Rajoy è senza maggioranza. Il socialista Sanchez non molla, quello a Mariano Rajoy è e resta un No. A niente sono valsi i suoi appelli disperati – «Il paese ha bisogno di governo con urgenza» – il presidente uscente e incaricato si presenta davanti alla Camera spagnola con la certezza di non avere i voti necessari per diventare premier. Senza alcuna sorpresa, quindi, si registrerà la bocciatura al primo voto di investitura.
Pedro Sanchez e i socialisti non fanno nemmeno un passo indietro: «L’articolo 99 della Costituzione dice che il candidato necessita della fiducia della Camera. Voteremo No perché non ha la nostra fiducia». Sanchez tiene fermo un No su basi politiche ed economiche, giudicando un eventuale governo Rajoy «conservatore e di continuità». E a chi lo accusa di voler precipitare in Paese nel caos con nuove elezioni, come Rajoy ma anche come molta stampa spagnola, risponde: «La responsabilità del fallimento del signor Rajoy per la sua investitura è esclusivamente del signor Rajoy, per la sua incapacità di ottenere una maggioranza».
El presidente de un partido imputado no puede ser quien lidere la regeneración democrática que necesita nuestro país pic.twitter.com/dqH9841jIY
In queste settimane, Rajoy è riuscito a convincere – oltre, ovviamente, ai suoi 137 deputati popolari – soltanto i 32 di Ciudadanos e l’unico deputato di Coalicion Canaria. Totale: 170 su 350, quindi al disotto della maggioranza assoluta di 176, necessaria per ottenere l’investitura al primo turno. Oltre al Psoe hanno annunciato voto contrario Podemos (71 seggi) e i 24 deputati nazionalisti e indipendentisti catalani e baschi.
Già certi di questa bocciatura, ci si prepara al secondo voto, previsto per venerdì, dove la maggioranza necessaria è quella semplice. Ancora nulla, insomma. Un altro risultato negativo di Rajoy è all’orizzonte. A meno che il Psoe non incappi in una spaccatura e qualcuno decida di disobbedire alla linea del partito. Cosa che appare altamente improbabile a giudicare dalle dichiarazioni di tutti i dirigenti.
Se i socialisti rimanessero compatti, invece, la palla passerebbe proprio a Pedro Sanchez che da sabato sarà il protagonista assoluto in quel di Spagna, con davanti a sé un bivio. Tra lavorare a una coalizione progressista con Unidos Podemos: «Se Sanchez farà un passo in avanti, noi staremo al suo fianco», “manda a dire” Pablo Iglesias a Pedro, sottolineando che, se proprio non vuole nuove elezioni, «è obbligato a cercare un’alternativa insieme a Unidos Podemos». Un governo targato Psoe e Unidos Podemos, del resto, sarebbe possibile, con un gioco di astensioni incrociate di nazionalisti e Ciudadanos. Oppure, se entro il 2 novembre la Spagna non avrà un nuovo premier, si torna a votare in dicembre, il giorno di Natale, per la terza volta in un anno. Quasi un eccesso di democrazia, tanto più se visto con occhi tricolore, dove invece non si vota da tre anni.
La Polonia di Beata Szydlo, l’Ungheria di Viktor Orban, la Repubblica Ceca di Bohuslav Sobotka e la Slovacchia di Robert Fico. In comune hanno tante cose, ma soprattutto una: boicottare la politica migratoria europea, e tirare a destra, sempre più a destra. Altro che relocation, in vista del vertice di Bratislava, previsto il 16 settembre, i quattro rilanciano e invocano più sicurezza e più disciplina.
Tutto si può dire a Viktor Orban – e ai tre compagni di Visegrad – tranne che non parli chiaro: «L’Ue ha perso la sua adattabilità e non abbiamo la risposta giusta all’immigrazione e al terrorismo». E propone: «Dobbiamo dare priorità alla sicurezza e cominciare costruendo un esercito comune europeo.Merkel non si oppone ma resta prudente sulla possibilità di creare un’armata europea, anche perché se i membri di Visegrad appartengono tutti alla Nato, dentro l’Ue a 27 ce ne sono almeno sei che non ne fanno parte: Austria, Cipro, Finlandia, Irlanda, Malta e Svezia. Non è una bella situazione, insomma. E il vertice di Bratislava, prova a incoraggiare Merkel, «è un punto di partenza» e non di arrivo dell’Ue a 27: «La Brexit è un profondo punto di rottura nella storia dell’Ue, quindi dobbiamo lavorare ad una risposta molto attenta».
Il Gruppo di Visegrád – che conta una superficie comune di 533.616 km quadrati e una popolazione di oltre 64 milioni di persone – si era costituito all’inizio degli anni 90 per promuovere l’integrazione del gruppo dei 4 all’interno dell’Ue, dopo anni di rapporti diretti dei singoli Stati con Bruxelles, oggi appare rinvigorito e oltre a una superficie, una popolazione e un’economia, sembra avere anche una linea politica comune: soldi e non migranti. Gli onori di casa, il prossimo 16 settembre a Bratislava, li farà Robert Fico, ovvero l’Orban slovacco (qui, una breve bio di Fico): «La Slovacchia non ha bisogno di politiche di sinistra o di destra, ma di una politica in grado di risolvere i problemi», ha detto Fico nel 2000. Di origini operaie e formato nella Cecoslovacchia comunista, Fico vince le elezioni una dietro l’altra, anche sotto le vesti di socialista europeo che combatte le politiche di austerity, mentre si allea con la destra. Oggi il suo principale alleato è Viktor Orbán e, come lui, fa della questione rifugiati un motivo di scontro culturale: «La Slovacchia è un Paese cristiano, non possiamo tollerare l’afflusso di 300mila, 400mila immigrati musulmani che vorranno iniziare a costruire moschee nella nostra terra, cercando di cambiarne la natura, la cultura e i valori dello Stato».
Alzi la mano chi vuol fare il presidente dopo Hollande. Nel suo partito o nei pressi di esso in questo momento contiamo Emmanuel Macron, padre della riforma dell’economia molto contestata nei mesi scorsi, che si è dimesso dal suo incarico di ministro dell’Economia proprio oggi. Poi c’è Manuel Valls. Normale visto il disastro della presidenza attuale: Hollande, che pure nei prossimi giorni ha promesso un discorso importante, è tra i politici meno popolari della storia dell’universo. E il Front National, nei sondaggi e nell’urna, è ai massimi storici.
