Inchiesta su collaudi e lavori mai fatti. Corriere della Sera. “Le indagini -spiega la Stampa- partono da scuole, municipi e caserme”. Cioè dei “palazzi che non dovevano cadere”. “I Pm indagano sulle ristrutturazioni killer”, scrive Repubblica. Il Giornale riprende una battuta di Fiorello, secondo cui è meglio donare in silenzio che organizzare concerti di solidarietà su cui qualcuno farà poi la cresta: “Fiorello mette in guardia dalla beneficienza show”.
Il new deal di Renzi. “Via dalle tende in un mese”, Repubblica. Prima che arrivi il freddo vero, il governo vorrebbe far montare dei “mini chalet” in legno: gli sfollati non sono troppi (2.400 anime) e il costo sostenibile. 1.400 euro a metro quadrato. Intanto, con un blitz lampo a Genova, Matteo Renzi avrebbe reclutato Renzo Piano. Il quale già spiega a Repubblica: “Serve un cantiere lungo due generazioni. Così ricostruiremo la spina dorsale d’Italia”. “Nel progetto -prosegue- incentivi e sgravi, ma anche l’aiuto dei migliori esperti mondiali”. Il premier -spiega La Stampa- “segue i consigli del guru americano” (si chiama Messina) e inaugura una “nuova strategia per post sisma e referendum”. Anche per il referendum? Sì, perchè “Errani commissario alla ricostruzione (è un) segnale distensivo per i bersaniani”. A questo punto Piero Ignazi, ripesca per Repubblica il vertice a Ventotene: “Il presidente del Consiglio ha cambiato radicalmente tono. Ha ripreso in toto la tradizione filoeuropea confluita nel Pd e l’ha rinvigorita con una retorica forte e innovativa che ha trovato nell’incontro di Ventotene la sua espressione migliore. L’omaggio agli estensori del Manifesto del federalismo europeo è stata una scelta felice e coraggiosa. E la centralità assegnata da Renzi al tema europeo obbliga gli altri partiti a confrontarsi su questo punto”. Renzi cambia dunque verso?
Meglio un governo che governi, anziché quello che minacciava il diluvio universale se avessero vinto i No e occupava tutto il potere con le fedeli e i fedeli del Giglio Magico. Vedrei con favore una tale svolta, ma ho qualche dubbio che volta sia. Il primo trae spunto da quanto Chiara Saraceno scrive su Repubblica a proposito del “decreto legislativo 50 pubblicato il 19 aprile 2016 sulla Gazzetta Ufficiale”, detto codice degli appalti: “Un testo di fatto vuoto, perché mancano del tutto gli innumerevoli decreti di attuazione. Più che ai guai del bicameralismo siamo di fronte a un modo di legiferare bizantino, che rimanda sempre ad un altro passaggio, mentre nei vuoti si incuneano la negligenza, l’arroccamento difensivo della burocrazia (meglio non fare per non incorrere in sanzioni), quando non il malaffare”. Questo modo di legiferare – come da anni sostiene Walter Tocci- è il vero problema dell’Italia. Mi permetto di aggiungere che è anche l’alibi dietro cui si nasconde l’opportunismo dei governi, i quali preferiscono denunciare vincoli esterni (la Costituzione incolpevole) anzichè misurarsi con la gestione quotidiana, scontentare gli amici e cacciare i corrotti.
Quei 15 miliardi da trovare per rispettare i patti con la UE, Corriere della Sera. Ecco il secondo motivo che mi consiglia di dubitare. Tanti miliardi servirebbero per far quadrare i conti della finanziaria, altrettanti ce ne vorrebbero per onorare promesse già fatte, dal rinnovo dei contratti, agli aumenti per le pensioni più basse e, naturalmente, alle riduzioni fiscali per le imprese e, in subordine, per le famiglie. Cosa intende fare il governo? Non si sa, Il solito Poletti deve aver spiegato oggi a Repubblica che gli incentivi del jobs act (i quali con tutta evidenza non hanno funzionato) saranno lasciati cadere in nome di un intervento “strutturale” sul costo del lavoro. In parte a carico delle imprese, (che verranno ricompensate), in parte dei lavoratori (che avranno piccoli aumenti in busta paga ma minori garanzie previdenziali). A me pare che a Renzi manchi soprattutto una politica economica, che si illuda di favorire la ripresa spremendo i lavoratori e favorendo gli imprenditori. Anche quelli -cito Alesina e Giavazzi – “assistiti o dei salotti buoni”. Non funziona più dopo la crisi del 2007. Per governare non bastano i consigli del guru, servono scelte nuove e coraggiose.
Oltre i confini della politica e delle imprese di governo, scopriamo che Virginia Raggi resta scettica sulla candidatura di Roma alle Olimpiadi visto che paghiamo ancora per quelle del 1960, che “tra ricorsi, ritardi e bocciature la scuola partirà senza un professore su sei”, che la procura di Milano rischia “il declino” per mancanza di mezzi, che “la morte di Regeni doveva sembrare un incidente: lo decise Al Sisi”, che la Turchia è in guerra aperta contro i curdi ma forse non più contro Assad, che in Germania sta scemando la popolarità di Angela Merkel, che il Ttip, il trattato sul libero commercio, si è arenato e se ne riparlerà forse dopo le elezioni negli Stati Uniti.
Un Renzo in soccorso di Renzi.Caffè del 29 agosto 2016
Adonis, non c’è vera rivoluzione senza laicità
Nel conflitto che dilania la Siria sono morte più di 250mila persone. Come fermare questa immane strage? Quali sono le responsabilità dell’Occidente? Lo abbiamo chiesto al poeta siriano Adonis che in opposizione ad Assad lasciò la Siria per andare in Libano dove ha insegnato e fondato riviste. Prima di trasferirsi a Parigi dove vive in esilio volontario da oltre vent’anni.
