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Decine di rimpatri, in partenza da Ventimiglia. Se l’Italia si fida del Sudan di Al Bashir

Il pugno duro era stato annunciato lo scorso 5 agosto a Ventimiglia, quando abbiamo visto migranti e richiedenti asilo forzare il cordone della polizia e gettarsi in mare per raggiungere a nuoto la Francia. A quella tentata fuga sono seguite due giornate di disordini. 

Torino-Karthoum sola andata, con scalo a Il Cairo: questo il destino dei 48 migranti sudanesi che oggi – 24 agosto – sono stati trasferiti in autobus da Ventimiglia a Torino per essere rimpatriati nel loro Paese. È la prima espulsione diretta di questo genere, che rientra nell’“operazione di alleggerimento” pianificata e annunciata nelle scorse settimane dal capo della polizia Franco Gabrielli. Dei 48, in parte sono stati respinti alla frontiera francese e in parte fermati a Ventimiglia, dove la Croce rossa riferisce di un calo dell presenze da 450 a 393 nel centro transitorio di accoglienza del Parco Roja.

In Sudan non è garantita la tutela dei diritti umani, come dimostrano la cronaca e i rapporti delle organizzazioni umanitarie. Specialmente per chi proviene dal Darfur. «È preoccupante che l’Italia stia deportando queste persone in un paese dove alcuni gruppi corrono un rischio concreto di gravi violazioni dei loro diritti umani, sulla base di un accordo di riammissione il cui contenuto non è chiaro», ha dichiarato Amnesty International Italia. L’associazione ha chiesto chiarezza in merito all’accordo di riammissione recentemente stipulato tra il governo italiano e quello sudanese e in particolare alle garanzie a tutela delle persone riammesse. Il timore, pur non conoscendo l’identità delle persone rimpatriate è che «tra esse possano esservi persone provenienti dal Darfur o altri individui a rischio di refoulement. L’organizzazione si oppone a qualunque rimpatrio di persone originarie del Darfur verso il Sudan – dove rischiano persecuzioni, repressioni brutali e altri gravi abusi».

Rimpatri volontari assistiti o rimpatri coatti? Non è dato saperlo al momento, perciò il senatore Pd Luigi Manconi, che presiede la Commissione Diritti Umani al Senato, ha presentato oggi un’interrogazione urgente «per chiedere chiarimenti a proposito del volo diretto a Khartoum con cui tra poche ore saranno rimpatriati dall’Italia decine di migranti sudanesi, senza che vi sia alcuna garanzia sulla loro incolumità». Nell’ultimo anno, segnala Manconi, molti cittadini sidanesi hanno chiesto protezione all’Italia e all’Europa, ottenendola nel 60% dei casi. «Alla luce del grande sforzo fatto per accogliere e tutelare i profughi e i fuggiaschi che attraversano il Mediterraneo, non possiamo correre il rischio di rimpatriare nessuno senza adeguate garanzie sulla sua vita. Fosse anche una sola persona. Chiedo, di conseguenza, che la situazione individuale di tutti i cittadini sudanesi destinati a essere rimpatriati venga riesaminata col massimo rigore», ha concluso Manconi. Già ieri i deputati di Possibile Pippo Civati, Andrea Maestri e (l’eurodeputata) Elly Schlein hanno lanciato l’allarme «deportazione» e chiesto chiarezza al ministro Alfano: «L’aspetto più inquietante – dice Civati a Left – è che quanto accade vada così apertamente contro tutte le norme italiane, europee e internazionali». Il divieto di espulsioni /respingimenti (anche differiti) collettivi, infatti, è previsto dall’art. 4 del 4° protocollo addizionale alla Cedu, e viola l’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, l’art. 10 comma 3 della Costituzione italiana, gli artt. 2, 13 e 19 comma 1 del TU Immigrazione».

La politica dei rimpatri forzati ha contraddistinto le politiche del Viminale guidato Maroni. E l’ex capo del Viminlae, oggi governatore della Lombardia, non ha esitato a ricordare che «i denari dell’Ue per i rimpatri volontari sono inutili» e «servono i rimpatri forzati». Altro che relocation e distribuzione in Europa, altro che accoglienza diffusa e sistema Sprar. All’orizone si nascondono nuove deportazioni per gli africani che non saranno riconosciuti titolari di uno status di protezione, anche se nel Paese di origine i diritti umani non vengono rispettati. Come in Sudan, Paese che è incluso nei piani del Migration Compact: la proposta presentata dal governo italiano all’Unione europea per controllare i flussi di migrazione nel Mediterraneo, che prevede accordi tra l’Ue e i Paesi di origine e transito delle migrazioni (soprattutto africani): soldi e aiuti in cambio dell’impegno a bloccare le partenze. E ancora l’affidamento ai Paesi di transito della decisione sul diritto alla protezione internazionale. Tra questi Paesi c’è anche il Sudan di Al-Bashir, con cui l’accordo è stato raggiunto proprio il 5 agosto (ricordate Ventimiglia?).

Dietro gli annunci di relocation e quote, pare nascondersi una politica migratoria che ruota attorno alle procedure di espulsione di “irregolari” e a quelle con accompagnamento forzato”diniegati”. «A questo punto, forse, non si nasconde nemmeno più», dice Pippo Civati. In ballo c’è la sorte di chi si vede diniegare la richiesta d’asilo ai quali, tra l’altro, si vorrebbe ridurre anche la possibilità di fare ricorso, così come proposto con il disegno di legge del ministro Orlando, le possibilità di ricorso effettivo.

L’hijab delle giubbe rosse e la polizia religiosa di Nizza: due idee di come si vive assieme

Dunque sulla spiaggia di Nizza almeno tre poliziotti armati hanno il tempo di fermare una donna vestita come le recenti regole approvate da diversi comuni costieri francesi impongono e di farla svestire.
Tre poliziotti dello stesso dipartimento di polizia che il 14 luglio ha saputo organizzare così bene la prevenzione e la sicurezza, con una sola auto a chiudere il lungomare dove si radunavano migliaia di persone – 86 delle quali uccise dal Tir guidato da Mohamed Lahouaiej-Bouhlel.

Le foto che fanno il giro del mondo in questi giorni sono piuttosto esplicite: la signora in questione che sta in spiaggia vestita, viene invitata a togliersi dei vestiti. Eppure a chiunque sarà capitato di vedere in spiaggia delle persone chiare di pelle coperte dalla testa ai piedi. Oppure, nelle spiagge del Nord Europa o negli Stati Uniti, vedere i ragazzini che portano delle tutine di tessuto da mare dalla testa ai piedi. Poi ci sono i cappelli a larghe falde, che se calanti coprono quasi la visuale della faccia. O le tute leggere dei surfer, che certo non hanno un cappello ma sono fatte con gli stessi materiali di quell’abbigliamento da mare denominato burkini dalla sua inventrice/designer Aheda Zanetti che su The Guardian spiega che l’idea di quel costume le è venuta pensando a

l’integrazione, l’accettazione, la parità e il non essere giudicati. (…) volevo contribuire a dare alle ragazze la fiducia necessaria per continuare una buona vita. Lo sport è così importante per noi che siamo australiani. Volevo fare qualcosa di positivo, e chiunque può indossare questo costume: cristiani, ebrei, induisti. È solo un indumento che una persona modesta, o qualcuno che ha il cancro della pelle, o una nuova madre che non vuole indossare un bikini, può scegliere. E non simboleggia l’Islam.