Sarà per questo che il capo del governo Valls non si lascia scappare occasione per dire cose di cui un politico di sinistra dovrebbe pentirsi. Dopo aver spiegato ai francesi che il divieto di burkini in spiaggia era una cosa lecita e dopo essere stato messo in riga da un giudizio dell’Alta corte francese, che sosteneva il contrario, oggi il premier spiega che la Marianne, il simbolo della Francia, ha il seno scoperto perché «sta nutrendo il popolo, perché è libera». La dichiarazione ha scatenato un putiferio. Giustamente.
Benone, prendiamo le questioni una per una. Marianne, il simbolo della Repubblica, è a seno nudo perché è libera. Peccato che, come ha fatto notare la storica Mathilde Larrere con questa bella serie di tweet qui sotto, l’immagine di Delacroix a cui si richiamava Valls non rappresenta Marianne, ma la libertà; la scelta di usare una donna era contrapposta al potere regale, maschile; si tratta di un’immagine che comunque riprende la iconografia classica di libertà non una scelta in qualche modo politica ma un canone artistico; le immagini della Marianne che tendono a prevalere sono due e ce n’è una più severa e una più rivoluzionaria, a seno scoperto – qualsiasi di esse ci piaccia di più, resta il fatto che la Marianne non è una, ma molte; con il succedersi delle repubbliche cambia l’iconografia. L’affermazione di Valls è quindi una sciocchezza dal punto di vista del contenuto. Come spiega lo storico Nicolas Lebourg a Liberatìon, ci sono due Marianne, ma il quadro è del 1830 mentre l’allegoria della Repubblica viene proclamata 18 anni più tardi. In fondo, a usare la Marianne, di questi tempi, è spesso il Front National, che un tempo usava solo Giovanna d’Arco.
Ma c’è qualcosa in più: il premier socialista con la sua affermazione sceglie di dire un altro paio di cose. La donna nuda è lì a svolgere il suo ruolo naturale: nutrire il popolo. Dicendo che è nuda perché libera, poi, Valls sottintende, un’altra volta, che le donne che scelgono liberamente (una, dieci, mille che siano) di coprirsi il capo o di vestire il burkini in spiaggia non lo siano. Pessima uscita, che si speiga solo con un calcolo elettorale. Fatto sta che in sala, riportano i giornali francesi, due ministri, Najat Vallaud Balkacem, 38enne nata in Marocco, ministra dell’istruzione, la prima donna a occupare quella posizione, e Marisol Touraine, ministro degli affari sociali, avevano l’aria un po’ sperduta e non battevano le mani.
L’idea di Valls sembra quella di proporsi come una figura che tiene insieme la sinistra e quel mal di pancia anti-islamico che però Marine Le Pen incarna già perfettamente e in forme tutto sommati digeribili e meno brutali e volgari di suo padre Jean Marie. Per questo rincorrerla è suicida. Lo è per Hollande, che flette i muscoli in materia di sicurezza e lo è per la nuova guerra culturale avviata da Valls.
Quanto a Macron, la notizia politica francese del giorno, ma ampiamente annunciata, lui e il suo movimento En Marche, si collocano più o meno al centro di un quadro politico francese piuttosto confuso. Più giovane, più moderno, più dinamico e meno politico è indubbiamente lui la figura nuova. Ma ha generato una risposta forte e dinamica da parte di chi ha contestato le sue politiche, dai sindacati a nuit debout, che magari non sono forti, ma servono a un presidente di sinistra per vincere.
A novembre si terranno le primarie repubblicane nelle quali si sfideranno due vecchi personaggi della politica francese:l’ex presidente Sarkozy e Alain Juppé, ex ministro, ex premier e sindaco di Bordeaux. Quelle di sinistra si dovrebbero tenere a dicembre, ma non è del tutto chiaro cosa saranno. Il PS era orientato a non fare primarie, ma i sondaggi indicano che quella è l’unica strada per dare slancio a una candidatura di sinistra. Gli altri partiti – Verdi e comunisti – prendere l’impegno a candidare il vincitore di primarie che non vogliono sia Hollande. Poi c’è Marine Le Pen.
Un vecchio detto inglese dice che nella vita ci sono solo due cose sicure: la morte e le tasse. E a giudicare dall’ultima sentenza della Commissione antitrust europea il proverbio potrebbe valere anche per Apple. L’Irlanda infatti sarà obbligata a riprendersi indietro ben 13 miliardi che Apple, sulla base di una tassazione particolarmente favorevole in vigore nel paese, non ha pagato violando così le norme stabilite dall’Ue.
Sulla base infatti di quella che il Financial Times descrive come «un’oscura regola del sistema di tassazione irlandese stabilita per la Apple nel 1991», l’azienda di Cupertino è riuscita a pagare appena l’1% di imposte sui profitti realizzati in Unione Europea nel 2003, addirittura lo 0,005% nel 2014 e in totale negli ultimi 10 anni circa il 4%.
Cifre assolutamente sproporzionate rispetto ai guadagni stellari della multinazionale californiana. Il caso di Apple inoltre è particolare anche per questo: circa il 90% dei suoi profitti maturati all’estero sono canalizzati legalmente in Irlanda dove appunto il carico di imposta è nettamente inferiore rispetto ai paesi in cui quel guadagno è stato prodotto. A questo si aggiunge il fatto che difficilmente i vari paesi si possano imporre e rifiutare di collaborare con l’azienda di Cupertino visto che il valore di mercato che muovo i prodotti della mela all’estero è di circa 600 miliardi di dollari, ai quali si aggiungono migliaia di posti di lavoro ed investimenti vari per realizzare store e attività commerciali.
La sentenza – che non consiste in una vera e propria multa, ma appunto nell’obbligo per l’Irlanda di recuperare e pretendere da Apple le tasse non pagate tra il 2003 e il 2014 con l’aggiunta degli interessi – ha l’obiettivo di riequilibrare questo evidente divario di forze ed è una questione grande abbastanza da avere potenzialmente un impatto sulle imminenti presidenziali americane, sull’altrettanto imminente lancio dell’iPhone7, ultimo prodotto di casa Apple, e generare un’aspra battaglia legale. Sì, perché ovviamente né il governo irlandese né l’azienda fondata di Tim Cook hanno intenzione di darla vinta alla commissione e accettare a testa bassa la sentenza.