«Per cominciare bisogna cercare di capire qual è il vero scopo di questa guerra», risponde con tono mite e insieme deciso. «Se il fine è instaurare la democrazia, abbattere governi tirannici, allora la Siria non è certo il solo regime di tutto il mondo arabo. Perché è stata scelta proprio la Siria? Occorre domandarselo. Ciò che è accaduto in questi mesi ha reso evidente che il fine era ben altro e riguarda mire di controllo dell’area. La primavera araba si è trasformata così in un conflitto internazionale per interessi economici e strategici. Conosciamo l’aspetto che riguarda il petrolio, il coinvolgimento della Russia e della Cina da una parte e dell’Occidente dall’altra. Si tratta di una guerra per l’utile, per il controllo del Medio Oriente, scaturita da calcoli che non sono assolutamente democratici né legati ai diritti umani. E nel frattempo un intero Paese è distrutto, il popolo decimato o costretto a vivere nella desolazione. In tutto questo la responsabilità degli occidentali è totale».
La primavera araba è stata all’inizio un bel risveglio ma poi – lei scrive nel saggio pubblicato da Guanda, Violenza e islam – non è riuscita a liberarsi dell’oppressione e dell’oscurantismo religioso.
Inizialmente abbiamo sperato. Io stesso ho scritto un libro sulla Primavera araba. Purtroppo si è trasformata in una guerra e in un conflitto mosso da interessi. Tutti gli arabi, tutti i musulmani oggi non sono altro che un mezzo per realizzare quello che l’Occidente americano ed europeo vogliono. E il risultato è catastrofico sotto ogni riguardo.
Perché la rivolta, alla fine, è andata incontro al fallimento?
Una Primavera, vale a dire una rivoluzione reale, deve essere realizzata e concepita da un intero popolo. Mentre qui non ha partecipato profondamente, l’iniziativa è stata di piccoli gruppi. Inoltre una rivoluzione, per essere tale, deve essere capace di svolgere un certo discorso che qui non è stato fatto. Il nostro problema è la mancanza di libertà della donna. Nessuno l’ha tematizzato. Il primo obiettivo non è stato liberare la donna dalla legge islamica, dall’oppressione religiosa, dalla sharia. Non ci può essere vera rivoluzione senza laicità. Nessuno ne ha parlato. Hanno paura perfino di pronunciare la parola! Un punto dirimente è la separazione tra Stato e religione, fra politica e fede. E di nuovo nessuno ne ha parlato. Una rivoluzione deve essere indipendente, invece c’è stata una chiara ingerenza straniera. Così in alcuni Paesi arabi alla fine siamo approdati ad una situazione peggiore di quella passata. La tirannia precedente era di natura militare, quella attuale pretende di essere di natura divina. Il tiranno militare uccide chi si oppone e ha un’opinione diversa dalla sua. L’Isis uccide nel nome di Dio! Oggi si viene fatti fuori per volontà di Dio. La tirannia imprigiona e ammazza le persone perché ne ha paura. Ma la tirannia teocratica uccide le persone perché le detesta, non pensa che siano esseri umani, li considera animali selvaggi a cui sparare. È davvero terribile.
L’egittologo e studioso di ebraismo Jan Assmann sostiene che il monoteismo sia intrinsecamente violento, perché pretende di imporre una verità assoluta, condannando come infedele chi non l’accetta. Ci sono assonanze con la sua riflessione?
Il monoteismo è certamente basato sulla violenza. Pensiamo alla Bibbia: ci sono due fratelli, uno uccide l’altro. Tutto questo viene accettato, addirittura difeso, con una spiegazione molto bizzarra, assurda: il male ha ucciso il bene. La violenza è fondatrice del monoteismo e tutta la storia del rapporto con l’altro da sé nella Bibbia è una storia di violenza. Analogamente l’Islam in quanto religione di Stato, già prima della morte del profeta appare fondato sulla violenza. I primi tre califfi sono stati assassinati. La guerra tra i successori di Maometto è durata cinquant’anni. Dunque tutta la prima età dell’Islam si basa sulla distruttività. Per non parlare dei versetti contenuti nel testo sacro, che sono innervati di violenza. Per approfondire il nesso tra violenza e religione nei monoteismi consiglio di leggere i libri di René Girard.
Lei accennava alla sharia e alla negazione dei diritti delle donne nelle Paesi musulmani. E negli altri monoteismi?
Accade lo stesso, se non peggio. Basta pensare a come la donna viene considerata nella Bibbia e dalla Chiesa. Ancora oggi c’è una setta ebraica che vieta all’uomo di vedere la propria donna nuda. Anche quando fa l’amore con lei. C’è un abito speciale con un buco. Io non ci potevo credere. Ho chiesto ad un amico ebreo e mi ha confermato che è proprio così. La visone presente nella Bibbia è analoga a quella espressa nell’Islam. Nel testo biblico si dice che la donna non è stata creata da Dio, come l’uomo. Egli è stato fatto a immagine di Dio. Ma la donna è creata da una costola maschile quindi è essenzialmente inferiore. Questa è una visione totalmente anti umana ed io sono radicalmente contro. Diversamente dalle altre letture del Corano (sunnita, sciita, wahabita) i mistici sufi esprimono una visione che dà alla donna grande importanza, la femminilità è in primo piano. Il mondo è fondato sulla femminilità non sulla mascolinità. In un certo senso è anti monoteista.
In Violenza e Islam citando poeti della tradizione classica come Al-Mutannabbi e Abu Nuwas, ricorda che la poesia araba più antica è piena di immagini, è soggettiva. Poi tutto questo si è perso nell’astrazione religiosa e nella rigidità del dogma. Che cosa rappresenta per lei la poesia oggi?
