad avere un rapporto diretto con Dio, moltiplicando quindi il senso di responsabilità, in Italia, al contrario, Santa Romana Chiesa sancisce che il rapporto con Dio passa attraverso il suo ministro, che assolve il fedele. E questo porta alla creazione del suddito deresponsabilizzato. Se c’è un difetto nella cultura media italiana, è proprio la mancanza di senso di responsabilità. A proposito di Togliatti, uno dei suoi grandi torti è stato proprio quello di aver pensato che senza la Chiesa nulla era possibile e che ogni tentativo di modificare il Paese sarebbe stato inutile. È stato succube dell’idea dell’incontro, dell’intreccio, del compromesso con il cattolicesimo che è una costante della storia italiana.

L’ultima domanda è sul futuro. Lei che è stato candidato con la lista Tsipras alle europee pensa che sia possibile che in Italia nasca un partito dal basso come è accaduto per Podemos, frutto degli Indignados?
Non ho la palla di vetro, so che in Italia, non meno che in Grecia e in Spagna, esiste un’opinione pubblica di tutto rispetto. Ci sono persone capaci, di tutte le età. Potrei citarne tante. Soltanto alcune sere fa sentivo Stefano Rodotà e Benedetta Tobagi ospiti della trasmissione Otto e mezzo. Due poli opposti, una ragazzina e un signore ottantenne che ci mostrano un’Italia bella, onesta, intelligente. Non è tutto così nero, ne esistono ancora migliaia di esemplari umani di questo genere.

Cile, Isabel Allende si candida alle presidenziali 2017

La senatrice socialista Isabel Allende figlia del presidente Salvador Allende

«Se siente, se siente, Allende presidente». Un boato dei socialisti ha accolto la candidatura di Isabel Allende alla presidenza del Cile. Isabel lo ha annunciato mentre il suo Paese celebrava l’anniversario dell’assassinio del padre Salvador Allende, durante il colpo di Stato di Pinochet: «Ho reso nota la mia volontà di candidarmi, se così vorranno i socialisti», così la figlia del presidente Salvador Allende davanti al Consiglio generale del Partito socialista riunito in vista delle prossime scadenze elettorali, quelle municipali del 23 ottobre – primo ritorno alle urne dei cileni dal 2013 – ma soprattutto quelle presidenziali del 2017.

Allende, che presiede il Partito socialista dell’attuale presidente Michelle Bachelet, è senatrice per la regione di Atacama, terza figlia del presidente Salvador Allende e cugina della omonima scrittrice cilena Isabel Allende Llona, autrice di numerosi romanzi che hanno fatto il giro del mondo. Alle primarie Isabel dovrà confrontarsi con il socialdemocratico Ricardo Lagos, ex presidente dal 2000 al 2006,  una sorta di “rottamatore cileno” che propone il “rinnovamento” del partito. Chi vincerà le primarie dovrà poi confrontarsi con il candidato di centrodestra che, probabilmente, sarà l’ex capo di Stato conservatore Sebastián Piñera, che ha governato il Paese dal 2010 al 2014. Il mandato dell’attuale presidente Bachelet scade a marzo 2018, perciò le  presidenziali si terranno alla fine del 2017.

«Altri uomini supereranno questo momento grigio e amaro in cui il tradimento pretende di imporsi. Sappiate che, più prima che poi, si apriranno di nuovo i grandi viali per i quali passerà l’uomo libero, per costruire una società migliore», queste le ultime parole del presidente Salvador Allende prima che il generale Pinochet riuscisse a prendere La Moneda e la sua vita terminasse in circostanze ancora sospette. Oggi quel «viale» è Isabel Allende a indicarlo. E di questi tempi in America Latina ha tutta l’aria di un’uscita di emergenza.

Partire dal caporalato per cambiare le relazioni economiche e sociali

Sconfiggere il caporalato non basta per migliorare le condizioni di vita e di lavoro di migliaia di donne e uomini, migranti e italiani, impiegati come braccianti nei campi agricoli italiani, abbattere lo sfruttamento lavorativo e la schiavitù. Si deve affrontare e sconfiggere il caporalato e nel contempo andare oltre esso per contrastare definitivamente anche la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, truffe, evasione contributiva e fiscale, sofisticazione alimentare, agromafie nell’accezione più ampia e qualificata del termine.

Si tratta di cambiare un modello sociale che pare sempre più centrato sul dominio, sulle relazioni convenienti, sulla prepotenza e sulla convenienza economica, in cui risulta fondamentale il contributo di mafie di varia origine. Tutto ciò nell’interesse di tutti i lavoratori, delle imprese agricole sane, dell’ambiente e del Paese.