Apple non vuole sborsare l’esorbitante cifra e l’Irlanda che grazie alla sua tassazione agevolata è diventata la sede europea dei grandi colossi tecnologici (da Twitter a Google) non ha nessun intenzione di vedere fuggire queste imprese all’estero con la conseguente perdita di migliaia di posti di lavoro. «Sono in totale disaccordo con la Commissione antitrust Ue» ha commentato Michael Noonan, ministro delle finanze irlandese.
Tim Cook, amministratore delegato di Apple, invece aveva dichiarato al Washington Post già il mese scorso che il sistema fiscale irlandese non favorisce esclusivamente la sua azienda poiché è applicabile a qualsiasi società. In altre parole, Apple non ha ottenuto alcun trattamento speciale in Irlanda, non ha goduto di alcun aiuto di Stato e dunque non avrebbe infranto nessuna norma antitrust.
E se la questione per Cook non si pone nemmeno e gli estremi per il ricorso ci sono tutti, dall’altro lato si fa ancora più interessante per riflettere sullo strapotere delle nuove aziende del settore digitale, talmente ricche da poter essere al di sopra della legge. Un po’ come accadeva nei primi anni 20 del ‘900 con tycoon come Cornelius Vanderbilt e John Rockefeller. Se poi si aggiunge anche il controllo della maggior parte dei dati degli utenti web il panorama si fa inquietante abbastanza per sembrare un romanzo di fantascienza con echi da Grande Fratello.
In tutto questo però la Commissione sembra determinata a cambiare rotta e dar fastidio il più possibile ai paperoni del web e non solo. «Guardando avanti, l’obiettivo finale è che tutte le compagnie, grandi e piccole, paghino le tasse dove generano i loro profitti», ha dichiarato la commissaria Margrethe Vestager. Il caso Apple sarà decisamente un precedente importante per determinare la nuova politica europea in materia fiscale.
Terremoto, l’amaro risveglio. “Lo scandalo dei soldi deviati”, Repubblica. “Certificati falsi su caserme e scuole”, Corriere. “Caccia alla truffa degli appalti”, la Stampa. Si tratta dei soldi assegnati dopo il terremoto del 1997 in Umbria e quello del 2009 de L’Aquila ai comuni di Amatrice, Acculoli, Arquata. Colpisce la tabella che la Stampa pubblica a pagina 3: a sinistra l’edificio (torre civica, caserma o chiesa), al centro la cifra a disposizione, a destra il risultato (inagibile o danneggiato o lavori non ultimati). Come terribile è lo scaricabarile denunciato da Sergio Rizzo a pagina 30 del Corriere della Sera. L’ex governatrice Polverini, “La regione non c’entra nulla”. Il sindaco di Amatrice, Pirozzi, “io sono parte lesa”. Il costruttore Truffarelli “ho la coscienza a posto”. Il pompiere geometra responsabile del rischio, “sono solo un centralinista”. Il commissario per il terremoto (deputato Pd), “non ci furono interventi sismici, solo ripristini”. Credo di capire. I soldi non erano tanti. A ogni calamità quelli disponibili vengono divisi, centellinati, assegnati a pioggia per accontentare quante più amministrazioni. Così nei luoghi del recente terremoto sono stati usati, per ripulire le facciate, per nascondere qualche crepa e dare ossigeno all’economia dei luoghi: con leggerezza. Poi però si muore, come sono morti gli scolari della “Romolo Caprarica”, frequentata in parte da bambini rumeni, del Kosovo e albanesi, nuovi cittadini che ripopolano i villaggi di montagna. Li ricorda, per Repubblica, Benedetta Tobagi. Promesse e castelli di carte. L’immagine del “castello di carte” è di Giannelli. Il fatto: pare si sia aperto un contenzioso tra governo italiano e Unione Europea. Il governo conta di spendere 2 miliardi l’anno per molti anni, l’Europa accetta che solo i soldi “per l’emergenza” vengano scontati dalle misure di rigore sottoscritte anche dall’Italia. Renzi serra la mascella e replica: “prenderemo ciò che serve”. Il punto dolente investe la (scarsa) credibilità del nostro premier, sospettato di aver speso senza costrutto, e solo per lucrare consensi elettorali, tutto quel poco che una Europa avara gli ha finora concesso. Massimo Franco vede Il premier intenzionato a ricalibrare il suo profilo”. Ne ho scritto anch’io ieri, ma ho aggiunto che Matteo Renzi non potrà utilmente “ricalibrare” alcunché senza sconfessare la politica economica fin qui seguita. Poco efficace (“crescita zero per tutto il 2016, cala la fiducia, l’Italia non riparte”, scrive Repubblica) e furbesca (cerca di strappare condizioni di favore ma non ha il coraggio di indicare una via alternativa per tutti). Bombe sui curdi, scontro USA Turchia, Repubblica. Ne scrivo da giorni. Erdogan vuole ripulire le zone della Siria che confinano con la Turchia, al di qua dell’Eufrate, dai combattenti curdo-siriani del YPG, organizzazione imparentata con i curdo-turchi del PKK. La Turchia ha mandato i carri armati e usa “ribelli” turcomanni anti Assad già alleati di Al Qaeda. Ma Damasco non si lamenta troppo. L’importante per Assad è prendere Aleppo, è potersi sedere in condizioni di forza relativa al tavolo della trattativa sul dopo guerra civile, e mantenere il pieno sostegno della Russia e dell’Iran che ora dialogano con Ankara. Per Stati Uniti ed Europa quel che sta accadendo è la prova dell’irrilevanza, in cui la stanno cacciando gli errori commessi. E della vergogna, per essersi appiattiti sull’Arabia Saudita che del terrorismo islamico è stata la culla ed è la retrovia. Qualche segno di ripensamento ci coglie nell’articolo di Frank-Walter Steinmeier pubblicato dalla Stampa. La Russia -sostiene il ministro degli esteri tedesco- ha violato il diritto internazionale annettendosi la Crimea, ma con la Russia serve “dialogo per risolvere le crisi”. Aggiungo che per primi noi euro-americani abbiamo violato il diritto internazionale imponendo con le armi la secessione dal Kosovo dalla Serbia e, a rigore, lo abbiamo violato anche sostenendo Maidan, l’insurrezione della piazza di Kiev che si è liberata del presidente eletto ma autocrate e pro russo Yanukovic. A proposito di colpo di stato, tale è quello che si sta consumando in Brasile, dove il Senato voterà l’impeachment di Dilma Roussef, la quale ha commesso gravi errori ma non i crimini per cui, solo, la Costituzione prevede la destituzione del presidente eletto.