Che cosa è l’amore per te? Quale è il ruolo dell’amore? Cambiare il mondo? Cambiare l’interiorità, forse. Per diventare più liberi, più umani, più in rapporto con il resto del mondo. Dunque la poesia è come l’amore, non può cambiare la realtà materialmente. Al contrario è possibile che se un criminale uccide qualcuno, quest’azione possa cambiare un intero Paese. Quello della poesia è un altro livello, un altro mondo. È l’ideologia che ha generato rigidità perché pretende di utilizzare la creatività dell’essere umano in modo strumentale. No, la poesia come l’amore non ha niente a che fare con l’ideologia. Una donna può amare un uomo che non conosce, di un altro Paese, con un’altra cultura, che parla un’altra lingua. Questo è la poesia, è centrata sull’essere umano e sul fatto che l’essere umano è il centro del mondo. L’uomo non è mai un mezzo, tutto deve essere fatto per l’essere umano. In questo senso io ho sempre scritto poesie per vedere più a fondo in me stesso, per comprendere meglio gli altri e il mondo. ( traduzione Paola Traverso)
IL LIBRO VIOLENZA E ISLAM
Non ama la parola tolleranza, «che ha un fondo razzista», preferendo la parola uguaglianza. Rifiuta la religione perché esclude ogni possibile trasformazione ed evoluzione dell’individuo (in quanto creato da Dio). Perché nega l’identità femminile. E rende impossibile l’arte e poesia. Nel libro Violenza e Islam (Guanda) il poeta siriano Adonis (pseudonimo di Ali Ahmad Sa’id) parla in modo chiaro, senza infingimenti, dei pericoli del fondamentalismo, ma anche della religione in sé che pretende di ridurre tutto a un unico principio, ad una verità rivelata, imponendo «dogmi, maschili e feroci», obbligando alla ripetitività obbediente, impedendo la libera creatività. In questo libro il poeta indaga a fondo i fondamenti culturali e politici dell’Islam. Lo fa in maniera dialogica conversando con Houria Abdellouahed, non a caso una donna. La presenza femminile è centrale in tutta l’opera di Adonis pubblicata in Italia da Guanda, Donzelli e da Passigli. Un’opera poliedrica che si dipana da oltre sessant’anni ( Adonis è nato nel 1930 in villaggio povero della Siria) in saggi, di articoli, ma soprattutto in raccolte di versi. «Abbiamo da un lato l’Islam che sottomette la donna e stabilisce un rapporto servile attraverso il Testo», scrive Adonis in questo suo ultimo saggio. «Dall’altro lato c’è il poeta che definisce il femminile come desiderio e rinnovamento. Il femminile si rinnova di continuo, è l’infinito per eccellenza. Il femminile è essenzialmente contrario alla religione». La lingua dei poeti, secondo Adonis, si contrappone alla lingua del Corano. La poesia è legata all’esperienza umana più profonda, e per questo è viva, ricca immagini, personale, mentre la lingua del Corano «è bella ma retorica e impersonale». Anche per queste affermazioni il poeta siriano ha ricevuto attacchi e critiche feroci dal mondo musulmano. Lui risponde invitando a riscoprire la tradizione della poesia antica, maestri come Al-Mutanabbi, poeta iracheno vissuto a Kufa e poi ad Aleppo tra il 915 e il 965 che, insieme a tanti altri poeti, mistici sufi e filosofi, ha contribuito alla fioritura della grande civiltà araba. Autori in larga parte trascurati oggi nei programmi scolastici nei Paesi musulmani. «Non sono insegnati in modo adeguato» scrive Adonis. «Alcuni studenti conoscevano soltanto qualche poesia. Per il resto l’universo dei grandi poeti rimane sconosciuto, trascurato, non compreso». Anche per questo ha deciso di scrivere Violenza e Islam, (che sarà presto seguito da altri due volumi di taglio più filosofico) con l’intento di ripensare la tradizione araba più antica, per tornare ad interrogarla ed aprire un orizzonte di ricerca. Un lavoro che diventa immediatamente politico perché «gli arabi ignorano il loro corpus letterario e le loro fonti», scrive Adonis in questo libro a quattro mani. L’Islam promosso dal fondamentalismo «è una religione assolutamente senza cultura». L’intellettuale arabo, in questo contesto, rischia dunque di essere doppiamente esiliato. Costretto a vivere lontano dalla propria terra e condannato per apostasia. Ma la scelta di Adonis non è quella della mediazione arrendevole. A 85 anni, sfodera un sorriso dolce incoraggiando con forza all’esercizio del pensiero critico e allo spirito di ricerca. «Non ho fiducia nelle ideologie religiose, ma ne ho molta negli esseri umani che saranno capai di trovare strade alternative, nuove possibilità di cambiamento e dialogo democratico».
Brutti poteri che inciampano

Se davvero ha ragione Sigmar Gabriel, il ministro all’economia tedesco nonché vice cancelliere, quando dice che il TTIP in realtà sia ormai saltato, beh, ci sarebbe da aprire le bottiglie migliori. E non solo perché il trattato economico tra USA e Europa (il TTIP, appunto) è la sintesi del turbocapitalismo per leccare il deretano dei potenti ma anche perché il TTIP non è mai diventato popolare. Mentre qualcuno con molta fatica cercava di raccontare quanto fosse prepotente il tentativo di appiattire le regole degli scambi di commerciali in onore del nord America ma anche perché un fallimento del genere sarebbe frutto dell’iniziativa politica europea che, per una volta, decide di non fare politica seguendo le addizioni.
