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Nelle favelas fuori dai giochi

Favela, Complexo Do Alemão, piccoli trafficanti di droga, figli senza speranza
testo di Luigi Spera e foto di Marco Negri – da Rio De Janeiro

È quando il sole inizia la sua discesa che i contrasti cromatici cominciano a esaltarsi. Con la luce che circonda un’area urbanizzata in modo stratificato, confuso e singolare. Da un lato, la linea orizzontale, punto più alto della stazione della metropolitana Maracanã, segna la base della favela di Mangueira, dove un’irregolare distesa di casette di mattoni grezzi ricopre la collina. Dall’altro lato, spalle alla favela, una lunga rumorosa fila di auto bloccate nel traffico attraversano passarelle di cemento che dalla stazione conducono a sinistra verso lo stadio tempio del calcio carioca e a destra verso un oscuro palazzone, l’Uerj, Università di Stato di Rio de Janeiro. Uno stadio, una favela e un’università pubblica a pochi metri di distanza. L’ombelico della metropoli carioca è la sintesi delle vecchie e nuove contraddizioni della città dei mille contrasti. Contrasti (e contraddizioni) che le olimpiadi hanno accentuato. Sembra passato un secolo da quando nel 2009, spinto da un’economia in forte espansione, il Brasile spuntava il diritto di ospitare le olimpiadi 2016. Sette anni dopo, i numeri della crisi segnano un tonfo, con i feroci tagli alla spesa pubblica che rimarcano le ingiustizie sociali. Mentre i costi delle strutture olimpiche a Rio continuano a lievitare. Passati dai 4,2 miliardi di dollari previsti nel 2007 agli oltre 12 miliardi già spesi finora. Con la coperta troppo corta per pensare a tutto, lo Stato ha dovuto ristabilire le priorità.

Uerj. L’Uerj e il Maracanã, divise da appena una strada, sono le due facce della stessa medaglia. «Mentre lo stadio riceveva miliardi di investimenti, all’università è stato impossibile tenere in vita i servizi di manutenzione, pulizia, sicurezza», racconta la studentessa Daniella Monteiro. Dall’inizio dell’anno lo Stato ha smesso di trasferire fondi all’università, causando ritardi e rateizzazione nei pagamenti degli stipendi di professori, tecnici, delle borse di studio per gli studenti, e lo stop del pagamento dei lavoratori delle società esterne: 700 persone licenziate a luglio con sette mesi di arretrati. «L’università è stata abbandonata al proprio destino», è deluso il professore Luiz Claudio Santamaria. Muoversi tra i corridoi dell’Uerj rimanda sensazioni di abbandono: la raccolta dei rifiuti è a singhiozzo, la manutenzione è sospesa, i bagni sono in maggioranza inutilizzabili. Il governo statale in default «per due volte – dice il giovane Victor Franco – ha ricevuto prestiti dal governo federale: la prima volta i soldi sono stati usati per terminare la linea 4 della metro; la seconda volta, due miliardi e 900 milioni di Real, sono stati destinati alla sicurezza». A gennaio anche l’ospedale universitario ha smesso di ricevere denaro.

Pochi secondi prima dello sparo. Una ragazzina, che trascinata dalla madre impaurita si copre gli occhi alla vista dei poliziotti con i fucili puntati
Pochi secondi prima dello sparo. Una ragazzina, che trascinata dalla madre impaurita si copre gli occhi alla vista dei poliziotti con i fucili puntati

Rimozioni. «La priorità – sintetizza il professor Dario Sousa de Silva – è la creazione della fantasia di una città olimpica e di grandi eventi, dove sanità, istruzione e benessere della popolazione sono una seconda o terza opzione». Nulla di fantasioso ha invece il concretissimo, elitario ed escludente piano di revisione urbanistica segnato dalla gentrification che ha investito città e favelas. Sul palco del Maracanã nel corso della cerimonia di apertura dei giochi, la rappresentazione di una favela ha fatto da scenografia a lungo. La cultura delle comunità carioca è stata sfruttata a fini propagandistici, mentre la realtà fuori dagli schermi è fatta di violenze, rimozioni, militarizzazione e speculazione. A meno di un chilometro pare possibile ancora sentire le urla delle famiglie tirate via a forza dalle proprie case nella notte dalla polizia, mentre una ruspa le demoliva. Quella di Metro Mangueira è stata una favela rimossa solo perché prossima allo stadio principale. Una macchia da eliminare. Non l’unica. «Gli eventi sportivi internazionali a Rio hanno segnato un ritorno all’antica caratteristica di scarso rispetto per il diritto alla casa. La coalizione tra le autorità e le grandi imprese ha accelerato un processo di”pulizia sociale” delle aree di maggiore pregio della città. Il progetto di attrazione degli investimenti, in vista degli eventi, ha avuto come componente l’espulsione dei poveri dalle zone di valore della città», rivela la relazione su Megaeventi e violazioni dei diritti umani realizzato dal Comitato popolare coppa del mondo e Olimpiadi a Rio de Janeiro. I numeri sono impressionanti: dal 2009 a oggi ben 77.206 persone in 29 favelas sono state rimosse per fare spazio alle opere legate alle Olimpiadi.