Palermo-29 agosto 1991-Mafia assassinato industriale a Palermo.Nella foto Libero Grassi nella sua azienda per la produzione di biancheria.Ansa
Ogni tanto le circostanze giocano brutti scherzi per uno strano incastro di tempi e così succede, com’è successo ieri, che in giro si ricordassero tutti di Libero Grassi, l’imprenditore palermitano ucciso da Cosa Nostra per essersi ribellato al pizzo il 29 agosto del 1991.
Commemorare la memoria, si sa, è una pratica salutare se i ricordati sono persone che, proprio come Libero Gassi, hanno pagato con la vita il coraggio di osare le regole. Regole e giustizia. A costo di fare arrabbiare i prepotenti e, soprattutto, essere isolati dai buoni.
Nei Paesi stanchi si infila l’idea che sia giusto ciò che è comodo, produttivo e che riesce a non sforare le regole. Tutto ciò che non è illegale è quindi giusto? No, certo, risponderebbero tutti d’acchito, eppure pullulano le articolesse che demandano ai giudici la parola definitiva tanto per la giustizia quanto per l’opportunità, la valenza sociale e politica di tutte le umane azioni. Il “primato della politica” arriva sempre dopo la giustizia e così è diventato un primato secondario. Per dire.
Libero Grassi dal momento in cui decise di rendere pubblico il proprio rifiuto di non sottostare al racket di Cosa Nostra fu considerato pericoloso sia dai cattivi che dai buoni. Ma qui sono i buoni ad interessarci: gli industriali palermitani ritennero che la ribellione di Libero Grassi potesse mettere a rischio i propri affari poiché pretendere una rivoluzione così improvvisa avrebbe sconquassato gli equilibri cittadini. Libero Grassi, in fondo, è stato un “improduttivo” che ha messo davanti gli interessi collettivi alla crescita del fatturato locale e così non potendogli dare dell’egoista finì che lo bollarono come cattivo esempio di protagonismo.
Ecco perché tutto questo trastullarsi la memoria di Libero Grassi di ieri forse stona un po’, oggi: oggi mentre l’ammorbidimento della regole (che nel lavoro si chiamano spesso diritti) sembra la soluzione unica per la ripresa dell’economia. Oggi mentre ancora rimbombano le parole di Marchionne che ha goffamente tentato di insegnarci che il troppo profitto diventa avidità. Marchionne. Lui e l’etica del lavoro. Da non credere.
Il fatto è che se dovessimo esercitarla la memoria avremmo dovuto nel giorno dell’anniversario della morte chiederci se abbiamo costruito un’Italia che oggi riconoscerebbe Libero Grassi, il suo coraggio, la sua etica, la sua schiena dritta nel fare impresa. Dovremmo chiederci se siamo riusciti davvero a costruire un Paese che oggi riconosce i suoi uomini Liberi in giro.
epa05514219 Suspended Brazilian President Dilma Rousseff presents her final arguments in the impeachment process to the Senate, in Brasilia, Brazil, 29 August 2016. Rousseff was suspended on 12 May, after the lower house of Congress voted to impeach her on charges that she manipulated budget figures to disguise the size of the deficit. EPA/CADU GOMES
Superba e colma di dignità. Dopo aver salutato sorridente i suoi sostenitori fuori dall’Aula, Dilma Rousseff ha fatto il suo ingresso al Senato, accompagnata da Ignacio Lula da Silva. I 180 giorni a sua disposizione sono scaduti, e adesso si è presentata davanti a Michel Temer e ai senatori che vogliono destituirla per difendersi da sola. Non doveva farlo, ha scelto di farlo. E ha pronunciato un discorso per la Storia: «Davanti alle accuse che mi sono rivolte, non posso non sentire ancora il sapore amaro dell’ingiustizia e dell’arbitrarietà. Ma, come in passato, resisterò. Non aspettatevi da me il silenzio ossequioso dei codardi».
Un discorso chiaro ed emozionante, anche per chi lo ha seguito a miglia di distanza, in diretta video sui canali social della Presidenta, che non si è limitata a difendersi dalle accuse, ma ha inveito contro chi minaccia la democrazia e la giustizia del Brasile, accusando chi la accusa di «colpo di Stato». Ai senatori in aula, ha ricordato di essere stata eletta con il voto di 54 milioni di brasiliani e – a imperitura memoria – di aver già combattuto nella Resistenza brasiliana contro il governo militare. «Anche sotto tortura», ha continuato a combattere «per una società più equa – ha ricordato Rousseff -. Ho sempre creduto nella democrazia e nello Stato di diritto e ho visto nella Costituzione del 1988 una delle grandi conquiste della nostra gente».
Questo ha voluto ricordare Dilma alla platea istituzionale: 51 senatori si sono già dichiarati favorevoli, ne mancano tre per raggiungere la maggioranza necessaria dei due terzi (54). Una parte di chi voterà per l’impeachment è accusata o implicata in vicende di corruzione. E il presidente ad interim Michel Temer è pronto a giurare di poter contare su almeno 61 senatori. La maratona “processo” è andata avanti tutta la notte Per convincerli, Rousseff ha chiuso il suo discorso con un richiamo alla responsabilità: «Faccio un ultimo appello a tutti i senatori: non accettate un colpo di Stato che, invece di risolvere, aggraverà la crisi brasiliana. Vi chiedo di fare giustizia davanti a una presidente onesta che non ha mai commesso alcun atto illegale, nella vita personale o nell’esercizio delle funzioni pubbliche che ha ricoperto. Votate senza risentimento. Quello che ogni senatore sente per me e quello che sentiamo l’uno per l’altro è meno importante, in questo momento, di ciò che tutti sentiamo per il Paese e il popolo brasiliano. Chiedo: votate contro l’impeachment. Votate per la democrazia. Grazie».
