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Anche nello sport il gender gap si fa sentire. Le donne? Mai professioniste

Chiara Tabani of Italy reacts after goal during the women's Water Polo semifinal match between Russia and Italy of the Rio 2016 Olympic Games at the Olympic Aquatics Stadium in the Olympic Park in Rio de Janeiro, Brazil, 17 August 2016. ANSA /CIRO FUSCO

Delle 28 medaglie vinte dalla squadra italiana alle Olimpiadi di Rio, le donne ne hanno vinte 10: un solo oro sugli otto complessivi, ma sette argenti su dodici, due bronzi. Non hanno quindi sfigurato rispetto ai loro compagni, stante che, se non sbaglio, le donne ammontavano a poco più di un terzo della squadra italiana presente a Rio. È quindi un buon momento per sollevare per l’ennesima volta la questione della disparità di trattamento che ancora esiste tra atlete e atleti, dal punto di vista sia economico sia della sicurezza sociale, una disparità che sembra resistere tenacemente, nonostante le diverse proposte di legge periodicamente presentate in parlamento a questo scopo e l’azione di Assist, l’Associazione nazionale atlete.

Questa disparità ha tre origini distinte. La prima è che la legge 91/1981, che regola il professionismo sportivo, attribuisce questo status solo a «gli atleti, gli allenatori, i direttori tecnico-sportivi e i preparatori atletici che esercitano l’attività sportiva a titolo oneroso con carattere di continuità nell’ambito delle discipline regolamentate dal Coni e che conseguono la qualificazione dalle Federazioni sportive nazionali, secondo le norme emanate dalle Federazioni stesse con l’osservanza delle direttive stabilite dal Coni per la distinzione dell’attività dilettantistica da quella professionistica». Di fatto, queste discipline e relativa regolamentazione sono limitate (per decisione di Federazioni e Coni) a calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo.

Gran parte degli sport che vedono una forte partecipazione femminile – scherma, nuoto, atletica leggera, ginnastica, tennis – non rientrano tra quelli che possono venir svolti professionalmente, quindi anche essere tutelati da contratti e prevedere contributi a fini di malattia, infortuni, pensione. Di conseguenza, anche quando si tratta di un impegno di fatto a tempo pieno, tra allenamenti e gare, i compensi comparativamente sono bassi, spesso in nero, senza alcuna garanzia formale.  Ciò vale, per altro, anche per le calciatrici, giocatrici di basket, cicliste e pugili donne, nella misura in cui le rispettive Federazione non riconoscono a questi sport, se esercitati da donne, la possibilità di avere anche una categoria professionista.  Tanto per capirci, sono dilettanti le calciatrici della Nazionale di calcio femminile, così come la tennista Pennetta, la tuffatrice Cagnotto, le nuotatrici Rachele Bruni e Federica Pellegrini, la sciatrice Di Centa, le schermitrici Vezzali e Di Francisco. Sarà forse perché nessuna delle 41 Federazioni è presieduta da una donna, neppure tra quelle dove le donne sono la maggioranza dei tesserati?

Anche gli atleti maschi non professionisti sperimentano la medesima vulnerabilità delle loro colleghe. Ma qui interviene un’altra fonte di disparità. Gli atleti dilettanti maschi sono molto più spesso delle donne inquadrati nell’esercito, nella polizia o tra i carabinieri. È una differenza che ha origini nella esclusione delle donne da questi ambiti lavorativi fino ad epoca recente, che tuttavia persiste anche oggi. Mentre agli uomini così “protetti” è garantita continuità di reddito e contributiva, anche dopo la fine della carriera sportiva, per le donne questa rete di protezione è molto meno accessibile, così come sembra sia meno accessibile il passaggio ad allenatore o tecnico una volta terminata la carriera di atleta. A questo squilibrio si somma quello nei compensi e nel valore dei premi. Secondo un’indagine pubblicata sul sito di Repubblica, il gender gap nello sport è più alto ancora che nel mercato del lavoro standard, con le atlete che in media guadagnano il 30% in meno dei loro colleghi.

C’è chi può rifarsi con gli sponsor, ma l’infelice titolo sul trio delle cicciottelle e un rapido sguardo su chi ottiene passaggi tv segnalano come l’estetica conti per le atlete in misura enormemente maggiore che per gli atleti, a prescindere dalla loro bravura. La mancanza di protezione è particolarmente dannosa, oltre che in contrasto con tutte le norme a partire dall’articolo 39 della Costituzione, nel caso di maternità. Non essendo professioniste, quindi non avendo un contratto di lavoro, le atlete non hanno diritto al congedo di maternità e genitoriale. Il Coni dal 2007 ha dato direttive per quanto riguarda il mantenimento in squadra e del punteggio acquisito. Ma solo poche federazioni le hanno recepite e molte atlete rischiano di essere congedate, o comunque penalizzate per una gravidanza. Eppure, anche in questi giorni, abbiamo visto che una maternità non riduce le capacità atletiche di una donna, anzi.

