
La battaglia per Mosul e Raqqa sembra essere giunta a un momento chiave. La prima corrispondenza video di una serie che racconterà la battaglia per la presa delle capitali del Califfato.

La battaglia per Mosul e Raqqa sembra essere giunta a un momento chiave. La prima corrispondenza video di una serie che racconterà la battaglia per la presa delle capitali del Califfato.
Immaginate Pj Harvey aggiungete qualche goccia di St. Vincent (soprattutto per la scelta di sfoggiare nei primi due video dei capelli bianco-argentato), un po’ di folk, un pizzico di Lana Del Ray e di quell’indie che piace tanto ai millennials. Mescolate il tutto con sonorità nostalgiche rubate agli anni 80, ai giri di chitarra dei Nirvana, a qualche canzone anni 50 e 60 ed ecco, vedrete apparire all’orizzonte Angel Olsen, nuova promessa della musica statunitense, classe 1987, appena uscita con il suo nuovo lavoro My Woman (Jagjaguwar Records).
Piacevole e orecchiabile My Woman non sarà il disco dell’anno ma riesce proprio per il suo essere un metixage di identità presenti e passate a diventare un ritratto piuttosto fedele di una generazione, quella dei nati a metà degli anni 80 cresciuta in camerette ben arredate stracolme di poster, fatta di felicità tristi, finti disagi, grandi speranze e cinismo, noia e un occhio fisso sempre puntato indietro agli astri (ormai caduti) del passato.
Risuona in Give It Up la generazione y cantata dalla Olsen, dove sembra che ad attaccare con il giro di chitarra siano i Nirvana e a cantare siano le Hole di “Malibu” guidate da Courtney Love, moglie di Kurt Cobain.
Certo, ridurre il lavoro di Angel Olsen a un mashup è riduttivo, ma è proprio l’effetto che esce da questo melting pot di armonie che rende My Woman un album estremamente orecchiabile, diverso ma allo stesso tempo caldo e familiare.
Una familiarità che potrebbe essere descritta come nostalgia per altre epoche, sentimento che per altro sembra aver stimolato fin dall’infanzia Angel Olsen proprio a partire dalla sua vita privata.
Angel infatti è stata adottata dalla famiglia alla quale era stata data in affido fin da piccolissima, tra lei e i suoi genitori adottivi c’era un divario d’età consistente e proprio questo divario, sostiene la stessa Olsen, l’ha portata a immaginare come dove essere aver vissuto in altri momenti storici ed esplorare musiche e sonorità che avevano segnato la gioventù della madre o del padre.
«Ci sono molti decenni di differenza fra noi, questo ha fatto sì che mi interessassi di più a come doveva essere stata la loro infanzia. Ho fantasticato molto – e molto di più dei miei coetanei – su come doveva essere essere giovani negli anni 30 e negli anni 50».
A FaceCulture, una piattaforma musicale online piuttosto famosa che racconta il dietro le quinte della musica, Angel ha dichiarato: «Paradossalmente mi sono avvicinata prima a generi musicali e canzoni più vecchie e sono approdata solo in seguito a quelle più moderne».
Questo ovviamente non ha impedito a Angel Olsen di inserire nei propri pezzi incursioni elettroniche e synth decisamente anni 80, come hanno fatto d’altronde anche molte band indie che sono emerse alla ribalta negli ultimi dieci anni (una fra tutte i Killers).
L’intero album è stato scritto dalla Olsen al piano e declinato solo successivamente in studio per essere suonato su synth e Mellotron o con una rock band di stampo classico.
Il risultato potete ascoltarlo su Spotify qui:
È un affascinante viaggio nella millenaria storia del Medio Oriente il romanzo di Mathias Enard Bussola appena pubblicato dalle Edizioni e/o nella traduzione di Yasmina Melaouah. Un’opera-mondo che rintraccia i prestiti e la presenza sotterranea della cultura araba in quella europea. Anche per questo, per il tentativo che Enard ha fatto per tessere i fili spezzati del dialogo fra Oriente e Occidente che Bussola ha vinto il premio Goncourt, il più importante in Francia. Lo scrittore, che ha studiato storia dell’arte all’ Ecole de Louvre e oggi è arabista dell’Università di Barcellona, ha trasfuso la sua passione e la sua profonda conoscenza delle culture del Medio Oriente in questo romanzo coltissimo che si snoda intorno alla storia d’amore fra lo specialista dell’Oriente Franz e la giovane ricercatrice Sarah. Abbiamo intervistato Enard poco prima della sua partenza per il Festivaletteratura a Mantova dove l’8 settembre ha incontrato il pubblico nella Basilica Platina di Santa Barbara. Ecco cosa ci ha detto.
