Home Blog Pagina 1053

Il corpo di Giulio Regeni chiede di non rimanere in silenzio

Participants in the torchlight to remember Giulio Regeni, an Italian student murdered in Cairo (Egypt), in front of the Pantheon, in the centre of Rome, Italy, 25 July 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

L’aveva detto subito la madre di Giulio Regeni: «Ho riconosciuto mio figlio solo dalla punta del naso». Oggi la conferma di quelle parole arriva attraverso le cronache dei risultati dell’autopsia. «Il corpo usato come una lavagna» perché i torturatori hanno inciso sulla sua pelle delle lettere, si è letto nei particolari crudi riportati dagli articoli. Carlo Bonini su Repubblica entra nei dettagli e racconta la serie infinita di ferite e percosse come risultano dal referto dei medici italiani: 221 pagine dell’orrore. I corpi restano a conservare le tracce di ciò che è accaduto. Urlano, nel loro silenzio, la verità. Alla faccia dei silenzi di Stato, degli accordi diplomatici. Non c’è depistaggio che tenga, Giulio non poteva essere morto per un incidente d’auto, come hanno tentato di far credere all’inizio le autorità egiziane agli italiani.

Per questo motivo è importante far sapere, divulgare quello che è successo. Il racconto crudo del corpo di Giulio serve, eccome. La cronaca esatta – senza svolazzi retorici e voyeuristici compiacimenti – ha il compito di alzare il velo su ciò che si vorrebbe coprire. Serve per sensibilizzare l’opinione pubblica, per far comprendere a tutti che lo Stato italiano non può rimanere con le mani in mano. Lo aveva fatto qualche giorno fa una bella puntata di Presadiretta di Iacona con una intervista toccante ai genitori e una inchiesta in Egitto. Lo fanno adesso i giornali raccontando il corpo devastato di Giulio Regeni.

Il racconto dell’autopsia fa venire in mente immagini e altre storie, tutte italiane. La cronaca stavolta riguarda giovani morti mentre si trovavano nelle mani delle forze dell’ordine, in stato di fermo. E anche in questo caso la decisione di “far vedere” il corpo è servita per impedire il silenzio. Lo aveva fatto Ilaria Cucchi quando, con forza e dignità, aveva mostrato pubblicamente davanti al Tribunale le immagini del corpo del fratello Stefano, ridotto a uno scheletro, con segni e tumefazioni ovunque. Quella gigantografia testimoniava senza ombra di dubbio una morte violenta. Lo avevano fatto anche il fratello di Riccardo Magherini e il suo avvocato Fabio Anselmo quando ad aprile 2014, con il senatore Luigi Manconi, mostrarono le foto del suo corpo dopo la morte in una conferenza a Palazzo Madama. Su quelle vicende sono ancora in corso i procedimenti giudiziari, mentre la legge che introduce il reato di tortura è ancora in stallo.

Oggi l’incontro tra gli investigatori italiani e quelli egiziani. Sono passati sette mesi dal ritrovamento del corpo di Giulio su un ciglio di un’autostrada egiziana. È passato molto tempo. Forse troppo. Per questo prosegue la mobilitazione di Amnesty per chiedere verità. A parte l’appello, continua la campagna che ha coinvolto enti locali, associazioni, sindacati e tanti singoli cittadini. Antigone, insieme ad Amnesty e all’associazione a Buon diritto ha lanciato una petizione «affinché – sostiene Patrizio Gonnella di Antigone – permanga il provvedimento di richiamo dell’ambasciatore italiano destinato al Cairo come primo elementare atto da cui non recedere e, piuttosto, da rafforzare con altre e più incisive misure (cosa finora non fatta), almeno fino a quando le istituzioni politiche e giudiziarie egiziane non dimostrino nei fatti la volontà di collaborare». Come dice Gonnella, «di fronte alla tortura e alla conseguente morte, ogni inerzia significa complicità». Soprattutto quando, come nel caso di Giulio, il suo corpo parla, al di là dei segreti di Stato.

La vita mancata di Aldo Togliatti

Aldo Togliatti

E’ un impressionante spaccato di storia del comunismo del Novecento quello che Massimo Cirri tratteggia nel libro Un’altra parte del mondo (Feltrinelli) raccontando di Aldo Togliatti.( il libro viene presentato il 10 settembre al Festivaletteratura di Mantova).

Dagli anni Venti al 2011 quando morì in una clinica psichiatrica a Modena. Di questo figlio che il Migliore aveva avuto da Rita Montagnana per anni quasi si erano perse le tracce. Con un lungo lavoro di ricerca, Cirri ne ha ricostruito la vicenda biografica e umana, dall’infanzia trascorsa in giro per l’Europa quando i genitori comunisti furono costretti a scappare agli anni, dal ’34’ al ’45, quando Aldo, che già aveva manifestato segni di forte disagio, fu mandato a studiare ingegneria in Urss, in una sorta di collegio d’eccellenza, ad Ivanovo. Dove studiavano i figli dei più noti leader comunisti allora in clandestinità e impegnati nella lotta partigiana, in Spagna, in Italia e su altri fronti di lotta al nazi-fascismo.