Webete. È il neologismo coniato da Enrico Mentana per rispondere a un utente che polemizzava su terremoto ed immigrati. Per chi se lo fosse perso il fatto che ha fatto schizzare la parola coniata dal giornalista in trending topic su twitter in sostanza è stato questo: una donna di Amatrice, testimone di quello che stava accadendo dopo il sisma, spiega, in un commento sulla pagina facebook del direttore di La7, quanto il parallelismo fra “i terremotati nelle tendopoli e gli immigrati serviti e riveriti negli alberghi” sia sciocco e poco attinente alla realtà, interviene allora un altro utente, che, con fare da internauta scafato, suppone che la donna sia un fake, ovvero un profilo facebook fasullo che, non solo non corrisponde a nessuna persona reale, ma addirittura tenta di presentare come vera una cosa palesemente falsa. La risposta di Mentana arriva secca e fulminea: «lei è un webete».
Un webete, ma potremmo anche chiamarlo webidiota. Di neologismi in tema di hate speech, incitamento all’odio, in rete potremmo infatti coniarne a bizzeffe.
L’anno scorso, a metterci in guardia dalla deriva di questa libertà di parola online – nella quale ci si scorda che avere il diritto di dire la propria non significa dover per forza esternare il proprio pensiero in ogni occasione – era stato Umberto Eco. «I social media danno diritto di parola a legioni di imbecilli che prima parlavano solo al bar dopo un bicchiere di vino, senza danneggiare la collettività. Venivano subito messi a tacere, mentre ora hanno lo stesso diritto di parola di un Premio Nobel. È l’invasione degli imbecilli» aveva detto il sociologo dopo aver ricevuto la laurea honoris causa in “Comunicazione e Cultura dei media” all’Università di Torino. E allora viene da pensare che sì, è vero, ci troviamo di fronte ad un’invasione, non di immigrati però, ma di webeti. Hanno ragione Mentana ed Eco.
Di fronte a un fenomeno tanto diffuso viene spontaneo chiedersi quanto incida lo stesso web nella diffusione della stupidità.Una prima risposta ce l’ha data Michela Del Vicario del Laboratory of Computational Social Science dell’IMT Alti Studi Lucca autrice insieme ad altri colleghi provenienti da università straniere di uno studio che spiega come soprattutto gli ambienti social diventassero delle echo chambers, ambienti dove le bufale o le opinioni politicamente scorrette tendono a rafforzarsi e a diventare virali. Secondo Del Vicario questo accade perché: «le persone per lo più tendono a selezionare e condividere i contenuti sui social network in base ad una narrazione specifica che sentono affine alle proprie idee e ad ignorare il resto» .
Da un lato ci sono le bufale fatte di scie chimiche, vaccini che causano autismo e catene di Sant’Antonio dall’altro il cosiddetto hate speech, quei discorsi che incitano all’odio generalmente conditi da abbondanti dosi di razzismo, intolleranza (dall’omofobia al sessismo) e stereotipi vari. Questo non significa che l’hate speechabbia una vita solo virtuale, anzi, proprio perché esiste(e persiste)nella realtà offline, l’hate speech ha conquistato una sua rappresentazione online che, complici alcuni elementi caratteristici del web (commentare qualsiasi cosa immediatamente senza riflettere, senza essere effettivamente presenti per assumersi la responsabilità di quanto viene detto e senza che siano richieste competenze, algoritmi che tendono a mostrarci solo cose che confermano le nostre opinioni), ha trovato terreno fertile in rete tanto da fare di flame e troll elementi caratterizzanti del web. Secondo Joel Stein della rivista Time, è in atto una trasformazione, negli ultimi anni è infatti cambiata la personalità della rete. Un tempo il web 2.0 e i social network quello venivano enfatizzati per il loro carattere democratico e di libera informazione dei nuovi media. Mai prima di allora uno strumento aveva permesso a chiunque fosse in possesso di una connessione di accedere a una tale mole di dati e conoscenza.
Con il passare degli anni sono venute alla luce sempre più anche le ombre del web, a partire dalla questione della privacy fagocitata dai grandi colossi ansiosi di collezionare dati su possibili consumatori, fino ad arrivare agli istinti della massa canalizzati nei social network, dal cyber bullismo all’hate speech. Una trasformazione che, a ben vedere, non ha solo una ragione tecnica derivata dalla tecnologia e dall’architettura del web, ma anche sociale e politica derivata da dinamiche democratiche. Dinamiche meno recenti di quanto si possa immaginare. Lo storico greco Polibio per esempio teorizzava già più di duemila anni fa che ogni forma di governo avesse un suo aspetto degenerativo e che la democrazia, il potere del demos, il popolo, rischiasse se non tutelata di trasformarsi in oclocrazia (dal greco ochlos, folla) nel dominio di una massa informe, violenta ed ignorante. Oggi, a due millenni di distanza sul web ci ritroviamo messi sotto scacco da troll e webeti, una versione tecnologica e iperconnessa dell’ochlos di Polibio. Forse allora ci troviamo di fronte a una questione vecchia come il mondo.
In un articolo comparso circa un anno fa su La Stampa di Gianluca Nicoletti, proprio a proposito delle affermazioni fatte da Eco, «finalmente possiamo misurarci con il più realistico tasso d’imbecillità di cui da sempre è intrisa l’umanità. […] chi vuole afferrare il senso dei tempi che stiamo vivendo è costretto a navigare in un mare ben più procelloso e infestato da corsari, rispetto ai bei tempi in cui questa massa incivilizzabile poteva solo ambire al rango di lettori, spettatori, ascoltatori». Combattere i webeti e debellare l’hate speech è una delle sfide del nostro tempo per non scivolare in un’oclocrazia. Un’impresa ardua, ma non impossibile. Per combattere troll e utenti razzisti è necessario far capire, online come offline, che l’intolleranza non è un valore condiviso. «Oggi la verità va difesa in ogni anfratto, farlo costa fatica, gratifica molto meno – scrive sempre Nicoletti – , ma soprattutto richiede capacità di combattimento all’arma bianca: non si produce pensiero nella cultura digitale se non si accetta di stare gomito a gomito con il lato imbecille della forza». E se l’attacco è ai valori che hanno costruito la democrazia (libertà, uguaglianza, fraternità) la risposta probabilmente per debellare la webidiozia è educare nuovamente alla democrazia, costruire luoghi di confronto e analisi che si trasformino in echo chambers virtuose, avamposti online del fact checking che disinneschino bufale e incitamenti all’odio. Nell’era digitale questo è uno dei compiti del buon giornalismo. Non serve limitarsi a descrivere la rete come un luogo dove a vincere è l’intolleranza, non paga buttarsi a capofitto su titoli strillati e acchiappa click presi dall’ansia della crisi editoriale (come molti giornalisti invece fanno). Ci si deve sporcare le mani e rispondere a tono a chi non rispetta i valori democratici o, ancor più semplicemente, umani. Ritornare ad essere anche online cani da guardia della democrazia. Corretti, intelligenti, onesti. E in questo senso quel webete diventato virale ha fatto molto.