Ogni anno, studi, inchieste e rapporti denunciano le condizioni di centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori che spesso sfociano nella riduzione in schiavitù. Italiani e migranti obbligati a chiamare padrone il proprio datore di lavoro, dipendenti dalla sua volontà in modo esclusivo e dai suoi pochi euro di retribuzione al giorno, agevolati da norme profondamente sbagliate come la rediviva “Bossi-Fini”. Nelle campagne italiane e sempre più spesso anche in Europa, si perpetuano condizioni di lavoro, sociali ed economiche che trasformano uomini e donne liberi in schiavi moderni.

Il conflitto sociale e la sua democratica dialettica ha lasciato spazio al dominio del capitale sotto le cui vesti si nascondono nuovi padroni e i mafiosi di sempre. Sono decine di migliaia gli uomini e le donne, italiani e migranti, che lavorano anche quattordici ore al giorno, quasi tutto l’anno, in serra o nei campi aperti, sotto padrone, sotto caporale, obbligati ad abbassare la testa per una retribuzione di poche centinaia di euro al mese, sempre a rischio licenziamento, violenza, persecuzione. Alcuni braccianti, soprattutto indiani residenti in provincia di Latina, sono indotti ad assumere, come mostra il dossier “Doparsi per lavorare come schiavi” di In Migrazione, sostanze dopanti per reggere le fatiche alle quali sono obbligati nei campi agricoli.

Altri subiscono le conseguenze di spedizioni punitive organizzate da padroni italiani e caporali, anche stranieri, per indurli ad accettare le condizioni imposte senza ribellarsi. Atti e comportamenti tipicamente mafiosi che correttamente vengono ricondotti, come prevede la riforma del nuovo codice antimafia, nell’ambito della fattispecie specifica del 416bis del c.p. Alcuni lavoratori e lavoratrici perdono la vita per via di uno sfruttamento divenuto sistemico. Altri si suicidano perché considerano questa l’unica strada possibile per spezzare le catene di una nuova schiavitù. Morti che pesano sulla coscienza collettiva. Le continue denunce di alcuni ricercatori italiani e stranieri, di organizzazioni come Medici senza Frontiere, Amnesty, In Migrazione, Emergency, Medu, Arci e molte altre, insieme ai sindacati e in particolare alla Flai Cgil, consentono di avere una fotografia adeguata, professionale e drammatica del fenomeno.

Il Ddl contro il caporalato approvato questa estate al Senato può rappresentare un importante passo in avanti nel contrasto alle agromafie, al caporalato e allo sfruttamento lavorativo, a patto che entri nel corpo sociale vivo del Paese e nelle pratiche e prassi reali, concrete, effettive, degli investigatori e della magistratura. Si deve passare in sostanza dalla produzione normativa alla sua applicazione reale, insieme a riforme del lavoro che vadano in senso contrario rispetto a quelle sinora prodotte.

La cosiddetta ripresa non può passare per la cancellazione dei diritti dei lavoratori e tra questi, in particolare, dei più esposti allo sfruttamento e alla violenza organizzata. Il Jobs Act in tal senso ha prodotto un arretramento dei diritti dei lavoratori ed ha rafforzato un rapporto tra datore di lavoro e lavoratore a del primo, chiunque esso sia.
I contratti di lavoro vengono facilmente superati da pratiche e prassi dello sfruttamento permessi da una legislazione inadeguata e da controlli di scarsa qualità. Buste paga finte, contratti di lavoro incomprensibili soprattutto per i lavoratori stranieri, una burocrazia inadempiente che agevola di fatto il malaffare, una magistratura, soprattutto penale, drammaticamente lenta, finiscono per restituire un potere straordinario allo sfruttatore, datore di lavoro, caporale o trafficante che sia.

La Grande Distribuzione in questo sistema ha un peso rilevante e contribuisce, con le sue logiche perverse, privilegi e aspirazioni, a trasformare l’agricoltura italiana in un’agricoltura per padroni. Essa invece potrebbe davvero essere occasione di rilancio per il paese e contribuire al cambiamento auspicato.
Per questa ragione ogni forma di rivendicazione, contrasto, lotta e ribellione democratica nei riguardi di un sistema padronale e mafioso da parte dei lavoratori va sostenuto, incentivato, accompagnato.