L’opinione di Chiara Saraceno è tratta da Left in edicola dal 27 agosto

 

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Tsipras invita il Sud ad Atene contro l’austerità. Inclusi Renzi e Hollande e persino Rajoy

Tsipras invita il Sud contro l’austerità, ad Atene, il 9 settembre. Il tentativo sembra quello di spostare l’asse della discussione, o meglio dell’opposizione, da sinistra-destra a Sud-Nord. Ad Atene, Alexis Tsipras ha convocato i premier di Italia, Spagna, Portogallo, Francia, Malta e Cipro. Il 9 settembre i leader del Sud Europa proveranno a costruire un’alleanza anti-austerità. È arrivato il momento di costruire un asse del Sud in contrapposizione a quello del Nord che oggi comanda in Europa, pare abbia detto Tsipras secondo i media greci. E per questa Alleanza contro l’austerità Tsipras convoca tutti i leader del Sud Europa, inclusi Renzi e Hollande, e persino Rajoy, che proprio nemici dell’austerity non sono. E tenta così di mostrare all’Ue che un’alleanza anti-austerità può includere i conservatori e i progressisti di quel pezzo d’Europa che affoga nel debito. Già ieri, in un incontro dei capi di Stato di sinistra a Parigi, Tsipras ha avanzato alcune proposte per l’Europa e avanzato l’idea di un forum tra le forze di sinistra di tutte le ispirazioni per ragionare sul futuro.

Se Matteo Renzi – la cui presenza è data come “altamente probabile” dai greci – farà giusto in tempo a partecipare, il referendum in Italia si terrà a ottobre, così non è per Mariano Rajoy la cui presenza è incerta dal momento in cui l’aspirante premier spagnolo si presenterà al Parlamento spagnolo il 30 agosto per ottenere una fiducia assai improbabile. Raggiunto l’accordo con Ciudadanos, infatti, Rajoy non può contare nemmeno sul sostegno esterno (attraverso l’astensione del Psoe) che appare fermo a giudicare dalle dichiarazioni di Pedro Sanchez, ma potrebbe sempre accettare l’invito di Tsipras per indossare il vestito dell’anti austerità, lui che l’austerità l’ha praticata eccome in Spagna nei suoi governi precedenti. Mentre il presidente François Hollande ha già confermato la sua presenza, come annunciato dal portavoce francese Stephane Le Foll citato dalla stampa di Atene.

Trovare soluzioni comuni per il rilancio dell’economia dell’area e punti d’intesa sulla crisi migratoria, sono i punti all’ordine del giorno. Insieme a Tsipras, Renzi, Hollande e – forse – Rajoy, ci saranno il cipriota Nicos Anastasiades, il maltese Joseph Muscat e il portoghese Antonio Costa. Già nel discorso tenuto davanti al suo partito, Syriza, e pubblicato sulle pagine di Left, il premier greco aveva aperto ai socialisti d’Europa invitandoli a cambiare rotta. Il vertice meridionale del 9, infine, appare come una riunione preparatoria in vista del vertice a Ventisette che si terrà il 16 settembre a Bratislava. Il presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, ha convocato informalmente tutti e 27 i capi di Stato e di governo dell’Ue (senza il Regno Unito) per discutere del futuro dell’Unione senza Londra.

Sul terremoto..di Lisbona. Caffè del 26 agosto 2016

In 215 salvati dalle macerie Il Corriere apre con i numeri dei sopravvissuti, quelli che si è saputo salvare. “Bentornate Giorgia e Giulia”, fa eco il Giornale dando il titolo a due bambine strappate alla morte. Poi ci sono, purtroppo, le vittime: “La bella Italia sepolta dalle macerie”, come la chiama La Stampa. Nonni e nipoti, studenti emigranti tornati nei paesi. Parenti in vacanza ad agosto tra le vecchie pietre dove sentivano le radici. E le loro amiche e gli amici. Cìè chi è fuggito via la notte stessa. Si fugge dal terremoto: ho incontrato a New York un capo lega, contadino sindacalista, che aveva lasciato la valle del Belice la notte stessa del sisma ed era arrivato fin lì senza mai voltarsi indietro. Chi non può partire si aggira come uno spettro: troverete sui giornali la foto notturna di un bambino tra le tende con il suo orsetto e di tre vecchi seduti su una panchina, con indosso una coperta.”Senza tregua: altre scosse e crolli nei paesi devastati”, ricorda la Repubblica. Poi, le inchieste.

Disastro colposo, si muove la procura. “Nel mirino -scrive la Stampa- il crollo del campanile di Accumoli ristrutturato con i soldi dell’Aquila e della scuola di Amatrice”. Ma viene fuori, per merito di Repubblica, che la legge per ristrutturare gli edifici a rischio sismico non si applica alle “seconde case” e in quei comuni il 70% degli alloggi si potevano definire tali. Inoltre “un dirigente distratto, che si dimentica di inviare in tempo l’elenco dei (pochi) che hanno deciso di mettere in sicurezza la casa” ed ecco che “Amatrice perse i contributi”. Gocce di inefficienza e corruzione, speriamo perseguibili e punibili, nel mare di una incuria che nel nostro paese non è né nuova né recente .

I numeri del rischio sismico. 121 miliardi: tanto in 50 anni è costata agli italiani la ricostruzione dopo i terremoti. Ce ne sarebbero voluti 13, secondo il Fatto Quotidiano, per garantire “edifici più sicuri ed evitare la conta dei morti”. Non solo 13? Tre volte tanti, 40 miliardi? Sempre meno di un terzo di quanto i contribuenti italiani non abbiamo dovuto pagare. Senza dire che una parte di quei 121 miliardi, è finito -come sappiamo- in tangenti e malaffare. Dice al Fatto Salvatore Settis: “salvare case e vite è un valore superiore ai vincoli di bilancio”. Nessuno, almeno oggi, se la sente di dargli contro.