In Australia il costume è dunque un simbolo di diversità, lo veste la prima lifeguard musulmana del Paese. E che hanno di diverso da una signora in burkini le suore in spiaggia ritratte qui sotto e la cui pubblicazione ha portato all’oscuramento per 24 ore del profilo facebook di Izzedin Elzir, presidente dell’Ucoii? Sono più coperte.

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L’idea era insomma quella di fare in modo che le ragazze o donne musulmane, o chi per loro, potessero andare in spiaggia serene e comode. Tra le altre cose, la signora Zanetti ha guadagnato per certo molti soldi grazie alla pubblicità gratuita fattale: dopo il divieto in Francia le vendite online sono aumentate del 200%. Un segno come un altro di quanto l’idea del divieto sia fuori luogo: vietandolo i sindaci francesi – sostenuti dal governo – accrescono la voglia di identità di un gruppo, anche chi non vestirebbe il burkini lo compra e magari pensa di sfidare il divieto. Oppure chi non sapeva che l’oggetto fosse in vendita, ora lo sa e decide di farne uso.

Il punto è però quello della laicità dello Stato francese. Che Paese è quello dove le autorità decidono se e cosa le persone devono indossare in una determinata occasione? È il codice di abbigliamento imposto in alcuni Paesi che a noi non piace – burqa, hijab o divisa da guardiano del popolo che sia – o l’idea che un’autorità superiore possa decidere, non sulla base di questioni di sicurezza, come all’imbarco di un aereo, come io mi debba vestire? Se i talebani o la polizia religiosa dell’Isis a Raqqa avessero imposto alle donne di girare nude anziché coperte all’inverosimile sarebbe stato tollerabile?

E che Paese è quello dove fingendo di tutelare le libertà delle donne, si decide come queste debbano o non debbano vestirsi in spiaggia? Il segnale lanciato dai socialisti francesi è pessimo: da mesi, sul tema della sicurezza e delle libertà inseguono la destra di Le Pen. Ora lo fanno anche sul fronte culturale. Peggio ancora. Il punto è che, visto che le suore possono andare al mare vestite da suore, gli albini coperti dalla testa ai piedi e così via, il divieto del burkini è un divieto contro una singola comunità. È discriminazione ed è, oltre a un insulto alla civiltà europea per come ce la raccontiamo, anche un ottimo strumento di propaganda per il Califfo.

 

Una poliziotta di New York in preghiera

La prima recluta in hijab della polizia svedese

Per fortuna ci sono casi diversi. La Metropolitan police di Londra ha introdotto una divisa con hijab da dieci anni, divise prevista anche in Svezia, Norvegia e da diversi dipartimenti di polizia negli Stati Uniti. E in questi giorni, per favorire l’ingresso di persone appartenenti a tutte le comunità del Paese, il Canada ha deciso di modificare le divise dei ranger, i Mounties con le giubbe rosse, introducendo una forma di copertura del capo per le donne musulmane. E i sikh possono portare i turbanti. Alla faccia dei poliziotti di Nizza.

 

Quel che sappiamo e le immagini del terremoto che ha colpito il centro Italia

An elderly man is given assistance as collapsed buildings are seen in the background following an earthquake, in Amatrice, Italy, Wednesday, Aug. 24, 2016. The magnitude 6 quake struck at 3:36 a.m. (0136 GMT) and was felt across a broad swath of central Italy, including Rome where residents of the capital felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo/Alessandra Tarantino)

A chiunque viva nel centro Italia o a chi alle 3.36 di ieri notte fosse davanti a un social media è apparso immediatamente chiaro che le scosse di terremoto che ha colpito l’alto Lazio e le Marche avrebbero causato danni. La scossa è stata sentita fino in Emilia e in Campania, deve aver terrorizzato gli umbri e gli abruzzesi colpiti da sismi recenti ed ha semidistrutto – a quel che sappiamo stamane – tre paesi: Amatrice, Arquata e Pescara del Tronto.

I morti accertati sono 21, ma il bilancio, dicono i soccorritori, è destinato a salire. Si scava tra le macerie e ci sono da controllare e verificare situazioni isolate, frazioni di montagna. Come negli ultimi due terremoti importanti che hanno colpito il Paese, quello di ieri notte capita in una zona montagnosa e poco abitata. Un bene in termini della devastazione che avrebbe potuto portare altrove, una difficoltà in più per soccorsi e verifiche. Alcune strade sono interrotte e la protezione civile chiede di non usare la Salaria, da dove passano i soccorsi. Urgono donazioni di sangue.

Tre le scosse più forti. Una di magnitudo 6 è stata registrata alle 3:36. L’epicentro a 2 chilometri da Accumoli (Rieti) e 10 da Arquata del Tronto (Ascoli Piceno) ed Amatrice (Rieti). L’ipocentro è stato a soli 4 km di profondità. La seconda e la terza scossa sono state registrate alle 4:32 e 4:33.

L'orologio della torre di Amatrice fermo all'ora della scossa

Una veduta aerea della distruzione ad Amatrice

Il sisma che nella notte ha colpito il Centro Italia ha raso al suolo la frazione di Pescara del Tronto (Ascoli Piceno). Pescara del Tronto, 24 agosto 2016. ANSA/ CRISTIANO CHIODI
Pescara del Tronto, 24 agosto 2016. (ANSA/ CRISTIANO CHIODI)

Il centro di Amatrice distrutto dal terremoto che nella notte ha colpito l'Italia centrale. Amatrice, 24 agosto 2016. ANSA/ ALBERTO ORSINI
Amatrice, 24 agosto 2016. (ANSA/ ALBERTO ORSINI)

Persone in piazza a Norcia dopo la forte scossa di terremoto della notte. Norcia, 24 agosto 2016. ANSA/MATTEO CROCCHIONI
Norcia: pochi danni e gran paura nella notte) 24 agosto 2016. (ANSA/MATTEO CROCCHIONI)

Il sisma che nella notte ha colpito il Centro Italia ha raso al suolo la frazione di Pescara del Tronto (Ascoli Piceno). Pescara del Tronto, 24 agosto 2016. ANSA/ CRISTIANO CHIODI
Pescara del Tronto (Ascoli Piceno) (ANSA/ CRISTIANO CHIODI)

Il sisma che nella notte ha colpito il Centro Italia ha raso al suolo la frazione di Pescara del Tronto (Ascoli Piceno). Pescara del Tronto, 24 agosto 2016. ANSA/ CRISTIANO CHIODI
Pescara del Tronto, 24 agosto 2016 (ANSA/ CRISTIANO CHIODI)

I soccorsi al lavoro ad Amatrice, dopo il sisma che nella notte ha colpito il Centro Italia. Amatrice, 24 agosto 2016. ANSA/ LUCA PROSPERI
I soccorsi al lavoro ad Amatrice, (ANSA/ LUCA PROSPERI)

This still image taken from video shows the destruction in Amatrice, central Italy, where a 6.1 earthquake struck just after 3:30 a.m., Wednesday, Aug. 24, 2016. The quake was felt across a broad section of central Italy, including the capital Rome where people in homes in the historic center felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo)
Amatrice (AP Photo)

This still image taken from video shows rescuers searching a collapsed building in Amatrice, central Italy, where a 6.1 earthquake struck just after 3:30 a.m., Wednesday, Aug. 24, 2016. The quake was felt across a broad section of central Italy, including the capital Rome where people in homes in the historic center felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo)
Amatrice (AP Photo)