Fra gli allievi illustri c’erano anche i figli di Mao. Quando il più grande tornò in Cina trovò un padre che aveva imposto il culto della personalità. Preferì andare in Crimea, dove fu ucciso. Il figlio di Tito fu creduto morto. Mentre il figlio minore di Mao, Kolja, si suicidò.
Dopo Ivanovo il ventenne Aldo, riluttante, tornò in Italia, dove fu preso da un senso di spaesamento, seguito dal tentativo fallito di continuare gli studi e di inserirsi nel mondo del lavoro. Poi l’acuirsi delle crisi, le cliniche psichiatriche in Urss, i farmaci, l’elettroshock, fino al ricovero a vita.

Questi i nudi fatti, che Cirri trasforma in uno straordinario affresco di storia, da cui affiorano domande importanti sul comunismo, sull’Urss, sulla svolta di Salerno ma anche sulla realtà umana di leader che poi sono stati a lungo mitizzati. Domande, non giudizi morali. Cirri fa un’opera di fino, da grande narratore componendo in modo avvincente fatti e lettura del senso più profondo della storia. Provando a illuminare la complessa trama delle relazioni personali e intime di personaggi che tutti conosciamo nella loro ufficialità, per raccontare le persone più in profondità. Un lavoro che gli è costato otto mesi di ricerca e almeno altrettanti di scrittura. «Ho scritto questo libro pian piano, cercando di raccontare nella maniera più rispettosa possibile. Mi sembrava già di per sé un dramma tale… una vita non vissuta, aggiungere qualcosa di più mi pareva inopportuno, irrispettoso».
Da psicologo e scrittore, lei scrive di un «ritiro dal mondo» da parte di Aldo che «mite», «silenzioso», si chiude sempre più in se stesso…
La diagnosi allora fu di schizofrenia autistica, l’ho saputo da uno psichiatra di Bologna che ha letto la cartella clinica di Aldo Togliatti. Una malattia grave. Chiusura totale dal mondo. Si parla di un signore che ha paura di tutto e si ritira dalla realtà. Quello che colpisce da un punto di vista umano è che – chissà perché, chissà come – quella “timidezza” di Aldo bambino con gli anni e il procedere degli eventi e dei rapporti diventò una sofferenza gravissima e totale chiusura. Una signora che lo incontrò negli anni 70 in una occasione pubblica (allora lei era una giovane militante) mi ha raccontato che le sembrò malatissimo.
Aldo stava già male quando fu spedito a studiare a Ivanovo, dove le giornate erano organizzate molto razionalmente, fra studio e esercizio fisico ma «non c’era spazio per la vita interiore». Il controllo era totale. La delazione veniva premiata. Tutto questo quanto ha pesato?
Difficile dire. Anche Bianca Vidali è stata a lungo ad Ivanovo. Se li ricorda come anni di terrore, nonostante il posto privilegiato. Le persone sparivano, finivano in carcere perché da un momento all’altro diventavano nemici del popolo. Però poi lei ha avuto una vita “normale”. Le storie individuali sono complesse, diverse fra loro. Uno ce la fa, un altro ne esce rovinato. La storia dei figli di Longo apparentemente era ancora più difficile di quella di Aldo Togliatti. Si ritrovarono da soli, a 8 e 15 anni, nella grande Parigi. Ma poi hanno avuto una vita che potremmo dire realizzata. Al drammatico addensarsi di eventi di quegli anni hanno reagito in modi differenti.
Anche a ciò che gli veniva detto o impartito a Ivanovo. Anita Galliussi Seniga, nel libro è sbigottita per il patto fra Urss e Germania, “Ma come? Non eravamo nemici dei nazisti?”. Lei tratteggia una ragazzina vitale, reattiva. Diverso fu il caso dei figli di Mao, facevano parte di una generazione che ha creduto in un comunismo che proponeva ideali alti ma, al contempo, nascondeva contraddizioni feroci?
Io credo di sì. Miriam Mafai, che li aveva conosciuti tutti i figli dei dirigenti storici, diceva che erano molto infelici. Molti leader di allora non riuscirono a mettere insieme militanza, intesa come motivazione profonda ma totalizzante e la vita privata, le contraddizioni, i casini. Molte testimonianze dicono che tormentato, disperato, per la malattia di Aldo, Palmiro Togliatti quando adottò la bambina Marisa Malagodi fu generosissimo di tempo, come cercando di riparare…
Quando Aldo e gli altri ragazzi tornarono in Italia si trovarono completamente spiazzati, incapaci di accettare la realtà, «dovevano cambiare fede», lei scrive. Ritrovarono genitori non più in clandestinità, ma diventati figure istituzionali, come Togliatti che ormai trattava con Pio XII e la Chiesa.
Fu un cambiamento veramente radicale. Aldo non voleva tornare in Italia, viene e trova un segretario del partito che è venerato come una divinità in terra, una madre che è nella Costituente, così come la nuova donna del padre. Non sa trovare un suo posto.
L’idealizzazione di Lenin «il purissimo», l’attaccamento alla Pravda, una prassi che sembra quasi sostituire il pensare, sono l’altra faccia di Rita Montagnana?
La sua era una fede fortissima, quel tipo di militanza assoluta era una cosa del Novecento. A loro interessava solo l’impegno nel partito, lo studio, la cultura. Oggi non è più così ma tutto è anche drammaticamente più liquido, più affaristico o corruttivo.
Aldo muore nel 2011, perché in una clinica psichiatrica di Confindustria?
Banalmente è una clinica che aderisce a Confindustria. Il grande interrogativo è: perché fu internato per 31 anni? Possibile che a Modena non siano stati in grado di inventarsi un modo per cui una persona anche molto matta, incasinata ecc, potesse ricevere delle cure? Fu richiuso lì per timore di pubblicità, perché la stampa di destra ha sempre cercato di attaccare il padre tramite Aldo? Il senatore Sposetti mi ha inviato a fare una presentazione del libro a Modena alla festa dell’Unità, se non mi picchiano, proverò a fare qualche domanda!

