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La Raggi nel piccolo Paese del Grande Fratello degli scortati

Rome's Mayor Virginia Raggi (C) during the ceremony for the 73rd anniversary of the defense of Rome on 8 September 1943, at Porta San Paolo (San Paolo Gate), in Rome, Italy, 8 September 2016. The September 10, 1943, Porta San Paolo was the scene of the extreme Italian army attempt to avoid the German occupation of Rome. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Mi ero riproposto di non parlarne più. Giuro. Dopo gli ultimi dieci anni sprecati a rispondere al voyeurismo della scorta avevo deciso di rimettere la questione di minacce, scorte, rischio e tutele nel cassetto degli argomenti che sono stufo di affrontare. Troppe volte mi è capitato di dovermi difendere più dai presunti onesti che dai mafiosi, troppe volte ho tentato di trasmettere cosa mi sono perso, io e la mia famiglia e i miei figli, per un dispositivo di sicurezza che appiattisce la quotidianità in uno schema di spostamenti programmati, conviventi forzati anche nei momenti più privati e onerosi strascichi da portarsi in giro.

Poi, d’altra parte, ho perso ore a raccontare che sarebbe stato bello comunque smettere di pensare che la scorta sia direttamente proporzionale alla credibilità dello scortato. Noi, che siamo un Paese strano, scortiamo direttori sportivi, imprenditori à la page, vescovi, prefetti, ministri insulsi e personaggi patetici mentre consumiamo i testimoni di giustizia in un anafettivo labirinto di carte bollate oppure permettiamo a qualche dirigente opaco di spingere qualche pentito a pentirsi d’essersi pentito.

Insistiamo nel credere di poter trovare una formula matematica per un mondo, quello di minacciati o delle persone a rischio, che contiene un universo di differenze. E così oggi tocca alla Raggi, sindaca di Roma, finire sotto i cannoni del qualunquismo: sarebbe colpevole, secondo i benpensanti, di essere stata fotografata di ritorno a casa con qualche sporta e con suo figlio. Orrore, dicono in molti: il privilegio di avere la scorta usato per scopi personali. Come se non fosse chiaro che una persona che va protetta (e va protetta la sindaca della capitale, ahivoi) debba essere preservata nei suoi momenti quotidiani, tutti. Come se non fosse chiaro che siamo in un Paese che uccide spesso con “sfortunate coincidenze” e “incidenti sincroni” e che proprio nei momenti più privati si tende ad abbassare la guardia e diventare degli obbiettivi.

Dice un pentito che a me avrebbero voluto ammazzarmi con un investimento casuale (e causale) che simulasse una morte fortuita. Dice la storia che i morti ammazzati (molti) muoiono citofonando di domenica alla madre (Borsellino), in ritardo verso un concerto (Siani), di ritorno da un aeroporto (Falcone), sulla strada per casa (Impastato), passeggiando sui propri marciapiedi (Ambrosoli). Ma qui no. Adesso, no. Adesso essere protetti deve per forza essere sinonimo di un odioso privilegio che non meriterebbe nessuno e così qualcuno può pensare che una madre non veda l’ora di stare sola con il proprio figlio con estranei. Che sia bello, pensano loro. E anche la Raggi finisce nel tritacarne. L’umanità, al solito, costa troppa fatica. Avanti così.

Buon lunedì.

(p.s. Di Battista, almeno, si renderà conto di quanto è stato superficiale in passato su questo argomento. Almeno)

Quando il troll è politico. Quattro mini-ritratti

troll_leghistaIL RUSPANTE LEGHISTA

Fedele di Matteo Salvini che con le sue ruspe promette via social di regalarci un mondo finalmente libero da migranti fannulloni mantenuti a spese degli italiani, rom e diktat europei. Lotta per costruire muri contro l’invasione, dà profondità linguistica al suo pensiero distinguendo fra clandestini e non, cita Farage e Le Pen. Bersagli preferiti: gli stranieri (che rubano lavoro), i politici di sinistra (che vogliono trasformare l’Italia in una colonia africana). Feticci: la felpa con nome di città, Putin uomo forte, fico e virilissimo.

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L’UOMO QUALUNQUE A 5 STELLE

Cita Beppe Grillo, scova complotti (che ci vogliono nascondere) nei siti più torbidi del web, sa tutto sulle scie chimiche che avvelenano l’aria, insulta i giornalisti servi del potere che inquinano la verità, smaschera politici corrotti e arraffoni, combatte le lobby (anche quella dei malati di cancro), inneggia alla democrazia diretta e al potere della rete. Bersagli preferiti: i piddini, il Pd meno elle, Berlusconi “il nano” prima, Renzi ora e poi tutti gli altri non grillini. Feticci: Gianroberto Casaleggio, la decrescita felice, il Blog, da intendersi come entità superiore in grado di disvelare le verità ultime della vita terrena.