This still image taken from video shows rescuers searching a collapsed building in Amatrice, central Italy, where a 6.1 earthquake struck just after 3:30 a.m., Wednesday, Aug. 24, 2016. The quake was felt across a broad section of central Italy, including the capital Rome where people in homes in the historic center felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo)
Amatrice (AP Photo)

A man is carried out on a stretcher as a collapsed building is seen in the background following an earthquake, in Amatrice, Italy, Wednesday, Aug. 24, 2016. The magnitude 6 quake struck at 3:36 a.m. (0136 GMT) and was felt across a broad swath of central Italy, including Rome where residents of the capital felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo/Alessandra Tarantino)
Soccorsi ad Amatrice (AP Photo/Alessandra Tarantino)

This still image taken from video shows rescuers searching a collapsed building in Amatrice, central Italy, where a 6.1 earthquake struck just after 3:30 a.m., Wednesday, Aug. 24, 2016. The quake was felt across a broad section of central Italy, including the capital Rome where people in homes in the historic center felt a long swaying followed by aftershocks. (AP Photo)
Amatrice (AP Photo)

Il video girato stmane ad Amatrice e pubblicato sulla pagina facebook di RietiLife

La nuova linea FAV, Forestieri ad Alta Velocità

epa05499576 Migrants on their way to European Union (EU) countries gather in a park as they pass through Belgrade, Serbia, 19 August 2016. After Hungary had completely sealed its borders in a move that was criticised by the United Nations High Commissioner for Refugees, UNHCR, many migrants are uncertain about how they could get to their desired destinations in the EU. According to media reports more than a million people had used the so-called Balkan-Route to western European countries prior to some countries' measures to close their borders to the stream of migrants. EPA/KOCA SULEJMANOVIC

Dove ci sta un pacco di cocaina ci sta anche un uomo, devono aver pensato gli aguzzini che hanno chiesto 900 euro al giovane afghano per incastrarlo sotto un camion diretto verso l’Italia. I disperati viaggiano anche così, in questa Europa che inneggia a Spinelli (a proposito: la Merkel che omaggia un comunista marxista accompagnata da un italiano e un francese sarà la barzelletta cult dell’estate): qui si viaggia appallottolati su una carretta del mare oppure contorti sotto un rimorchio in autostrada.

È la nuova linea FAV, Forestieri ad Alta Velocità che partono dall’Afghanistan per la Turchia, Grecia, Italia, Francia e poi per i Paesi verso nord. Mentre i ricchi bucano le montagne per far correre le merci ai poveri di questo mondo basta qualche laccio ben assestato per percorrere strade internazionali.

«È stato duro viaggiare così a lungo, 22 ore, senza cibo né acqua, senza dormire.  – ha raccontato un diciottenne scoperto ieri a nei pressi di Terni in una piazzola di sosta, secondo caso in poche ore – Sono fuggito da Kabul dieci mesi fa, ho attraversato l’Iran, la Turchia, spesso viaggiando a piedi. Ho contattato e pagato una persona, sono rimasto legato sotto al tir anche durante il viaggio verso l’Italia, ho pagato per questo 900 euro».

C’è da dire che la storia ha tutto il pelo per essere una sofferenza ben notiziabile come al solito. Pensa che disperazione a viaggiare così, eh, ci si dice dandosi di gomito. Ma il giovane insaccato ieri ha aggiunto un particolare: «Quello che ho vissuto nella mia vita – ha detto – è stato molto più pericoloso di questo viaggio, in Afghanistan c’è la guerra civile e vorrei imparare il francese e ottenere documenti francesi. Voglio una vita sicura, in un mondo senza pericoli».

E come al solito bastano due parole sui Paesi da cui scappano per avere la netta sensazione di continuare a rabbrividire per le notizie sbagliate. O no?

Buon mercoledì.

Il riformismo punitivo. Caffè del 23 agosto 2016

C’è un Renzi che diffida di Renzi e si ribella ai consigli del guru italo americano, Messina, che ha assoldato per correggere la sua comunicazione. Non mi credete? Ecco il titolo del Corriere: “L’Europa non finisce con la Brexit”, frase del premier. Peccato che il messaggio coerente con le ambizioni del vertice di Ventotene avrebbe dovuto suonare piuttosto così: “Il mondo ha bisogno di una Europa libera e unita”. Ottimista e proiettato verso il futuro, evocativo del lavoro fatto in un buio passato da Spinelli, da Rossi e Colorni. Invece la lingua di Matteo batte dove il dente duole. Così gli scappa quella negazione, “l’Europa non finisce”, che quasi afferma. E il riferimento al voto popolare (in Gran Bretagna) che ha messo in difficoltà i governi d’Europa. Certo, quella voce dal sen fuggita ha dato una mano al Corriere per fare un titolo che non dispiacesse al premier, ha permesso alla Stampa di cavarsela con un generico “messaggio all’Europa” inviato da Ventotene. Più fattuale. International New York Times titola: “i leader dell’Unione cercano una strada dopo Brexit”. “Tre leader in difficoltà esorcizzano Brexit”, commenta il manifesto. Mentre Adriana Cerretelli del Sole nota che “l’anfitrione (Renzi) è inciampato sulle priorità dell’agenda nazionale” ma “Angela Merkel non si è dimostrata condiscendente”. E Repubblica da un lato tonifica la frase di Renzi togliendo quella fastidiosa negazione e restituendole l’entusiasmo “Ecco la UE del dopo Brexit”. Dall’altro gela il tutto con la frase della Merkel: “la flessibilità c’è già”.
“Quello che non riesco a capire è il dibattito sulle tasse”. (sempre Renzi, Enews di ieri, la numero 438). Aiutiamolo a capire. “Basta il numero -scrive Daniele Manca sul Corriere- oltre 100 scadenze fiscali concentrate nella giornata di ieri. Per un importo attorno ai 23 miliardi”. E vuoi che la gente non dibatta sulle tasse? Ma Renzi invoca i fatti del suo governo: “L’ultima volta che lo Stato ha aumentato una tassa -scrive- è stato nell’ottobre del 3013”. Però nel 2014 e nel 2015 “lo Stato” ha continuato a tagliare i trasferimenti a comuni e regioni, che hanno dovuto aumentare le loro imposte. Chi le paga quelle, Pantalone? Ma il premier si vanta “numeri alla mano”: “80 euro” per il “ceto medio”, “taglio dell’Irap, del costo del lavoro, azzeramento dell’Imu sugli imbullonati” per gli imprenditori, via “la Tasi sulla prima casa” per le famiglie. Bene! Peccato che tali misure non abbiano gonfiato la ripresa (i numeri di quella italiana sono i più bassi di tutta l’area dell’euro) né arginato la deflazione. È quello che ha cercato di fargli notare perfino Speranza, della “minoranza” Pd. Se quei “tagli” non funzionano, allora diventano solo mance e le mance sottraggono risorse che potrebbero essere meglio utilizzate. Semplice, ma lui non capisce. O non vuole capire.
Il riformismo punitivo. C’era una cosa che tutto sommato funzionava in Italia, ed era la scuola. Funzionava? Beh insomma, diciamo che se la cavava, tutto sommato riuscita ad arrangiarsi. E, alla fine, la maturità non metteva i nostri studenti in una condizioni di minorità rispetto a quelli francesi e tedeschi. Poi sono arrivati la Gelmini, il Faraone, la Puglisi, renzini minori. E alla scuola è stata imposta, esautorando le commissioni parlamentari e imponendo la fiducia in aula, una riforma che sembra immaginata per punire gli insegnanti. Per metterli sotto il maglio di un dirigente-funzionario, per eliminare le graduatorie ad esaurimento ma non i precari, concedere piccoli premi ai docenti in cambio di obbedienza. E sottoporli a un nuovo concorso, anzi a un “concorsone”, gli asini! Scrive Gian Antonio Stella “tra i 71.448 candidati già esaminati agli «scritti» di 510 «procedure», solo 32.036 sono stati ammessi agli orali. Il 55,2%, infatti, non è stato ritenuto all’altezza. Più bocciati al Nord, meno al Sud….se andrà così anche nelle graduatorie in arrivo fuori tempo massimo (315 per un totale di 93.083 candidati, in larghissima parte per l’infanzia e la primaria) è probabile un buco di circa 23 mila posti vacanti. Uno su tre”. Ma avremo almeno pochi insegnanti ma bravi? Temo di no. Li avremo più demoticati. Persone costrette a lasciare Isernia o Alcamo per insegnare in provincia di Bergamo o di Vicenza. Con la casa e la vita che costano troppo e la famiglia -l’età media degli insegnanti non è bassa- che resta divisa. Professori di una scuola pubblica gestita, nei bei quartieri, come se fosse privata: con le famiglie abbienti che si pagano qualche corso in inglese e sperano di garantire un avvenire ai figli. Professori di una scuola povera indotti a far “progetti” (per pochi studenti a seguirli, ma graditi al dirigente e agli assessori del circondario. Mentre il grosso degli alunni resta in classe con meno ore di lezione, docenti svogliati e voti generosi. È l’autonomia,bellezza!
A Tripoli, bel suol d’amor! Recitava una canzone dell’Italia coloniale. A Tripoli con chi? Il governo di Serraj, quello che dovremmo sostenere, è stato appena “sfiduciato” dal parlamento di Tobruk. Le milizie di Misurata, quelle che hanno vinto la battaglia di Sirte, giurano fedeltà solo ai loro riti tribali e tradizionalisti: non una donna a volto scoperto nella loro città. Intanto la famiglia Regeni denuncia Al Sisi, che vuol chiudere senza verità la partita su Giulio e dice “Renzi è con noi”. Intanto il nostro alleato Erdogan si vuol mettere d’accordo con il nostro (ex) nemico Assad per bombardare i curdi, come già fanno gli assassini del Daesh usando i bambini. Forse Hollande, Merkel e Renzi ne stanno parlando.