Massimo Cirri presenta il libro al Festivaltetteratura di Mantova sabato 10 settembre, al Teatro Ariston nell’incontro dal titolo Qualcuno era comunista con Ludovico Festa e  Luigi Caracciolo.  Altri due incontri sabato alle 18 e domenica 11, sempre a Mantova

La Marchesa del Grillo. Caffè dell’8 settembre 2016

Grillo assolve (Grillo salva) Raggi. Di Maio si scusa, scrivono Stampa e Repubblica. “Raggi sacrifica un fedelissimo.Grillo: vigileremo”, è la versione del Corriere. Il fedelissimo sacrificato è Raffaele Marra, che già fu tale del sindaco Alemanno e del direttore berlusconiano della Rai Mauro Masi. Marra sarà “spostato ad altro incarico”. L’ex (quasi) candidato premier Di Maio ammette il mendacio (sapeva che la Muraro era indagata) e chiede scusa dal palco di Nettuno. Commenta Giannelli: “Nettuno mi può giudicare”. Mentre “Di Battista superstar si prende la scena”, al grido: “no alle Olimpiadi di Roma”; un modo per far dimenticare anche i rapporti che la Muraro (quella “salvata”) avrebbe avuto con Cerroni, re della monnezza romana, che un tempo dettava la sua legge alle giunte di destra e di sinistra e ora vuol continuare a farlo con la giunta a 5 Stelle.
Una soluzione solomonica, scapperebbe da dire, democristiana, secondo Marcello Sorgi della Stampa. In effetti, calato a Roma contro voglia, Beppe Grillo ha spuntato la lancia Di Maio, ha benedetto (per ora) quella del rivale Di Battista, ha lasciato che Raggi si tenesse la sua assessora ai rifiuti (finché un Pm non la incastrerà), ha accusato Renzi, Pd e giornali di speculare: “la reazione del sistema mi rende.. leggermente euforico”, ha detto. Poi, rivolto alla base, ha ammesso : “qualche cazzata la facciamo pure noi”. Poteva far altro, il Grillo, se non imporre un tale compromesso, che la Repubblica definisce “patto dell’omertà”? Direi di no. La domanda è quanto possa reggere una tale mediazione ora che il re è nudo.
La marchesa del Grillo, titola il Fatto, accomodando alla vicenda grillina la frase di Alberto Sordi: “la sindaca sono io e voi non siete un cazzo”. Ma gli umori tra gli “attivisti” sono sapidi: se Paola Taverna deve giustificarsi affermando di non essere “l’infame” che ha dato ai giornalisti il testo della mail che sbugiarda Di Maio, sua sorella Annalisa se la prende con la sindaca-marchesa: “s’è montata la testa e ha voluto fare un po’ di “capoccia” sua, inanellando una cagata dietro l’altra”. Anche Di Maio il penitente ce l’ha con la Raggi: Virginia mi ha fregato e io ho sbagliato a fidarmi”.
Lo scandalo resta, intatto ed evidente, secondo Mario Calabresi, direttore di Repubblica: “Resta al suo posto un’assessora che si occupa di rifiuti ed è al centro di un’indagine per i mancati controlli sui rifiuti; occuperà il suo posto un assessore dai modi estrosi, selezionato non dalla rete ma direttamente dall’ex avvocato di Cesare Previti; resta al suo posto il dipendente comunale che si è messo in aspettativa per farsi riassumere a tempo dallo stesso comune con il triplo dello stipendio. E resta il fatto che da oggi nei 5 Stelle è lecito e tollerato mentire all’opinione pubblica e ai propri elettori, nascondendo ciò che si conosceva da mesi”. È la versione di chi non nutre certo simpatia per i 5 Stelle, ma è difficile definirla infondata. “La Rete si sta smagliando -aggiunge Massimo Franco sul Corriere- perché quella «democrazia» è solo virtuale. Gridare al complotto non basterà a ricucirla”.
Renzi sciala, per ora. Scrive Verderami: “La fragilità del sistema può far risalire le quotazioni di Renzi”. È vero, l’infortunio romano dei 5Stelle, sommato ai guai della destra, può rafforzare in Europa l’immagine del premier come il solo capace di garantire continuità (con la ricetta imposta dall’Europa), come l’uomo del meno peggio, che difende una riforma costituzionale che è sì sgangherata ma almeno archivia il bicameralismo e riduce il numero dei senatori. Il già rottamatore può riproporsi nei panni del consumato doroteo, che si dice disposto a cambiare l’Italicum (che ha imposto con il voto di fiducia) “se in Parlamento ci saranno i numeri”. Però questa è solo “furbizia tattica”, insorge l’editorialista del Corriere, “perché i numeri li ha il Pd di cui Renzi è segretario”. Non a caso Bersani “segnali di fumo” quelli lanciati dal premier sulla legge elettorale.
Più bonus e meno tasse per tutti. Lo ha detto Cetto Laqualunque? Per la terza volta il governo chiede un aiutino all’Unione, promette che la ripresa porterà più lavoro e più consumi, sostieneeche i conti dell’Italia miglioreranno grazie alle riforme. Se avete avuto la pazienza di leggere le debolissime risposte che il commissario alla spending review, Yoram Gutgeld, ha provato a dare al suo predecessore, Roberto Perotti, sapete già che chi ci governa chiede un atto di fede, non analizza i fatti, non spiega come si riuscirebbe dove si è fallito. “È difficile -scrive Maurizio Ferrera- dissipare i sospetti dell’Europa e si rischia di alimentare molti dei vecchi vizi, relegandoci in una lunga eclisse di ristagno economico e sociale”.
Ieri sera a Sesto Fiorentino, tra magliette rosse con su scritto “Noi No!” e gente (Sinistra Italiana ed ex Pd) che ha conquistato il comune contro il candidato di Renzi. In che modo? Dicendo No all’aeroporto inutile che il partito vuol donare alla città del segretario. Inutile, perché c’è un aeroporto a Pisa, perché da Firenze a Bologna sono 50 minuti in treno, perché l’alta velocità porta direttamente da Santa Maria Novella a Fiumicino. Se si dà torto a Mirello Crisafulli, che vuole l’università a Enna, come poi promettere un ennesimo aeroporto? Si può, perché questi riformisti non sono tali. Sono demagoghi che lisciano dalla parte del pelo i loro amici imprenditori. Perché hanno in testa un modello di sviluppo vecchio di mezzo secolo e inadeguato. Vuole la sinistra contare nel dopo Renzi, dopo ravvicinato, se vincerà il No al referendum? Faccia come a Sesto: contesti l’insostenibile stupidità della narrazione liberista e privatista del governo. Si misuri con la politica, faccia proposte alternative. La smetta di vantare una supposta superiorità antropologica e dia battaglia.
.