“A Palmira ero quindi un po’ a casa, il deserto riecheggiava dei lontani accenti della musica della capitale”, dice Franz ricordando l’Hotel Zenobia, il tempio di Baal, e i resti dell’antica città. Un immenso patrimonio che rischiamo di perdere del tutto a causa dell’Isis?
Palmira è molto importante perché rapprsenta il punto di incontro fra la Roma antica, la Persia e il mondo arabo. Era una città di commerci, di viaggiatori e ha sviluppato una civiltà molto particolare mettendo in relazione questi mondi. Questi incontri fra culture differenti, questo dialogo fra i popoli è ciò che l’Isis vuole distruggere.
Quali sono le responsabilità dell’Occidente nel aver reso difficile il dialogo con il mondo musulmano e nella sua radicalizzazione?
Oggi mondo la globalizzazione ci mette a stretto contatto. Francia, Italia, Russia, Iran sono gomito a gomito. Tutti siamo implicati. Abbiamo tutti quanti delle responsabilità verso ciò che sta accadendo in Medio Oriente, per motivi storici e adesso per quel che avviene sulla scena politica globale. La Turchia è vicina alla Siria, ma i siriani , i rifugiati arrivano fino a Roma. C’è una connessione fortissima. A livello storico, la formazione di Stati come l’ Iraq e la Siria ha che fare con gli esiti della seconda guerra mondiale. L’Europa e gli Stati Uniti hanno imposto la forma che il Medio Oriente ha oggi. Un secolo dopo vediamo come queste linee vengono cambiate per la prima volta dal sedicente Stato islamico. Questo molto importante da capire cosa sta accadendo e la una nuova mappa del Medio Oriente che ne emerge.
“Edward Said era un ottimo pianista”, dice il protagonista di Bussola, svicolando per non discutere del suo libro più famoso, Orientalismo. Lei la pensa come il protagonista del suo romanzo? Quale è stato il contributo di questo straordinario studioso palestinese?
Edward Said è uno dei pensatori più imprtanti del secolo scorso, perché ha aperto una via di studi, una via per la ricerca, proprio con il suo saggio Orientalismo. Ci ha spinti ad interrogarci sulla relazione fra sapere e potere in Oriente. Certo da 40 anni a questa parte gli studi sono andati avanti, ma il lavoro di Said è ancora un fondamentale punto di partenza.
Cosa pensa di un approccio all’Islam suggerito da un autore controverso come Michel Houellebecq e da Boualem Sansal con il suo romanzo distopico, dal titolo 2084, su un futuro totalitarismo musulmano?
Sono due libri molto diversi fra loro. Anzi direi che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro. A Hellebeque interessa la Francia. Fa una caricatura della Francia di oggi. E immagina una proiezione di dieci o quindici anni. L’islam per lui è un modo per parlare della Francia. Non è l’Islam reale e politico. Quanto a Boulem Sansa, sebbene il suo libro sia stato letto come una favola sull’Islam, in realtà parla di qualcosa di universale. Di come possiamo perdere la libertà, come possiamo rischiare di entrare in un mondo senza libertà, ma anche senza più libri . Un po’ alla maniera di George Orwell. Non riguarda solo l’Islam radicale, ma è una possibilità che vediamo anche in noi come il “grande fratello”, pensando a google a facebook, e queste nuove forme di controllo dell’umanità.
Dopo il Bataclan e gli altri attentati si è diffusa molta paura in Occidente e un’immagine distorta della grande galassia dei Paesi arabi e musulmani. Il suo libro invece ci racconta quanto quel mondo ci abbia dato nei secoli. La nostra ignoranza è amica del terrorismo? La letteratura può aiutarci a combattere la paura e il pregiudizio, la paura?