I ribelli di Santa Libera e la Resistenza dei giorni nostri

Resistenza - Illustrazione di Antonio Pronostico

Una resistenza nella Resistenza. Anzi, dopo la Resistenza. Dimenticata e senza la maiuscola. Eppure, ancora in grado di dire tanto su ciò che è stato e su ciò che è il nostro Paese. Il “gesto insurrezionale” dell’agosto 1946 a Santa Libera, piccola frazione tra le Langhe e il Monferrato, è al centro del libro di Pino Tripodi Per sempre partigiano (DeriveApprodi). L’idea di partenza era quella di un saggio che riconsegnasse ai suoi giusti meriti la figura di Giovanni “Primo” Rocca, comandante partigiano tra i più importanti e poi alla guida dell’insurrezione dell’agosto del 1946 scattata dopo il provvedimento d’amnistia emanato da Palmiro Togliatti, ministro della Giustizia del governo di unità nazionale. Poi il saggio è diventato un romanzo: Left ne ha discusso con l’autore.

Giovanni "Primo" Rocca nell'illustrazione di Antonio Pronostico
Giovanni “Primo” Rocca

Quando e perché ha deciso di raccontare la storia prendendo le mosse proprio dalla figura di Giovanni “Primo” Rocca?
Alla casa editrice DeriveApprodi Claudio Solito – un grande amico vignaiolo con il quale ho condiviso l’esperienza di Criticalwine – aveva fatto pervenire un’intervista a “Primo” Rocca dell’Istituto storico della Resistenza di Torino a cura di Paolo Gobetti, Antonio Lombardo e Renzo Bacchini. La proposta era di pubblicare un libro di storia che riparasse i torti delle ricostruzioni fin qui fatte e riconsegnasse ai suoi giusti meriti la figura di Giovanni “Primo” Rocca, comandante partigiano tra i più importanti della Resistenza, guida anche dell’insurrezione partigiana dell’agosto del 1946 scattata dopo il provvedimento d’amnistia di Togliatti. Ma il materiale, pur interessante, non era sufficiente. Claudio non si dava pace. Insisteva sull’importanza di dare verità e dignità a una storia che continuava a essere vilipesa o scordata. Durante un pranzo convocato per discutere la cosa mi sfuggì di dire «come libro di storia non servirebbe a nulla ma come opera letteraria sarebbe fantastica». I compagni di pasto furono d’accordo, talmente d’accordo che – infidi – mi affidarono l’opera. Recalcitrai, ma giorno via giorno mi entusiasmai a quella vicenda partigiana e a quella figura di comunista che fino all’anno prima conoscevo solo perché La Viranda gli dedica il vino Libertario Rosso. Così gli ho dedicato 19 mesi – il medesimo tempo che va dall’8 settembre ’43 al 25 aprile ’45 – passati intensamente a scrivere e a pensare per via di quella storia alla Storia, per mezzo di quel personaggio a tutti i personaggi che fanno la storia e che poi sono dimenticati, costretti al divorzio dalla storia ufficiale.

Quali sono state le sue fonti e quanto c’è di “liberamente ispirato” rispetto all’effettivamente accaduto?

Anzitutto l’intervista di cui sopra e il libro di “Primo” Rocca Un esercito di straccioni al servizio della libertà che meriterebbe di essere ripubblicato. E poi tanto materiale d’archivio. Di liberamente ispirato ci sono i dialoghi, i monologhi, alcuni personaggi, qualche contesto. Moltissimo, ma ho tentato di essere il più maniacale possibile nella ricostruzione dei fatti. La letteratura non deve sparigliare la storia come si usa in molti dei cosiddetti romanzi storici; la letteratura che amo – compagna d’armi della filosofia – la diseppelisce, scava nelle ragioni che la storia ufficiale sbrana o cestina.

Coerente con i precedenti libri, hai usato uno stile narrativo in cui l’autore “si mimetizza” nella narrazione. Come cambia, se cambia, con questo libro il tuo modo di raccontare?
L’autore per dare la parola ai personaggi deve eclissarsi. Più si sottrae tanto più i personaggi acquistano dignità di parola. Un libro inizia a vivere quando l’autore comincia a morire. Per entrare nella vita – e nella mente – di un personaggio è d’obbligo uscire dalla propria. In questo libro la prima voce narrante sfuma fino a scomparire quando le voci narranti dei partigiani di Santa Libera acquistano autonomia, consistenza, forza. Ciò spero segnali che le ragioni ordinatrici dell’autore sono velleitarie; rimangono le vite vere normalmente cancellate dal fumo della storia. Sinceramente non so se il mio modo di raccontare sia cambiato con questo libro. Sono forse l’ultimo a poterlo dire. Certo è che è cambiata la mia vita, sono cambiati i miei pensieri. Ogni opera è un lungo viaggio dal quale chi riesce a tornare, anche se mantiene il nome, non è più quello di prima.

Vedove - Illustrazione di Antonio Pronostico
Vedove

Che rapporto c’è tra l’anelito dei ribelli di Santa Libera e la Resistenza celebrata il 25 aprile?
Nessuno. Durante le celebrazioni, per dirla con il libro, «i partigiani si rendono utili spolverandosi a festa una volta l’anno per dimostrare che tutte le nefandezze d’Italia vengono compiute nel nome della Resistenza». C’è di buono solo che, in attesa di trovare uno straccio di futuro, tanti ragazzi guardano con interesse a quel passato.