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IL TROLL PIDDINO

Figura a metà fra realtà e fantascienza. Viene alla luce grazie a un post-j’accuse di Grillo intitolato “Schizzi di merda digitali” dove si accusava il Pd di pagare dei commentatori per trollare i 5stelle. D’altronde il movimento ha segnato un cambio di passo nella comunicazione web dei dem che sono corsi ai ripari organizzandosi in gruppi dai nomi epici come “300 spartani”. Oggi, nei tempi bui dell’era Renzi  spesso sui social c’è da difendere l’indifendibile: Jobs Act, Buona Scuola, Italicum e riforma del Senato. Cavalli di battaglia da sfoggiare: viva le riforme, è la volta buona, con Renzi siamo all’ultima spiaggia, abbiamo preso il 40,8%. Segni particolari: colpiscono e uccidono a colpi di hashtag, spesso coniati proprio dal segretario-premier, ricordate #staisereno?

IL GAFFEUR CANDIDATO ALLA CASA BIANCA

Più che troll, Donald Trump, è un disastro e una star di twitter: polemizza usando toni eccessivi e, poi, ricordandosi di essere candidato alla Casa Bianca, fa marcia indietro. Ma intanto ha 11 milioni di follower – molti potrebbero essere non veri. Ogni stratega elettorale intervistato però consiglia: toglietegli quell’account dalle mani o licenziate chi lo gestisce. La caratteristica di @RealDonaldTrump è quella di uno che non le manda a dire e colpisce sotto la cintura. Come nello scontro con Joe Scarborough, conduttore di Morning Joe, su Msnbc. A “Morning Joe” Trump da dello squilibrato in preda a una crisi di nervi, rivela della sua relazione con la conduttrice Mika Brzezinski e ricorda a tutti come lo share della trasmissione sia in calo. Se sia vero o meno non conta. Nei tweet in cui ci si riferisce a Clinton, non manca mai il nomignolo “crooked”, (corrotta, disonesta). La gaffe più grave è forse quella di un fotomontaggio in cui si usava una stella ebraica gialla per insultare Hillary. Ma ha importanza? Forse no: il successo di Trump è dovuto al fatto che chi lo vota ha sempre detto che gli piace perché “parla come me”. Ecco, in una rete popolata da troll ed hate speech, Trump parla proprio come molti altri.

Questo articolo lo trovi su Left in edicola dal 10 settembre

 

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La fecondità non è un bene comune. È un bene individuale inalienabile

Riconosciamo alla ministra Lorenzin e alla sua consulente per la campagna sulla fecondità il beneficio delle buone intenzioni. È positivo considerare la salute riproduttiva un tema rilevante all’interno delle politiche della salute, e cercare di fornire informazioni utili perché ciascuno possa decidere al meglio della propria fecondità, o, nel caso di problemi, possa conoscere le opzioni possibili. Ciò che non va bene è dare l’idea che la bassa fecondità italiana sia prioritariamente la conseguenza vuoi di una scarsa “cura” che donne e uomini hanno del proprio potenziale fecondo, vuoi di egoismo. Nel “piano nazionale per la fertilità”, di cui il “fertility day” dovrebbe essere l’evento simbolo, infatti, si auspica “un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione”. Ed è sperabile che questo “capovolgimento” non avvenga. Perché generare è operazione ben più complessa e di lungo periodo del procreare (e possono esserne capaci anche le persone non feconde). Perché il desiderio di generare è innanzitutto un fatto individuale, che può divenire anche un desiderio di coppia. E la società può sostenerlo, riconoscerlo, accompagnarlo, ma non può porre se stessa, il proprio bisogno di riprodursi, come fine delle scelte di fecondità.
Contrariamente a quanto affermato in uno degli slogan ministeriali, la fecondità non è un bene comune, tantomeno un bene da utilizzare per il bene comune. La fecondità e la salute riproduttiva sono beni individuali inalienabili. Bene comune (una risorsa preziosa da salvaguardare e su cui investire), possono essere i bambini e i giovani, comunque siano entrati nella nostra società: per procreazione da parte di autoctoni o di immigrati o come migranti essi stessi o per adozione, da un genitore solo o da una coppia, da una coppia di persone di sesso diverso o dello stesso sesso. Non la procreazione. Ma qui tocchiamo un’altra debolezza della infelice campagna: il suo essere fuori contesto, come se le decisioni di fecondità si prendessero in condizioni sociali neutre, che non pongono nessun vincolo. È vero che non tocca alla ministra Lorenzin occuparsi delle politiche di sostegno all’occupazione femminile e giovanile, alle famiglie o dei servizi per l’infanzia e della scuola. Ma un po’ di coordinamento non guasterebbe e invece di lamentarsi con le donne giovani che non fanno figli, dovrebbe lamentarsi con i suoi colleghi di governo per le politiche che rendono difficile alle donne (e anche agli uomini) giovani decidere di avere un figlio. Stia poi nel suo ambito, dove c’è molto da fare, senza pretese di dare lezioni di morale o di spiegare le “bellezze della maternità”, identificate con la sola fecondità e censurando la paternità.
Il Piano nazionale sulla fertilità contiene aspetti positivi che andrebbero valorizzati e tradotti in politiche concrete a tutela dei diritti sessuali e riproduttivi. Ad esempio, visto che la prevenzione è così importante, perché non fornire gratuitamente e precocemente controlli periodici a uomini e donne su aspetti che, se identificati in tempo, potrebbero incidere sulla fecondità? E se il desiderio di generare merita di essere sostenuto, perché non facilitare concretamente l’accesso alle tecniche di riproduzione assistita per chi ha problemi di fecondità? Ancora, invece di inventarsi “villaggi della fertilità” o un Fertility game per i ragazzi, che di moderno ed evoluto ha solo l’ossessione per l’inglese, sarebbe più utile che si avviasse una sistematica collaborazione tra scuole e consultori al fine di offrire ai bambini e ragazzi una educazione sessuale seria, perché imparino a conoscere il proprio corpo (non solo la capacità riproduttiva) e a comprendere la sessualità, per viverli con agio, serenità e rispetto.