Il caffè salvo da Michele Prospero e da il manifesto. Non sapevo come tirarla fuori, la corrispondenza tra Voltaire e Rousseau dopo il terremoto di Lisbona. Me ne aveva fatto ricordare una cara amica, ma tentennavo. “Quel radical chic, ma cosa non si inventa pur di sparlare di chi esercita il duro mestiere del governo, manipolatore, anche un po’ sciacallo”. Per fortuna ci ha pensato Prospero: “Nell’agosto del 1756 Rousseau scrive una lettera a Voltaire che aveva pubblicato un poema sul terremoto di Lisbona. Sebbene scosso dalle macerie, il cantore della bellezza del bel secolo delle arti e delle scienze, non perde la certezza del mondano che loda la perfezione del tempo e difende l’epoca tanto criticata da mesti criticoni. Rousseau lo incalza negando che la tragedia rinvii alla metafisica, alla teologia, al fato”. Spiega Cassirer -proseguo nella citazione del pezzo di Prospero per il manifesto- Rousseau ha sottratto il problema della teodicea (che scarica sul fato o su dio la persistenza del male nel mondo) al circolo metafisico, trasponendolo al centro dell’etica e della politica”. Scrive Prospero: “Rousseau inventa la politica moderna e scorge nelle rovine di Lisbona…le tracce del crollo di una società alienata e per questo mette sotto processe le scelte pubbliche nel progetto della città”.

Da Lisbona ad Amatrice. “Se le risorse scarse -scrive Prospero- vengono promesse per il ponte dello stretto, dirottate per le grandi opere, destinate a chi compie 18 anni o regalate per le gigantesche de-contribuzioni a favore delle imprese, ciò accade per una scelta politica che non apprezza la messa in sicurezza del territorio come bene pubblico prioritario. Il sostegno delle grandi potenze dell’economia è più ricercato della manutenzione del territorio, della città affidate a lavori che mobilitano piccole imprese, artigianato, competenze diffuse. E questo ordine rovesciato dei valori è politica, cattiva politica che governa l’Italia come un paese periferico che frana davanti alle emergenze”.

Capalbio? Mi spiace non la conosco

MAURIZIO LANDINI

Era in spiaggia, Maurizio Landini, ma non a Capalbio, quando ha risposto alle domande che avevamo da porgli per la copertina di questa settimana, dedicata come spesso ci accade alla sinistra, parola che anche questa estate temiamo sia stata usata a sproposito, tra la polemica sull’accoglienza nel borgo maremmano, sui timori vacanzieri di Chicco Testa e del principe Caracciolo, e lo sfondone del deputato di Sinistra Italiana, l’onorevole Sannicandro. A sproposito e per puro gusto della polemica, in realtà. «Sei a Capalbio?», scherziamo. «No, non la conosco. Mi dispiace, non ci sono mai stato. Sono a Gabicce mare, non so se siete pratici…», ci risponde a tono e ride, dalle Marche. «Un posto popolare, ci sono molti metalmeccanici e non solo… c’è anche molta gente di colore ma non ci facciamo caso. Non facciamo differenze».

Sorride Landini, seduto sotto l’ombrellone, a chissà quante file dal mare, nelle lunghissime spiagge dell’Adriatico. Ma l’intervista è seria, e presto lasciamo le polemiche al loro posto – le superflue e pigre paginate della stampa agostana. Landini va al sodo: «Penso», vi dice sul numero di Left in edicola da sabato 27, «che in questi anni ci sia stata una regressione culturale molto pesante. E penso che questo sia il problema più grande. Penso anche che bisogna ridare significato alle parole, ai valori e poi alla vita reale delle persone. Per me, quello che fa la differenza è provare sempre a mettersi nei panni degli altri, di chi per vivere ha bisogno di lavorare, oppure di scappare dal Paese in cui non vive più. Bisogna fare questo tentativo, ed è questo che fa la differenza. E mi sembra che sia questo che sfugge molte volte e impedisce poi alle persone di sentirsi rappresentati o di capire se ci sia ancora una differenza tra destra e sinistra».

Perché una differenza c’è, anche se spesso – e ultimamente – non si vede: «Faccio un esempio, che può riguardare un migrante o un giovane precario nella stessa misura: se vieni trattato allo stesso modo sia che il governo sia di destra sia che sia di sinistra, per il giovane che differenza c’è? Se un precario continua ad essere precario sia con un governo di sinistra che di destra, se Renzi dice che la cosa più di sinistra che ha fatto è quella di rendere più facili i licenziamenti, capite che nella percezione di queste persone non c’è differenza tra destra e sinistra. Io ho sempre pensato che la differenza c’è ed è proprio in cosa accade a queste persone. Per me Sinistra è quando se uno ha un problema tu provi a risolverglielo. Per me la Sinistra è un’idea di giustizia sociale, di battaglia contro le disuguaglianze. Quindi non è vero che non c’è più differenza, ma oggi oggettivamente siamo di fronte al fatto che ha avuto la meglio il “pensiero unico” del neoliberismo. Quando pensi che in Europa i governi che stanno facendo le cose peggiori sul lavoro sono governi diretti da partiti che fanno parte dell’Internazionale socialista (per esempio, Italia e Francia), è evidente che siamo di fronte a una sconfitta culturale che brucia. Dovremmo almeno recuperare la capacità di fare un’analisi di quello che sta succedendo, a partire dalla condizione materiale delle persone, e di chi per vivere deve lavorare. E poi occorre ridare un senso alle parole».