Ed è per questa ragione che lo sciopero di circa 2.000 braccianti indiani in provincia di Latina organizzato dalla Comunità Indiana del Lazio, dalla Flai Cgil, Cgil e con il contributo della cooperativa In Migrazione, ha rappresentato un’evento di portata storica. Quei braccianti indiani hanno dimostrato che esiste una nuova questione sociale, politica e morale che va oltre gli interessi delle imprese e di una politica attenta al solo ritorno elettorale e agli equilibri di palazzo. Esiste un tema fortissimo che è quello del diritto, del lavoro e della libertà che unisce donne e uomini in Occidente come in Oriente, e che non può essere più nascosto o trattato in maniera superficiale. È per contrastare questa deriva democratica e sociale che è stata costituita e lanciata la campagna Coltiviamo Diritti, unione di associazioni e sindacati che vogliono accompagnare e sostenere le tante battaglie che nel territorio si fanno per sconfiggere caporalato e sfruttamento, liberando così donne e uomini dalle catene della schiavitù.

È utile anche ricordare il ruolo di alcuni hub dell’agricoltura italiana. Tra questi occupa un peso rilevante il caso del Mercato ortofrutticolo (Mof) del comune di Fondi, in provincia di Latina. Come afferma il giornalista Paolo Borrometi, oggetto da anni di minacce da parte delle mafie e per questo sotto scorta per le sue inchieste, il Mercato ortofrutticolo di Fondi è un “vero hub delle agromafie”, relativamente soprattutto ai trasporti gestiti dal clan dei Casalesi. L’operazione Sud Pontino e poi l’operazione Gea hanno accertato e disarticolato un’organizzazione criminale che, almeno dal 2000, imponeva il monopolio del trasporto su gomma di prodotti ortofrutticoli da e per i principali mercati italiani. Il sodalizio era gestito dalla famiglia camorristica degli Schiavone che aveva esteso il proprio dominio nei mercati campani di Aversa, Parete, Trentola Ducenta e Giugliano, fino ad arrivare a quelli siciliani di Palermo, Catania, Vittoria, Gela, Marsala e infine a quello di Milano. L’Italia unita dalle agromafie, da Nord a Sud. Autostrade mafiose che vanno abbattute. Proprio dall’operazione Sud Pontino si venne a conoscenza del patto tra il clan dei Casalesi e il gruppo dei corleonesi, nella gestione dei mercati ortofrutticoli in tutta Italia e per il trasporto di frutta e verdura. Una logistica mafiosa, che comprendeva anche il traffico internazionale di armi, che inquinava il mercato, violava i diritti dei lavoratori, determinava concorrenza sleale nei riguardi delle imprese oneste, agiva con metodi intimidatori, inquinava l’ambiente con una gestione disinibita e criminale delle sue attività.

Le condanne, oramai definitive, hanno riconosciuto l’esistenza del sodalizio criminale tra i casalesi e i corleonesi, rappresentati da Gaetano Riina, fratello del capomafia Totò. Nel patto, secondo il pentito Gianluca Costa, anche i fratelli Sfraga, referenti imprenditoriali delle famiglie Riina-Messina Denaro nel settore ingrosso dei prodotti ortofrutticoli e che garantivano per l’intera organizzazione siciliana. Sodalizi mafiosi che conquistano interi settori dell’economia, che impongono prezzi e costruiscono mercati criminali, che violano diritti e regole, che condizionano la politica ad ogni livello. Stiamo invece assistendo alla formazione di una nuova organizzazione mafiosa, una sorta di quinta mafia, una consorteria di mafie e di interessi sintesi di un network sociale criminale infarcito di interessi economici e politici e di accordi tra varie organizzazioni mafiose che agiscono in modo coordinato fagocitando, con una potenza criminale nuova, diritti, giustizia e legalità.
È indispensabile, infine, come afferma anche l’Asgi, tutelare le vittime del grave sfruttamento lavorativo, meritevoli di una diversa e più ampia tutela sotto molteplici profili, incluso il loro diritto a soggiornare sul territorio quando privi del permesso di soggiorno, così come si devono tutelare coloro che si ribellano ai caporali, mafiosi, sfruttatori e trafficanti e tutti quei testimoni che sostengono in giudizio, con coerenza e coraggio, le relative accuse esponendosi direttamente. La principale misura del contrasto alla tratta di esseri umani e alle agromafie è la protezione delle vittime e dei loro testimoni. Essere in grado di identificare e dunque proteggere una vittima e i suoi testimoni significa acquisire un elemento utile, se non determinante, per le indagini volte a reprimere il fenomeno criminale.