Che differenza c’è tra i valori dei ribelli di Santa Libera e quelli della Resistenza che hanno costituito le fondamenta della Costituzione italiana?
Quando nel 1948 la Costituzione viene approvata l’Italia si è già infilata nel tunnel domocristiano. Quell’involucro formale – succede spesso nella storia – viene sostanzialmente deriso e calpestato dalla realtà delle cose. Ci vorranno il ’68, l’autunno caldo e il ’77 per riprendere con le dovute differenze il filo di quella matassa. I ribelli di Santa Libera non accettano che gli ideali della Resistenza rimangano parole vuote, che i padroni riprendano a governare, che le organizzazioni dei lavoratori facciano le belle statuine. Tolto dai piedi il fascismo, desiderano cambiamenti sociali radicali, riconoscimento pieno dei diritti dei partigiani. Si vedono invece messi ai margini. Ciò che poi si calpesta nonostante la Costituzione, Rocca e compagni lo pretendono prima che la Costituzione venga varata.

“Ridotta alla ragione santa libera rimangono tutti fuochi fatui” scrivi. Quasi ad ammettere che il valore di quel progetto insurrezionale è nel suo essere contro la ragione, quasi utopia. È così? Ha ancora senso ai giorni nostri una ribellione “utopica”?
L’insurrezione di Santa Libera godeva di un grande appoggio proletario e partigiano, ma scontava una situazione profondamente sfavorevole. Anzitutto perché avveniva non solo contro le direttive del Partito Comunista, ma in opposizione all’amnistia voluta dal PCI e firmata dal suo capo Palmiro Togliatti.
Anche in questo Santa Libera è stata precorritrice. Quante altre volte i movimenti sono andati oltre le organizzazioni che pure li avrebbero dovuto rappresentare.
Stupisce che i movimenti non se ne siano quasi accorti. Se si guarda alle esperienze partigiane più evocate, infatti, in tutti questi decenni che ci separano dalla resistenza si sono osannate più esperienze quali i Gap, la Volante Rossa che a differenza di Santa Libera erano strettamente poste sotto il controllo del Pci e bazzicavano spesso con le ali più staliniste del partito.
È vero: tutte le profonde ragioni dei ribelli di Santa Libera cozzavano contro la ragione storica. Ciò potrebbe far parlare di ribellione utopica. Ma non bisogna dimenticare che quei partigiani erano contadini, operai. Uomini pratici che intendevano risolvere con urgenza problemi fondamentali per l’Italia del tempo. Più che a un’utopia, a un non luogo – le utopie sono sorelle gemelle dei miti – pensavano credo a una topia, a un luogo preciso – dell’Italia, dell’Europa – nel quale la loro sete di giustizia e uguaglianza cominciasse a essere soddisfatta. La ribellione di Santa Libera ci è vicina anche per questo: allora come adesso si ha bisogno di luoghi della trasformazione, della cooperazione, di luoghi dell’immanenza in cui mescolare la nostra vita, non di non luoghi della trascendenza per consolare e bloccare in ghiacciaia ogni prurito di cambiamento.

Un minatore - illustrazione di Antonio Pronostico
Minatore

Scorrendo le pagine del tuo libro non si può non guardare all’oggi: quella dei ribelli di Santa Libera appare quasi come una profezia avverata. Che lezione può trarne la società dei giorni nostri?
Una lezione eccezionale: quella che in Per sempre partigiano viene denominata l’arte di tendere la storia. L’imperativo di esperire ogni mossa per ottenere il massimo del possibile in una situazione storica data. Senza pretendere di più, ma senza accontentarsi di niente che risulti anche impercettibilmente di meno.

Concludo con una curiosità: come nasce l’associazione tra il tuo lavoro e i vini Santa Libera dei Ribelli e Rosso Unito?
Santa Libera dei Ribelli è un vino rosso superiore che Claudio Solito dell’azienda La Viranda ha dedicato all’insurrezione partigiana dell’agosto 1946. Senza la passione di Claudio questo libro non sarebbe mai nato. Rosso Unito è un vino che mescola 4 esperienze enologiche ribelli – La Viranda, Aurora, A vita, Valli Unite. Un’esperienza che rifiuta le regole costituite e che affronta l’alea della sperimentazione, dell’avanguardia. È una piccola dimostrazione che la rivoluzione si fa vedere nelle piazze, ma i suoi luoghi d’elezione sono i campi, le case, le tavole. La rivoluzione si esprime di tanto in tanto con le urla delle folle ma marcia rapida negli atti minuti della quotidianetà.

Il manifesto di Ventotene s’è incagliato sulla portaerei

Italian Prime Minister Matteo Renzi, French President Francois Hollande and German Chancellor Angela Merkel during the press conference at the end of their meeting on the Italian military ship "Garibaldi" near Ventotene island, Tirreno sea, Italy, 22 August 2016. ANSA/CHIGI PALACE PRESS OFFICE-TIBERIO BARCHIELLI +++EDITORIAL USE ONLY - NO SALES+++

“Stiamo facendo la storia” scrivono i giornali rilanciando le immagini dei tre tronfi che s’imbarcano felici sulla portaerei come una famigliola sul traghetto d’agosto. Il risultato politico sarebbe dovuto al fatto che (testuale) «per la prima volta un cancelliere tedesco ha visitato Ventotene e si è fermato davanti alla tomba di Altiero Spinelli, uno degli autori del manifesto di Ventotene, che su quest’isola è stato al confino per decisione del regime nazifascista. Che Angela Merkel sia venuta in questo luogo simbolo di quell’oppressione è importantissimo, è una cosa che si ricorderà nei libri di storia. Anche se è stata una visita molto rapida, è un gesto che vale più di molte parole».

«Tenere insieme sogni e concretezza» ci hanno detto Renzi, Merkel e Hollande mentre si mettevano in posa da podio olimpico. Che poi tenere insieme sogni e concretezza sia uno slogan da merendina degli anni ’80 non è un problema, per carità: il fatto è che mi piacerebbe sapere cosa si siano detti i tre mentre leggevano il passaggio del pluricitato manifesto di Ventotene dove si dice che “la rivoluzione europea dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici”. Ecco, io pagherei per essere stato una mosca e fotografare l’espressione dei cari leader.

Ma continuiamo. Dice il manifesto stilato da Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni: “Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma — come avviene per forze naturali — essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne siano vittime.” Chissà che ridere Renzi, la Merkel e Hollande. Chissà che ridere.

I tre leader d’Europa (sempre a proposito del rispetto delle istituzioni, del Parlamento Europeo e del Consiglio d’Europa) hanno deciso di rinchiudersi in una nave militare per costruire l’Europa dal basso. Forse una drammaturgia di Ionesco avrebbe potuto aprirsi così. E lì dove Altiero Spinelli coltivava pace e libertà, lì nello stesso posto la Merkel ci ha ricordato che la Turchia dell’antidemocratico Erdogan è “fondamentale per la lotta agli scafisti” e Hollande ha predetto che Aleppo e la Siria potrebbero essere una vergogna per l’Europa con il solito futuro prossimo dell’Europa balbuziente che finge di non scorgere ciò che è già.

Stanno facendo la storia, dicono. Loro in mare e gli altri, tutti gli altri, rimasti a terra. Bravi. Bene. Evviva.

Buon martedì.