Trump spiega la sua politica estera isolazionista-colonialista ed elogia Putin («più leader di Obama»)

Republican presidential candidate Donald Trump speaks with 'Today' show co-anchor Matt Lauer at the NBC Commander-In-Chief Forum held at the Intrepid Sea, Air and Space museum aboard the decommissioned aircraft carrier Intrepid, New York, Wednesday, Sept. 7, 2016. (AP Photo/Evan Vucci)

Putin è più leader di Obama e sull’Isis non dico nulla per non rivelare i miei piani. Donald Trump ha deciso che il suo successo passa per dire le cose che gli passano in mente senza filtri presidenziali e continua a farlo.

Non è stato un confronto diretto, ma è la prima volta che Hillary e Donald devono rispondere a domande simili in diretta Tv alla stessa ora e sullo stesso canale. Un match a distanza sui temi della sicurezza in un forum Tv dove l’audience era fatta da veterani e militari in servizio che facevano anche domande. Il tema non è tra quelli che agitano i sonni degli americani, ma può sempre tornare a esserlo. In questo caso, il compito del candidato è complicato: promettere sicurezza, leadership, primazia degli Stati Uniti senza mostrarsi eccessivamente falco in politica estera. Gli americani non vogliono guerre, sono stufi dell’Afghanistan e non vedono – come nessuno vede – strade semplici per uscire da conflitti complicati come quelli nei quali si sono cacciati sotto la presidenza Bush.

Da un punto di vista della preparazione e della capacità di rispondere sui temi internazionali e della sicurezza non c’è partita: Clinton è più preparata, ha più idee, sa di cosa parla. Ma si deve difendere ancora per le mail tenute su un server non sicuro giurando e spergiurando di non aver mai inviato da quell’account materiale segreto, confidenziale o top secret (vari gradi di segretezza). Il caso delle mail, minore per sostanza, perseguita Hillary, perché è una delle prove, sostengono coloro a cui la ex Segretario di Stato on piace, che di lei non ci si può fidare, che nasconde qualcosa. Donald Trump invece non fornisce dettagli su nulla e ribadisce affermazioni controverse già fatte nei comizi e su twitter.