La letteratura è molto importante se vuoi vedere più lontano rispetto a ciò che dicono le news in diretta. Il mondo non si conosce attraverso la televisione, ma leggendo. Anche i formati delle immagini dei giornali oggi sono molto ridotte, danno una visione molto più ridotta del mondo, che è invece è assai complesso e diverso. Questa diversità si può capire dai libri.
La foto ritrae Plamira com’era nel 2007. Fa parte della mostra Salvare la memoria, che dopo Mantova dal 15 settembre apre a Milano

Ogni giorno in Italia scompaiono 28 migranti di minore età, dissolvendosi nel nulla. E nei primi sei mesi del 2016 sono almeno 140 i bambini morti nel tentativo di attraversare il Mediterraneo. A un anno di distanza dal ritrovamento del piccolo Aylan Kurdi sulla spiaggia turca di Bodrum, Oxfam Italia riaccende i riflettori sulle sorti dei minori migranti pubblicando il rapporto “Grandi speranze alla deriva”. Allo stesso modo Human Rights Watch denuncia la condizione inumane in cui i minori rifugiati vivono in Grecia.
I NUMERI
Secondo Oxfam il numero dei migranti e richiedenti asilo di minore età in Italia soltanto nei mesi del 2016 è raddoppiato rispetto alle stime dell’anno scorso: nel 2015 sono arrivati 12.360 minori a fronte dei 13.705 di questa prima parte del 2016. I minori non accompagnati scomparsi nei primi sei mesi del 2012 sarebbero, secondo Oxfam, 5.222, un terzo di quelli che hanno raggiunto le nostre coste percorrendo la rotta del Mediterraneo, principalmente egiziani, somali ed eritrei. Il rapporto evidenzia anche i dati di Unhcr sui minori in viaggio, che oggi rappresentano la metà dei migranti mondiali, come conferma il “Uprooted: The Growing Crisis for Refugee and Migrant Children” dell’Unicef, che parla di un bambino migrante ogni 45, per un totale di 65 milioni di migranti under 18. Sempre più bambini stanno attraversando i confini per conto proprio. Nel 2015, oltre 100mila i minori non accompagnati hanno chiesto asilo in 78 paesi – triplicare il numero nel 2014. I minori non accompagnati sono tra quelli a più alto rischio di sfruttamento e abuso, tra cui da contrabbandieri e trafficanti, segnala Unicef.
LE CAUSE
Ma perché si registrano tanti minori desaparecidos tra i migranti? «La scomparsa di un numero così alto di minori – dice la direttrice della campagna di Oxfam Italia, Elisa Bacciotti – si spiega con la fuga dai centri di prima accoglienza, vissuti dai minori più come centri di detenzione che come luoghi di ristoro dopo i viaggi della speranza. Poi c’è il desiderio di continuare il viaggio in Europa». L’analisi-denuncia di Oxfam mette in risalto l’esiguità dei centri di accoglienza e le drammatiche condizioni di soggiorno dei giovani che vi accedono: lontani dalla famiglia, ammassati in camerate con centinaia di persone, senza prospettive di integrazione linguistica e culturale. «Il sistema di accoglienza italiano non ha abbastanza posti per i minori non accompagnati, nonostante non si tratti certo di una novità», spiega Paola Ottaviano del centro di accoglienza Borderline Sicilia. «Il fatto che negli anni non si sia voluta trovare una soluzione fa sì che i ragazzi restino bloccati a lungo in strutture concepite per permanenze di pochi giorni, o di poche settimane, in attesa di essere trasferiti e troppo spesso finiscono per compiere 18 anni all’interno di queste strutture di transito».
BLOCCATI NEI CENTRI
Le misure di accoglienza stabilite dall’Unione Europea prevedono una sosta breve di massimo 72 ore negli hotspot siciliani e uno smistamento celere nei centri di seconda accoglienza, gli Sprar, ma per insufficienza di spazio il 40% dei minori (circa 4.800 ragazzi) si trova bloccato in Sicilia. «Il problema è che nei centri di prima accoglienza ci dovrebbero stare due mesi, invece ci stanno anche un anno» conferma Iolanda Genovese, del centro AccoglieRete, che continua: «Questi centri non sono attrezzati per le lunghe permanenze, non gli offrono servizi per l’integrazione… non li mandano a scuola, gli insegnano poco l’italiano, li tengono senza far niente…e questi ragazzi sono frustrati, passano il tempo a dormire perché non c’è altro da fare, finiscono col deprimersi». Uno degli appelli che Oxfam rivolge all’Europa e al governo italiano è l’incremento di personale professionalizzato nell’accoglienza che informi i migranti dei loro diritti e delle possibilità di studio, lavoro e di integrazione reale.