Ma non tutti, no. Io mi emoziono pensando che ci sia una sana indignazione per la brutta frase di Bruno Vespa con cui esulta (in modo cortese e televisivo, si intende) per un terremoto. Se ai tempi del terremoto a l’Aquila abbiamo sentito le risate qui almeno hanno tentato di nascondersi dietro un patetico digrignar di denti. Almeno quello. Hanno provato a dissimulare per vergogna. Almeno questo.
Intanto Matteo Renzi decide di nominare commissario straordinario per il terremoto il primo nome non servile degli ultimi anni. Attenzione: Errani non è Gandhi, non sia mai, e Renzi non ha dimostrato improvvisa illuminazione. Però se il premier non avesse il dubbio di avere perso consenso avrebbe probabilmente nominato suo padre, suo cugino o al massimo il padre di suo cugino. E quindi incassiamo con una certa insoddisfazione.
Detto questo verrebbe da dire che forse ogni tanto il giochetto delle oligarchie rischi davvero di rallentare. Niente di che, per carità, ma ogni volta che viene messo in discussione una prepotenza che pare ormai scontata si apre uno spazio per inserisci una discussione, un dibattito, per costruire un dubbio. La politica, insomma, intesa come differenza tra ciò che crediamo vero anche se non lo è e ciò che sarebbe giusto anche se difficilmente popolare.
Nel Paese della speranza, quella vera, qualcuno si infilerebbe per provare a smontare i luoghi comuni. Succede? Succederà?
Buon lunedì’.
I soccorritori li riconosci dalla polvere

Amatrice – Gli occhi ancora umidi escono dalla zona rossa. I soccorritori li riconosci così, dal lampo particolare sul volto, dell’incubo visto qua sotto, e dalla polvere sugli scarponi; quelli coperti di polvere hanno i gesti lenti di un’umanità diversa, sono passati dall’altro lato. Forse non hanno potuto salvare tutti quelli che avrebbero voluto. Ormai si ritrovano solo persone senza vita ma ci si aspetta ancora qualche miracolo. L’accesso alle case è stato ostruito dall’abnorme quantità di detriti e intere case crollate in stradine strette. Bisogna scavare piano, forse qualcuno è ancora vivo. Si richiede il silenzio, per cogliere il minimo fiacco grido d’aiuto. Fosse vivo un bimbo. È così che i Vigili del fuoco hanno tratte in salvo 238 persone da sotto le macerie.
La parola “macerie”, ad Amatrice si è materializzata, ha cambiato significato. Non sarà mai più la stessa. Un intero paese raso al suolo, e gli altri, Accumoli, Arquata del Tronto. Tetti, e soffitti a terra, come se i piani si fossero accasciati gli uni sugli altri. Strati di polvere. La zona rossa ha il sapore di una tragedia, causata dalla natura.
Più in là, su un tavolo i bicchieri sono ancora in piedi, si sarebbe bevuto e mangiato, all’Hotel Roma, si scorge la vita, prima dei fatali 142 secondi. Tempo sospeso, in una specie di Pompei contemporanea. Ma arrivano da tutti gli angoli d’Italia, in una lunga fila con i cofani pieni, di cibo e vestiti e abbracci. Parenti, soccorritori, medici infermieri volontari, semplici cittadini a dare una mano. È un cuore. Perché però quando è la natura a causare il dramma, si solidarizza di più che con i drammi causati dall’uomo? Lontananza o rimozione?
Dietro si profila Aleppo, da cinque anni, una popolazione annientata che sopravvive sotto le rovine, stessi o peggiori paesaggi perché li è guerra, bombe, armi di distruzione di massa, armi chimiche, anche illegali come fosforo e napalm, che cascano ogni giorno su civili inermi. Perché non gridiamo? Perché ad Aleppo non è arrivata la solidarietà? I media mondiali si gettano sui sopravvissuti italiani e i drammi di Gianna, Piero e gli altri. Spettacolarizzazione della morte in diretta. Ma che fine hanno fatto, Yusra, Ahmed e Ali? Li conosciamo, conosciamo i loro nomi e volti? Non abitano nemmeno i nostri schermi, non li salviamo neppure. Li lasciamo morire a mare. Dopo le bombe li lanciamo nella fossa comune. Fisso le macerie ma vedo fisso il volto di Omran (il bimbo siriano). E’ lui il vero volto che plana sopra tutto. Ma Aleppo non ci parla, Amatrice sì. Qua si hanno parenti, si viene a gustare la famosa pasta. Ai profughi siriani scampati, perché non apriamo le braccia? Anche loro sono scappati dalle macerie. Ma qua non c’è tempo per pensare. Il tempo accelerato dall’immensa emergenza, l’Italia che si muove unita, tutte le forze giunte sembrano un solo corpo.

Più in là, però sorgono i dubbi. A occhi nudi, si capisce la questione. La scuola elementare di Amatrice antisismica, avevano detto nel 2012, crollata di un colpo (fortunatamente in tempo di vacanze senza bambini dentro). E più in là, il campanile di Accumoli, anch’esso “ristrutturato”, ma crollato addosso ad un’intera famiglia con due bimbi. Si faranno i conti, si dovranno fare i conti, dei fondi anti-sismici non spesi per la riabilitazione a norma dei centri abitati della zona rossa dopo l’Aquila. Lei intanto è su tutte le bocche. Ad ogni scossa, è lei che si rammenta. Esattamente la stessa ora della notte. Le scosse ripetute stremano. Dal 24 agosto, non si dorme più o solo in tende nel giardino, persino se la casa è ancora in piedi, o nelle tendopoli allestite in fretta dalla protezione civile. 1000 scosse da quella notte, la popolazione è con i nervi a fior di pelle.