Uno dei confronti più duri a distanza è stato sull’Iraq: Clinton ha promesso che non manderà nuovi soldati in Iraq (o in Siria) e che la guerra contro l’Isis si può vincere usando più intelligence, cooperazione e forza aerea. E poi è tornata ad ammettere che il suo voto a favore della guerra voluta da Bush nel 2003 è stato un errore. Trump accusa Clinton di avere il «grilletto facile» e ricorda il suo assenso all’Iraq, sostenendo di essere sempre stato contrario. Affermazione falsa, ma per Trump il problema non è dire la verità. Il conduttore delle due interviste è stato ferocemente criticato per non aver incalzato Trump su questo come su altri temi – mentre, dicono i critici, ha interrotto, pressato Clinton molte volte.

Su Putin, Trump ha citato il consenso interno del leader russo come prova della sua capacità di leadership: «Ha un consenso intorno all’82% mentre noi siamo un Paese diviso. È più leader di Obama e se dice delle cose gentili su di me, come ha fatto, lo ringrazierò». Un altro passaggio a vuoto, o un altro gancio ben assestato avrà pensato Trump, è quello sulle donne nell’esercito. Nel 2014 il candidato repubblicano a commentato l’aumento delle violenze sessuali nell’esercito twittando: «Cosa pensavano succedesse questi geni dopo che hanno messo uomini e donne assieme». Ieri ha ribadito il concetto, non spiegando bene se eliminerebbe le donne dalle forze armate. Le donne non sembrano amare particolarmente il candidato Trump e questa nuova uscita non aiuterà. Tanto più che, indicano i dati, le violenze a cui fa riferimento Trump sono per la maggior parte di uomini su uomini.

C’è un aspetto generale che va sottolineato. Proprio ieri Trump aveva tenuto un discorso sulla sicurezza nazionale spiegando che avrebbe cancellato i tagli al Pentagono, comprato navi, costruito aerei e arruolato truppe per aumentare la sicurezza. Il repubblicano è poi passato ad attaccare Clinton e Obama e non è entrato in particolari. Quello che doveva essere un policy speech, un discorso nel quale il candidato delinea una sua idea di cosa fare su un tema specifico, è diventato un comizio. Con un particolare: per mesi Trump ha spiegato che le guerre sono sbagliate, che bisogna lasciarli a fare le loro guerre civili, che bisogna allearsi con chiunque uccida terroristi e lasciarlo fare. L’idea, contrapposta alla Hillary dal grilletto facile, è quella tendenzialmente isolazionista. Ieri però ha sostenuto che dopo aver invaso per errore l’Iraq, bisognava almeno prendersi il petrolio «che così l’Isis non si sarebbe mai formato». Una tesi colonialista e difficile da dimostrare. Come è difficile da sostenere che armarsi di più e depredare il petrolio degli iracheni siano scelte isolazioniste. Ricordiamolo ancora una volta: per Trump il problema non è la coerenza.

 

 

Le «cazzate», ovvero la linea difensiva dei 5 stelle

Luigi Di Maio (D) e Beppe Grillo durante l'intervento di Alessandro Di Battista (S) sul palco di piazza Cesare Battisti a Nettuno (Roma) per la chiusura del tour Costituzione Coast to Coast per il "No" al referendum costituzionale, 07 settembre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«Qualche cazzata la facciamo anche noi» dice Beppe Grillo dal palco di Nettuno, provocando già così, non si capisce bene perché, le risate della piazza («Ah ah ah, ha detto cazzata, ti rendi conto?!!?!!!1!»). Sì, ha detto così, Grillo, e in quel “cazzata” c’è tutta la voglia di ridimensionare il caso Raggi, che poi è diventato anche il caso Di Maio, purtroppo per il Movimento, visto che il vicepresidente della Camera sapeva perfettamente dell’inchiesta aperta in Procura sull’assessore Paola Muraro, anche se non ha detto niente a nessuno e anzi ha più volte, pubblicamente, negato l’eventualità di un fascicolo. Lo dimostrano gli sms pubblicati da Repubblica e la mail pubblicata dal Messaggero, che oggi lui dice di aver «sottovalutato».

Si sono così scoperti ottimi pompieri, i 5 stelle, e persino ottimi attori, a cominciare da Virginia Raggi, per mesi presa in giro per le pose un po’ forzate regalate in alcuni video. Abbiamo tirato in ballo Boris, con decine di battute diverse, e invece – per dire – il video con cui Raggi comunica che Muraro resterà al suo posto (e che quindi lei è riuscita a tenere testa al Direttorio e persino a Beppe Grillo, che avrebbero voluto le dimissioni: ma solo Raffaele Marra verrà spostato ad altro incarico) è un capolavoro. Da nessuna parte si riflette il copione, il microfono non entra nell’inquadratura, la lettura è fluida, spontanea, e non traspare disagio neanche quando si dice «voglio spiegare con semplicità cosa è accaduto» e poi, in realtà, non si spiega nulla.