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La grande riforma dei luoghi comuni. Parla il costituzionalista Andrea Pertici

Abbracci e saluti per il MInistro delle Riforme Maria Elena Boschi alla Camera dei Deputati dopo il voto finale del disegno di legge sulle Riforme Costituzionali, Roma, 12 Aprile 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Andrea Pertici è professore di Diritto costituzionale all’Università di Pisa ed è consulente giuridico. Ha appena scritto per Lindau La Costituzione spezzata, in cui analizza i temi rilevanti del dibattito attorno al referendum costituzionale.

Cosa c’è che non va bene nella “grande” riforma della Costituzione?
Come dice Pizzorusso sempre ne La costituzione ferita, nemica delle riforme che servono è proprio la “grande riforma” perché questo determina che si mettano dentro un sacco di cose, alcune delle quali possono essere utili altre no, altre addirittura dannose. Ricordiamoci quella del centrodestra del 2006, davvero c’era dentro di tutto. La propaganda la presentava come una riforma che riduceva il numero dei parlamentari, ma questo era un aspetto del tutto marginale. Nel testo si prevedeva dal cambiamento della forma di governo alla modifica del bicameralismo. E lo stesso vale per la riforma di oggi.

Quali sono i principali luoghi comuni da sfatare sulla riforma Boschi?
Intanto la riduzione dei costi della politica. Si sono sparate cifre enormi, si è detto che si sarebbero risparmiati un miliardo, poi 500 milioni di euro. Per fortuna una nota della Ragioneria dello Stato, che è un organo interno al governo, quantifica il risparmio in 58-60 milioni al massimo.
Poi viene rilanciata in continuazione la questione della semplificazione, ma qui c’è un equivoco di fondo. L’Italia ha bisogno sì di semplificazioni ma nel funzionamento delle pubbliche amministrazioni, così come ha bisogno di un’amministrazione della giustizia più efficiente. I problemi nel rapporto tra potere pubblico e cittadino non vengono certo dal fatto che le leggi debbono passare dalla Camera e dal Senato. Peraltro, il Servizio studi servizio della Camera dei deputati ha evidenziato come al 30 giugno 2016, di 224 leggi approvate, 180 lo siano state con un solo passaggio alla Camera e uno al Senato.

Perché la riforma non semplifica a proposito di formazione delle leggi?
Mantiene molte leggi bicamerali esattamente come oggi e tra le altre, che seguono diversi procedimenti, quelle che verranno richiamate dal Senato dovranno poi tornare necessariamente alla Camera, quindi i passaggi da due diventeranno tre, senza tempi certi (tranne per il passaggio in Senato). Per di più una parte degli studiosi ritiene che la Camera possa comunque modificare di nuovo il testo, per cui il ping pong rimarrebbe in pieno. L’unica disposizione che introduce un termine è quella del voto a “data certa” per le proposte del governo. Ma allora diciamo la verità: qui non si tratta di semplificazione, è solo lo spostare il potere legislativo verso il governo. Che tra l’altro, mantiene sia i decreti legislativi che i decreti legge, non presenti in altri ordinamenti.

Ma è vero che la riforma costituzionale “ce la chiede l’Europa”?
Questo è un altro luogo comune. Se prendiamo documenti internazionali come uno studio Ocse del 2014 – tra l’altro citato dal governo durante un dibattito parlamentare – o il recente bollettino Bce n. 5/ 2016, vediamo che le riforme chieste all’Italia riguardano soluzioni per garantire la concorrenza, oppure la lotta alla corruzione: questi sono i parametri per cui un sistema può migliorare la propria efficienza.