A Poggio Cancelli, un paese un po’ prima di Amatrice, incontro alcuni terremotati dell’Aquila, rialloggiati nei MAP, “Modulo Abitativo Provvisorio”, ovvero scatole di cemento. Da sette anni, vivono lì, lo Stato non ha mai ricostruito la casa crollata o dichiarata inagibile, in sette anni dopo lo show e le promesse show, non è cambiato nulla. Loro i terremotati Aquilani che giungono in segno di solidarietà, si augurano che gli abitanti di Amatrice non facciano la stessa fine. Assurda ripetizione.
Nei leaks siriani La guerra tra Damasco e Ankara

Se c’è un Paese che ha fatto di tutto per far cadere il dittatore siriano Bashar al-Assad, questo è la Turchia. È il giugno 2012 quando Erdogan fa sapere alla Nato di voler entrare direttamente in guerra con Damasco. In quel periodo la rivolta siriana, iniziata un anno prima e già trasformatasi in guerra civile, vede i ribelli avanzare e avere la meglio in molte aree del Paese. La risposta del regime non si fa attendere e, sempre in quell’inizio estate, usa elicotteri d’assalto nei centri abitati, mentre nelle città i soldati governativi impiegano negli attacchi con gran frequenza le milizie shabiha, formazioni spesso appartenenti alla criminalità comune di giovani alawiti – minoranza religiosa a cui appartiene circa il 12% della popolazione siriana, compreso il clan degli Assad.
I massacri di civili sono all’ordine del giorno. Sono in molti in quei mesi a prefigurare una prossima caduta del regime e a sostenere apertamente il fronte dei ribelli. La più attiva è, da quasi subito, proprio la Turchia che fornisce armi al neonato Esercito libero siriano (Els) e offre riparo ai vertici militari dell’opposizione. Anche Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna cominciano a fornire equipaggiamenti e finanziamenti, mentre l’Unione europea inasprisce l’embargo sulla Siria.
I ricchi emirati del Golfo Persico, finanziano e inviano ugualmente armi ai ribelli, soprattutto ai gruppi integralisti di ispirazione salafita, come appunto al-Nusra. Un rapporto «confidenziale» del Dipartimento di Stato statunitense del 28 giugno 2012, pubblicato da Wikileaks e basato come spesso in questi casi su «fonti con l’accesso ai più alti livelli dei governi e delle istituzioni (…), compresi partiti politici, servizi di intelligence e di sicurezza locali», rivela l’attivismo del generale Necdet Oezel, Capo di Stato maggiore turco fino al pensionamento nel 2015. In quei giorni la tensione tra Ankara e Damasco è alle stelle. In sede Nato si susseguono le consultazioni sull’incidente avvenuto il 22 giugno: l’abbattimento da parte dell’antiaerea del regime siriano di un caccia F-4 Phantom dell’aviazione turca. Ankara considera l’accaduto un atto di guerra e sulla base dello statuto dell’Alleanza Atlantica, considerandosi Paese membro “aggredito”, chiede l’intervento Nato.
Pur condannando «le attività militari siriane contro la Turchia», si legge ancora nel cablogramma riservato, gli alleati «si oppongono a una risposta aggressiva», ribadendo che «il governo turco non si può permettere di attirarli in una guerra che potrebbe diffondersi rapidamente in tutta la regione». Il generale Oezel spinge però sull’acceleratore, assicurando a Erdogan che «l’esercito turco potrebbe sottomettere le forze siriane subendo danni minimi, in particolare grazie al morale estremamente basso di quello siriano». L’allora numero uno delle forze armate turche aggiorna ugualmente i suoi piani di guerra per la Siria: «400.000 riservisti, che possono essere attivati in tempi relativamente brevi, se necessario (…) anche se ben 100.000 soldati sono coinvolti in operazioni contro i curdi del Pkk nelle montagne orientali della Turchia e nel nord dell’Iraq, la maggior parte delle restanti 600mila truppe sono disponibili per le operazioni contro la Siria, tra cui le élite delle forze speciali e le unità di polizia paramilitare». Il dispaccio diplomatico cita poi una fonte con «accesso ai servizi di sicurezza libanesi», la quale sostiene che gli 007 di Assad «hanno intensificato le operazioni nella regione di Tripoli e in tutto il nord del Libano (…) con l’aiuto dei loro alleati di Hezbollah (…) nel tentativo di limitare il sostegno salafita all’Esercito libero siriano».
Gli altri leaks siriani li trovate su Left in edicola dal 27 agosto
8×1000, piccola guida per una legge fatta male
La Chiesa Cattolica quest’anno ha guadagnato più di 1 miliardo di euro dalla redistribuzione dell’8×1000. Ma ha ricevuto questo denaro non solo da chi ha liberamente optato di donarlo ad essa: anche i soldi di chi ha deciso di non scegliere probabilmente hanno preso la stessa strada. E questo non perché, come vulgata popolare racconta, siamo “un Paese cattolico”: il problema risiede nella struttura della legge che regola tale istituto fiscale.
Il momento di compilare le dichiarazioni dei redditi è tuttavia ormai lontano nel tempo: quelle del 2016 sono già andate, e quelle del prossimo anno arriveranno solo in primavera. Che il periodo non sia quello propizio lo si nota anche dalla mancanza degli abituali bombardanti pubblicitari a tema, all’insegna del “Dateci il vostro 8×1000, e faremo tanto bene al mondo”. Ma questo non è un buon motivo per non comprendere le radici della questione.