Perché questo è il succo di quanto successo ieri: il Movimento 5 stelle non spiega cosa è successo ma lo ridimensiona. Non spiega le liti al suo interno, non spiega perché nel Direttorio c’è chi gode per lo scivolone di Di Maio (come Carla Ruocco), ma si mostra «unito», come dice Grillo, che sul palco abbraccia tutti. Non spiega perché se quello che dice Di Maio è vero (che pensava che l’inchiesta su Muraro fosse frutto dell’esposto di Fortini, ex Ad di Ama nominato dal Pd, e quindi non meritevole di diffusione), non lo è stato anche per Pizzarotti, la cui inchiesta che gli è costata la sospensione è veramente frutto dell’esposto dei consiglieri del partito democratico. Non spiega, ma minimizza: «Qualche cazzata», come dice Grillo. Che poi sarebbe anche vero, perché la giunta Raggi non è la prima a cambiare assessori né capo di gabinetto (anche se è la più rapida a farlo), non è la prima ad aver un assessore coinvolto in un’inchiesta, che è cosa ben diversa da una condanna, se non fosse che questa vicenda tocca tutti i miti fondativi del Movimento, la trasparenza (l’inchiesta tenuta segreta), la democrazia diretta (le nomine decise nelle segrete stanze, con la “consulenza” di uno studio di avvocati), l’uno vale uno (il ruolo del Direttorio, il ruolo degli staff).

E invece no. La colpa alla fine è dei media, che hanno lasciato fare carne di porco di Roma ai partiti e che ora guardano le virgole nella giunta a 5 stelle. «Ma io ho le spalle larghe», dice Raggi. Ed è probabilmente vero. Perché sono le spalle di un Movimento che farà di tutto, dirà di tutto, per non perdere Roma. Non come il Pd con Marino, insomma, quando i 5 stelle erano ancora disponibili a cavalcare ogni retroscena dei giornali.

Alto 4 metri e lungo un chilometro, il nuovo muro antimigranti è a Calais

Alto 4 metri e lungo un chilometro, il nuovo muro antimigranti d’Europa è a Calais. Lo costruirà la Gran Bretagna per impedire che i migranti passino dal confine con la Francia.

epa04535113 Migrants gather food and supplies during the day, waiting for the night or a traffic jam to hop on trucks on their way to England in Calais, France, 19 December 2014. Illegal migrants from many different countries and continents have gathered in Calais for years, trying to hop on trucks to get to England. England and France are investing a lot of money to prevent these migrants from passing the Calais border. A new fence has been erected to do so, financed by England for a total amount of 15 million euros. EPA/ETIENNE LAURENT
Il campo informale di Calais

 

La notizia, resa nota dalla Bbc, è stata data dal ministero dell’Interno britannico: il sottosegretario per l’Immigrazione Robert Goodwill ha confermato che Londra sta lavorndo per intensificare la sicurezza intorno al porto «ricorrendo ad attrezzature migliori». E quale miglior attrezzatura, per impedire alle persone di attraversare il confine, di un muro? La barriera sarà innalzata prima che il 2016 finisca e, per farlo, i lavori partiranno già in settembre e costeranno 2,7 milioni di euro, già finanziati dal governo di Londra in accordo con la Francia di François Hollande (l’accordo ha la data di marzo). Il muro è parte di un pacchetto più esteso di lavori “di contenimento” da 17 milioni di sterline (20 milioni di euro) concordato tra Londra e Parigi nel marzo scorso.

Nella “Giungla di Calais” – il campo informale a ridosso della tangenziale che conduce al porto, messo in piedi dieci anni fa – attualmente vivono 10mila migranti. Contro di loro, in queste ore, è esplosa la protesta dei camionisti che hanno bloccato le vie di accesso alla città francese sulla Manica. Protestano contro le frequenti interruzioni del traffico, di notte e di giorno, dovute ai tentativi di molti migranti di “imbarcarsi” su un tir in corsa. I camionisti chiedono alle autorità francesi la chiusura del campo di Calais a ridosso della tangenziale che conduce al porto. La Francia promette da tempo di smantellare la “Giungla” e in queste ore – sarà che i sondaggi danno la Le Pen in testa alle prossime elezioni? – il pugno francese si fa ancora più duro, con l’annuncio dell’invio id altri 400 agenti. Non sarebbe il primo sgombero, più volte le autorità francesi sono intervenute, ma poco dopo il campo è risorto lì dov’era. Una volta attraversato l’inferno per arrivare fin qui, a un passo dall’agognata Inghilterra. queste persone non hanno certo intenzione di tornare indietro. All’ingresso del campo il murales di Banksy lo sintetizza con una sola scritta: London calling.

Guarda anche:

Arrivano i barbari!

La mappa interattiva con tutti i muri di contenimento innalzati nel mondo

Presidente venga qui! La petizione di Left chiede a Mattarella di visitare i luoghi del caporalato

Rignano Garganico, Ragusa, Villa Literno, la provincia di Latina. Ma anche i posti che non ti aspetti, da Nord a Sud, e le forme meno eclatanti di discriminazione e violazione dei diritti dei lavoratori, migranti e non. Il caporalato, con la filiera dello sfruttamento di cui è parte, è un fenomeno che ormai pervade l’intero Paese.