Questo reportage da Rio de Janeiro continua su Left in edicola dal 20 agosto

 

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Mare piatto a Ventotene,Caffè del 21 agosto 2016

Sono curioso di vedere cosa faranno quei tre. Dice Daniel Cohn Bendit, intervistato dal Corriere della Sera. “Quei tre”, sono François Hollande, Angela Merkel e Matteo Renzi che si incontrano domani all largo dell’isola dove altri tre, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Ursula Hirschmann, immaginarono tra il 1941 e il 44, un’Europa senza più guerre né ricatti totalitari. Proprio mentre in Francia, in Italia e in Germania si marciava al passo dell’oca, si sterminavano ebrei, zingari e comunisti, si pronunciavano bestemmie come vincere e vinceremo o si proiettavano film di propaganda come il “Il trionfo della volontà”, per celebrare il capo supremo, il Fürher,. Purtroppo, i tre capi di stato e di governo che si vorrebbero epigoni degli autori del Manifesto di Ventotene, mi paiono leader di un nazionalismo declinante: Hollande non ha avuto il coraggio di dire ai francesi che il tempo della grandeur era finito, Merkel ha compiaciuto i tedeschi facendogli credere di portare sulle spalle chissà quale peso dell’Europa, Renzi ha illuso gli italiani che con uno schioccar di dita, meno diritti e qualche riforma pasticciata della Costituzione, i mali d’Italia (corruzione, incapacità di governo, interesse privato nella cosa pubblica) sarebbero scomparsi.
Tagli alle tasse, cambia la manovra, proposta Ue per la cultura. I titoli di Repubblica sono improntati all’ottimismo. Ma è come se chi li scrive non avesse letto gli articoli che qui titoli dovrebbero sintetizzare. Così si legge a pagina 2: “il taglio delle aliquote Irpef sarà rinviato almeno al 2018”. Forse sarà concesso qualcosina alle pensioni, ma solo a quelle “che non superino i 501 euro”. In cambio si faranno quadrare i conti sulla carta assumendo che la crescita possa essere dell’1%, anziché dello 0,7 come suggeriscono gli ultimi dati. E, naturalmente per fare queste cose, si dovrà chiedere a Berlino nuova “flessibilità”, cioè un deficit che resta al 2,3% del PIL anziché scendere, come previsto dagli accordi, all’1,8. “Ma Berlino frena” -ammette Repubblica, sempre a pagina 2- “Non si parla di concessioni all’Italia.” Così,frustrato, il giornale diretto da Mario Calabresi intervista Stieglitz, il quale ripete che l’Europa non sarà in grado di sostenere “l’integrazione monetaria” senza “una vera unione bancaria dotata di un’eficace assicurazione comune sui depositi, programmi di solidarietà in grado di aiutare concretamente i Paesi che restano indietro, una quota significativa di mutualizzazione del debito e di eurobond, una parte di bilancio comunitario con un ministro delle Finanze europeo e tasse comuni sulle transazioni finanziarie e sulle grandi proprietà oggi frammentate e troppo basse, un piano di investimenti pubblici molto maggiore di quelli attuali finanziato appunto con queste risorse, una banca centrale che non abbia come unico focus l’inflazione bensì sviluppo e occupazione”. Questo chiede Renzi?
Al Nusra detta legge tra le rovine di Aleppo. Lo scrive il manifesto. Purtroppo è così: “per la scellerata politica estera occidentale in Medio Oriente, al Qaeda è allo stesso tempo un gruppo terroristico in Europa e parte di un “movimento di liberazione” in Siria”. Sempre il manifesto racconta i bombardamenti siriani contro una città liberata dai curdi del PKK. Gli americani hanno visto arrivare gli aerei russi e hanno subito chiamato Mosca., Non sono nostri, è stata la risposta. Erano aerei di Assad, il quale non di considera più nemico Erdogan. Anzi è disposto a fargli favori (sporchi) in cambio del suo aiuto per rimanere in sella. Infine, ancora il manifesto, mostra la foto di una folla immensa che manifesta a Sana’a contro la guerra nello Yemen dall’Arabia Saudita. Penso che prima di commuoversi – ed è giusto commuoversi- per i bambini che vivono e muoiono sotto le bombe di Aleppo, i nostri governi dovrebbero rispondere ad alcune semplici domande: si vuole un califfato sunnita, con burqa imposto alle donne e barbe da caprone agli uomini, in Siria? Lo si vuole nello Yemen? Si è disposti a tollerare che i petrodollari del Golfo finanzino predicatori oscurantisti nemici delle nostre civiltà? Se sì, allora la si smetta, per favore, di invocare la “guerra al terrore”. Si ammetta che la strage del Bataclan e la paura dei kamikaze sono niente altro che il danno collaterale di una alleanza strategica (vecchia di 70 anni) con cui l’occidente spera (sbagliando) di controllare il medio oriente e le sue risorse, impedendo che emergano alleanze economiche politiche e militari alternative. Come quella tra Russia, Iran e Turchia.