Lo Stato, e con esso tutte le sue articolazioni territoriali, comprese Regioni e Comuni, deve impegnarsi per richiamare alle proprie responsabilità quanti hanno ruoli, compiti e poteri precisi. Sindaci, prefetti, questori, ispettori del lavoro spesso sottovalutano, negano, considerano questo fenomeno marginale, interno alle sole comunità di migranti, poco rilevante sul piano penale. Anche su questo tema si ascolta da anni una sterile litania istituzionale che, come sosteneva Ennio Flaiano, finisce per riconoscere la “situazione come grave ma non seria”. Combattere le agromafie, il traffico internazionale di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo, la logistica mafiosa e il caporalato, dunque un modello di impresa padronale e violento, significa difendere la democrazia di questo Paese, garantire diritti costituzionalmente previsti e sconfiggere interessi economici e politici criminali. Le mafie, lo sfruttamento lavorativo, la riduzione in schiavitù, il caporalato sono alternativi alla democrazia. Ora si tratta di decidere, senza tentennamenti, da che parte stare.

La sua scorta è l’agente

Momenti di tensione tra gruppi antagonisti e forze dell'ordine nelle immediate vicinanze del Teatro San Carlo, all'interno della Galleria Umberto I, in occasione della visita del premier Matteo Renzi, Napoli, 12 settembre 2016. ANSA / CESARE ABBATE

Per cominciare dobbiamo andare a riprenderci un’immagine. Non servono foto, la narrazione renziana ce l’ha propinata talmente a lungo che ce l’abbiamo in testa: Matteo Renzi, fresco presidente del Consiglio dopo aver uccellato Enrico Letta, si recava Palazzo Chigi con passo lesto buttandosi in mezzo alle gente, tra negozianti intenti a sollevare la saracinesca, baristi con i cappuccini sul vassoio, passanti in estasi per un selfie e turisti incuriositi. «La mia scorta è la gente» ripeteva Matteo Renzi riprendendo un vecchio adagio di Sandro Pertini che negli ultimi anni sembra diventato un mantra. Chissà poi perché.

E mentre Renzi esibiva ovunque l’accoglienza che gli veniva riservata per le strade, con la felicità ferale di un molestatore in impermeabile al parco, la renziade aggiungeva un capitolo tutto riservato al “politico tra la gente”, il presidente “amato da tutti” e il “Renzi uno di noi”. Tutto bello, per carità: del resto anche i bidoni calcistici quando arrivano in ritiro con la loro nuova squadra si meritano qualche tempo di fiducia incondizionata. È successo a Darko Pancev con l’Inter, figuriamoci Matteo Renzi con gli italiani.

Ora torniamo alle immagini degli ultimi due giorni. A Catania (dove il premier ha fatto tappa per partecipare alla Festa de l’Unità locale) la manifestazione contro il premier superava per numero di presenza di gran lunga il comitato di benvenuto. Senza tenere conto che tra i festosi accoglienti di Renzi si contavano politici, politichetti, assessorini e tutti quelli che sperano che al premier scivoli dalle tasche qualche prebenda. I manifestanti critici invece (persone comuni, giovani, pensionati e nemmeno una vetrina rotta da sparare in mondovisione) si sono presi un po’ di manganellate al civico 8 di via Umberto: quello era il limite invalicabile deciso dalle forze dell’ordine,  la zona rossa. Niente più foto e sorrisi: Renzi ora prende le distanze e le fa presidiare con i manganelli.

Sarà un caso? Vediamo. Ieri a Napoli stessa scena; Renzi arriva in città e i manifestanti (vi prego, guardatevi le foto per rendervi conto di chi stiamo parlando) cominciano a prendersi un po’ di randellate in testa. Tra loro c’è anche una consigliera comunale, Eleonora De Majo, che si mette in un angolo a telefonare mentre il bernoccolo le tira la fronte. Gli scontri accadono in diverse parti della città mentre il premier si preparava ad accomodarsi per gustarsi un’opera lirica al Teatro San Carlo.

“Antagonisti e centri sociali che contestano fuori ricorrendo anche alla violenza non ci impauriscono: la mia affettuosa solidarietà alle forze dell’ordine”: sembra l’ennesimo conato di Salvini e invece è quello che Renzi ha scritto sulla sua pagina Facebook. Antagonisti e centri sociali: ora ha imparato anche le formulette lessicali, dal berlusconismo.

La sua scorta è l’agente, quindi, alla fine. e succede a tutti i politici che si rinchiudono nella tentazione di credere alla propria visione anche quando ormai è scollegata dal resto del Paese. Matteo era quello che affrontava a viso aperto anche i suoi nemici più ostili provando ad argomentare mentre puntava allo scranno alto. Ora, invece, s’è seduto. Nudo. Imbrodato da tutti quelli che elogiano il nuovo vestito del re.

Buon martedì’.