Così i capi rendono le folle stupide e servili. Parla lo storico Emilio Gentile

US President John F. Kennedy (r, backview) is talking to an excited crowd of people from the stairs of the Bonn city hall, on 23 June 1963, short after Kennedy's arrival at Cologne-Bonn airport. The president was visiting the federal republic for four days.

Si parla di democrazia recitativa quando «la politica diventa l’arte di governo del capo, che in nome del popolo muta i cittadini in una folla apatica, beota o servile». Scrive così Emilio Gentile nel libro Il capo e la folla (Laterza) un viaggio nella storia sul rapporto tumultuoso tra i governati e i governanti a partire dalla repubblica di Atene per finire al ventesimo secolo. Tra i massimi studiosi internazionali di fascismo e delle religioni della politica, Gentile nel suo libro non tocca l’oggi. «Mi fermo a Kennedy. Per mia natura e per il lavoro che faccio non insegno agli altri come giudicare il tempo contemporaneo. Cerco però di fornire gli strumenti per capire come si è giunti al tempo contemporaneo», dice. Ecco quindi la repulsione di Platone per la democrazia “dei molti”, il concetto di democrazia come stile di vita di Pericle, la res publica romana che prima dell’avvento di Cesare aveva garantito un sistema di controllo dei poteri dello Stato, la codificazione del panem et circenses per tenere buoni gli ex cittadini ormai sudditi imperiali, i “sacri recinti” degli Stati guidati da capi “unti” dal Signore, fino ad arrivare alle rivoluzioni americana e francese e ai movimenti rivoluzionari dell’Ottocento. È del 1895 Psicologia delle folle di Gustave Le Bon, psicologo, antropologo e sociologo. «Mi dicono che nella classifica di Amazon è al secondo posto. Un po’ ho contribuito anch’io perché ne avevo parlato in una trasmissione televisiva», dice sorridendo Gentile. Con Le Bon la democrazia recitativa – che secondo Gentile inizia con Napoleone – trova il suo massimo teorico, perché lo studioso francese nel suo libro diventato ben presto cult, spiega tra l’altro anche “come governare le folle” con la suggestione e l’uso delle parole.
Professor Gentile, lei scrive che «conoscere il comportamento dei capi e delle folle del passato può aiutare a comprendere i capi e le folle della politica di massa che stiamo vivendo». Come trova oggi la democrazia intesa come la migliore forma di rapporto tra governati e governanti?
Mi sembra avviata – se non ci saranno dei correttivi – sempre più verso una forma di democrazia recitativa. Nel senso che i governati potranno scegliere e revocare sempre meno i propri governanti. Lo dimostra anche il fatto generalizzato dell’astensione. Un fenomeno che deriva non dalla fiducia nella democrazia – come accade nel mondo anglosassone – ma dalla profonda sfiducia nella classe politica e nella classe dirigente. Oggi in Italia ricorrono i 70 anni del referendum che ha istituito la Repubblica. Tutti nel 1946 rimasero colpiti dal fatto che una popolazione uscita da un ventennio di dittatura, nonostante i timori di un salto nel buio, partecipasse così in massa, circa il 90 per cento. Calamandrei addirittura gridò al miracolo. Ecco, oggi questa astensione crescente mi sembra una forma di protesta che purtroppo non si concretizza in una vera e propria alternativa.
La democrazia recitativa che avanza può portare alle derive della democrazia di cui lei parla nel suo libro?
È imprevedibile quello che può accadere. Questo è un fenomeno in gran parte nuovo, dovuto a tre fattori che sono stati riscontrati in tutte le democrazie occidentali. Il primo dipende dalla complessità sempre crescente dei problemi sui quali i cittadini vengono chiamati a decidere, poi bisogna considerare l’elevato costo della competizione politica, per cui soprattutto persone facoltose possono partecipare effettivamente, con speranza di vittoria. Infine il terzo fattore è, appunto, la minore partecipazione al processo democratico di cittadini consapevoli.
Sempre a proposito del presente, che cosa pensa della democrazia diretta, quella dei referendum dei radicali di Marco Pannella o della Rete del Movimento Cinque stelle?
Come sostenevano Rousseau e i padri fondatori degli Stati Uniti d’America, io penso che la democrazia diretta sia possibile solo in piccole repubbliche. Quando queste assumono vaste dimensioni territoriali, con milioni di cittadini, è inevitabile la democrazia rappresentativa. La democrazia diretta poi non è di per sé sana e buona, perché una democrazia diretta può scegliere capi non democratici. Vede, la democrazia è soltanto un metodo. Noi possiamo anche definirla come un valore attribuendole significati etici, perché attraverso la democrazia si può emancipare un individuo e la collettività, rendendoli sempre più padroni del proprio destino. Ma questo è un ideale, di fatto la democrazia è un metodo che può servire sia a favorire l’emancipazione che a impedirla. Se democraticamente vincono i reazionari, i conformisti, i fanatici, gli intolleranti, i razzisti o gli xenofobi, come possiamo negare che il loro governo sia una genuina democrazia?
Ma per rendere effettivo il metodo della democrazia nel senso dell’emancipazione, che cosa occorre?
La democrazia non può prescindere dalla divisione dei poteri che si limitano e si controllano reciprocamente, così come non può prescindere dalla libertà dell’informazione. E occorrono anche dei limiti all’uso del potere della maggioranza nei confronti della minoranza. Inoltre, se si perde l’idea originaria di democrazia che deve favorire l’emancipazione di ogni cittadino attraverso l’informazione, l’istruzione, la conoscenza, accadrà che si lascerà sempre agli esperti, ai tecnici, scelte decisive ignorando gli altri.
Ci parli quindi della folla, definita da filosofi o da uomini di Chiesa ora “gregge” ora “bestia feroce e selvaggia”, come sosteneva Lutero.
Il concetto di fondo è quello più comune, e cioè che la folla sia manipolabile. Ma non è sempre così, la folla deve essere riscattata dalla cattiva nomea che l’accompagna dalla democrazia greca. La folla infatti è quella stessa che compie atti di eroismi. Lo sosteneva anche Gustave Le Bon: non c’è solo la “folla bestia” c’è anche la “folla eroe”, diceva. La rivoluzione francese, come opera più importante per la libertà e l’uguaglianza, fu opera della folla che spinse a prendere l’iniziativa. Così come la rivoluzione in Russia nel febbraio del 1917: non fu guidata da un partito o da uomini politici, fu una rivoluzione spontanea delle folle di S.Pietroburgo che fecero crollare il sistema zarista dando vita a una democrazia che fu poi stroncata dal partito bolscevico con un regime che pretendeva di essere più democratico perché imposto come dittatura del proletariato. Questo fenomeno delle folle che si muovono spontaneamente si è ripetuto, sia pure con esiti diversi, in altre situazioni, come in Ungheria nel 1956, in Polonia nel 1981, e nelle “primavere arabe” del 2011.
Nel libro parla di folle a proposito della nascita degli Stati Uniti d’America. Nel senso che all’inizio fu una rivolta collettiva conclusa poi dai capi. Qual è la caratteristica di quella democrazia che secondo Abraham Lincoln era il “governo del popolo, dal popolo e per il popolo”?
Nella storia umana gli Stati Uniti d’America furono il primo stato democratico moderno, dopo la democrazia greca. La democrazia greca era oligarchica, e la scelta dei governanti era riservata solo ai cittadini maschi di nascita ateniese, invece la democrazia americana almeno idealmente e teoricamente si proclama per l’uguaglianza di tutti gli esseri umani sulla base di diritti dati dal creatore, pur essendo una società razzista e fortemente condizionata da pregiudizi religiosi protestanti. È una democrazia che in oltre duecento anni si è modificata superando sia i monopoli religiosi sia, ai giorni nostri, superando il monopolio bianco alla Casa bianca, con Obama al potere. E forse con le prossime elezioni presidenziali sarà superato anche il monopolio maschile se verrà eletta Hillary Clinton. Ma ancora non è finita perché rimane una minoranza che sembra ancora esclusa, almeno nel prossimo futuro.