Viaggio nel cuore della terra alla ricerca della materia oscura

Nel cuore della terra alla ricerca della “materia oscura”, gas rari utili per la medicina e la sperimentazione. La nuova sfida post mineraria della Sardegna comincia a mezzo chilometro di profondità. C’è un luogo nel Sulcis Iglesiente, dove la parola fine diventa inizio. E dove il patrimonio di conoscenza del passato, tra lotte operaie e tradizioni, si fonde con la tecnologia e la ricerca scientifica. Benvenuti a Nuraxi Figus, comune di Gonnesa a sessanta chilometri da Cagliari. Siamo a una manciata di chilometri dai nuraghi di Seruci e di Sirai, e dall’area industriale di Portovesme e dove sorge l’ultima miniera di carbone d’Italia. Nelle gallerie sotto il sito di Monte Sinni, gestito dalla società mineraria regionale Carbosulcis, si coltiva – cioè si taglia e estrae – il carbone che l’azienda vende alla vicina centrale Enel di Portovesme. Un lavoro che va calando e che terminerà nel 2018. Quando l’attività estrattiva cesserà, andrà a regime la nuova vita: la conversione di un presidio minerario importante che, come spiegano gli esperti, ha un potenziale di almeno altri 100 anni.

Già adesso la tecnologia è largamente presente nella miniera. La figura un po’ mitizzata e romantica dei minatori sporchi di carbone in viso, con piccone e pala intenti a caricare piccoli vagoni che si muovono su binari a centinaia di metri di profondità, non esiste. Così come compaiono solo nei racconti , o in qualche album fotografico degli anni 50, le immagini di lavoratori che si muovono sottoterra con candele a carburo in spazi stretti. Oggi le scene sono ben diverse. Raggiungere il sottosuolo e i 500 metri di profondità, che vuole dire 400 metri sotto il livello del mare, significa sottoporsi a dettagliati protocolli di sicurezza. Scarpe antinfortunistiche e casco sono obbligatori, così come il giubbetto e la cintura su cui si posiziona la batteria della lampada. La gabbia, un ascensore industriale che nell’arco di poche decine di secondi scivola nel sottosuolo, segna il passaggio dal mondo illuminato dal sole a quello delle lampade. Subito il caldo umido che si respira sta a certificare il cambiamento. Nelle gallerie, che si possono raggiungere anche attraverso una rampa camionabile lunga tre chilometri e cento metri, comanda la tecnologia. Alle pareti fasci di cavi collegano il sottosuolo e le aree di transito e lavoro con la superficie dove macchine all’avanguardia misurano costantemente qualità dell’aria captata dai sensori presenti accanto alle centine, gli archi di ferro che reggono le volte delle gallerie. Negli spazi illuminati si trovano anche i telefoni per comunicare con l’esterno giacché altre comunicazioni radio sono impossibili e la linea con il sottosuolo deve essere sempre libera: in superficie è necessario sapere chi si trova nelle gallerie. I cartelli con i protocolli di sicurezza ricordano che va misurata la saturazione dell’aria costantemente, che gli operai che entrano nelle zone di coltivazione non possono avere fiamme, strumenti elettrici o elettronici capaci di far scattare scintille e che è obbligatorio dotarsi dei respiratori di emergenza. La coltivazione del carbone avviene con strumenti tecnologicamente avanzati che scavano le pareti rocciose e inviano il carbone sui nastri trasportatori che poi lo spingono nelle aree di accumulo. Qui i mezzi meccanici caricano sui dumper che lungo le strade sotterranee arrivano in superficie. Una volta raggiunto l’esterno inizia il processo di pulizia, lavaggio e “abbancamento”, formando le diverse montagne nere presenti all’esterno.