Satira o diffamazione? Charlie Hebdo e il diritto di offendere

Dopo le vignette pubblicate da Charlie Hebdo sul terremoto che il 24 agosto scorso ha colpito il centro Italia e raso completamente al suolo la città di Amatrice è scoppiata la polemica: da un lato chi le giudica offensive e volgari, dall’altra chi risponde “ma come, non eravate tutti Charlie?”. Ora è il sindaco del paese distrutto a prendere posizione nella querelle che ha animato e anima, fin dalla scorsa settimana, testate giornalistiche e chiacchiere da bar. «La satira è una cosa e l’insulto a una comunità un’altra. Le vignette di Charlie Hebdo sono un insulto a una comunità e a un intero popolo» ha dichiarato a Repubblica il sindaco Sergio Pirozzi. Sull’onda delle dichiarazioni del primo cittadino il Comune di Amatrice ha quindi depositato, presso la procura del tribunale di Rieti, una denuncia-querela per diffamazione aggravata contro la testata francese.

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«La satira è una cosa e l’insulto a una comunità è un’altra». Ma ne siamo proprio sicuri? Siamo proprio sicuri che il diritto di offendere a cui si appella Charlie Hebdo non sia parte invece delle caratteristiche letterarie e storiche che contraddistinguono la satira? E non è che ci siamo dimenticati a cosa serve la satira tanto da confonderla con la diffamazione?
Il magazine Hara-Kiri, antenato di Charlie, fondato (come Charlie) da François Cavanna e animato (sempre come Charlie) da Wolinski, e Cabu (fumettisti tra l’altro morti nell’attentato jihadista del 7 gennaio 2015 che colpì la redazione), al momento del lancio venne definito proprio da Cavanna «bête et méchant» (stupido e cattivo). Lo stile di Charlie Hebdo oggi non è cambiato e anzi può essere spesso ricondotto alla tradizione di quello che viene definito “umorismo nero”.
Per farsi un’opinione sulla querelle terremoto e vignette è interessante leggere la definizione di humour noir, per dirlo con l’esatta espressione coniata dal surrealista André Breton nel 1935.

«un sottogenere di satira e di comicità che tratta di eventi o argomenti generalmente considerati molto seri o addirittura tabù, come la guerra, la morte, la violenza, la religione, la malattia (e quindi la disabilità), la sessualità, la diversità culturale, l’omicidio e così via».

La definizione quindi già ci dà una prima risposta: la satira, in particolare questa satira, si contraddistingue anche per il suo dissacrante sarcasmo nei confronti di temi come la morte. Terremoto incluso.
Possiamo indignarci, possiamo non essere d’accordo possiamo trovarlo di cattivo gusto e presentare una querela, ma Charlie è così. Stupido e cattivo, ci avevano avvisato.
Se si scava poi fra i saggi accademici ci si ricorda anche che il riso è definito da molti studiosi come “un atto aggressivo” e per alcuni antropologi “la fenomenologia della risata sarebbe un’evoluzione umana del digrignare i denti degli animali”. Aggressione. Nella satira c’è anche questo, certo in una forma socialmente tollerabile ma c’è. Si tratta di un’etica alla rovescia, la satira si occupa da sempre dei temi rilevanti discussi nella sfera pubblica, aggredisce le ipocrisie, dissemina piccole crude verità, deride i perbenismi e le rigidità sociali. Esercitare il “diritto ad offendere” diventa così una spinta al cambiamento, alla rottura dello status quo.
La vignetta di Charlie Hebdo sui terremotati, è sicuramente “indigesta”, ma tenta di fare proprio questo: mostrare nuovi punti di vista e sottolineare le ipocrisie sociali che frenano il cambiamento. Ipocrisie che in un Paese come il nostro si possono identificare facilmente in quella tendenza (tutta italiana) per la quale si preferisce alzare gli occhi al cielo chiedendosi perché un’intera città è crollata e un terremoto ha causato 294 morti, piuttosto che cercare dei responsabili sulla terra. E allora, ha ragione il sindaco di Amatrice certo… Charlie Hebdo è stato di cattivo gusto, ma è davvero sensato querelare la testata francese? Sono loro i colpevoli, davvero sono loro ad aver insultato un popolo? O la colpa (e l’insulto quello vero, sanguinoso) è di qualcun altro che, a differenza dei fumettisti di Charlie, non ha fatto bene il suo lavoro per mettere in atto, prima della tragedia, misure antisismiche adeguate?