Un discorso simile è quello che fa Hrw sulla Grecia: la cronica mancanza di strutture di accoglienza per rifugiati determina la chiusura dei minori in celle delle stazioni di polizia, nelle quali a volta passano mesi. A volte in celle senza finestre, fatiscenti e sporche. Gli operatori di Hrw segnalano che gli è stato negato l’accesso alle celle e che alcuni dei minori con cui hanno parlato hanno raccontato di essere stati lasciati in isolamento per giorni.
LE TESTIMONIANZE
Le testimonianze raccolte nei centri di accoglienza raccontano la solitudine, gli atti di nonnismo, la frustrazione legata anche al confino fisico. M., un sedicenne eritreo intervistato da Oxfam, racconta: «All’interno del centro mi hanno dato una scheda telefonica per chiamare i miei familiari, ma non mi è bastata per parlargli e dirgli che sono vivo. Ho chiesto un’altra scheda per poterli contattare, ma non me l’hanno data. Sono passate due settimane, ancora non ho potuto chiamare i miei genitori, non sanno se sono vivo o morto». «All’interno del centro dormo in un camerone con altre 150 persone, adulti e minori, uomini e donne, di diversa nazionalità. Tutte le persone del centro dormono in un unico camerone. Alcuni dormono su un letto ma molti dormono su di un materasso direttamente sul pavimento.” testimonia F, 15 anni, eritreo. M., 17 anni. eritreo, dice: “Da quando sono nel centro di Pozzallo non ho mai ricevuto un cambio delle lenzuola monouso. Dopo una settimana ho terminato i prodotti per l’igiene intima e agli operatori del centro ho chiesto anche un cambio per lavare il mio abbigliamento, ma non ricevuto nulla. Nel bagno c’è solo acqua fredda. I servizi igienici sono due, uno per gli uomini e uno per le donne, che adesso sono in tutto una quarantina». H. e M., minori provenienti dall’Eritrea, hanno sporto denuncia alle autorità italiane, perché, spiegano «da quando siamo nel centro di Pozzallo non abbiamo mai parlato con qualcuno che ci abbia spiegato quale sia la nostra situazione in Italia o i nostri diritti. Sono venuti alcuni operatori di un’associazione che ci hanno dato del materiale per imparare l’italiano…ma nient’altro».
Scintille Raggi Grillo. La Stampa narra di un braccio di ferro, dietro le quinte, tra fondatore e sindaca del Movimento. Dal “tutti con Virginia” detto a Nettuno, al “questa è pazza”, frase che sarebbe stata detta da Grillo in una riunione riservata. I fatti: Virginia ha licenziato, perché indagato per abuso d’ufficio, l’assessore De Dominicis, che le era stato segnalato dalla studio Previti, studio del quale ella stessa aveva aveva fatto parte. Però finora non ha voluto rinunciare alla Muraro, sospettata di aver favorito il re delle discariche private Cerroni. Né a Raffaele Marra, ex collaboratore di Alemanno, che cha solo spostato da vice capo del suo gabinetto a capo del personale in Campidoglio. A Salvatore Romeo pare abbia ridotto lo stipendio (che in precedenza aveva triplicato) ma se lo è tenuto in segreteria. Si tratta dei membri del “raggialemanno magico”, come lo chiama Flores d’Arcais. Di quel gruppo di potere che ha portato alla rottura con l’ex assessore (bocconiano) al bilancio e al patrimonio, Minenna, con l’ex capo di gabinetto (magistrato della corte d’Appello di Milano) Raineri e con i dirigenti (che costoro avevano scelto) per Ama e Atac. Sia Stampa che Fatto raccontano, tuttavia, che il direttorio dei 5 Stelle e lo stesso Grillo avrebbero chiesto alla Raggi di riprendersi Minenna, per ridare smalto e operatività alla giunta. Raggi non potrebbe farlo in quanto, nella sorda lotta tra cordate che si è dipanata lungo i mesi estivi, si sarebbe esposta personalmente a fianco dei nemici di Minenna e della Raineri. “È ricattata”, traducono, senza troppi riguardi, i suoi avversari nel movimento. Come finirà? La Caritas spera che il sindaco possa mettersi al lavoro, per provare rispondere alle attese di chi l’ha votata. Insomma che si eviti alla città di Roma un altro ribaltone come quello che costò la poltrona al sindaco Marino. Tuttavia -ha ragione Freccero- il combinato fra dipendenti pubblici e affaristi privati che ha dominato Roma sia con la destra che con la sinistra puzza quanto una cloaca. E sta, purtroppo, risucchiando la sindaca e il suo movimento..