Questa miniera, che vanta un giacimento dotato di riserve per un miliardo e mezzo di tonnellate di carbone sub bituminale e con capacità di 4200 calorie, gallerie percorribili con camion lunghe 15 chilometri, una discenderia camionabile che arriva sino a mezzo chilometro di profondità, quattro pozzi, è destinata a fermarsi. Nel 2018 la produzione di carbone dovrà cessare definitivamente. «È l’effetto di un negoziato tra Regione Governo e Unione europea – spiega Francesco Garau, segretario provinciale della Filctem Cgil – per evitare una procedura di infrazione. Il processo e piano di dismissione è stato avviato nel 2014 e dovrà essere completato nel 2027». Nell’agosto del 2012 proprio in questi pozzi i lavoratori hanno dato vita all’ultima rivolta sotto terra. Una protesta forte per salvare l’impianto da quella che allora era un’imminente chiusura. La protesta ha mantenuto in piedi la produzione per altri due anni e nel frattempo è iniziata la partita per il dopo miniera.

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Primo Levi, la chimica immagine del mondo

Stanno per finire gli anni 50, quando l’inglese Charles Percy Snow getta il sasso nello stagno e, con un libro destinato a fare storia, denuncia un fatto a suo dire molto grave: l’avvenuta separazione tra «le due culture», quella scientifica e quella umanistica. Più che un sasso, la tesi di Snow è un macigno: se molti scienziati naturali sono disponibili a utilizzare quelle che in Italia Leonardo Sinisgalli chiama “le lime del pensiero” e a confrontarsi con le scienze umane, sempre più umanisti rifiutano il confronto. È per questo che le due culture tendono a divergere. Anzi, si sono già separate. Molti intellettuali sono colpiti dalla provocazione, ma non tutti si lasciano sommergere dalle onde sollevate dal macigno del chimico e scrittore inglese. Alcuni reagiscono. In Italia interviene prontamente un altro chimico e scrittore: Primo Levi. Che scrive: «Sovente ho messo piede sui ponti che uniscono (o dovrebbero unire) la cultura scientifica con quella letteraria scavalcando un crepaccio che mi è sempre sembrato assurdo». E poi aggiunge: questa separazione tra cultura scientifica e cultura umanistica, se c’è, è «una schisi innaturale, non necessaria, nociva, frutto di lontani tabù e della controriforma, quando non risalga addirittura a una interpretazione meschina del divieto biblico di mangiare un certo frutto. Non la conoscevano Empedocle, Dante, Leonardo, Galileo, Cartesio, Goethe, Einstein, né gli anonimi costruttori delle cattedrali gotiche, né Michelangelo; né la conoscono i buoni artigiani d’oggi, né i fisici esitanti sull’orlo dell’inconoscibile».
Primo Levi è uno dei più grandi scrittori italiani. È uno scrittore testimone del suo tempo. Con Se questo è un uomo, che ha iniziato a scrivere nel dicembre 1945 e pubblicato nel 1947, racconta dell’indicibile cui ha assistito: il più grande misfatto che, probabilmente, l’umanità abbia mai commesso. L’Olocausto. Levi racconta quello che ha vissuto in prima persona, all’interno del campo di Auschwitz dove è stato deportato in quanto ebreo. È uno dei pochi sopravvissuti, grazie alla chimica.
La chimica, per la verità, attraversa tutte le quattro fasi della sua vita da giovane e poi da adulto. Prima della guerra, da studente. Durante la guerra è un chimico che lavora nell’industria. Con la deportazione è un chimico in un luogo particolare: in un campo di sterminio. Divenuto scrittore, il chimico ritorna nelle sue opere. Tra queste Il sistema periodico che, pubblicato nel 1975, è eletto nell’ottobre 2006 “più bel libro di scienza mai scritto” dalla Royal Institution di Londra. Mentre lui, Primo Levi, viene definito il miglior scrittore di scienza di ogni tempo, battendo l’etologo Konrad Lorenz che, con L’anello di Re Salomone, giunge secondo. Primo Levi rientra, dunque, in quel novero ristretto ma non ristrettissimo di scrittori che