Aggiornamento

Alla denuncia del comune di Amatrice infatti dai microfoni di radio France Inter Riss, attuale direttore di Charlie Hebdo, ha risposto così:

«Ci sono state tante dichiarazioni, la denuncia aspettiamo di vederla, vediamo di che si tratta. Ma non ci fa nessuna paura, di vignette come questa ne abbiamo fatte a decine, è una come un’altra, di umorismo nero. […] Abbiamo fatto in passato vignette simili su Bruxelles, sul terremoto ad Haiti e nessuno ha protestato, nessun italiano ha protestato. La morte è un tabù che qualche volta bisogna provare a trasgredire».

Caporalato, le istituzioni non si girino dall’altra parte. Visitiamo quei campi

ANSA/CLAUDIO LONGO

Come sempre, le leggi sono fondamentali. Soprattutto se sono accurate, se prevedono sanzioni congrue, se sono semplici da applicare e se i risultati a cui portano sono concreti.

Sul caporalato e sulla sua diffusione endemica, però, la legge di per sé rappresenta solo una parte della soluzione del problema. Il resto è rappresentato dalla  responsabilità di chi sa, di chi trae profitto, di chi rimane nonostante tutto indifferente. Non possiamo più prenderci in giro, né usare alibi.

Se è vero che a tutte le latitudini c’è sfruttamento organizzato, se è vero che nei ghetti di cui si parla solo per poche settimane all’anno si riscontrano violenze, stupri, scomparse di persone, non si può pensare che non vi siano responsabilità di tutti coloro che hanno la possibilità di decidere.

Davvero di fronte a questi crimini contro la persona e contro l’umanità, in cui il lavoro è scambiato con pochi soldi e ricattato con la disponibilità totale del corpo del lavoratore e della lavoratrice, nessuno di coloro che vivono in quelle comunità e di quel lavoro ha nulla da obiettare?

Quando anni fa visitai i campi dello sciopero dei lavoratori a Nardò guidato da Yvan Sagnet, molti mi dissero che si esagerava e che sì le condizioni erano inumane ma si era sempre fatto così. Quasi che fosse una condizione naturale del lavoratore guadagnare pochi euro a cassone e pagarsi tutti i servizi connessi per andare a lavorare.

Lo stesso si legge dalle cronache del Ragusano, di Rignano e di altre località più a Nord, dove si parla ancora meno ma dove il caporalato si diffonde ugualmente.

Lo Stato, le istituzioni, la Repubblica non possono girarsi dall’altra parte. Le associazioni di impresa non possono fare finta di non sapere che i loro stessi aderenti ci speculano. Le categorie professionali non possono pensare di continuare a trarre profitto dalla gestione del fenomeno. Siete, siamo tutti coinvolti.

Propongo al Presidente Mattarella di visitare, con tutti i parlamentari interessati questi luoghi e di denunciare insieme questa situazione che rende incivile tutto il paese.

Non lo facciamo solo per i lavoratori sfruttati, per le donne violate, per gli schiavi della canicola: lo facciamo per noi, per la dignità nazionale, per il lavoro di tutti. Anche di quegli italiani che pensano di potersi permettere una semplice contrapposizione con i lavoratori stranieri, ma che in realtà devono essere i primi a battersi con loro per una retribuzione dignitosa. Sfruttare gli uni serve per sfruttare anche gli altri.

 

Scuola, Giannini fa gli auguri per il “rito” del primo giorno. Ma si parte col brivido

Bambini della scuola elementare Del Piaz si preparano ad iniziare il nuovo anno scolasticoa Torino, 12 Settembre 2016. ANSA/ ALESSANDRO DI MARCO

«Stamattina milioni di studenti celebrano il rito del primo giorno di scuola. Con quel carico di aspettative e anche di preoccupazioni che il ritorno tra i banchi porta con sé. Ai nostri ragazzi, alle loro famiglie, agli insegnanti e a tutto il personale della scuola faccio i miei migliori auguri». Il ministro Stefania Giannini “celebra” così su Fb “il rito” del primo giorno di scuola.

Ma più che un rito, che stando al senso del parola significherebbe qualcosa di “sacro”, sempre uguale alla tradizione, immodificabile, il primo giorno di scuola dell’anno scolastico 2016-2017 lo potremmo definire una “partenza da brividi”. Altro che rito. A scuola, dopo un anno di legge 107, si entra con il fato sospeso. E meno male che il ministro accenna a quel “carico di aspettative e preoccupazioni” che il ritorno a scuola porta con sé…

Quest’anno infatti, nonostante la mega assunzione in ruolo di 120mila insegnanti pescati dalle graduatorie a esaurimento, il caos regna in molti istituti scolastici. È questo lo scenario che si troveranno di fronte circa 8 milioni di studenti (939mila quelli delle paritarie). Ci sono, è vero, insegnanti in più, ad alimentare quel comparto del “potenziamento” che sembra un po’ la panacea di tutti i mali. Ma sono stati “immessi” un po’ a pioggia e molte cattedre rimangono scoperte. Saranno quindi di nuovo chiamati i supplenti, che non scompaiono affatto nonostante i discorsi trionfanti di Viale Trastevere. Con il rischio quindi che le lezioni effettive partiranno non da subito, ma tra qualche mese. Secondo la Cisl i “buchi” di cattedre si aggirano tra il 20% e il 40%, per la Cgil sono 40mila gli insegnanti in bilico.