Intuizione, capacità di andare contro i luoghi comuni, fantasia, sono importanti nel lavoro scientifico. Non bastano studio e rigore negli esperimenti. Lo scrive il vice presidente dell’Accademia dei Lincei Lamberto Maffei nel libro Elogio della ribellione (Il Mulino).
Perché un pensiero cambi il mondo, bisogna prima che cambi la vita di colui che l’esprime. Che cambi in esempio» scriveva Albert Camus nei Taccuini (1935-59). Il neurobiologo e vice direttore dell’Accademia dei Lincei Lamberto Maffei ne ha fatto l’esergo di un suo personale Elogio della ribellione (Il Mulino), scritto dal punto vista di un medico che ha trascorso molti anni a insegnare in Normale e a fare ricerca. Un’attività che, scrive Maffei, chiede di «essere aperti alla meraviglia del nuovo e dell’incontro».
L’intuizione, la capacità di mettere in discussione dogmi e tradizione, la fantasia, accompagnano da sempre le scoperte scientifiche. Dall’eliocentrismo che mandò gambe all’aria il sistema aristotelico tomistico alla relatività di Einstein che apriva alla quarta dimensione, fino al Bosone teorizzato da Higgs, solo per fare degli esempi. Professor Maffei, oltre all’impegno nello studio, quanto conta nella ricerca sapersi ribellare?
È una questione che sento molto avendo fatto il ricercatore tutta la vita. La scienza è il nuovo, saper pensare diversamente. Ma spesso le congiunture economiche spingono a seguire certe direttive, perché solo così si trovano i fondi nella ricerca applicata. E questo riduce anche lo studioso più fantasioso a schiavo. Così diventa davvero difficile fare ricerca: che è andare contro, è fantasia, è ribellarsi ai luoghi comuni, tentare di rovesciarli, guardando al futuro. Non a caso la fanno soprattutto i giovani. L’azzardo del pensiero è importante per aprire nuove strade. Quanto è praticabile per i ricercatori in Italia?
Qui la loro condizione è precaria, mancano i fondi, spesso devono sottostare a persone che gli indicano cosa fare o non fare. Sovente il ricercatore non ha neanche la libertà di seguire un proprio pensiero perché c’è qualcuno che è economicamente più forte, più potente, che decide per lui. Per chi fa ricerca essere libero di pensare è la ricompensa, è ciò che vuole fare. È molto difficile per il ricercatore italiano oggi ribellarsi, se non andandosene via. Alla scuola Normale, dove ho insegnato per tanti anni, tutti gli allievi prima della laurea sono già impegnati all’estero e pochi ritornano. Anche l’insegnate a un certo punto ne è contento. È vero che perdiamo delle grandi menti, ma almeno questi giovani si realizzano come ricercatori, come individui. In Elogio della ribellione lei sottolinea l’importanza dell’infanzia, quando si è più recettivi e aperti al nuovo. Qual è il compito della scuola?
La scuola dovrebbe stimolare il pensiero critico. È importante perché i ragazzi crescano senza essere condizionati dalle risposte preconfezionate che offono i media. Fondamentali in questo senso sono le materie umanistiche, ovvero tutte le discipline che sono guidate dalla curiosità, dal desiderio di conoscenza, fra le quali includo anche la biologia, la fisica eccetera. Così il ragazzo si abitua a ragionare, a porsi delle domande, è stimolato a pensare e non a credere. Se uno presta fede a tutte le fandonie che ci vorrebbero imporre, allora si forma un cittadino succube a ciò che gli viene detto e – uscendo un po’ dal mio campo – vi vedo un pericolo per la democrazia. Le macchine non hanno un pensiero emotivo, lei scrive, dunque i robot non potranno mai sostituire l’umano. Tuttavia il ruolo delle nuove tecnologie è importante, cosa ne pensa?
Le nuove tecnologie sono una grande scoperta, la rete permette scambi e circolazione delle informazioni. Non a caso i dittatori cercano di controllare e censurare i social network. Però, anche le tecnologie hanno effetti collaterali. Come li hanno gli antiobiotici e farmaci che hanno salvato tante vite. Fra gli effetti collaterali della rete c’è quello di diffondere bufale, false informazioni, messaggi religiosi, penso ai fondamentalisti. Anche per fare un buon uso della rete serve un pensiero critico. Grazie alla rete oggi i giovani si collegano con i loro compagni di tutto il mondo. Ma stando da soli in una stanza. E poi ci sono gli anziani che usano altri linguaggi e rischiano l’emarginazione. La globalizzazione e le nuove tecnologie paradossalmente creano anche solitudine. Lei studia le malattie neurodegenerative: c’è un modo di “ribellarsi” a malattie oggi senza terapie efficaci come l’Alzheimer?
Il cervello ha bisogno di stimoli esogeni e endogeni come quelli provenienti dalla memoria. Un cervello senza stimoli è “in coma”. Da un punto di vista medico si può aiutare l’anziano ridandogli degli stimoli. Se ha rapporti umani, se riceve stimoli cognitivi, motori, e di altro tipo – per esempio la musica è molto efficace – allora le sue capacità mentali, cerebrali, indubbiamente migliorano. Per sempre? No, ma rallentano i processi di invecchiamento che oggi non di rado hanno un esito crudele come l’Alzheimer: sta diventando una malattia pandemica. Se possiamo rallentarne il corso, se riusciamo a tenere queste persone in uno stato di attività cerebrale normale o para normale, è una grande opera, medica, umana e da ultimo economica. Un paziente Alzheimer “costa” da 50 a 100mila euro l’anno. In Italia le persone che ne sono affette sono 1 milione circa. Nel mondo, 36 milioni. Dormire e sognare è fondamentale per la salute psico-fisica?