alimentano, per dirla con Italo Calvino, la «vocazione profonda della letteratura italiana», perché nelle sue opere – proprio come in quelle di Calvino, oltre che di Dante, di Galileo e di Leopardi – si consuma il ménage a trois tra letteratura, filosofia e scienza. Solo che mentre Calvino è uno scrittore “cosmico e lunare” (per usare una definizione che lo scrittore sanremese usa proprio a proposito di Dante, Galileo e Leopardi oltre che di Ariosto), Primo Levi è uno scrittore “chimico e molecolare”, attento più che al tutto armoniosamente ordinato dei Greci (il cosmo appunto), alle sue singole e cangianti parti materiali. D’altra parte è lui stesso a riconoscerlo: «Scrivo proprio perché sono un chimico, si può dire che il mio vecchio mestiere si è largamente trasfuso nel nuovo».
Già, ma cosa significa mettere «piede sui ponti che uniscono la cultura scientifica con quella letteraria» da chimico? In primo luogo, significa avere un rapporto speciale con la materia. Come lo stesso Levi scrive, ricordando l’iscrizione nel 1937 al corso di Chimica dell’Università di Torino: «la nobiltà dell’uomo, acquisita in cento secoli di prove ed errori, era consistita nel farsi signore della materia (…) mi ero iscritto a Chimica perché a questa nobiltà mi volevo mantenere fedele (…) vincere la materia è comprenderla, e comprendere la materia è necessario per comprendere noi stessi, e che quindi il sistema Periodico di Mendeleev, che proprio in quelle settimane imparavamo laboriosamente a dipanare, era una poesia, più alta e più solenne di tutte le poesie digerite in liceo» (Ferro, Il sistema periodico). La chimica, dunque, come visione del mondo. Come filosofia: «Pensavo di trovare nella chimica la risposta agli interrogativi che la filosofia lascia irrisolti. Cercavo un’immagine del mondo piuttosto che un mestiere». In realtà un mestiere Levi lo trova, appena subito dopo la laurea a Lanzo, in una cava di amianto. E poi l’anno dopo, a Milano, presso la Wander, un’industria svizzera di medicinali, dove lavora fino al 13 dicembre 1943, quando viene arrestato come partigiano e deportato nei lager tedeschi.
Primo Levi non è uno scienziato. Come ricorda Mimma Bresciani Califano è e si definisce un chimico-tecnologo. È in questa dimensione di chimico di laboratorio industriale che Levi ritrova, come scrive Gaspare Polizzi: «la paziente lentezza del metodo» e apprende «l’“arte di separare, pesare e distinguere”, essenziale per l’esercizio della scrittura. A questo esercizio si unisce il ‘peso’ semantico di verbi come filtrare, cristallizzare, distillare e di qualità dei corpi come nero, amaro, vischioso, tenace, greve, fetido, volatile, inerte, infiammabile, che dicono poco al lettore-scrittore comune».

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Torna il Renzi-Berlusconismo? Caffè del 20 agosto 2016

Difesa comune europea. Ecco il piano che Renzi porterà a Hollande e Merkel lunedì, quando si incontreranno sulla portaerei Garibaldi al largo di Ventotene. La Stampa cita un’intervista a Le Monde di Gentiloni e Pinotti, ministri degli esteri e della difesa: “battaglioni comuni”, con forze d’eccellenza francesi, italiane e tedesche, “per difendere l’Europa”. È, più o meno, quello che Hollande vorrebbe sentirsi dire, per legare all’impegno dell’Europa contro il terrorismo la propria permanenza all’Eliseo (proprio lunedì il socialista Montebourg presenterà la sua candidatura alternativa alle primarie). E certo Gentiloni è preoccupato perché la Nato perde colpi e la Russia è sempre più protagonista, mentre la Pinotti – già candidata nella sua testa (e sfortunata) alla presidenza della repubblica- ci tiene moltissimo, come ormai è chiaro, a fare la bersagliera. Si capiscono le intenzioni. Sarebbe però davvero curioso che l’Europa dell’euro , invece di percorrere la strada dell’integrazione fiscale, scegliesse l’integrazione militare. Così come le leggo, mi sembrano fole!