Super Mario e il lato oscuro dell’economia. Draghi fa intendere – troverete di tutto sul Corriere- che la BCE può tenere l’economia malata in coma farmacologico ma non può guarirla. Il Quantitative leasing, l’immissione generosa di carta moneta e l’acquisto di titoli del debito pubblico, hanno quanto meno impedito un crollo dei prezzi e forse contribuito a sollevare di qualche decimale il prodotto interno lordo nell’eurozona. Ma il cavallo non beve. Gli euro della BCE non arrivano, se non in piccola parte, all’economia reale: le banche li trattengono per proteggersi dal rischio dei derivati e dai titoli pubblici che detengono. La classe media non riprenderà a spendere senza pensieri fino a quando non vedrà una prospettiva di lavoro per i figli e non saprà dove mettere risparmi e come programmare il futuro familiare. Tocca ai governi, dunque, intervenire con piani straordinari di investimento, Piani per il lavoro dei giovani (lo chiede anche la Cgil). Per la riconversione industriale, Per la Ricerca. In particolare, secondo Draghi, il governo di Berlino dovrebbe smettere di attrarre capitali -è questo è l’effetto del surplus commerciale- senza riuscire poi a spenderli. Come quello di Roma dovrebbe – lo scrive Fubini- “ridurre le spese e le tasse, concentrandosi sugli investimenti e non su bonus a pioggia”. Draghi ha citato il documento del G2o. Sanno -ha detto sorridendo- ciò che andrebbe fatto: lo facciano Purtroppo nei vertici internazionali molti sorridono e tutti diffidano. Ognuno tira la corda dalla sua parte. La lunga pace è finita e con essa la fiducia. Doto tutto è questa la “guerra mondiale a pezzi”.
Il presidente che chiede scusa al mondo. Così i repubblicani – lo riferisce Rampini- chiamano Obama. Ha chiesto scusa, per ultimo, al Laos. “Per nove anni, dal 1964 al 1973, gli Stati Uniti lanciarono qui due milioni di tonnellate di bombe, più di quante ne lanciammo su Germania e Giappone nella seconda guerra mondiale. Oggi sto con voi -ha detto- per riconoscere le sofferenze terribili di quel conflitto”. Andando a L’Avana aveva ammesso l’errore dell’embargo. Aprendo all’Iran, la follia del colpo di stato contro Mossadeq, del ritorno dello Scia, delle guerra per procura contro Teheran. E si è scusato per Hiroshima, ha provato di farlo anche in Medio Oriente e con i musulmani, con il discorso del Cairo. Insomma 8 anni in giro per il mondo a chiedere scusa. Ha svenduto, così, la storia americana, tradito l’interesse nazionale? Non lo credo affatto. La grandezza di Obama è di aver svolto, con onore, anche se con inevitabili tentennamenti, il ruolo pesante che lo storia gli aveva assegnato. Quello di dover riconoscere il fallimento della superpotenza e dell’imperialismo americani, di comunicarne il senso ai suoi concittadini e di preparare un’embrione di alternativa per il futuro. Aveva alternative? Vietnam, Irak, Afganistan, da 50 anni gli Stati Uniti non vincono una guerra , i colpi di stato della Cia hanno lasciato ferite paurose dal Cile all’indonesia, industria e capitale finanziario lasciano da tempo l’occidente diretti in Cina. Gli Stati Uniti possono ancora distruggere il mondo, certo, ma non è più questo un deterrente sufficiente a imporre il proprio dominio economico, ideologico, morale. Un’America più consapevole, meno insicura (grazie al welfare), che riconosce i diritti suoi e degli altri, può proporsi -questa la speranza di Obama- come primus inter pares. Chi gli rema contro? Sicuramente chi rimpiange il passato (Trump) ma anche chi per iper realismo crede (la Clinton) che le svolte si possano compiere nella stanza dei bottoni, senza gesti simbolici né idee nuove da proporre al mondo. Manca un Obama nella battaglia per la Casa Bianca.
Pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà.Quante volte vi siete sentiti ripetere questa frase che Gramsci -nel 21 credo- mutuò da Romain Rolland, premio nobel per la letteratura e in seguito amico e confidente di Freud. Significa una cosa semplicissima: che non è lecito edulcorare le analisi, imbellettarle per renderle consone ai nostri desideri. Era questa una tendenza che già nel 21 si cominciava a cogliere nell’Internazionale, man mano che il volontarismo di Lenin si sdruciva nella propaganda staliniana. Al tempo stesso, quella frase voleva dire che bisogna conservare i sogni. Lo dico a chi mi accusa di essere distruttivo perché imputo ai 5 Stelle i disastri che combinano, perché critico l’interessato ottimismo delle slide di Renzi, o sfotto chi racconta un mondo in marcia verso il trionfo dei diritti, della pace, delle libertà sessuali, dell’ecologia. Invece apprezzo Tsipras, che si è dovuto piegare al diktat della troika, ma lo ha fatto coinvolgendo il suo popolo nella scelta più dolorosa e tuttavia non ha perso la voglia di lottare. Oggi dice a Le Monde. “È tempo che l’Europa faccia qualcosa per uscire dalla crisi”. Continua a chiedere la ristrutturazione del debito e a proporre che “i paesi del sud si uniscano per farsi sentire dalla Germania”. Peri circo mediatico Alexis è uno sconfitto. Per me è uno che non ha aggiustato l’analisi alle sue conveniente e che continua a battersi. Come può.

Il bullo s’è incattivito. Succede sempre così quando si sente odore di sangue in giro e s’ha di fronte una platea ammaestrata più a far sì con la testa che a curare la cottura delle salamelle. Le feste dell’Unità (mica più d’intenti, ora di interessi) ormai sono il mantello del sovrano e ogni occasione è buona per un’iperbole di menzogne. E tutti a dire sì come i pupazzetti che regalano con le schede punti dei ristoranti cinesi. Allora conviene puntualizzare, forse. Conviene.
Dice Renzi: “Lo dico ai tanti che trovano qualcosa che non va, a chi dalla mattina alla sera si lamenta: fuori dal Pd non c’è una sinistra migliore, la rivoluzione del proletariato, fuori dal Pd e da questo Pd c’è l’Afd in Germania, la Le Pen in Francia, Farage in Inghilterra e in Italia il qualunquismo e la demagogia in camicia verde.”
Allora è utile fermarsi un secondo. Primo: ormai inserire nella stessa frase sinistra e PD è un’analisi politica a livello della capra che sopra la panca campa ma, al di là di questo, non s’è mai visto un becchino dare lezioni di guarigione. La sinistra “fuori dal PD” è quell’ossessione che sta in tutti gli sms, i bisbigli e i sussurrii dei caporali renziani: la sinistra fuori dal PD sono le madri che forse avete visto salutare i propri figli in stazione mentre fingevano gratitudine per una cattedra ottenuta dall’altra parte del Paese; la sinistra fuori dal PD sono i disoccupati troppo anziani, troppo improduttivi, troppo poco specializzati nell’esser servi o troppo poco moderni per credere nella svendita dei diritti; la sinistra fuori dal PD sono gli avanzi (uomini, con le loro famiglie) che in nome di una delocalizzazione cercano le parole per raccontarlo in tavola alla famiglia, trovare un senso al sentirsi finiti; la sinistra fuori dal PD sono i giovani che scoprono il merito della prossimità alle persone giuste piuttosto che ai talenti; la sinistra fuori dal PD sono coloro che sgomitano per trovare l’occasione di raccontare le regole e di descrivere le loro opportunità piuttosto che dipingerle come intralci; la sinistra fuori dal PD sono le persone che si innamorano dei diritti degli altri oltre che la feroce difesa dei propri; la sinistra fuori dal PD sono gli stanchi dei proclami, dei polsini a posto, delle luci studiate e delle frasi da motivatore bullo; la sinistra fuori dal PD sono i fregati dalle banche, Etruria in testa, che non avrebbero mai pensato di elemosinare i soldi, i propri; la sinistra fuori dal PD è un pezzo consistente del Paese. Quello che a Renzi e renzini pesa perché poco interessato a monoteismi politici di passaggio.