Vengo da una scuola che era famosa per lo studio del sonno, il metabolismo di molte catene molecolari, se non si dorme, va in tilt, si perde la memoria, l’attività muscolare e così via. L’ideale sarebbe dormire 7-8 ore. Ma oggi in media sono 6, incombe il mondo della produzione, del consumismo. Io la vedo come una cosa piuttosto pericolosa che tutto debba essere consumato e buttato, serve solo ad aumentare l’enorme iato fra la stragrande maggioranza di poveri e l’un per cento dei super ricchi. Un insulto all’umanità. Nasce anche da qui il suo elogio della ribellione ?
Penso che la ribellione debba essere in primo luogo mentale. Abbiamo una mente diversa da quella degli animali. Nella foresta il leone e la tigre hanno le loro leggi, quelle della sopravvivenza, noi siamo sottoposti alle stesse leggi biologiche, ma abbiamo la possibilità di scegliere, di dire no. Perché sfruttare il mio amico? Perché l’altro dovrebbe essere diverso da me? Fra tutti gli esseri umani c’è un’uguaglianza di base. Stabilire differenze fra uno spazzino, un professore o un imprenditore è un’offesa all’intelligenza.
“Il Paese ha urgente bisogno di un modello di promozione della lettura costruito in modo pubblico e trasparente”, si legge nella lettera aperta che Giuseppe e Alessandro Laterza hanno pubblicato sul Corsera del 29 luglio dopo la decisione dell’Associazione italiana editori (Aie) di organizzare una fiera del libro a Milano boicottando quella di Torino. “Un percorso che va costruito insieme alle biblioteche e alle scuole, perché dalle tante realtà di base che operano in condizioni difficili in ogni angolo del Paese sono nate le migliori idee e pratiche”. Anche di questo è stato inviatato a parlare Giuseppe Laterza il 2 settembre a L’Aquila nel convegno “Arte, Cultura, Pensiero sociale e politico” ideato e coordinato da Paolo Fresu organizzato da MIDJ.
Per capire cosa sta accadendo nel mondo editoriale italiano su cui pesa la posizione dominante di Mondazzoli e insufficiente politiche per la lettura, abbiamo rivolto qualche domanda all’editore barese che nel 2001 ha avviato i presidi del libro proprio partendo dal Sud, dove si legge di meno.
Giuseppe Laterza
Giuseppe Laterza, la decisione dell’Aie di fare una fiera del libro a Milano nei giorni del Salone di Torino ha aperto una spaccatura nel mondo dell’editoria, cosa ne pensa?
L’Aie che ci rappresenta come editori, in questa occasione, ha compiuto molti errori. Il primo è stato pensare che un Salone del libro, che ha come scopo la promozione della lettura, possa essere gestito in esclusiva dagli editori. Ma questa è materia pubblica, con una valenza culturale prima che commerciale. Perciò necessita di una gestione integrata di pubblico e privato in cui non possono mancare i ministeri e i rappresentanti della scuola, delle biblioteche. Il secondo errore è una sorta di campanilismo milanese: “siamo i più efficienti”, “qui è radunata gran parte dell’editoria italiana, la fiera si fa qui”. Io penso, invece, che la ricchezza dell’editoria italiana, e dell’Italia in genere, stia nella sua molteplicità. Certo, il Salone di Torino è stato gestito in modo dissennato negli ultimi anni, come è emerso dalle inchieste della magistratura, ma l’Aie avrebbe potuto chiedere un ruolo più importante nella Fondazione, chiedere di avviare un cambiamento, facendo proposte in positivo invece di questa fuga in avanti che ha sortito un effetto negativo, spaccando il mondo dell’editoria.
Per allargare il pubblico dei lettori è utile fare due fiere a maggio a Milano e Torino quando si fa poco e niente al Sud dove si legge di meno?
No, non lo è. In questo ambito non ci sono scorciatoie. Per anni è stato detto che una grande campagna per la lettura potesse risolvere il problema. Invece serve un lavoro molecolare, di base, che va fatto giorno per giorno. Contano molto le esperienze locali. Noi abbiamo fondato un’associazione nel 2013 e oggi conta quasi 100 gruppi di lettura disseminati anche nei piccoli centri, dove non ci sono biblioteche e librerie. Ogni anno a novembre facciamo un forum del libro, quest’anno sarà a Mantova, in cui raccogliamo le migliore esperienze di gruppi di lettura nati dalla scuola, in aree di forte immigrazione, dove la lettura è anche un elemento di riscatto sociale non solo culturale. Insomma non ci sono ricette miracolose, bisogna investire sulla cultura, come la nostra classe dirigente, purtroppo, non fa da molti anni.
Festivaletteratura a Mantova, quello della filosofia a Modena, Carpi e Sassuolo, quello dell‘economia che Laterza organizza a Trento, attraggono moltissimi lettori. Cosa ne pensa di questo fenomeno?
Sono esperienze straordinarie che hanno mobilitato milioni di persone. Alla base c’è un desiderio di conoscenza, ma io credo anche di socialità. Ed è il valore aggiunto dei festival rispetto ad altre esperienze su internet o youtube. Non solo si ascolta un autore ma lo si fa insieme ad altre persone. La cultura può essere una esperienza di condivisione.
La vostra è una grossa casa editrice che ha mantenuto la sua indipendenza. Che significa per lei?
Vuol dire poter fare scelte non dettate da terzi, da vincoli esterni. Avere una linea editoriale penso, spero, riconoscibile, ma che non ci preclude di dare voce a punti di vista diversi. Indipendenza è poter dire la propria, senza essere faziosi, con pluralismo sostanziale delle idee, in ciò che si fa e si pubblica.
Anche se in Italia ci sono delle posizioni di preminenza nel mercato che determinano anomalie nella filiera del libro.