Più investimenti e competitività. Ma che battaglioni d’Egitto! Repubblica sa bene dove batta il cuore di Renzi: l’economia, la ripresa forte che ci tiri via dal pantano dello “zerovinrgola” e ridoni il sorriso agli elettori. Peccato che “il piano per convincere la UE”, illustrato dal giornale di Calabresi, non sia stato partorito dal premier ma dal suo ministro Calende, un’altra stella del governo che cerca di splendere almeno per un giorno. Così questo tal Calenda, già “manager di impresa”, come ricorda Repubblica, vuole superare “la politica dei bonus, dagli 80 euro all’ipotesi di aumentare la quattordicesima ai pensionati”, ovvero la politica di Renzi. “Io penso -dice- che è il momento di accelerare la spinta sulla competitività del sistema produttivo”, e scodella un “piano “Industria 4.0”, studiato con Padoan e Nannicini, “che si fonda su forti stimoli fiscali agli investimenti in macchinari e beni digitali, ulteriore sostegno alla contrattazione aziendale, la costruzione di una rete di centri di eccellenza universitari sulla manifattura innovativa, misure per favorire la finanza per la crescita, un piano sulla formazione per imprese, studenti e lavoratori”. Mi immagino la telefonata che Matteo deve avergli fatto stamani: “bravo, bene, bis, ma queste cose dille in televisione (senza contraddittorio) il referendum lo vinciamo dando soldi agli statali, bonus ai pensionati e annunciando il taglio delle tasse per il ceto medio”. Repubblica ritiene, però, che una tale “strategia” sia impresentabile all’Europa, visti il nostro debito e il fatto che abbiamo già ottenuto “flessibilità”. Quindi tifa per una conversione di cui non c’è traccia.

Nasce il Renzi-Berlusconismo. E lo tiene a battesimo sul Corriere della Sera Angelo Panebianco. “Di sicuro -scrive- Renzi ha ormai capito da un pezzo che la rottura del patto del Nazareno con Berlusconi è stato l’errore più grave da lui commesso. Senza quel passo falso oggi Renzi potrebbe guardare con serenità alla scadenza del referendum”. Allora il quesito è: come rimetterli assieme, quei due, senza che Silvio perda la faccia e Matteo debba ammettere l’errore? Semplice il faut che la Corte Costituzionale bocci a ottobre la legge elettorale perfetta che Renzi aveva battezzato “Italicum”. Allora i due, con ossequio retroattivo all’attuale inquilino del Quirinale, potrebbero riproporre una legge in tutto identica al Mattarellum”. Niente ballottaggio, M5Stelle fuori dai giochi, colleghi uninominali e una quota proporzionale per tenere in piedi i rispettivi partiti. Fatto il patto, Panebianco prevede che Berlusconi si defilerebbe dalla campagna per il No referendario, la minoranza del Pd pure e Renzi resterebbe ben saldo a Palazzo Chigi. Osservo umilmente che la differenza tra il 2016 e il 1996 è che il sistema politico italiano allora era bipolare, oggi conta almeno tre poli. Con il sì al referendum, inoltre, i poteri si concentrerebbero in un’unica camera. Il Mattarellum monocamerale potrebbe investire della responsabilità del governo una forza che abbia saputo raccogliere appena un terzo dei voti voti validi , un quinto degli aventi diritto. In Spagna Rajoy governerebbe da solo. Fuori, Ciudadanos, Psoe e Podemos. Sono marchingegni pensati per tempi ordinari. In un mondo che cambia, la protesta dilagherebbe.