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Nei campi d’italia è guerra fra poveri

Thursday, May 7, 2015. Colorful plastic boxes lie evenly spaced on a freshly turned field, ready to be filled with potatoes destined for the plates of diners across Europe. The 14 men lining up to pluck them from the rich soil of eastern Sicily are almost all newcomers to a continent where many eye them with a mix of pity and suspicion. The desperate quests of record numbers of migrants to cross the Mediterranean and reach Europe have been well-documented. But few know that those who make it here often spend years trapped in an immigration limbo where the only way to make money is to do the back-breaking farm labor that locals shun _ but which is critical to feeding the continent. (AP Photo/Antonio Calanni)

A farci caso, nei campi le orme degli scarponi dei braccianti sono enormi, come fossero state lasciate soltanto da uomini. Il racconto del lavoro femminile sparisce con la levità del passo delle raccoglitrici. Eppure, in una provincia come quella di Taranto, il grosso della manodopera agricola è donna: donna italiana e donna straniera.
«Tu la devi finire di venire qua!», urla Maria alzando la voce affinché la senta anche il caporale. Maria è una cinquantenne italiana bassa e tarchiata di Massafra. Una caposquadra che ha imparato il mestiere abbandonando la scuola per portare a casa uno stipendiuccio in più. «Quando io già faticavo, tu manco eri nata!», urla Maria in faccia a Catrina, una bracciante rumena sulla trentina.
Le due donne si squadrano. Si fissano. A differenza degli uomini, non vanno direttamente alle vie di fatto. Aspettano, prima di toccarsi, di farsi davvero del male con le parole.
«Io non ti ho fatto niente. Se il capo mi ha detto di venire da te, che c’è di male?».
«E dalli co’ stu capu! Qua comando io, e tu non ci vieni con le mie commare».
Le commare sono le giovani raccoglitrici italiane della squadra di Maria, che non è un caporale ma è la più esperta. Una lavoratrice molto affidabile, che sa come scegliere altre lavoratrici e come coordinarle al servizio di un caporale. È questo il solo modo che ha Maria per conservare un posto altrimenti assegnato a un’altra.
«Il capo ha detto così, Maria».
Maria non ne vuol sapere. È risoluta a non far entrare la rumena nella sua squadra, perché teme che a furia di ingolfare con sangue straniero i campi, lei e le altre italiane saranno chiamate – e pagate – sempre meno.
«Non farmi questo», la implora Catrina.
Maria non si lascia impietosire.
«Tu mi abbassi la giornata».
La giornata è la paga quotidiana. Il pane che ciascuna porta a casa. Maria non può rinunciarci. Suo marito è stato licenziato da una fabbrichetta che lavorava nell’indotto dell’Ilva. Ha due figlie e non vuole che facciano le schiave come lei. Le sta facendo studiare. Catrina, invece, era insegnante in Romania. Viene dal distretto di Botosani, uno dei più poveri d’Europa… Un luogo dove se sei bella finisci nei night, se sei onesta nei campi pugliesi o negli alberghi di Rimini.
«Se mi cacci che faccio io?».
«Non me ne frega. Tornatene a casa tua».
Catrina stringe i pugni. Casa sua è ormai l’Italia. Palagiano, Taranto. A casa sua non ci vuol tornare, perché non ha più senso. La sua vita è appesa alla volontà di una sua collega più matura e più rozza. Si percepisce una distanza culturale, tra le due, che non dovrebbe esistere, perché sono schiave entrambe. Le colloca un caporale. Le conduce a raccogliere fragole nel metapontino, dieci ore di schiena curva per ventotto euro. Due euro e ottanta centesimi l’ora per arricchire i più grandi produttori di frutta del territorio e i più tenaci caporali pugliesi, quelli del tarantino appunto.

Firma la petizione di Left contro il caporalato qui

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Le autocritiche di Grillo e di Napolitano. Caffè del 10 settembre 2016