Con Landini, Tiziana Barillà e Ilaria Bonaccorsi parlano della Coalizione Sociale (che fine ha fatto? Cosa non ha funzionato?), della riforma dei contratti che ha in testa Renzi, che vuole superare i contratti nazionali dimenticandosi però di attuare la delega sul salario minimo, e del vertice di Ventotene, dove Renzi ha ricevuto un solo complimento da Angela Merkel e l’ha ricevuto per il jobs act, «per aver reso più facili i licenziamenti», come dice Landini, convinto che la via non possa esser quella della svalutazione del lavoro, la competizione sui salari. Perché «quando arrivi ai voucher, quando un lavoratore lo puoi comprare in tabaccheria, siamo davvero alla fine di un processo», dice. E «quindi c’è un lavoro culturale da costruire».

La lunga intervista con Maurizio Landini articolo Left in edicola dal 27 agosto

 

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Dilma verso l’impeachment. L’appello di Chomsky, Eno, Loach, Roy

Il conto alla rovescia è giunto ai suoi ultimi tre giorni. Il 26 agosto ha inizio la sessione plenaria del Senato brasiliano sull’impeachment di Dilma Rousseff. Già 51 senatori si sono dichiarati favorevoli alla destituzione della Presidente. Ne mancano, quindi, 3 per raggiungere la maggiornaza dei due terzi necessaria (54). E il governo presidente ad interim Michel Temer assicura che, alla fine, saranno almeno in 61 a votare contro Dilma.

Sospesa dalle funzioni il 12 maggio – con l’accusa di frode e di aver avallato pratiche contabili illegali – Dilma ha ribadito per l’ennesima volta che non intende dimettersi prima del voto finale. «Lotterò fino alla fine, non getterò la spugna», ha detto l’ex guerrigliera che il 29 agosto si difenderà personalmente in aula. «Non ho mai ricevuto denaro dalla corruzione. La mia presenza in Senato mostra chiaramente che in Brasile la democrazia ha subito un’interruzione. È importante per tutti i brasiliani, per il mondo intero e per noi, evitare che questo possa avvenire di nuovo».

Intanto, 22 intellettuali e artisti del mondo si mobilitano in difesa di Dilma: Noam Chomsky, Naomi Klein, Tariq Ali, Danny Glover, Arundhati Roy, Susan Sarandon, Oliver Stone, Ken Loach e Brian Eno sono tra i firmatari di un manifesto che mette in guardia sulle conseguenze che questo impeachment avrà per l’intera America Latina. Ecco la versione integrale del manifesto, in italiano:

Siamo solidali con i nostri colleghi artisti e con tutti coloro che lottano per la democrazia e la giustizia in Brasile.
Siamo preoccupati da questo impeachment con motivazione politica della Presidente, al quale è seguito un governo provvisorio non eletto. Le basi giuridiche su cui si fonda l’impeachment sono ampiamente discutibili ed esistono evidenze convincenti che mostrano come i principali promotori della campagna di impeachment stanno tentando di rimuovere la Presidente con l’obiettivo di fermare le indagini di corruzione nelle quali essi stessi sono implicati.

Ci dispiace che il governo provvisorio in Brasile abbia sostituito un governo diversificato, diretto dalla prima Presidente donna, da un governo composto da uomini bianchi, in un Paese in cui la maggiornaza si identifica con i neri e i mulatti. Questo governo ha anche eliminato il Ministero delle Donne, Uguaglianza razziale e Diritti umani. Visto che il Brasile è il quinto Paese più popoloso del mondo, questi eventi sono di grand eimportanza per tutti coloro che hanno a cuore l’uguaglianza e i diritti civili.

Speriamo che i senatori brasiliani rispettino il voto popolare del 2014, quando più di 100mila di persone hanno votato. Il Brasile è emerso da una dittatura appena 30 anni fa, e questi eventi possono ritardare il progresso in termini di inclusione sociale ed economica che il Paese ha intrapreso da decenni.

Il Brasile è una grande potenza nella sua regione ed è la principale forza economica dell’America Latina. Se questo attacco contro le sue istituzioni democratiche avrà luogo, le onde d’urto avranno un riverbero in tutta la regione.

Terremoto: tornare in Parlamento, ad esempio?

Il centro di Amatrice distrutto dal terremoto che nella notte ha colpito l'Italia centrale. Amatrice, 24 agosto 2016. ANSA/ ALBERTO ORSINI

Cosa possiamo fare noi lo leggiamo su tutti i giornali. I Vigili del Fuoco scavano. La Protezione Civile organizza. Le forze dell’ordine sono sul posto. Il Governo s’è mosso. La Regione Lazio si è mobilitata fin da subito. I sindaci piangono ma sono in mezzo alla loro gente. I volontari raccolgono i beni di prima necessità. I cittadini stanno rifornendo i centri di raccolta. La CEI (!) ha donato un milione di euro. Anche la magistratura ha già aperto l’inchiesta per verificare eventuali responsabilità.