Dallo Yemen alla California. Le notizie della settimana in foto

(EPA / YAHYA Arhab)

10 agosto 2016. Yemen. Sfollati in un campo nella provincia settentrionale di Amran. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite quasi 2,5 milioni di persone sono state sfollate con la forza dalle zone dei conflitti a partire da marzo 2015, quando la coalizione militare saudita ha iniziato a bombardare i ribelli Houthi e i loro alleati in tutto il paese arabo. (EPA / YAHYA Arhab)
Yemen. Sfollati in un campo nella provincia settentrionale di Amran. Secondo i rapporti delle Nazioni Unite quasi 2,5 milioni di persone sono state sfollate con la forza dalle zone dei conflitti a partire da marzo 2015, quando la coalizione militare saudita ha iniziato a bombardare i ribelli Houthi e i loro alleati in tutto il paese arabo. (EPA / YAHYA Arhab)

Sabato 13 Agosto, 2016. Foto aerea della zona di Hammond, Louisiana, dopo le forti piogge che hanno innondato la regione. (AP / Max Becherer)
13 Agosto, 2016. Foto aerea della zona di Hammond, Louisiana, dopo le forti piogge che hanno innondato la regione. (AP / Max Becherer)

13 Agosto 2016. Persone riunite per una manifestazione nei pressi della moschea di Al-Furqan Jame Masjid di Ozone Park di Queens, dopo che un imam e un suo amico sono stati colpiti a morte mentre tornavano a casa dalla moschea. (AP / Craig Ruttle)
Persone riunite per una manifestazione nei pressi della moschea di Al-Furqan Jame Masjid di Ozone Park di Queens, dopo che un imam e un suo amico sono stati colpiti a morte mentre tornavano a casa dalla moschea. (AP / Craig Ruttle)

13 Agosto 2016. Wendover, Utah. Automobili formano una linea vicino alla pista da corsa a Bonneville Salt Flats dove, piloti di fama mondiale, sono tornati a competere la Speed Week dopo che negli ultimi due anni era stata annullata a causa di condizioni avverse. (AP / Rick Bowmer)
Wendover, Utah. Automobili formano una linea vicino alla pista da corsa a Bonneville Salt Flats dove, piloti di fama mondiale, sono tornati a competere la Speed Week dopo che negli ultimi due anni era stata annullata a causa di condizioni avverse. (AP / Rick Bowmer)

14 agosto, 2016. Milwaukee, Wisconsin. Un gruppo di poliziotti si muove contro i manifestanti durante una seconda notte di disordini. (AP / Jeffrey Phelps)
14 agosto, 2016. Milwaukee, Wisconsin. Un gruppo di poliziotti si muove contro i manifestanti durante una seconda notte di disordini. (AP / Jeffrey Phelps)

14 agosto 2016. Air Force Station Cape Canaveral, Florida. La scia luminoso del razzo A SpaceX Falcon 9 sul molo di Cocoa Beach durante il decollo. (Craig Rubadoux / Florida via AP)
Air Force Station Cape Canaveral, Florida. La scia luminoso del razzo A SpaceX Falcon 9 sul molo di Cocoa Beach durante il decollo. (Craig Rubadoux / Florida via AP)

15 agosto, 2016. Pechino, Cina. Nuotare nei fiumi della capitale cinese è un passatempo molto popolare sia in estate che in inverno. (AP Photo / Ng Han Guan)
15 agosto, 2016. Pechino, Cina. Nuotare nei fiumi della capitale cinese è un passatempo molto popolare sia in estate che in inverno. (AP Photo / Ng Han Guan)

15 agosto, 2016. Srinagar, Kashmir. Soldati paramilitari indiani durante la guardia nei pressi del quartiere Nowhatta teatro di scontri a fuoco. (AP / Mukhtar Khan)
Srinagar, Kashmir. Soldati paramilitari indiani durante la guardia nei pressi del quartiere Nowhatta teatro di scontri a fuoco. (AP / Mukhtar Khan)

17 agosto, 2016. Harare, Zimbabwe. Scontri tra la polizia antisommossa e i manifestanti durante una protesta contro le nuove norme valutarie introdotte dalla Reserve Bank dello Zimbabwe. Secondo quanto affermato dalla banca centrale del paese, le nuove banconote saranno equivalenti al dollaro degli Stati Uniti, i manifestanti, invece, temono una nuova forte inflazione. (AP / Tsvangirayi Mukwazhi)
Harare, Zimbabwe. Scontri tra la polizia antisommossa e i manifestanti durante una protesta contro le nuove norme valutarie introdotte dalla Reserve Bank dello Zimbabwe. Secondo quanto affermato dalla banca centrale del paese, le nuove banconote saranno equivalenti al dollaro degli Stati Uniti, i manifestanti, invece, temono una nuova forte inflazione. (AP / Tsvangirayi Mukwazhi)