Germania all’attacco del fronte sud, scrive la Stampa. “Tsipras è tornato ai suoi soliti giochetti”, ha detto infatti il bavarese Manfred Weber, commentando il vertice che il premier greco ha voluto ad Atene con i partiti socialisti dei sette paesi che si affacciano sul Mediterraneo, vertice cui hanno partecipato anche Hollande e Renzi. “Nuove richieste continue da parte di Atene -ha proseguito Weber- non portano da nessuna parte”. “Quando si incontrano i leader socialisti -ha rilanciato Wolfgang Schäuble- per lo più non ne viene fuori niente di intelligente”. Poi il ministro delle finanze tedesche se l’è presa con Draghi: è la sua politica espansiva, ha detto, ad aver provocato “un chiaro calo” del cambio dell’Euro. E da qui deriverebbe -da una una proterva politica tedesca che drena risorse dal sud al nord dell’Europa- lo scandaloso surplus commerciale della Germania. Ricordo che Draghi aveva invitato la Germania a investire di più, sostenendo che viola le regole europee sia chi spende il denaro che non ha sia chi non spende quello di cui dispone. Insomma le due destre interne al partito della Merkel, Schäuble e l’ala bavarese tirano la giacca alla cancelliera e sfidano la BCE. Renzi si dice soddisfatto, sottolinea “ora anche Hollande è con noi”, ma non spiega affatto se intende appoggiare le richieste di Atene -ristrutturazione del debito, più investimenti- già al prossimo vertice di Bratislava o se pensa di continuare a fare il furbo per lucrare un bonus dello zero virgola da inserire in finanziaria.
Effetto Raggi, Il Pd supera M5S titola Repubblica. Il sondaggio, commentato da Ilvo Diamanti, dice che il movimento fondato da Grillo sarebbe oggi votato dal 28,8% degli elettori, il partito di Renzi dal 32,1%. In caso di ballottaggio il Pd prevarrebbe di un’incollatura, 50,8% contro 49,2 dei 5 Stelle. “Il confronto resta apertissimo” chiosa Diamanti. Quanto al referendum, “il Sì, oggi, prevarrebbe di pochi punti. E anche se Renzi sta cercando di ridimensionarne la connotazione “personale”, continua a percepirlo come una verifica politica diretta. Su di lui e il suo governo”. Semmai, spiega Diamanti, il problema del No è che “non dispone di figure in grado di imprimere una spinta propulsiva determinante”. Non Massimo D’Alema, il cui livello di consensi è molto limitato: 24%. Meno di Silvio Berlusconi e Stefano Parisi.
Autocritiche, a mezza bocca. Il Corriere pubblica una lettera di Beppe Grillo. Dopo aver denunciato “l’inconsistenza assoluta delle stupidaggini che vengono discusse da trombatissimi pantaloni… che straparlano nelle puntate di Vespa”, Grillo ammette: “non siamo perfetti”. Bene. Purtroppo l’ideologia del Movimento, come ben spiega su Repubblica Piero Ignazi, è proprio di aver rivendicati una pretesa perfezione delle “regole” del movimento, l’aver brandito la purezza e l’innocenza come un’arma assoluta”. Grillo ora comprende che “la mitologia egualitaria dei grillini (corroborata dalla “piattaforma digitale” intitolata a Jean Jacques Rousseau) sta naufragando”? Se sì, benvenuto Beppe tra chi fa politica, senza pretendere che il mondo intero si debba inginocchiare ai suoi piedi. Repubblica intervista, invece, il presidente emerito Giorgio Napolitano, il quale corregge Renzi e sostiene che la riforma costituzionale non è la sua riforma anche se definisce “assurda la guerra contro la riforma”. Poi Napolitano contesta l’Italicum che “rischia di consegnare il 54% dei seggi a chi al primo turno ha preso molto meno del 40% dei voti”. E aggiunge niente meno che la minoranza Pd: “C’è in questo momento una sola iniziativa sul tappeto, è di esponenti di minoranza del PD tra i quali Speranza ed è una proposta degna di essere considerata, insieme ad eventuali altre”. Naturalmente Napolitano avrebbe potuto accorgersi che l’Italicum tradiva in modo staccato il principio della rappresentanza, anche quando sembrava che dovesse vincere Renzi. Non solo ora che così potrebbe non essere. Autocritica, piuttosto tardiva.
Kerry e Lavrov ci provano. Nella notte russi e americani hanno raggiunto l’accordo per una tregua in Siria. Dovrebbe partire lunedì e se reggesse almeno una settimana, annuncia il segretario di stato di Obama, le forze statunitensi coopereranno con quelle russe nella lotta contro lo stato islamico. Se funzionasse, la tregua darebbe un po’ di conforto ai civili in trappola ad Aleppo e metterebbe nell’angolo gli assassini all’ingrosso del sedicente califfo.

Se Regeni diventa muffa

Su Regeni mi viene in mente che siamo un Paese che sembra non riuscire ad avere una memoria lunga. Per allenarsi alla memoria lunga serve consapevolezza, conoscenza, schiena dritta ma soprattutto un’instancabile voglia di verità mentre l’Italia è un paese dalla voglia di verità stancabilissima. Non è tanto una questione di governi ma soprattutto una questione di cultura. Anche politica, in realtà: prendersi la responsabilità di “tenere su” un argomento anche quando non è più sull’onda della popolarità può essere un esercizio che non porta consenso ma che definisce un politico maturo.

Su Giulio Regeni alla fine comincia a comparire la muffa: quando una storia finisce nel recinto delle “battaglie per i diritti umani” significa (si può dire?) fuori dai giri della comunicazione pop, quella che urla tutte le mattine l’agenda delle nostre preoccupazione e che, soprattutto, cancellano i tormenti che il potere non vuole che ci tormentino.

Giulio Regeni è stato sbolognato con un tweet, un po’ di dispiacere preconfezionato e un inchino all’Egitto. Dicono che la marginalità sia il miglior detonatore per evitare cambiamenti eppure c’è un pezzo di Paese che continuerà a scriverne, parlarne, chiederne, indignarsi, alzare la voce, cercare le prove: Giulio non diventerà una ricerca su google. Giulio, anche da morto, lo vogliamo in piedi.

A costo di rovesciare i potenti. Come succede in giro per il mondo. Non si può mica sabotare, la memoria.

Buon sabato

(ps: sì, lo so, il sabato il buongiorno non dovrebbe esserci. Ma sinceramente possiamo anche scrivere un pezzo regalato per non sentirsi complici. O no?)