E poi ci sarà da capire come andrà la faccenda dei trasferimenti, decisi sotto il sole di agosto e, sembra ormai chiaro, sconvolti da un algoritmo “folle” che ha spedito docenti (soprattutto della primaria) lontani dalle loro sedi a vantaggio di altri colleghi con un minor punteggio. Si parla di 5mila conciliazioni, ma il numero degli errori è molto più numeroso e probabilmente saranno i tribunali ad affrontare la patata bollente. A questo proposito oggi Rino Di Meglio di Gilda informa che il 15 settembre il Miur finalmente concederà la possibilità di acquisire «la famigerata formula matematica che ha deciso le sorti di migliaia e migliaia di docenti generando numerosi errori in parte ammessi dallo stesso Miur che ha avviato una serie di dubbie conciliazioni» dice il coordinatore di Gilda.

Non solo. Anche il concorsone bandito quest’anno ha lasciato uno strascico infinito di polemiche. Innanzitutto per le modalità con cui è stato fatto, come ha spiegato questa mattina a Radio Tre su Tutta la città ne parla Sergio Govi di Tuttoscuola. «Troppo poco tempo per rispondere alle domande aperte, solo 17 minuti per quesito. Così sembra che i professori siano dei somari, ma non è vero». In pratica, la percentuale dei “bocciati” è del 50% per cento. Cosa mai vista, anche perché si tratta non di pivellini alla prima prova, ma di docenti con alle spalle l’abilitazione ottenuta già con tutti i crismi statali (Tfa, Ssis, Pas). Ma non è finita qui. Per molti vincitori non ci sono i posti. Lo spiega molto bene Tuttoscuola che scrive che il «tasso di copertura dei 63.712 posti messi a concorso è del 12%». «Il Ministero dell’istruzione ha bandito i posti per quelle discipline, ma non ha previsto i relativi posti nel decreto n. 669 del 7 settembre 2016 per le nomine in ruolo per l’a.s. 2016-17», si legge su Tuttoscuola.
Oggi la campanella è suonata in otto regioni, nei prossimi giorni nel resto d’Italia. Ma di sicuro non sarà un “rito”, piuttosto una ennesima sfida per docenti e studenti alle prese con gli effetti di una legge “fortissimamente voluta” dal governo i cui lati deboli si manifestano sempre di più.

Diario dall’assedio. La guerra all’Isis e il declino di Erbil (video)

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Prosegue il nostro viaggio nel Kurdistan iracheno a pochi chilometri dai confini del Califfato. Come è cambiata la città sede del parlamento regionale curdo a causa della guerra con Daesh?

È più grave la polmonite di Clinton o la frase sbagliata sui seguaci di Trump?

Democratic presidential candidate Hillary Clinton, center, accompanied by Sen. Chuck Schumer, D-N.Y., center left, Rep. Joseph Crowley, D-N.Y., second from left, and New York Mayor Bill de Blasio, center top, attends a ceremony at the Sept. 11 memorial, in New York, Sunday, Sept. 11, 2016. (AP Photo/Andrew Harnik)

Hillary Clinton ha la polmonite, si cura con antibiotici ed ha cancellato gli appuntamento della sua campagna elettorale per qualche giorno. Un bel problema. Specie se stai correndo per la Casa Bianca e centinaia di obbiettivi, cellulari, telecamere ti hanno ripreso mentre quasi svenivi e, da settimane, i tuoi avversari politici sostengono che hai dei guai di salute che non riveli.

Ieri, durante le celebrazioni per il quindicesimo anniversario dell’11 settembre, la candidata democratica alla presidenza degli Stati Uniti ha avuto un mancamento e poche ore dopo i suoi medici hanno reso noto che le è stata diagnosticata la polmonite. Il video è quello qui sotto ed è stato postato su twitter dall’account di uno spettatore al memorial. In un primo momento la sua campagna ha sostenuto che si trattasse di un mancamento per il caldo. Ma ieri, a Manhattan, non faceva granché caldo.