Quale minoranza è esclusa dalla presidenza Usa?
I sondaggi dicono che gli americani sono disposti ad avere un presidente nero, in prospettiva una donna e un omosessuale, ma non ad avere un presidente ateo. Gli atei sono una minoranza del 20 per cento discriminati dal punto di vista politico, nonostante la Costituzione vieti qualsiasi presupposto religioso per le candidature. L’80 per cento degli americani non accetterebbe un presidente che non professi una fede in Dio, qualunque essa sia. Gli Stati Uniti sono il primo stato democratico nella storia dell’umanità che ha separato con la Costituzione lo Stato dalla Chiesa, ma rimane profondamente ispirato dalla religione. Non ci dimentichiamo che “In God we trust”, noi confidiamo in Dio, è il motto nazionale.
A proposito della religione lei scrive che nei primi secoli dopo Cristo «si inabissò nell’oblìo il potere dei cittadini basato sull’uguaglianza davanti alla legge». I governati lo erano per volontà di Dio, il cambiamento era previsto solo nell’Aldilà e la massa diventa massa salvationis. Un tale rapporto tra governo e religione quanto ha inciso nella storia dell’umanità non solo a livello politico, ma anche culturale e di pensiero?
Per gran parte dei millenni della storia umana, la religione e lo Stato si sono identificati nella persona del sovrano, delegato della divinità, se non dio egli stesso. L’avvento del Cristianesimo è stato uno straordinario fatto epocale, con enormi conseguenze. Soprattutto, fu decisivo il trionfo del monoteismo. A differenza di quello greco – la democrazia ateniese aveva un fondamento religioso e chi metteva in discussione gli dei della città poteva finire condannato a morte, come accadde a Socrate – il politeismo romano aveva stabilito una sorta di tolleranza dei culti. Invece l’avvento del monoteismo, per sua stessa origine – un popolo o una comunità riceve direttamente da Dio la rivelazione – porta all’intolleranza verso tutti coloro che non si convertono. Quindi c’è una potenziale incompatibilità fra monoteismo religioso e pluralismo democratico. E questo è durato nel mondo occidentale fino alla rivoluzione francese e americana. Millequattrocento anni in cui la massa è stata assoggettata alla credenza che esiste il pastore, il capo, unto da Dio sostenuto dalla Chiesa, al quale la massa dei governati deve obbedienza incondizionata. Quando qualcuno osava uscire dal sacro recinto, io lo chiamo così, o era massacrato – e pensiamo a quanti atei, eretici o pagani lo furono – o finiva per creare altri sacri recinti dove il capo benedetto da Dio rimaneva comunque il sovrano assoluto.
Quanto è chiara oggi questa eredità del passato?
Oggi addirittura si tende a confondere il significato storico della parabola di Cristo “date a Cesare quel che è di Cesare”, interpretandola come segno di laicità. In realtà la laicità come concezione fondamentale dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla loro fede, nasce dal pensiero laico, non da quello religioso. Solo molto faticosamente poi è stato accettato dalle Chiese.
Marx ed Engels avevano l’idea del cambiamento, l’immagine della massa dunque era positiva?
Sì, ma fino a un certo punto. Fin dalla rivoluzione francese anche i capi che hanno sostenuto teorie e pratiche di governo emancipatrici, non sempre le “sentivano” in pratica. Marx ed Engels teorizzavano che non sono gli individui e i capi a fare la storia ma sono le masse, in realtà però loro alla fine si allontanarono dal partito operaio.
Allo stesso modo Lenin diffidava delle masse organizzate nei sindacati e nei partiti socialisti, perché le considerava propense solo a conquistare benefici salariali invece di essere preparate alla rivoluzione. Perciò fin dal 1902 teorizzò il partito di minoranza dei rivoluzionari di professione, un’avanguardia formata anche da borghesi, per realizzare la conquista violenta del potere in nome del proletariato. Poi, nel 1917 concepì la partecipazione diretta delle masse al governo, come sostenne nel libro Stato e rivoluzione, ma quando conquista il potere e si trova ad agire con le masse reali comincia a preoccuparsi. Vede che la massa russa è bruta e inerte e riprende quindi il concetto di partito d’avanguardia. Babeuf, ancora prima, all’epoca della rivoluzione francese, e poi Blanqui, avevano già sostenuto la necessità di una minoranza attiva che indichi alle masse quali sono i loro veri interessi altrimenti queste, assoggettate per secoli alla monarchia o alla religione, non riescono a formarsi una propria coscienza rivoluzionaria. L’asserzione di Marx: «L’emancipazione dei lavoratori deve essere opera di loro medesimi», in realtà viene negata da tutti coloro che sostengono il ruolo delle avanguardie rivoluzionarie.
«Considerare l’uomo naturalmente incline al bene o naturalmente incline al male, considerare gli esseri umani per natura eguali o diseguali» sono i presupposti, lei scrive, delle concezioni della politica e del potere. Quindi il timore per la folla è perché si pensa ad una cattiveria innata?
Io direi così, in maniera propriamente laica: la differenza è tra una concezione dell’uomo come essere razionale che può acquistare la consapevolezza di ciò che è il suo destino e vuole sceglierlo senza dipendere da altri, e quella che considera l’uomo irrimediabilmente irrazionale e incapace di governarsi e scegliere da sé e quindi ha bisogno sempre di essere guidato come un gregge . È chiaro che se le religioni partono dal presupposto che l’essere umano dipende dalla volontà di Dio o da chi la interpreta, non riusciranno mai a concepire che l’essere umano possa governarsi da solo.
Quanto è attuale oggi l’insegnamento di Le Bon?
Oggi c’è un rapporto diretto, sempre più accentuato tra la folla, elettorale, chiamiamola così, e i candidati. E sempre di più si personalizza la politica e il potere, ma i candidati al governo si rivolgono alle masse con metodi, modi e espressioni che sembrano mutuati dagli aspetti più demagogici dell’insegnamento di Le Bon.
Non si parla più delle visioni e programmi politici, ma tutto si riduce a espressioni come “metterci la faccia”, “parlare alla pancia”, “intercettare i bisogni”. Si assiste, insomma, ad una sorta di corporizzazione fisica della politica incarnata nella persona del capo, addirittura nella sua immagine, che si sovrappone e persino esaurisce in sé il significato delle proposte politiche.
In Europa i populismi avanzano, dall’Ungheria alla Francia, dall’Austria alla Polonia. C’è il rischio che la folla diventi “apatica, beota o servile”?
I successi elettorali dei movimenti populisti, i governi formati da questi movimenti, sono spesso il prodotto di elezioni col metodo democratico e godono del consenso della maggioranza, prima di essere imposti con un atto autoritario. Oggi tutti si proclamano democratici. Ma forse proprio in questo senso Le Bon può essere una lettura utile, può aiutarci non a diventare una folla apatica, beota e servile, ma a diventare e rimanere individui consapevoli e cittadini responsabili.
Le Bon era un conservatore che non amava la democrazia, temeva egualmente i “Cesari”, come lui li chiamava, che impongono un regime personale fondato sul plebiscito. Non voleva revocare il suffragio universale e sosteneva che il parlamento, pur con tutti i difetti, era una istituzione che poteva impedire il monopolio del potere nelle mani di un capo. Combatteva lo statalismo, sosteneva la libertà di stampa, e paventava il potere delle oligarchie economiche operanti su una dimensione globale alle spalle dei governi democratici. Le Bon insegnava ai capi come conquistare le folle, ma la sua lezione può essere utile anche per resistere alla seduzione dei capi che predicano la democrazia mentre praticano l’autocrazia mascherandola con la demagogia.