«Se vince il No crolla Mps? Un ricatto pilotato»

A view of a ' Monte Dei Paschi di Siena ' bank branch in Milan, Italy, Monday, Aug. 1, 2016. Shares in troubled Italian bank Monte dei Paschi di Siena have jumped as investors cheer a rescue deal from private investors that means the bank will not be nationalized. Monte dei Paschi was by far the worst performer in stress tests of 51 European banks but sought to head off any speculation about its future with the announcement late Friday of a 5 billion euro ($5.6 billion) capital injection from investors. (ANSA/AP Photo/Antonio Calanni) [CopyrightNotice: Copyright 2016 The Associated Press. All rights reserved. This material may not be published, broadcast, rewritten or redistribu]

«La vittoria del No al referendum costituzionale che affosserebbe il Monte dei Paschi? È un ricatto pilotato», commenta così Giulio Marcon, deputato di Sinistra italiana, la notizia che oggi Repubblica sbandierava nelle pagine di economia con il titolo altisonante: “L’ombra referendum su Siena”. Secondo il quotidiano, «al voto del referendum è legata anche la ricapitalizzazione da 5 miliardi del Monte dei Paschi in cui si stanno impegnando Jp Morgan e Mediobanca». Da qui la volontà di “farsi sentire” da parte dei colossi Morgan Stanley e Goldman Sachs con studi e ricerche, si legge sempre su Repubblica. Ed ecco il “verdetto” di Morgan Stanley: «Noi pensiamo che una vittoria del No andrà a influenzare le banche italiane, creando difficoltà per la ristrutturazione di Mps e un rischio di contagio per tutto il settore bancario europeo», si legge sul quotidiano.  Parole pesanti come il piombo.

«È chiaro che il tracollo del Monte dei Paschi sarebbe un fattore importante di crisi sia a livello nazionale che per il sistema bancario europeo. Ma dietro a un’informazione allarmistica di questo genere c’è sempre il sospetto di una manina che gestisce la comunicazione, a vantaggio di chi vuole vinca il si», replica Marcon. È un allarmismo strumentale che non ha fondamento, continua il deputato. «Sulla vicenda Monte dei Paschi il governo sarà costretto a interventi e quindi non ci sarebbe lo scenario paventato da Morgan Stanley sui rischi della ricapitalizzazione e sul futuro del Mps».
Poi Marcon cita un altro caso di referendum che ha tenuto tutti – banche comprese – con il fiato sospeso. «Sulla vicenda Brexit c’erano tante paure rispetto ai mercati internazionali e alla tenuta dell’euro poi rivelatesi assolutamente infondate».

Dalla Siria al Kirghizistan. Le foto più belle della settimana

Un ragazzo palestinese si siede accanto al suo bagaglio in attesa di attraversare il confine con l'Egitto, al valico di confine di Rafah nel sud della Striscia di Gaza. (AP Photo / Khalil Hamra)
Un ragazzo palestinese si siede accanto al suo bagaglio in attesa di attraversare il confine con l’Egitto, al valico di confine di Rafah nel sud della Striscia di Gaza. (AP Photo / Khalil Hamra)

5 settembre 2016. Due uomini guardano l’incendio da una piscina mentre brucia il vicino villaggio Benitachel, Spagna. Una foresta in fiamme vicino a Valencia ha costretto l'evacuazione di circa 1.000 persone. (AP / Alberto Saiz)
5 settembre 2016. Due uomini guardano l’incendio da una piscina mentre brucia il vicino villaggio Benitachel, Spagna. Una foresta in fiamme vicino a Valencia ha costretto l’evacuazione di circa 1.000 persone. (AP / Alberto Saiz)

05 Settembre 2016. Douma, periferia di Damasco, Siria. Uomini del Jaysh al-Islam, l’esercito dell'Islam, bruciano pneumatici, lana e legno per creare nuvole di fumo al fine di offuscare e disturbare la visuale ai cecchini della zona di Tal al-Siwan nella città in mano ai ribelli. (EPA / MOHAMMED BADRA)
Douma, periferia di Damasco, Siria. Uomini del Jaysh al-Islam, l’esercito dell’Islam, bruciano pneumatici, lana e legno per creare nuvole di fumo al fine di offuscare e disturbare la visuale ai cecchini della zona di Tal al-Siwan nella città in mano ai ribelli. (EPA / MOHAMMED BADRA)

05 Settembre 2016. Francoforte sul Meno, Germania. Una vista della torre 'Rententurm' vista dal Museo Storico, di fronte ai grattacieli parzialmente illuminati delle banche. Torri antiche e torri moderne. La torre 'Rententurm’ è stata costruita nel 1456. (EPA / FRANK RUMPENHORST)
Francoforte sul Meno, Germania. Una vista della torre ‘Rententurm’ vista dal Museo Storico, di fronte ai grattacieli parzialmente illuminati delle banche. Torri antiche e torri moderne. La torre ‘Rententurm’ è stata costruita nel 1456. (EPA / FRANK RUMPENHORST)