Per questo Left ha promosso una petizione su Change.org, cui stanno aderendo diverse associazioni, testate giornalistiche e realtà che si occupano di lotta allo sfruttamento (ne daremo conto in maniera dettagliata nei prossimi giorni), è un invito rivolto al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a visitare i ghetti italiani, che Left continuerà a raccontare ospitando storie di denuncia e di reazione insieme a contributi di riflessione.

«Forse è il caso che lo Stato faccia la sua parte non solo dal punto di vista legislativo ma anche nella sua funzione di cura, vicinanza e osservazione» recita la petizione. Da qui la richiesta al Presidente della Repubblica di recarsi nei territori per incontrare «chi da tempo si ritrova al fronte di questa battaglia», con la richiesta di far «giungere in questi luoghi il messaggio del Paese che include e che non tollera alcuna forma di schiavitù».

Di Maio, il sottovalutatore sopravvalutato

Roberto Fico (S) e Beppe Grillo ascoltano l'intervento di Luigi Di Maio sul palco di piazza Cesare Battisti a Nettuno (Roma) per la chiusura del tour Costituzione Coast to Coast per il "No" al referendum costituzionale, 07 settembre 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MEO

Il caos su Roma, anche se spiacerà agli squali del PD, non tanto il fallimento di Virginia Raggi (che deve ancora iniziare a amministrare, persa e incartata tra brutti giochi di poteri ostili e correnti amiche) ma è soprattutto il doloroso ritorno sulla terra di Luigi Di Maio. Il democristiano grillino, bravissimo a indossare il grigio pur con movenze populiste, ha giocato in tutti questi mesi a fare il geneticamente diverso rispetto ai suoi compagni di partito. Di Maio il moderato, Di Maio il dialogante, Di Maio con le stigmate dello statista: il secchione grillino che avrebbe dovuto insegnarci la rettitudine cade sulla mancata comprensione di una mail che l’avrebbe avvisato dell’indagine in corso sull’assessore Muraro.

Ma lui, andreottiano nell’emulazione, ha finto la solita calma olimpica quando gli hanno chiesto di dare la sua opinione. «Non rispondo sui se» ha dichiarato alla festa de Il Fatto Quotidiano con quel suo solito piglio saccente da destrorso capacissimo di fare il moderato. Ed è proprio questa risposta che, speriamo, lo taglia fuori dal gioco grande dei papabili candidati alla presidenza del Consiglio: troppo bravo a fingere di non sapere, troppo svelto nel far sapere di non sapere e troppo pronto a raccontare balle.

L’essere fortemente politico nel partito dell’antipolitica è un rischio che andrebbe calcolato con cura e Di Maio, invece, ha dimostrato un mestiere che non può certo piacere alla sua base. «Ho sbagliato in buonafede» ha dichiarato Di Maio ieri sera sul palco con Grillo. Noi gli crediamo, per carità.

E in buonafede gli diciamo che se il Movimento 5 Stelle ha tra le sue qualità quella di essere ruspante allora la presenza del gran moderatore è quanto di più antitetico ci potremmo augurare. Caro Di Maio, siediti a fare il portavoce in Parlamento. Va bene così.

Buon giovedì.

Francia, Le Pen in testa ai sondaggi. Hollande quarto, ma non vuole farsi da parte

epa04454066 French President Francois Hollande (C) makes his speech prior to a dinner as part of a Strategic Attractiveness Council at the Elysee Palace with French Prime Minister Manuel Valls (L) and French Economy Minister Emmanuel Macron (R) and a group of International CEOs, in Paris, France, 19 October 2014. EPA/YOAN VALAT / POOL MAXPPP OUT

Il presidente Hollande è il più impopolare della storia di Francia. Un sondaggio pubblicato da Le Figaro gli assegna l’11% delle intenzioni di voto, quarto o quinto, a seconda del numero di candidati proposti al campione. Un disastro.

A veleggiare verso il secondo turno delle presidenziali previste per la primavera del 2017 è Marine Le Pen, in testa con una quota che oscilla tra il 26 e il 28,5% dei consensi. Al secondo posto il candidato dei repubblicani, che si tratti di Francois Sarkozy o Alain Juppé, impegnati in uno scontro per le primarie, al terzo l’ex ministro dell’Economia Macron, dimessosi da una settimana e destinato ad agitare le acque del quadro politico, specie a sinistra (ma nono solo).

Gli incroci tentati da Le Figaro sono molti, con e senza Macron, con il candidato di sinistra Mélenchon (ce ne sono anche altri), con Juppé e con Sarkozy, con l’altro candidato potenziale di sinistra Montebourg. Siamo ancora lontani dalla campagna vera e propria, gli schieramenti e i patti non sono definiti, ma l’unica certezza è che c’è un impatto di ciascun candidato potenziale sull’andamento degli altri. Tradotto: se Macron non si candidasse, Juppé – ma non Sarkozy – oggi sarebbe il candidato più votato. Più di Le Pen. Se ci fosse il centrista Bayrou, calerebbero i Repubblicani e salirebbero di poco sinistra e socialisti. Gli unici due candidati che sono quasi immobili, qualsiasi cosa succeda, sono Le Pen e il povero Hollande, sul quale pesa la richiesta di primarie della sinistra tutta – che alcuni candidati non vorrebbero per paura di trovarsi Hollande vincente grazie all’apparato socialista.