Il nostro è un Paese anomalo. Abbiamo il gruppo editoriale più grande che esiste in Occidente relativamente al proprio mercato. Non solo perché Mondadori ha il 30 %, un terzo del mercato, ma anche perché fra il primo e il secondo gruppo c’è una differenza abissale: GeMS ha meno di un terzo di Mondadori che dispone di una possibilità di influenzare il mercato come ha riconosciuto anche l’Antitrust chiedendo provvedimenti; a mio avviso insufficienti. La mentalità italiana è scarsamente liberale, qualcuno dice di essere liberista ma forse non sa che significa rispetto dell’interesse dei consumatori: ovvero che non ci sia strapotere di mercato, come in Italia invece c’è. Certo niente di simile a giganti mondiali del calibro di Facebook o Google. Il potere di Mondadori è locale. Da un lato in Occidente c’è una possibilità di scelta abbastanza ampia nel settore del libro, dall’altro ci sono forti concentrazioni, che preoccupano perché l’uso di questo potere può essere oggi buono domani no.
La rete offre di tutto, ma anche il contrario di tutto, senza filtri. Per questo serve tanto più quel pensiero critico che si forma studiando, con l’approfondimento argomentato e documentato che offrono i libri?
Non c’è solo c’è bisogno di pensiero critico, ma anche di un pensiero forte che elabori un modello diverso di sviluppo che, se c’è già, fa fatica a diffondersi. Siamo ancora in una fase dominata da un pensiero individualista elaborato negli anni 80 e 90. Non tiene più, la crisi lo ha dimostrato, ma come editore non vedo il diffondersi di una alternativa; ci sono tante singole proposte, ma non ancora un modello alternativo che faccia presa. Ed è paradossale che l’unico rappresentante globale di un pensiero alternativo sembri essere papa Francesco. Io credo che sia una lacuna gigantesca della sinistra laica non essere capace di esperirsi con radicalità. È davvero curioso che sia il papa il punto di riferimento del pensiero critico del sistema economico.
In questo senso cosa state preparando fra le prossime uscite?
Molta storia, e in particolare un bel libro di Alessandro Barbero, in cui indaga il difficile rapporto della Chiesa con la modernità. A settembre uscirà la filosofia tascabile con i migliori aforismi per tema degli ultimi 15 anni del Festivalfilosofia e poi saggistica politica, di critica sociale ed economica.
Dunque cultura per ricostruire il Paese?
Per fortuna c’è una parte del Paese che reagisce. In Italia ci sono 4/5 milioni di persone, lettori forti, che vanno ai concerti, al cinema ecc. Sono l’elite di questo Paese, il problema è che quasi mai hanno potere. L’establishment è spesso più ignorante. Gli indici ci dicono che in Italia siamo al di sotto di 10 punti della media europea di lettori (55%). Ma non è vero che i giovani non leggono. Anzi. Tra i 15 e i 25 sono la fascia prioritaria per la lettura e dai 25 ai 35 per l’acquisto. Il problema, come accennavo, sono i professionisti, quelli che fanno carriera non per competenza, quelli convinti che basta conoscere la persona giusta, che accettano di fare qualche compromesso. Il problema è la povertà culturale, concettuale, di argomentazione, della nostra classe dirigente. Ma una base c’è. Basta pensare che1961 leggeva il 16 % degli italiani, oggi il 45. Abbiamo fatto passi enormi, veniamo da un Paese analfabeta. Serve ancora l’ottimismo della volontà.
Il manifesto di Zagrebelsky e di 100 professori a sostegno del Salone del libro
«E’vvero stupefacente che alcuni editori, in virtù della loro forza di oligopolio e sulla spinta di un risultato elettorale, possano illudersi di mettere sotto il braccio una realtà costruita negli anni dalla passione di centinaia di migliaia di persone, partecipi e presenti, e portarsela da un’altra parte». Inizia così l’appello dei professori a sostegno del Salone del libro, firmato da Gustavo Zagrebelsky, Gian Luigi Beccaria, Luciano Canfora, Franco Cardini e molti altri. La decisione dell’Aie di organizzare una propria fiera del libro a Milano a maggio (in coincidenza con il trentennale della kermesse torinese, prevista dal 18 al 22 maggio 2017) ha scatenato proteste a raffica, causando l’uscita dall’Aie di un numero consistente di editori medi e piccoli contrari alla proposta passata a maggioranza. Fra loro Edizioni e/o, Nottetempo, Add, Minimum Fax, Sur, Iperborea, 66thand2nd, Edizioni Clichy e altri che si sono dati appuntamento l’8 settembre al Circolo dei lettori di Torino per un primo incontro.
Malgrado gli sprechi e i problemi di trasparenza gestionale che il Salone di Torino ha dovuto affrontare, la manifestazione è stata sempre aperta alle proposte dell’editoria indipendente e disponibile ad accogliere le proposte di editori che non hanno la forza contrattuale di colossi come “Mondazzoli”. E i piccoli e medi editori temono che la fiera milanese voluta dai big dell’editoria italiana non garantisca sufficiente pluralismo.
In difesa del Salone, nel frattempo, si sono mossi anche i lettori con una petizione online che ha già raccolto quasi 15.400 firme. Mentre la Fondazione del Salone del libro presieduta dalla sindaca di Torino, Chiara Appendino, e dal presidente della Regione, Sergio Chiamparino, ha chiesto all’ex ministro della cultura Massimo Bray di assumere il ruolo di presidente ed è in cerca di un nuovo direttore. Fra i nomi che circolano c’è quello dello scrittore Giuseppe Culicchia. La Fondazione si appresta a varare un nuovo statuto che apre all’ingresso di nuovi soci, fra i quali editori, il Mibact e il Miur.
Per contribuire alla sopravvivenza e al rinnovamento del Salone di Torino, Zagrebelsky e altri intellettuali propongono che diventi una sorta di “terra madre” del libro, accogliendo proposte da ogni parte del mondo e organizzando riunioni di lettori non solo in Italia. Così, mentre un centinaio di professori invita il Salone ad aprirsi ad uno sguardo ancor più internazionale, il ministro della Cultura Franceschini, suggerisce piuttosto a una sua settorializzazione, indirizzata alla lettura per bambini e ragazzi, in vista della fiera più ampia a Milano, di cui a settembre l’Aie annuncerà nome e prospettive.
s.m.