E il Parlamento? Chiuso. Imperterrito nel suo sforzo di essere scollegato dalla realtà. Verificheremo, dicono i parlamentari twittando dalla spiaggia. Vigileremo, assicurano. Come, non ci è dato di saperlo, in effetti, visto che il Parlamento (e le sue Commissioni) dovrebbe essere il luogo della verifica, delle domande e delle risposte, dell’elaborazione di soluzioni a breve e lungo termine. Niente. Chiuso.

C’è un modo molto semplice per aiutare il Paese: svolgere il proprio ruolo nel modo migliore possibile, essere professionali nel senso alto dell’esercitare i propri valori con il proprio mestiere.

Se manca una persona cara l’italiano che fa? Torna. Nonostante l’agosto. A me sembra così banale.

Buon venerdì.

(Dopo una bella discussione con un amico impegnato in politica si è pensato che servirebbero sui territori, i parlamentari. Quindi: riaprite il Parlamento, mandiamoli in missione e verifichiamo le presenza. Va bene anche così.)

Terremoto, cosa succede oltre i soccorsi e la commozione

Firefighters at work to save people on the rubble of collapsed building in Amatrice, 25 August 2016. The provisional death toll from Wednesday's earthquake in central Italy has risen to 247, the civil protection agency said Thursday. ANSA/FLAVIO LO SCALZO

La terra continua a tremare. E chi ha perso la casa ha dovuto abituarsi a settecento scosse, dopo quella fatale del 24 agosto, arrivata alle tre di notte. L’ultima, di magnitudo 4.8, è stata registrata dall’istituto italiano di sismologia stamattina alle 6,28, e si è sentita in tutta l’area di Rieti. Volontari e vigili del fuoco, mentre la terra balla, continuano a scavare e ad allestire i campi, che per il momento riescono ad accogliere, nelle tende, solo poche centinaia di sfollati. Che sono nelle tende, chi è riuscito a staccarsi dalla casa crollata, a interrompere un presidio che è un po’ antifurto per sciacalli (c’è stato il primo arresto, in serata) un po’ una veglia.

Non c’è più nessuno – «non dovrebbe esserci più nessuno», dice il sindaco di Amatrice – sotto l’Hotel Roma, dopo che i Vigili del Fuoco hanno individuato e estratto altri tre corpi, stanotte, e il numero dei morti, adesso, dopo aver corso per un’intera giornata, si muove più lentamente. I recuperi effettuati in queste ore sono i più complicati, per via delle scosse e delle profondità a cui si trovano i corpi. Siamo a 250 e la paura fa pensare che si possa superare il dramma di L’Aquila, con 309 morti. Molti, rispetto alla norma, sono però i ritrovamenti in vita, che sono per ora 215. Stiamo entrando, comunque, nel post sisma, l’organizzazione è sempre più efficace e l’emergenza si fa meno frenetica. Si pensa ai funerali, con Matteo Renzi che in Consiglio dei ministri ha annunciato che, in concomitanza con la cerimonia, sarà proclamata una giornata di lutto nazionale.

Ecco, ma cosa sta accadendo, cosa si sta facendo oltre i soccorsi e il – giustissimo – cordoglio? Il governo, svolto un consiglio dei ministri sul tema, ha dichiarato lo stato di emergenza e stanziato i primi 50 milioni di euro, presi dall’apposito fondo (che è di 250 milioni) per le emergenze. È stato poi deciso lo stop alle tasse delle popolazioni colpite, anche se per ora è un’intenzione a cui dovrà dar seguito – e coperture – il ministero dell’Economia. Renzi ha invitata a lavorare per la ricostruzione «tutti insieme, al di là delle visioni politiche». Il governo, per quanto dice Renzi, non vorrebbe ripercorrere il modello aquilano delle new town («La sfida è ricostruire i borghi», dice Franceschini). «Dobbiamo fare un’operazione per cui i lavori procedono spediti», ha detto Renzi in conferenza stampa, insieme ai ministri Delrio e Madia, «ma dopo appena 36 ore non possiamo prevedere i tempi». Per un attimo è tornato il Renzi che si vanta di esser stato sindaco, ieri sera, parlando poi di prevenzione.

Nessuna cifra, nessun investimento. Renzi però ha detto (lanciando apposito progetto, da chiarire, “Casa Italia”): «Non basta essere all’avanguardia dell’emergenza, possiamo avere una visione che sia capace di affermare la cultura della prevenzione, dobbiamo riuscire ad essere seri con noi stessi sulle bonifiche sul dissesto idrogeologico, sulle questioni infrastrutturali e su altri temi, dall’efficienza energetica alla diffusione della banda larga». Assicura, Renzi, che non è il solito ritornello: «Il fatto che non ci siano riusciti in passato non vuol dire che noi non dobbiamo mettere il cuore e le energie migliori in questo progetto». Il punto, però, è che più del cuore e delle energie servirebbero i soldi: 10 miliardi sono le prime stime – non una cifra impossibile, trovata, ad esempio, per misure come gli 80 euro, che per l’economia hanno fatto anche meno di quello che farebbe un’iniezione simile nel comparto edilizio. Questioni di priorità, di velocità di riscossione elettorale. Ma le Europee erano vicine, il 2018 è più lontano e magari c’è tempo.