La seconda parte del sondaggio è interessante proprio in questa chiave, la domanda rivolta è: chi vorreste come candidato? La risposta è tutti meno il presidente in carica. Il campione generale risponde Macron, Valls, Montebourg, Mélenchon e, solo poi, Hollande. Elettori e simpatizzanti di sinistra puntano anche loro su Macron ma mettono Mélenchon al secondo posto, solo tra gli elettori socialisti Hollande è secondo (dopo il solito Macron).

In questo contesto, il presidente, che domani terrà un discorso sull’antiterrorismo, l’unico tema forte rimastogli, visto che si è trovato a dover gestire quattro attentati terribili nei quattro anni di presidenza. Certo è che anche qui il rischio è quello di dare forza a Marine Le Pen e ai suoi argomenti, che fare il candidato della sinistra presentandosi come l’uomo di legge e ordine non è proprio una carta vincente. Il sondaggio pubblicayo in questi giorni indica come spazio a sinistra, se si terranno primarie vere o se si raggiungerà un accordo serio su come e chi presentare al posto di Hollande, ce ne sarebbe. Si tratta di rassicurare un Paese inquieto che ha vissuto una crisi pesante e attraversa un crisi di identità. Ma anche di avere una faccia capace di guardare al futuro: i candidati possibili sono la figlia del fondatore del suo partito, l’ex presidente, il presidente in carica e vecchia volpe del Ps, l’ex premier e ministro. Tranne Macron, che forse solo per quello raccoglie tanti consensi, tutto materiale vecchio, con la novità Front National che ha dalla sua il fatto di non aver mai governato. Il probelema della politica francese, e il numero e la longevità dei candidati in questo senso ne è una riprova, è che è molto un pollaio pieno di galli. A sinistra, dove non si riesce a trovare un’alternativa unica a Hollande e dove lo stesso presidente non sembra intenzionato a farsi da parte nonostante il disastro combinato, come a destra dove i due rivali repubblicani si fanno una guerra senza esclusione di colpi. Intanto Marine Le Pen e i suoi giovani e moderni collaboratori, si godono lo spettacolo.

L’ex presidente Barroso a Goldman Sachs. Difensore civico, società civile e sinistra europea insorgono

epa03799421 European Commission President Jose Manuel Barroso grimaces during a joint press conference with EU Industry and Entrepreneurship Commissioner Tajani and EU Commissioner for Internal Market and Services Michel Barnier (both not pictured), at the EU Commission headquarters in Brussels, Belgium, 24 July 2013. The European Commission will adopt a communication announcing a set of measures to enhance the efficiency of Europe's defence and security sector. EPA/JULIEN WARNAND

Una notizia arriva e – almeno in Italia – passa in sordina: l’ex presidente della Commissione europea, Josè-Manuel Barroso, è stato nominato presidente non esecutivo della banca d’affari statunitense Goldman Sachs. Due mesi dopo quella nomina, arriva una lettera della Ombudsman, il difensore civico europeo, Emily O’ Reilly, indirizzata all’attuale presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, a chiedere che venga fatta chiarezza: è stata verificata la regolarità di tale nomina? «La mossa di Barroso ha generato preoccupazione in un momento molto difficile per l’Ue e particolarmente in relazione alla fiducia dei cittadini nelle sue istituzioni», scrive O’ Reilly. La Commissione ribatte che «le regole non sono state infrante», ma la Ombudsman non molla: «Non è abbastanza dire che le regole non sono state infrante», obietta, «il diritto di lavorare non è senza riserve e deve essere bilanciato con l’interesse pubblico ad una amministrazione etica». Sfortunatamente O’Reilly può avviare indagini, ma non è in grado di comminare multe.

Trasparency international ha lanciato una petizione online
che chiede che a Barroso venga tolta la pensione.

La denuncia del conflitto di interesse arriva pure dal gruppo della sinistra europea (Gue/Ngl): «Questa nomina è del tutto vergognosa. Barroso ha aspettato la fine dei suoi 18 mesi di tempo per raccogliere subito la sua ricompensa per il buon lavoro che ha fatto per la Goldman Sachs e per i mercati finanziari, devastando la vita di milioni di cittadini europei con l’austerità in Portogallo, Grecia, Irlanda, Spagna, Italia, tra gli altri», ha dichiarato la parlamentare del gruppo Marisa Matias.

Il nuovo incarico di Barroso, come ha dichiarato lui stesso al Financial Times, sarà quello di consigliere «per mitigare gli effetti negativi della Brexit sulle banche che hanno sede nel Regno Unito». E anche su questo O’Reilly chiede chiarimenti. E quando Barroso alzerà la cornetta per contattare il capo negoziatore europeo su Brexit, sapete chi troverà? Michel Barnier, che era commissario quando Barroso era presidente. Altro che Ttip, nei posti di comando il libero scambio è già realtà.