Dice Renzi: “”Noi non raccontano storielle e non viviamo nella realtà virtuale, noi la trasparenza la scriviamo nella nuova costituzione”.
E la trasparenza della (loro) nuova Costituzione è un accrocchio di politichese artefatto, insulso e illeggibile. Non ha mentito. Qui. No.
“E’ finito il tempo – va avanti il premier – in cui in Europa facevano i sorrisini sull’Italia, bisogna portarci i nostri valori, bisogna provarci, bisogna faticare, questo è ciò che abbiamo bisogno di fare come Pd e questo è ciò che ci differenzia dagli altri: a fischiare e mandare a quel paese sono bravi tutti, ma a prendersi le responsabilità siamo noi”.
Quell’Europa che ha sfilato nel suo happy hour paramilitare a Ventotene che citava in bella mostra il manifesto di Spinelli. E non hanno nemmeno sparecchiato la portaerei che intanto Hollande, tornato in patria, s’è messo a costruire muri. Chissà Spinelli quanti calci nel culo, se fosse vivo.
Dice Renzi: “Non ironizzate su Berlusconi e D’alema, quando ci sono amore e affetto ci deve essere rispetto. Non fate battute”.
E lo dice quello che galleggia con una maggioranza puntellata dagli avanzi del berlusconismo. Serve aggiungere altro?
Buon venerdì.
(ps va bene tutto: la Raggi, Roma, Di Maio e la Muraro. Ma questi che l’hanno resa latrina e ora vorrebbero essere i moralizzatori, questi no. Basta. Davvero. Un po’ di misura. Di senso di opportunità. Su.)
Ci risponde subito. Niente fila e niente attesa per parlare con il direttore del Tg de La7. È diretto Enrico Mentana. Quasi ruvido, parla veloce ma è un fiume. Puntuale. Ci racconta che mai avrebbe immaginato una tale risonanza ad una semplice reazione. La sua, di fronte all’ennesimo “cretino” che blaterava sotto un suo post. Che non era sua intenzione coniare alcun neologismo ma che l’unica paura che ha è che «tutto diventi uguale a tutto».
Ci scusi direttore, chi è un webete? Ci traccia un suo profilo?
Webete è semplicemente una cosa che ho detto a una persona, nel mezzo di uno scambio. Aveva commentato un mio post mettendo in dubbio l’esistenza di questa signora che era scampata al terremoto di Amatrice, di cui io avevo ripreso una testimonianza. Poi tutto si è ingrossato, come accade in questo Paese. Ed invece è solo questo: rispondendo per le rime nel mezzo di una lite, certo con durezza, gli ho scritto “lei è un webete”. Da lì in poi, da due minuti dopo, per me la parola webete non esisteva più, io non faccio il trade marketer, volevo solo dire a quel signore quello che pensavo di quello che mi aveva scritto. Tra l’altro le ha cancellate subito. Poi le cose, come al solito, prendono le dimensioni che prendono…
Time ha fatto una copertina sui troll e sul linguaggio del web, spesso anche violento…
La violenza è una cosa, in questo caso il webete lo definirei piuttosto un analfabeta funzionale. È gente che, per spirito di contraddizione puro, senza documentarsi, prescindendo dai fatti, va ad ingaggiare duelli, confronti o conflitti di parole e di frasi sul web. Questa è la questione e il punto da affrontare. Se non si mette un’ancora, non si dà un timone, non si traccia una linea di navigazione, finisce che tutto è uguale a tutto. Che poi è la mia grande paura. In un mondo che non è più governato dalla memoria diretta, dalla lettura diretta o dalla conoscenza diretta, e dove tutto è affidato al libero confronto e ai motori di ricerca, la verità fattuale e quella controfattuale pesano uguale.