In Colombia la guerra con le armi è finita. Ora inizia il dibattito delle idee

Quando il 27 maggio del 1964 l’esercito colombiano, con l’appoggio statunitense, irrompe nelle regioni di Tolima e Huila con 16mila soldati per reprimere le esperienze di autorganizzazione contadina – le ritiene «inaccettabili repubbliche indipendenti» -, quei contadini decidono che la resistenza e la lotta armata sono l’unica strada per cambiare la Colombia. Da quel giorno – e per 50 anni – i guerriglieri comunisti delle Farc (le Forze armate rivoluzionarie della Colombia – Esercito del Popolo) attaccano stazioni di polizia e postazioni militari, fanno ronde e imboscate contro le forze di sicurezza colombiane, il loro nemico principale. E da 50 anni ne subiscono gli attacchi spietati. Perciò il 24 agosto è un giorno storico per la Colombia. «Abbiamo vinto la più bella di tutte le battaglie. La guerra con le armi è finita, ora inizia il dibattito delle idee». Così il negoziatore delle Farc, Ivan Marquez, da La Havana, ha annunciato l’accordo finale di pace tra il governo colombiano e i ribelli, che verrà firmato ufficialmente a settembre.

Bogotà è in festa nei parchi e nelle strade, questo accordo mette fine a mezzo secolo di guerra civile: 260mila morti, 45mila scomparsi, quasi 7 milioni di sfollati. E pone fine anche a quattro anni di colloqui a Cuba. I colombiani festeggiano, in attesa di votare il 2 ottobre al referendum nazionale che ratificherà l’accordo: «Colombiani, la decisione è nelle vostre mani. Mai prima d’ora i cittadini del nostro Paese hanno avuto a portata di mano la chiave per il loro futuro», ha detto nel discorso trasmesso in Tv il presidente Juan Manuel Santos, rieletto nel 2014 proprio con la promessa dell’accordo di pace.

Havana, Cuba, 24 agosto 2016. Il delegato delle Farc Luciano Marin, alias Ivan Marquez, stringe la mano al capo delegazione del governo colombiano Humberto de la Calle, davanti al ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez
Havana, Cuba, 24 agosto 2016. Il delegato delle Farc Luciano Marín Arango, alias Ivan Marquez, stringe la mano al capo delegazione del governo colombiano Humberto de la Calle, davanti al ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez

Cosa dice l’accordo

L’accordo arriva dopo l’intesa sul cessate il fuoco raggiunta il 23 giugno scorso alla presenza del segretario generale dell’Onu Ban Ki-moon. Firmato in via preliminare dal negoziatore del governo, Humberto de la Calle, e quello delle Farc, Luciano Marín Arango detto Ivan Marquez, davanti al ministro degli Esteri cubano Bruno Rodriguez, l’accordo garantisce che le Farc avranno una rappresentanza al Congresso, senza diritto di voto fino al 2018 quando i 7mila ribelli potranno partecipare alle elezioni come ogni altro partito politico. L’accordo prevede anche una riforma agraria, un’azione congiunta contro il traffico di droga e la creazione di tribunali speciali per il post conflitto.

Le reazioni internazionali

«Gli Stati Uniti sono orgogliosi di appoggiare la Colombia nella sua ricerca di pace», ha detto l’ancora presidente degli States Barack Obama, che si è congratulato al telefono con Santos, impegnandosi a mantenere «la tradizione bipartisan statunitense di appoggio al rafforzamento delle istituzioni della Colombia», attraverso il piano Peace Colombia, che prevede 450 milioni di dollari a sostegno di Bogotà. La nota ufficiale, poi, evidenzia che i due presidenti hanno concordato di mantenere una stretta collaborazione nella lotta al crimine organizzato e al narcotraffico. Anche l’Unione europea interviene per voce dell’Alto rappresentante per la Politica estera e di sicurezza dell’Ue, Federica Mogherini: «Un’opportunità storica e unica per la pace».

Mentre il continente latinoamericano è in preda a golpe bianchi e crisi politiche – dal Brasile al Paraguay, dall’Argentina al Venezuela – i colombiani e i mediatori cubani incassano questa vittoria di diplomazia. Non per fare i guastafeste, ma resta da vedere quanta resistenza contro questo accordo di pace metterà in campo la frangia conservatrice del Paese dell’ex presidente Álvaro Uribe, che alla vigilia della firma ha già tuonato: «Il presidente Santos non ha raggiunto la pace. Ha consegnato la Colombia alle Farc». Uribe non si è fatto scappare l’occasione per attaccare Caracas: «L’abdicazione di Santos davanti alle Farc ha tracciato una strada che porta dritta al Venezuela. Il presidente era la voce più critica del regime chavista. Con l’accordo di pace si è trasformato nel suo migliore amico. Il mondo deve esigere che Maduro accetti di far svolgere il referendum sulle sue dimissioni entro quest’anno». Un altro venezuelano, con buone probabilità, gli avrebbe risposto che «quelli che hanno servito la rivoluzione hanno arato il mare».