I problemi dell’8×1000 si riassumono nella gestione delle quote inespresse. Cosa fare col denaro di chi non sceglie? “Lasciarlo allo Stato” verrebbe da pensare, ma le cose stanno un po’ diversamente. «Il meccanismo delle scelte non espresse è quello che crea le maggiori distorsioni tra quello che è il testo legislativo nella realtà e quella che è la percezione comune dei contribuenti. Non scegliendo si pensa di non pagare per nulla o lasciare questa parte di imposta allo Stato, quando evidentemente non è così» spiega Marco Belfiore, avvocato membro dell’Istituto Nazionale Tributaristi. Già, perché le quote dell’8×1000 di chi non sceglie vengono automaticamente redistribuite secondo le percentuali indicate da chi si è espresso. In altre parole, i pochi che scelgono lo fanno per tutti. «Possiamo vederlo come un sondaggio: lo Stato decide di chiedere ai propri cittadini come utilizzare quella parte di denaro pubblico prelevata attraverso l’Irpef, invece di farlo decidere al Parlamento. Ed è in quest’ottica che sceglie a chi destinarlo, utilizzando le indicazioni di chi si esprime».
Questo articolo continua su Left in edicola dal 27 agosto
Prova di carattere.
Non siete, non vi lasceremo soli. È l’impegno preso dallo stato davanti alle vittime del terremoto, alle loro famiglie, agli amici, a chi non ha lasciato quella faglia appenninica che dell’Italia rappresenta la colonna vertebrale. Impegno solenne, suggellato dal silenzio di Mattarella. Il Corriere pubblica la foto di una donna in lacrime, a mani giunte, e del presidente che la trattiene per le spalle: “Signora, ha tutto il diritto di essere arrabbiata”, pare le abbia detto. Il vescovo racconta di avere chiesto al suo dio: “Signore, e ora che si fa?”. Agnese Renzi piangeva, semplicemente, seduta in prima fila. Immagini che -scrive Maurizio Molinari- dimostrano “compostezza, vigore e forza di carattere”. “In questa estate di disastri, terrorismo e migrazioni l’Italia è stata messa alla prova, dimostrando di avere abitanti con una tempra non comune”. Sul suo giornale Enzo Bianchi ci invita, tuttavia, a “vigilare affinché l’angoscia del restare «senza parole» non sia anestetizzata dal ripetere parole senza senso”. “La nostra vita -prosegue- è stata affidata da dio alle nostre mani, mani fragili, mani capaci anche di commettere il male, mani più sovente responsabili di omissioni nei confronti del bene”. Dio si sottrae, sostiene Bianchi, ma per lasciare all’uomo la libertà di scegliere.
Qualcuno dovrà pagare? Quanto? A chi? Altan ricorda invece l’altra Italia, quella cinica, che si frega le mani davanti alle tragedie perché sa che alla fine le porteranno soldi e affari. “Terremoto, sempre ritornano -scrive il Fatto- I mafiosi e l’arrestato a L’Aquila”. In un’intervista al Corriere il presidente del Senato osserva: “Se cadono gli edifici pubblici è perché ignoriamo le regole”. Questa volta non avverrà? Sapremo fare le cose come si deve? Il governo ha scelto come commissario per il terremoto Vasco Errani. Politico di lungo corso, per venti anni iscritto al PCI, si è dimesso da presidente dell’Emilia Romagna dopo esser stato condannato in appello, l’8 luglio del 2014, per “falso ideologico”. Due anni dopo è stato assolto “perché il fatto non costituisce reato”. Persona seria. Il Giornale di Sallusti parla di “patto all’Amatricia(na)”: Berlusconi avrebbe accolto l’invito di Renzi all’unità per ricostruire. Un tavolo di coesione per i provvedimenti”. Buone promesse. Vedremo.
Terremoto a parte, in Tunisia nasce un governo di giovani e di solidarietà nazionale contro il terrorismo islamico. Emergency deve abbandonare la Libia per via delle minacce che le sono arrivate da ambienti legati al potente generale Haftar. A Copenaghen “due imam donne, Sherin Khankan e Saliha Marie Fette, hanno tenuto il sermone della preghiera del venerdì per la prima volta in Danimarca inaugurando la moschea Mariam”. A Parigi la sindaca, Anne Hidalgo ha deciso di chiudere al traffico automobilistico les voies sul berge de la rive droite della Senna, dopo che il suo predecessore aveva chiuso, con successo quelle de la rive gauche. Hillary Clinton dovrebbe vincere, stando ai sondaggi, negli stati della east coast e della west coast, perdendo però nello sterminato centro America. E le basterebbe -si tratta, infatti, degli stato più popolosi- ma per mettere in sicurezza il ritorno alla Casa Bianca, parte alla conquista del Texas, regno dei Bush schifati da Trump.
Che triste la Sinistra, sola e lontana, in questa estate 2016
Che brutta Sinistra questa estate. Si può dire? Che brutta Sinistra questa che incespica sui metalmeccanici con il deputato Sannicandro, di Sinistra italiana,(e il suo gigionamento con cui cerca di rimediare) e poi si sposta a destra sui diritti nei propri spazi – o in quelli che nell’immaginario sono spazi della Sinistra – come è accaduto a Capalbio. Ma non è solo questione di strafalcioni, no: questa Sinistra s’è spenta, ecco perché è una brutta Sinistra quella di questa estate. S’è spenta perché è stata addomesticata per pascolare nello spazio limitrofo dell’onnivoro Pd e proprio ora che i democratici renziani salpano verso destra, di qua sembra di assistere al barcollìo di chi ha perso l’orizzonte. Metalmeccanici e Capalbio sono solo i sintomi di una vertigine che si è sclerotizzata tanto da diventare naturale e forse sarebbe il caso di dirglielo a questi indigeribili dirigenti: la missione ad oggi è fallita. Non chiusa, certo, ma fallita.