(Da Left n.22 del 28 maggio 2016)

Renzi corregge Renzi. Caffè del 22 agosto 2016

Renzi corregge Renzi. “Referendum, comunque vada si voterà nel 2018”, è infatti il titolo oggi del Corriere della Sera. Ma era stato proprio lui, il premier, a minacciare le dimissioni del governo, non solo anche la sua rinuncia a far politica, le déluge, come avrebbe detto Luigi XV, e naturalmente il voto anticipato, magari con la legge di stabilità in alto mare, se quei gaglioffi di italiani non avessero votato Sì alle riforme Boschi-Renzi. Ora Renzi dice: Non è un voto su di me…ho sbagliato a personalizzare il referendum…non può essere Renzi contro tutti…per colpa mia che ho sbagliato è diventato una sorta di dibattito internazionale su tutto”. Lo dice alla Versiliana, intervistato dal conduttore che probabilmente preferisce, Paolo Del Debbio: ho sentito io stesso Renzi che ne tesseva lodi sperticate, portare a esempio -in una assemblea Pd -il “raffinato” populismo di questo giornalista berlusconiano.
Fatta l’autocritica, il premier ritrova le consuete bugie: sulla scheda referendaria “il quesito spiega che si tagliano i parlamentari, si riducono i costi della politica, che si semplificano i poteri delle Regioni, che si supera il ping pong Camera-Senato, che si abbassa lo stipendio dei consiglieri regionali, che si cancella il Cnel…i parlamentari che sostengono il no stanno difendendo le loro poltrone, i loro rimborsi”. Falso! Chi si è opposto alla Boschi- Renzi chiedeva di tagliare più drasticamente il numero dei parlamentari: solo 150 senatori e 350 deputati anziché 630 deputati e 100 consiglieri senatori”. Falso pure che il parlamento non volesse superare il biporalismo: persino l’abolizione, nuda e cruda, del Senato avrebbe trovato una maggioranza bipartisan di consensi. La riforma che il governo ha imposto è altra cosa: mantiene un Senato esangue, lo chiama “camera delle autonomie”, per nascondere la vera intenzione, che è quella di togliere poteri alle autonomie, di centralizzare lo stato nelle mani del governo. Un governo a misura del suoi premier, eletto direttamente con “la legge elettorale perfetta”, con l’Italicum. Questa cosa è la riforma Boschi- Renzi su cui saremo chiamati a votare. Renzi cerca, come può, di nascondere la realtà dei fatti e cioè che neppure lui vuole più l’Italicum (il ballottaggio favorirebbe De Maio), che il vero problema della democrazia italiana sta nell’incapacità di governare e non negli eccessivi controlli parlamentari. Come dimostrano gli errori che ormai vengono imputati a Renzi dai suoi stessi sostenitori: dagli 80 euro a Banca Etruria, dagli incentivi a pioggia agli imprenditori alla abolizione dell’Imu, alle mance elettorali, alla riforma  della scuola.
Hollande, Merkel, Renzi prendono il volo. Prendono il volo, secondo Giannelli, dalla portaerei Garibaldi, ormeggiata al largo di Ventotene, novelli Spinelli, Rossi, Colorno. Repubblica titola: “L’Europa post Brexit è da rifondare”. Ezio Mauro scrive delle “Crisi riunite a Ventotene”. Le tre crisi, i tre populismi al governo in Francia, in Germania e in Italia di cui anch’io parlavo ieri nel caffè. Possono quei tre cambiare il verso delle loro (fallimentari) politiche e ritrovare uno slancio europeo? È credibile che il nostro primo ministro, mai eletto per svolgere tale ruolo e già potenzialmente sconfitto, metta le ali e si trasformi in uno statista europeo. Talvolta i sogni si avverano. Renzi è intelligente quanto basta per vedere gli errori commessi, ma dubito che abbia il carattere per cambiare rotta, deludendo chi fin qui l’ha seguito e cercando il dialogo con altri che fino a ieri disprezzava.
È stato Daesh, un kamikaze ragazzino, di 12-14 anni, dice Erdogan dopo i 50 morti a Gaziantep. Sicuramente gli obiettivi dell’attentato erano curdi, nemici del presunto califfo ma anche dell’aspirante sultano. Ho trovato leggendo oggi l’articolo di Bernardo Valli, una speranza nascosta -perchè, lo capisco, non facile da confessare- e cioè che questo nuovo attentato dimostri che i giochi non si sono chiusi in Turchia, che il (contro) colpo di stato non ha ancora completamente vinto. Che si vive sospesi, in una situazione di attesa. Attesa carica di ansia, per le stragi dei curdi, per l’assassinio (e la tortura) di una nota transessuale – e i gay sono andati in piazza per onorarne la memoria- per i licenziamenti innumerevoli di funzionari e gli arresti di decine di migliaia di persone. Ma attesa; e speranza.

L’oro nero che brucia la Basilicata. Anche a Ferragosto

Il centro Eni di Viggiano (Potenza) in un'immagine del 4 aprile 2016. ANSA/TONY VECE

A Ferragosto a Viggiano, nello stabilimento dell’Eni dissequestrato da poco (dopo l’inchiesta della Procura di Potenza sugli impianti Eni e Total in Basilicata che ha portato alle dimissioni della ministra Guidi) si sono levate in cielo lingue di fuoco. Sì, fuoco: il cielo della Val d’Agri è stato appestato dalle fiamme provenienti dallo stabilimento nel quale viene trattato il petrolio appena estratto dal territorio lucano.

L’inchiesta che ha messo sotto scacco l’impianto produttivo della Basilicata (ne scriveva Ilaria Giupponi qui)  e i signori del petrolio si è insabbiata nel silenzio viscido dei poteri che pretendono il silenzio. È rimasto anche sotto silenzio il fatto che il consigliere regionale della Basilicata (del PD) Vincenzo Robortella sia stato rinviato a giudizio (il 5 agosto scorso) insieme ad altre 57 persone e 10 società.

E forse è sfuggito a molti che i magistrati siano convinti che la società Outsourcing s.r.l, di cui il consigliere regionale era proprietario, avrebbe ricevuto un finanziamento europeo relativo ai lavori del centro oli Tempa Rossa della Total pur non avendone i requisiti di legge. Ah, Robortella è stato nominato presidente della commissione attività produttive, ambiente e territorio della Regione Basilicata.

Come giustamente chiede alla commissione europea l’eurodeputato lucano del Movimento 5 Stelle, Piernicola Pedicini, domandando se l’Olaf – ufficio europeo per la lotta antifrode – «ha avviato indagini al fine di individuare la sussistenza di casi di corruzione, frode o altre irregolarità relative ai fondi europei erogati alla società Outsourcing s.r.l».

E magari sarebbe anche il caso che qualcuno ci spieghi quelle lingue di fuoco di Ferragosto. Sarebbe il caso di non abbandonarla, la Basilicata.