È il motivo per cui “impegna” parte del suo tempo a rispondere ai commenti che le vengono fatti sul web?
Non ne impiego molto, non sono un grande scrittore e non sto lì ad arrovellarmi sulla pagina. Scrivo di getto e molto velocemente anche perché ho un telegiornale da fare e, come è noto – fa dell’autoironia sulla sua prolungata presenza in video! – non sono un lavativo sul lavoro. Diciamo che nei ritagli di tempo che non dedico ai miei figli o ai fatti miei do un’occhiata e rispondo. Dico la mia, perché ritengo che chi ha un ruolo sociale nell’informazione, debba anche misurarsi direttamente con le persone, altrimenti si rimane sempre ex cathedra.
E anche perché spesso questi attacchi sono diretti proprio ai giornalisti…
Per forza, perché i giornalisti vengono considerati i portatori delle “verità ufficiali”, quelle che non sono vere. Diciamo che molti nostri colleghi ci mettono del loro per ingenerare questo increscioso equivoco.


La Cgil ha deciso. L’assemblea generale del sindacato «ferma restando la libertà di posizioni individuali» visto che si tratta di Costituzione invita a votare No al referendum costituzionale che si “dovrebbe” tenere tra novembre e dicembre (ancora la data non è stata comunicata). «L’assemblea impegna tutte le strutture a diffondere queste valutazioni», si legge nell’ordine del giorno votato.
Il sindacato guidato da Susanna Camusso però non parteciperà attivamente ai comitati per il No che stanno sorgendo un po’ ovunque in Italia «nel preservare la sua autonomia», anche se considera fondamentale la partecipazione al voto, impegnandosi a promuoverla.
Nel documento si dice a chiare lettere che con questa revisione costituzionale non si migliora la governabilità con il rischio di una concentrazione di poteri che non fa bene alla democrazia. È un’occasione persa per apportare modifiche che potevano realmente contribuire a semplificare le istituzioni rafforzandole. Quale semplificazione, poi. Il superamento del bicameralismo perfetto si è risolto in una «moltiplicazione dei procedimenti previsti a seconda della natura del provvedimento in esame».
E i contenziosi Stato-Regioni davanti alla Corte Costituzionale sono sempre dietro l’angolo.

Ancora una volta in un teatro di guerra. Anche stavolta nella polveriera mediorientale. L’obiettivo di questo viaggio è seguire la campagna militare contro il Daesh. Quella per liberare le sue due “capitali”: Mosul (Iraq) e Raqqa (Siria), nelle mani del Califfato ormai da due anni. Seguirò da vicino la battaglia dei peshmerga iracheni da un lato e delle Forze democratiche curde siriane dall’altro. Le prime addestrate dalla Nato a Duhok e sostenute dai raid aerei della coalizione, le seconde ora combattute apertamente dai carri armati della Turchia, Paese Nato, che ha deciso di far varcare il confine al suo esercito, entrando nel nord della Siria. Succede anche questo in un conflitto nel quale ormai amici o nemici, alleati o avversari si confondono e tutto cambia velocemente. Il viaggio inizia da Erbil, capoluogo da oltre un milione di abitanti dell’omonimo governatorato del Kurdistan iracheno. Questa città piuttosto tranquilla non è stata praticamente mai toccata dal conflitto in corso, nonostante disti appena 77 chilometri da Mosul. I jihadisti del Daesh sono quindi a due passi: sull’altra sponda del Grande Zab, un affluente del fiume Tigri, oltre il quale sventola ancora la bandiera nera del Califfo. Ogni settimana, sulle pagine del settimanele racconterò le storie di donne, uomini e purtroppo dei tanti bambini intrappolati in questa guerra. Quotidianamente su Left.it seguiremo, tappa dopo tappa, l’avanzata in questo sporco conflitto che coinvolge le grandi potenze mondiali e quelle della regione. Insieme a Left vi porteremo dentro le dinamiche e le contraddizioni di un conflitto che ha già provocato la più grave crisi umanitaria dalla Seconda guerra mondiale.