I punti fissi, innanzitutto
Abbiamo sempre saputo (ce l’hanno detto e l’hanno scritto dappertutto) che la Sinistra si sarebbe occupata dei deboli. Mica solo delle criticità e delle debolezze: dei deboli come persone. E proprio mentre le diseguaglianze si cementificano con il placet dell’Europa, proprio ora che l’establishment non ha più interesse nemmeno a nascondersi, la Sinistra sembra avere perso il fuoco: voi l’avete capito chi sono i fragili secondo questa classe dirigente? I nuovi poveri, gli invisibili e i precari sembrano scomparsi dal radar: se è vero che si riesce a fare massa intorno a una donna massacrata, un rifugiato calpestato o di fronte a un abuso di polizia (e per fortuna) sembrano essersi dispersi i disperati intermedi, quelli che galleggiano tra le pieghe non mediatiche. Se i bisogni non sono organizzati in comitati, sindacati o associazioni, questa Sinistra si convince che non esistano e così gradualmente continua a perdere la connessione con il mondo. Nel suo «che siamo, metalmeccanici?» il deputato di Sinistra italiana mostra tutta la miopia di una classe dirigente che osserva il Paese dai bollettini stampa: anche le categorie dei bisogni non si sono aggiornate.
La retorica
Melensa, insopportabile, vuota e arrendevole: la lingua della Sinistra ha la spietata banalità di un telefilm a basso costo. Si caracolla tra il vetusto e il tentato simpatico ma solo una bella foto di Berlinguer riesce a scaldare un poco i cuori. Abbiamo un premierato con vocabolario adolescenziale ma a Sinistra non si riesce a uscire dai soliti canoni: l’italiano funzionariale, il peana nostalgico, la stitichezza del ripiegato su se stesso, il grandiloquente incapace di sentire oppure la contrizione del pretino stinto. Specializzata nel suo ruolo di consolatrice questa Sinistra si infiamma più per un congressino interno che per disegnare una speranza. (…)
(Su Left in edicola l’articolo continua: Giulio Cavalli parla ancora della retorica, della renzocrazia, del parlamentarismo e della classe dirigente della sinistra)
L’articolo di Giulio cavalli sullo stato della sinistra continua su Left in edicola dal 27 agosto
Vinicio Capossela, Peppe Voltarelli, Baba Sissoko. Chiamateli pure cantastorie
Dagli aedi dell’Antica Grecia ai cantastorie dei giorni nostri, passando per i menestrelli del Medioevo.
C’è sempre un artista che, in pubblica piazza, racconta storie con il canto.
Storie antiche che sanno dell’oggi, che narrano di gesta quotidiane e contengono significati universali.
L’umanità tramanda la sua storia in forma orale da sempre e, spesso, lo strumento prediletto è la musica. Corde di una chitarra, pelli di un tamburo o un’intera banda, accompagnano canzoni libertarie che mettono a nudo la realtà, abbattono ogni muro e ricordano agli uomini chi sono. E dove comincia la loro Storia.
Left ha incontrato tre cantastorie: Vinicio Capossela, Peppe Voltarelli e Baba Sissoko.

«Ricreare la memoria del mondo, col canto». Ecco cosa fa un cantastorie, secondo Vinicio Capossela. Non gli spiace affatto esser chiamato così, anzi, ride divertito e replica: «Forse sono un “contastorie”, inteso come “lu cunto” (lo racconto)». Canta e suona di storie antiche da sempre, Vinicio. Corna in testa e pellicce in corpo, immerso nelle sue maschere libera l’“invasato” e ci meraviglia, con quel fare che fu degli aedi, i cantori dell’Antica Grecia prima e dei cantastorie di ogni parte del mondo, poi.
Il grande potere conoscitivo del canto epico che narra persino l’inenarrabile, quando lo hai scoperto?
Sono sempre stato attratto dal canto epico, è qualcosa che va oltre la propria esperienza personale, e canta di una vicenda o di una storia, ma di una storia più generale, universale. E, soprattutto, è sempre connesso al senso della meraviglia, al meravigliare l’ascoltatore cantando un racconto verosimile. Mi hanno incantato i grandi aedi a partire da Omero, del resto l’Odissea era fatta per essere cantata. E quando leggevo Omero non mi veniva in mente la storia, ma le mie vecchie nonne che da piccolo ascoltavo, quel senso dell’onore, anche quel saper descrivere il contesto ambientale, la stagione, la presenza della terra, della pioggia, degli elementi naturali. E tutto questo confluire, questo modo di raccontare è quasi un prolungamento di questa cultura antica, quasi aedica.

«Un bel pretesto per esplorare ancora di più il Sud, lontano dai cliché». Terrone che canta in dialetto, libertario che pensa con la sua testa. Voltarelli (che canta Profazio) fa opera di rivendicazione politica e culturale omaggiando il cantastorie calabrese Otello Profazio, uno dei cantanti dialettali più importanti del Meridione. Per incontrarlo, Peppe Voltarelli, ha percorso la Salerno-Reggio a bordo di un’auto diretta a Pellaro, estremo sud di Reggio Calabria. Poi, chitarra e voce, in stile Profazio, gli ha eseguito sul divano di casa l’album con le tracce scelte tra le centinaia del suo repertorio che spazia nelle musiche e nelle lingue di tutto il Sud. «L’opera di Otello è un gran lavoro di raccolta, di esplorazione e anche di diffusione e riscrittura della musica popolare», dice Voltarelli: «Ho sentito l’esigenza di avvicinarmi a questo artista, studiarlo, capire quale fosse il suo metodo, poi ho pensato che rendendogli omaggio in vita mi sarei sentito più ricco, e anche più orgoglioso di conoscere la storia della mia gente». Il ricordo di quell’incontro sta tutto dentro un’emozionata e fragorosa risata di Peppe: «Quando gli ho portato il disco è rimasto contento, ha fatto un po’ di osservazioni, come “sai, le sfumature sono importanti, io vivo di sfumature” (riprende a ridere). Otello ha sempre fatto musica in maniera radicale, chitarra e voce, qualche volta anche fregandosene della tecnica. Ma credo sia stata una grande gioia per lui vedere le sue creature col vestito buono.