Perché il terremoto

An old woman in a tent city set up after the earthquake in central Italy, Amatrice, 25 August 2016. The provisional death toll from Wednesday's earthquake in central Italy has risen to 247, the civil protection agency said Thursday. ANSA/ANGELO CARCONI

È successo ieri, tra le provincie di Rieti, Perugia e Ascoli Piceno: un terremoto di magnitudo Richter 6,0. Era successo anche il 20 maggio 2012, in Emilia-Romagna: magnitudo 5,9. E prima ancora a L’Aquila, il 6 aprile 2009, con una magnitudo 6,1. O ancora in un’ampia zona intorno a Colfiorito il 26 settembre 1997, quando si registrarono due scosse a poche ore di distanza l’una dall’altra: da 5,8 e 6,1 di magnitudo. La seconda uccise quattro tecnici nella Basilica di San Francesco ad Assisi, presenti lì per valutare gli effetti del crollo della vela di una volta a causa della scossa precedente.

Succede, nell’Appennino centro-meridionale, che ogni 4 o 5 anni in media si verifichi un terremoto della potenza di quello che ha distrutto ieri Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto e Pescara del Tronto. Sappiamo anche che non è una novità dei nostri tempi. L’area colpita ieri ha subito terremoti molto potenti nel 1639, nel 1646, nel 1703. Nel 1639, in particolare, Amatrice fu completamente distrutta da un sisma che molti geofisici definiscono “gemello” del terremoto di ieri. La documentazione storica registra sismi devastanti nell’Appennino centro-meridionale fin dal XII secolo. Non è che prima non avvenissero, i terremoti, in quest’area. È solo che mancano le prove documentali.

Sappiamo anche perché l’Appennino centro-meridionale è una zona ad alto rischio sismico. La dorsale appenninica segna, infatti, il confine tra due grandi placche tettoniche, quella africana e quella euroasiatica, che si scontrano e scorrono l’una rispetto all’altra. Le due gigantesche zolle interagiscono in maniera più attiva proprio nell’Appennino centro-meridionale oltre che nell’Arco Calabro: che sono infatti le aree a più alto rischio sismico d’Italia. La stessa esistenza della catena montuosa che chiamiamo Appennino è il frutto di questo titanico scontro iniziato all’incirca 20 milioni di anni fa.

Esiste, in particolare, un’area rettangolare molto allungata a cavallo dell’Appennino centro-meridionale che subisce sollecitazioni diverse. Il lato orientale di questo rettangolo – quello che va dalla Puglia all’Emilia-Romagna, passando per Molise, Abruzzo, Marche, Umbria – si muove, con una velocità che in media è di 3-5 millimetri l’anno in direzione nord-est, verso l’Adriatico. Il lato occidentale, quella che afaccia sul Tirreno, si muove invece in direzione nord, ma molto più lentamente. Il risultato è che le faglie, ovvero le fratture tra le rocce, sono “distensive”: si stirano. È come se gli Appennini fermi a ovest e “tirati” a est, subissero una lacerazione. La distensione è veloce: 3 o addirittura 5 millimetri l’anno, nei tempi geologici, sono molti. Ma anche nei nostri tempi umani non sono pochissimi: infatti lo spostamento viene rilevato dal sistema GPS. La lacerazione non è continua, avviene a strappi. Le forze elastiche di scorrimento tra le rocce si accumulano finche non avviene uno scatto. Ogni scatto produce onde sismiche, che in genere vengono rilevate dagli strumenti, ma non avvertite dagli uomini. Ogni tanto – ogni 4 o 5 anni in media nella zona dell’Appennino centro-meridionale – questi scatti sono maggiori e raggiungono la magnitudo 5 o 6. Quelle di Colfiorito e Assisi nel 1997, dell’Aquila nel 2009, di Finale Emilia nel 2012 e di ieri sono tutti scatti di potenza analoga lungo faglie di poche decine di chilometri che avvengono per distensione.

Tutto questo ci dice che terremoti in queste zone ben individuate dell’Appennino centro-meridionale definite ad alto rischio sono attesi. I geofisici non possono dire, con precisione deterministica, il giorno e l’ora. Ma ci dicono dove è statisticamente probabile che sismi di magnitudo intorno a 6 possono avvenire. Abbiamo, pertanto, mappe molto precise del “rischio sismico”. Tuttavia il “rischio sismico” non è il prodotto solo della probabilità che succeda un terremoto. Un terremoto di magnitudo 6 o 7 o anche 9, ove mai avvenisse, al centro del Sahara non costituirebbe una minaccia per nessuno. Un terremoto produce danni, dicono gli esperti di rischio, solo in presenza di altri due fattori: l’esposizione e la vulnerabilità.

Il Sahara non è vulnerabile (non ci sono case che possono crollare) e non è particolarmente esposto (ovvero non c’è una popolazione umana esposta). A Tokyo la situazione è diversa. Con una notevole frequenza di eventi sismici, con una popolazione di alcune decine di milioni di persone e una notevole densità abitativa, la città è molto esposta. Tuttavia è poco vulnerabile, perché gli edifici sono costruiti in modo da resistere a terremoti molti più potenti di quelli che si verificano in Italia. Ecco perché il rischio sismico a Tokyo resta basso.