05 settembre 2016. Bishkek, Kirghizistan. Donne Kirghizistan su un'altalena mentre assistono con le loro famiglie ai secondi Giochi Mondiale dei Nomadi in Čolponata. Le squadre provengono dall’Azerbaigian, dal Kazakistan, dalla Mongolia, e dal Tagikistan. La missione dei giochi è di promuovere il rilancio e la conservazione del patrimonio storico dei popoli nomadi della civiltà mondiale. (EPA / IGOR Kovalenko EPA / IGOR Kovalenko)
Bishkek, Kirghizistan. Donne Kirghizistan su un’altalena mentre assistono con le loro famiglie ai secondi Giochi Mondiale dei Nomadi in Čolponata. Le squadre provengono dall’Azerbaigian, dal Kazakistan, dalla Mongolia, e dal Tagikistan. La missione dei giochi è di promuovere il rilancio e la conservazione del patrimonio storico dei popoli nomadi della civiltà mondiale. (EPA / IGOR Kovalenko)

6 settembre, 2016. Kabul, Afghanistan. Un uomo afghano guarda dalla finestra rotta del centro commerciale dopo l’attacco suicida. I militanti hanno preso d'assalto un edificio che ospita un'organizzazione internazionale di aiuti a Kabul, provocando uno scontro a fuoco durante la notte con le forze di sicurezza. (AP / Rahmat Gul)
6 settembre, 2016. Kabul, Afghanistan. Un uomo afghano guarda dalla finestra rotta del centro commerciale dopo l’attacco suicida. I militanti hanno preso d’assalto un edificio che ospita un’organizzazione internazionale di aiuti a Kabul, provocando uno scontro a fuoco durante la notte con le forze di sicurezza. (AP / Rahmat Gul)

6 settembre, 2016. Hanoi, Vietnam. I membri della guardia d'onore si preparano per l'arrivo del presidente francese Francois Hollande a Palazzo Presidenziale. (AP Photo / Minh Hoang, Pool)
Hanoi, Vietnam. I membri della guardia d’onore si preparano per l’arrivo del presidente francese Francois Hollande a Palazzo Presidenziale. (AP Photo / Minh Hoang, Pool)

06 Settembre 2016. Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza. Un ragazzo si affaccia da un buco del suo armadio provocato, presumibilmente, dai carri armati israeliani. (EPA / MOHAMMED SABER)
Beit Hanun, nel nord della Striscia di Gaza. Un ragazzo si affaccia da un buco del suo armadio provocato, presumibilmente, dai carri armati israeliani. (EPA / MOHAMMED SABER)

7 settembre, 2016. Rio de Janeiro, Brasile. Un momento della cerimonia di apertura dei Giochi Paralimpici di Rio 2016 allo Stadio Maracanã. (AP Photo / Silvia Izquierdo)
7 settembre, 2016. Rio de Janeiro, Brasile. Un momento della cerimonia di apertura dei Giochi Paralimpici di Rio 2016 allo Stadio Maracanã. (AP Photo / Silvia Izquierdo)

A police officer looks up at protesters on top of a building, as he helps block demonstrators from a National Electoral Council (CNE) office in Los Teques on the outskirts of Caracas, Venezuela, Wednesday, Sept. 7, 2016. Venezuelans are marching in cities across the country to demand authorities allow a recall referendum against President Nicolas Maduro to go forward this year. (AP Photo/Ariana Cubillos)
Caracas, Venezuela. Un agente di polizia guarda in alto verso la cima di un palazzo dove si trova un gruppo di manifestanti durante una delle proteste che hanno invaso le città di tutto il paese. I dimostranti chiedono alle autorità di consentire un referendum revocatorio contro il presidente Nicolas Maduro. (AP / Ariana Cubillos)

8 settembre, 2016. Mosca, Russia. Una giovane donna con un palloncino cammina attraverso una strada di sole subito dopo una pioggia. I residenti della capitale russa stanno assaporando gli ultimi giorni di caldo prima delle pioggie di autunno. (AP / Alexander Zemlianichenko)
8 settembre, 2016. Mosca, Russia. Una giovane donna con un palloncino cammina attraverso una strada illuminata dal sole subito dopo una pioggia. I residenti della capitale russa stanno assaporando gli ultimi giorni di caldo prima delle pioggie di autunno. (AP / Alexander Zemlianichenko)

8, settembre 2016. Jammu, India. Bambini della scuola indiana all’aperto gestita dal governo. (AP / Channi Anand)
Jammu, India. Bambini della scuola indiana all’aperto gestita dal governo. (AP / Channi Anand)

09 Settembre 2016. Monchique, Portogallo. Un elicottero rilascia il suo carico di acqua, nel tentativo di spegnere un incendio boschivo attivo da giorni nella zona di Serra de Monchique. (EPA/JOSE SENA GOULAO)
09 Settembre 2016. Monchique, Portogallo. Un elicottero rilascia il suo carico di acqua, nel tentativo di spegnere un incendio boschivo attivo da giorni nella zona di Serra de Monchique. (EPA/JOSE SENA GOULAO)

Gallery a cura di Monica Di Brigida

Facebook e la censura: chissà se gli algoritmi sognano donne nude

C‘è stato un tempo in cui gli americani, per sapere cosa succedeva nel mondo, accendevano la televisione e aspettavano che Walter Cronkite andasse in video in diretta. Dalla sua voce rotta hanno saputo di Kennedy e dalla sua voce entusiasta hanno saputo dello sbarco sulla luna. Voci autorevoli come quella, vissute come neutrali e autorevoli dal pubblico, ce ne erano in ciascun Paese. Gli italiani ascoltavano in Tg1 delle otto di sera, i britannici la Bbc. E così via.