«Sono un griot afrocalabrese», ride forte Baba Sissoko. È nato e cresciuto nell’antichissima città di Timbuctù, in Mali, terra africana dove il blues, il jazz e il soul hanno profonde radici che hanno regalato al mondo musicisti come Salif Keita, Ali Farka Touré, Toumani Diabate. Ma Baba vive a Cosenza da quasi 20 anni, insieme alla moglie e i tre figli nati qui. «La musica popolare da queste parti e in tutto il Sud è proprio come il sapere dei griot, perché parla di Storia e trasmette sapere». Le parole e i pensieri, quando si parla con Sissoko, assumono un tono spirituale e terreno insieme. Alza forte il tono della voce, di tanto in tanto, e poco dopo rasserena l’aria con un sorriso. Dev’essere il potere magico dei griot, pensiamo. Baba Sissoko è un griot, ovvero un poeta e cantore che conserva la tradizione orale degli antenati, come tradizione africana comanda.
Le interviste complete ai tre cantastorie su Left in edicola dal 27 agosto
Più sabbia che cemento. Caffè del 27 agosto 2016
281 morti accertati, 15 dispersi, 43 vittime ancora senza nome, 2.500 sfollati. Corriere e Stampa aprono con il bilancio, amarissimo, del terremoto. Repubblica e il Fatto denunciano le responsabilità, quelle che già si vedono. “L’accusa del procuratore, palazzi con più sabbia che cemento”, è infatti il titolo del giornale diretto da Mario Calabresi. “La scuola crollata: quei lavori sballati puzzano di mafia”, questa invece la scelta di Marco Travaglio. Oggi i primi funerali di stato, con Mattarella e Renzi. Poi gli impegni, le promesse, il timore che vengano disattesi, come troppe volte è successo in passato
Burkini no. In Francia il Consiglio di Stato si è pronunciato contro il divieto, considerandolo lesivo delle libertà fondamentali. Poteva fare altrimenti? Certo che no. Si poteva impedire, in nome della läicité -che poi significa netta separazione tra cittadinanza e fede- che persone con indosso il burka, dunque travisate e non riconoscibili, entrassero in un pubblico ufficio. Si poteva vietare nella scuola pubblica ogni clamorosa ostensione della propria appartenenza religiosa: il velo integrale come la kippah in classe o un grosso crocifisso al petto. Ma non obbligare una donna a fare il bagno in bikini o a non farlo. Era solo una stolta polemica estiva e mi ha sorpreso che il primo ministro francese, Manuel Valls, per lucrare qualche consenso, l’abbia confortata. “Ma oggi il velo è un gesto politico”, dice Azar Nafisi, intervistata dal Corriere. È una sfida, alla quale però bisogna rispondere, dice bene la scrittrice iraniana, costruendo “spazi pubblici di dibattito e spazi dove possa rifugiarsi chi entri in contrasto con le famiglie”. Politica non divieti.
L’ANPI per il No, il Pd per il Sì. Si terrà forse il 10 settembre, alla festa di Bologna, il faccia a faccia tra il presidente Smuraglia e il segretario Renzi. Al di là del voto referendario -a proposito, quando andremo alle urne?- si confronteranno due modi di raccontare la storia d’Italia. Quello di un signore che ricorda la scomunica papale dei comunisti, il boom e le politiche criminali di “sviluppo” della borghesia rampante negli anni 60, la conventio ad escludendum che ha piegato per ragioni politiche il dettato costituzionale. E la narrazione di chi vede invece nel passato una scia indistinta di errori, le cui colpe sono semmai in primo luogo delle sinistre, dei diritti che si andavano acquisendo divenendo così tabù, delle conquiste sindacali che avrebbero depresso la “produttività”. Ora che è arrivato il rottamatore, è venuto il tempo di riscrivere memoria e costituzione. Viva! Gridano in coro le truppe che sostengono il premier, feroci nell’insulto ai dissidenti più di quanto non si siano mai mostrati né berlusconiani né grillini. Ora si cambia, ora finalmente si fa. Non importa cosa si stia facendo, l’importante è che si faccia. Non importa come, perché si fa come si può.
Pierluigi Bersani continua a dire che Renzi “fa ammuina”: non chiarisce, cioè, se e come vorrà cambiare l’Italicum. È una denuncia anacronistica quella dell’ex segretario dell’ex Pd. A Renzi interessa costruire il Partito di Renzi, Partito del Premier e del Governo. Interessa alzare un Vallo di Adriano: di qui noi, che facciamo e quindi amiamo l’Italia, dall’altro quelli che discutono del passato e quindi non fanno e non amano che se stessi. La “minoranza” tratta una mutazione ormai antropologica, come una normale questione da discutere tra simili nello stesso partito!
Rien ne va plus. Ma purtroppo discutere si deve. Ragionare del passato è più che mai necessario. Perché la ripresa salvifica – ormai è chiaro- non verrà. E molti commentatori cominciano a vedere come tutte le armi delle potenti banche centrali appaiano ormai spuntate. La Yellen per ora non lo fa, ma forse aumenterà i tassi della Fed. E allora? Fino a quando Draghi potrà continuare con il Quantitative Easing? Mario Deaglio cita proprio il presidente della BCE: “la politica monetaria può assicurare la stabilità dei prezzi, ma da sola non può rendere durevolmente prospera un’economia” . Significa, spiega Deaglio per la Stampa, che “la palla sta tornando ai governi e alle imprese. Solo se la sapranno raccogliere, esprimendo programmi «forti», le possibilità di uscire dalla quasi-stagnazione attuale diverranno davvero reali”.