Novanta minuti dopo, Clinton usciva dall’appartamento della figlia Chelsea sorridente e pronta a dire: «Sto benissimo, non so cosa sia successo». Come vedete qui sotto. Errore, tanto più che nelle ore successive il medico ha parlato di polmonite.

È un problema che Clinton abbia la polmonite? Si e no. Il tema è quello della salute di una persona che si candida a uno dei ruoli più stressanti e faticosi del pianeta. È in grado di farlo una persona di 68 anni? Al suo ingresso alla Casa Bianca, Hillary, se eletta avrebbe gli stessi anni di Ronald Reagan (69), che è il presidente più anziano mai eletto (al primo mandato). Con i suoi 70 anni, Donald Trump, dovesse vincere lui, batterebbe il record. Nessuno dei due ha reso pubblico un vero dossier sulla propria salute. O meglio, entrambi hanno diffuso delle note dei loro medici curanti che spiegano quanto siano in forma. Della lettera del medico di Trump si è discusso molto nei giorni scorsi, il dottor Bornstein, che ha un taglio di capelli improbabile tanto quello del suo assistito, ha scritto che la salute del candidato è «Sorprendentemente ottima» e che Trump sarebbe «il presidente più sano mai eletto». Intervistato ha anche aggiunto: «L’ho scritta di corsa, ma curo Trump da anni è sta benissimo». Non esattamente un quadro diagnostico dettagliato.

La verità, come ha detto il medico curante di Obama, è che sono i presidenti giovani a non dover fornire troppe indicazioni ma che uno come Reagan, prima di fari eleggere fornì centinaia di pagine di dettagli relativi alla sua salute. Per ora è un passo che nessuno dei due candidati ha fatto. La pressione su Clinton aumenterà.

La lettera che spiega quanto sia in salute Donald Trump
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La salute di Hillary è diventata una questione – come le tasse di Trump – perché la ex Segretario di Stato non ha detto molto e blogger e troll vari della destra hanno cominciato a insinuare da settimane che Clinton nasconda qualcosa. Si tratta di esagerazioni da rete e anche questo episodio non significa granché: è pieno di candidati che vomitano, svengono, hanno un collasso. Ma in questo caso è diverso e il rumore dopo la notizia sulla polmonite e l’effetto negativo che potrebbe avere sulla sua immagine, è forte. Le voci della ricerca di un sostituto si moltiplicano – amplificate dai media che un po’ di polverone produce click sui siti, audience e copie vendute – ma appare piuttosto improbabile vedere Clinton farsi da parte dopo tanta pervicacia nel perseguire l’obbiettivo finale della sua carriera politica. Le prossime ore ci diranno quanto Clinton saprà gestire la vicenda senza negare e far finta di nulla, come tende a fare ogni volta che è in difficoltà. Un modo di comportarsi che non piace al pubblico americano e la ragione principale per cui il suo vantaggio nei confronti di Trump è ancora così poco – l’ultimo sondaggio le assegna 5 punti in più dell’avversario, ma segnala ancora una volta lo scarso entusiasmo nella base democratica.

Le ore che hanno preceduto lo svenimento sono state caratterizzate da un errore vero da parte della democratica: parlando durante un comizio Hillary ha detto che «metà dei sostenitori di Trump sono deprecabili, sono gli razzisti, sessisti, omofobici, islamofobici». Una gaffe: metà degli elettori di TheDonald sono più o meno il 15-20% degli americani e un candidato presidente non può sostenere che si tratti di gente deprecabile. Una frase così la puoi dire in privato, un concetto così lo si pensa, ma non si dice durante un comizio. Non è esattamente la stessa cosa, ma il video di Mitt Romney che parla durante un evento privato dell’1% contro il 99% è stato un colpo sulle sue aspirazioni presidenziali nel 2012. E Obama dovette chiedere scusa – come ha fatto Clinton – per una frase su “quella gente che si aggrappa al crocifisso e al fucile”.

Nel complesso, insomma, un pessimo weekend per Hillary, che non riesce a uscire dal ciclo continuo di notizie relative a salute, email, salute e guadagni della Fondazione Clinton. Il Labour Day, una settimana fa, ha dato il via vero alla campagna elettorale e a Clinton serve disperatamente un’idea forte per uscire da un circolo vizioso che, magari non le impedirà di vincere le elezioni, ma che la rende un candidato e un presidente che non entusiasma. In quasi un anno di campagna non è riuscita a far immaginare che presidente sarà, a trovare uno slogan efficace, a fare un salto di qualità. Non si può dire che sia una buona candidata.