Il panorama è leggermente cambiato. Tv via cavo e, soprattutto internet hanno moltiplicato le voci, segmentate, rese più approfondite in qualche caso, più partigiane, molto spesso, meno autorevoli per il pubblico generale. Tutti scegliamo un po’ a caso, non pagando e distrattamente, dalla scrivania, dal cellulare, dal tablet e non seguiamo percorsi pensati da chi lavora alle notizie ma, più o meno i nostri. L’unica cosa che somiglia a Walter Cronkite, nel senso che seleziona e rilancia le notizie degne di nota, decide cosa, quanto e come conoscere le notizie e con che taglio, oggi sono delle macchine. O meglio, degli algoritmi.

Il consumo di notizie attraverso i social network negli Stati Uniti

About 6-in-10 Americans get news from social media
Come quello che ha deciso che la foto di bambini vietnamiti in fuga dal napalm scattata da Nick Ut nel 1972 andava eliminata perché raffigurava delle nudità. La foto era inclusa in un post del giornale norvegese Aftenposten che parlava di sette foto che hanno cambiato il nostro modo di percepire la guerra. Dopo un ammonimento, una lettera di risposta che spiegava che la censura era una sciocchezza, il profilo dello scrittore norvegese Tom Egeland, che ne scriveva, è stato sospeso e la foto cancellata dalla pagina del quotidiano.

La risposta è una lunga lettera pubblicata da Aftenposten (che oggi avrà un record di contatti da tutto il mondo) nella quale il direttore e amministratore delegato Espen Egil Hansen spiega di essere preoccupato per il destino dell’informazione nell’era in cui Facebook (e Googlenews) selezionano in larga parte ciò che vediamo, leggiamo, come ci informiamo. Scrive Hansen:

Ascolta, Mark, questo è grave. Prima create regole che non distinguono tra la pornografia infantile e famose fotografie di guerra. Poi mettete in pratica le regole senza lasciare spazio per il buon senso. Infine censurate le critiche e la discussione in merito alla decisione – e punite la persona che osa esprimere critiche.

 

Quello del rapporto tra social network, censura e notizie è cruciale. Facebook ha licenziato i 26 moderatori che filtravano il feed e selezionavano gli articoli, c’è ancora qualcuno a verificare che ci sia connessione tra l’articolo pubblicato e la realtà, ma poco di più. Il risultato è stata la diffusione di una notizia falsa tra gli articoli visualizzati in alto nel feed – lo schierarsi in favore di Clinton della conduttrice di Fox News Megyn Kelly, che ha litigato con Trump durante un dibattito delle primarie.

La vicenda ha fatto scalpore, ma è solo la punta clamorosa di un iceberg enorme. Facebook censura senza criterio, come è il caso della foto vietnamita (o de “L’Origine del mondo” di Courbet), seleziona le notizie senza criterio – e nonostante una policy annunciata secondo la quale si sarebbe limitato l’accesso e la visibilità a quei siti che fanno clickbait, ovvero caccia al click sparando notizie false o deformate – non sempre aiuta le sue centinaia di milioni di utenti a saperne di più. Il social network non era nato così e non è stato pensato come strumento di informazione, ma vuole diventarlo. E anche se Mark Zuckerberg ripete ossessivamente che la sua è una piattaforma tecnologica e non una compagnia che produce informazione, il ruolo da oligopolista assunto da Facebook, così come da Google, nel settore chiama a responsabilità enormi. Come scrive il direttore di Aftenposten, censurare un nudo in Norvegia e in Pakistan allo stesso modo non ha granché senso. Questo è l’esempio più ovvio, ma ce ne sono migliaia e molti non ci vengono in mente: il tema è delicato e cambia di continuo, nuovi nodi, questioni si apriranno e il fatto che a Menlo Park sostengano di non voler sapere nulla di news è un po’ fare orecchie da mercante, far finta di non avere il ruolo che di fatto cerca di svolgere proprio fornendo strumenti e incentivando i media a pubblicare, gestire pagine, contenuti, video sulla piattaforma.

L’informazione, per quanto più libera e accessibile, sia dal punto di vista della fruizione che da quello della produzione e diffusione, è una materia delicata da trattare. Non è un problema solo e tanto di un settore in crisi per il quale nessuno ha ancora individuato una strada per tornare a essere economicamente sostenibile, ma un problema di democrazia. L’idea che a gestire il flusso di informazione siano dei logaritmi pensati da persone che non si occupano di notizie e che per di più si vivono e presentano come soggetti neutrali, come macchine trasparenti, è un problema grande, grave e serio. Qualsiasi cosa si pensi della vulgata sui giornalisti venduti così di moda nel nostro Paese.