L’Italia lungo l’Appennino centro-meridionale non è né il Sahara né Tokyo. I terremoti di magnitudo 5 o 6 sono frequenti, ma la popolazione esposta non è enorme. Purtroppo è estremamente vulnerabile, a causa dei tanti edifici che sono abitati pur non essendo costruiti secondo le norme antisismiche. Ecco perché un terremoto in Italia, anche se migliaia di volte meno potente che a Tokyo, causa più vittime.

Questa è una condizione inevitabile? La risposta non è semplice. Gli edifici presenti in Italia, soprattutto nei centri storici, sono antichi e belli: costituiscono un grande patrimonio culturale. Certo, almeno nelle zone ad alto rischio sismico, potrebbero (dovrebbero) essere messi in sicurezza. Ma non è semplice ed è, soprattutto, costoso. È, dunque, una questione di scelta, anche e soprattutto politica.
Certo è del tutto inammissibile che in queste zone edifici strategici – come gli ospedali e le caserme – ma anche di grande valore sociale – come le scuole o gli alberghi – non siano messi in sicurezza. È del tutto inaccettabile che anche edifici moderni siano costruiti in modo da non reggere un urto forte, ma non impossibile quale quello prodotto da terremoti di magnitudo 6 o 7. Ecco, dunque, che entra in gioco un altro fattore nella determinazione del rischio sismico. Il fattore percezione. A Tokio la percezione del rischio è alta e, allora la società si muove per diminuire la vulnerabilità. Qui da noi, malgrado tutte le tragedie consumate, la percezione resta bassa. E la vulnerabilità inaccettabilmente alta.

Sì, va bene, ma le lacrime non vi assolvono

This still image taken from video shows rescuers searching a collapsed building in Amatrice, central Italy, where a 6.1 earthquake struck just after 3:30 a.m., Wednesday, Aug. 24, 2016. The quake was felt across a broad section of central Italy, including the capital Rome where people in homes in the historic center felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo)

Lo spazio bianco. Di dolore, di condivisione. Di sospensione. Non c’è mica commento al dolore.

 

 

 

 

 

 

Però diceva Enzo Biagi nel suo libro ‘Senza dire arrivederci’ (era il 1985) che «i terremoti e le alluvioni sono sempre favorevoli circostanze per dimostrare, nella generale sventura, il coraggio e la bontà dei potenti». Biagi non era un polemista, tutt’altro, ma si inserisce nella scarna schiera dei giornalisti con la schiena diritta; quelli che considerano umanissimo e etico anche provare a riordinare i fatti, i sentimenti e le parole. Anche in mezzo al dolore e alle macerie.

Scrivere di un terremoto il giorno dopo un terremoto equivale al camminare su una corda appesa tra gli sciacalli appollaiati da un lato e i furbi dall’altro. Entrambi godono di una naturale timidezza diffusa nell’esprimere impressioni, osare considerazioni e provare a tirare le fila.

I fili del terremoto nel nostro Paese sono lunghissimi, scavalcano i secoli e si annodano sulle tragedie. Il 23 novembre del 1980 fu l’Irpinia ad essere morsicata dal terremoto. Nel suo discorso Sandro Pertini, al tempo Presidente della Repubblica disse: «Non deve ripetersi quello che è avvenuto nel Belice. Io ricordo che sono andato in visita in Sicilia. Ed a Palermo venne il parroco di Santa Ninfa con i suoi concittadini a lamentare questo: che a distanza di 13 anni nel Belice non sono state ancora costruite le case promesse. I terremotati vivono ancora in baracche: eppure allora fu stanziato il denaro necessario. Le somme necessarie furono stanziate. Mi chiedo: dove è andato a finire questo denaro? Chi è che ha speculato su questa disgrazia del Belice? E se vi è qualcuno che ha speculato, io chiedo: costui è in carcere, come dovrebbe essere in carcere? Perché l’infamia maggiore, per me, è quella di speculare sulle disgrazie altrui».

Dichiarò il pluriPresidente della Repubblica Giorgio Napolitano il 9 aprile 2009 dopo il terremoto che sconvolse L’Aquila: «Bisogna vedere come sia potuto accadere che non siano state attivate indispensabili norme, che erano state tradotte in legge e chiedersi anche come non siano scattati i necessari controlli. Nessuno in questi casi nessuno dovrebbe chiudere gli occhi. Né chi vende, né chi acquista un immobile. Ma al di là delle responsabilità, bisogna decidere cosa è possibile fare, affinché tutto ciò non accada mai più. E questo si può fare non con profezie o impossibili previsioni dei terremoti, ma rendendo sicuri gli edifici, anche quelli più antichi».

È vero che le immagini di queste ore spaccano il cuore ed è vero che l’ostinata solidarietà di questo Paese (per fortuna) non appare scalfita dalle delusioni della storia e dagli errori della classe dirigente. Come diceva Elias Canetti «il dolore per ciò che è distrutto ingiustamente e ciecamente è inconsolabile e nessuna vita è lunga abbastanza per reincluderlo del tutto nel sedimento di quel che ci appare familiare, e perciò sicuro» ma per favore basta con questa storia della natura feroce. Basta. Non è la natura che ammucchia case e cemento; non sono le vittime estratte dalle macerie ad avere mancato le promesse di Stato; non sono i volontari a organizzare le regole.

Il diritto e il dovere alle lacrime, certo. Ma le lacrime non vi assolvono.