Una bambina afghana si nasconde dietro il burqa della madre. (ANSA/LUCIANO DEL CASTILLO)
Una bambina afghana si nasconde dietro il burqa della madre. (ANSA/LUCIANO DEL CASTILLO)

17 agosto 2016. Keenbrook, California. Un violento incendio è scoppiato nel Passo Cajon vicino l’Interstate 15, l'arteria principale tra Los Angeles e Las Vegas. (Kevin Sullivan / Il Registro Orange County via AP)
17 agosto 2016. Keenbrook, California. Un violento incendio è scoppiato nel Passo Cajon vicino l’Interstate 15, l’arteria principale tra Los Angeles e Las Vegas. (Kevin Sullivan / Il Registro Orange County via AP)

18 agosto 2016. Srinagar, Kashmir. Soldati paramilitare indiani tornano verso il campo base dopo una lunga giornata di coprifuoco. Nei giorni scorsi un giovane insegnante è stato ucciso mentre era sotto la custodia dell'esercito indiano. Forti proteste contro il dominio indiano in Kashmir e violenti scontri con la polizia si sono verificati tutti i giorni da quando le truppe governative hanno ucciso uno dei leader dei ribelli quasi sei settimane fa. (AP / Dar Yasin)
Srinagar, Kashmir. Soldati paramilitare indiani tornano verso il campo base dopo una lunga giornata di coprifuoco. Nei giorni scorsi un giovane insegnante è stato ucciso mentre era sotto la custodia dell’esercito indiano. Forti proteste contro il dominio indiano in Kashmir e violenti scontri con la polizia si sono verificati tutti i giorni da quando le truppe governative hanno ucciso uno dei leader dei ribelli quasi sei settimane fa. (AP / Dar Yasin)

Poliziotti della guardia d'onore al servizio funebre per Eastman poliziotto Timothy Smith, Giovedi 18 Agosto 2016 a Eastman, Ga. Georgia Bureau of Investigation funzionari ha detto che Smith, 30 anni, stava rispondendo ad una chiamata di una persona sospetta con una pistola quando gli hanno sparato Sabato 13 agosto, a Eastman. Le autorità in seguito arrestati 24-year-old Deeds Royheem con l'accusa di omicidio. (Woody Marshall / Il Macon Telegraph via AP)
Eastman, Georgia. Poliziotti della guardia d’onore al funerale del poliziotto Timothy Smith. Funzionari del Georgia Bureau of Investigation hanno dichiarato che Smith, 30 anni, stava rispondendo ad una chiamata di una persona sospetta con una pistola quando gli hanno sparato. (Woody Marshall / Il Macon Telegraph via AP)

18 agosto 2016. Colonia, Germania. Un cosplayer durante il convegno di Gamescom, il più grande evento europeo dedicato ai videogiochi che si tiene ogni anno nel mese di agosto. (EPA / MARIUS BECKER)
18 agosto 2016. Colonia, Germania. Un cosplayer durante il convegno di Gamescom, il più grande evento europeo dedicato ai videogiochi che si tiene ogni anno nel mese di agosto. (EPA / Marius Becker)

 

Gallery a cura di Monica Di Brigida

Premier e prestigiatore. Caffè del 19 agosto 2016

La faccia del bambino Omram, “a metà coperta dal gesso delle macerie e a metà dal sangue, dice sulla guerra quello che nessuno riesce a raccontare con le parole”, scrive Dacia Maraini. Oggi quella faccia, che parla del martirio di Aleppo, è sulle prime pagine di tutti i giornali. Memento o sigillo per una rimozione? Staffa De Mistura, funzionario dell’Onu e persona per bene, ha sospeso gli aiuti alla città assediata. Cioè ha detto al mondo quello che già è nei fatti: la guerra tra i ribelli (ormai affidati ai gruppi terroristi islamici) e russo-siriani è talmente feroce che gli aiuti non arrivano in città da mesi. La Russia ha allora proposto una tregua di 48 ore. Proposto, non dichiarato. Vuole trattare, chiede che qualcuno fermi per due giorni anche i ribelli, teme di vedersi sfuggire la preda, gli islamisti semi accerchiati. Intanto l’aviazione di Assad ha bombardato un caposaldo curdo: è la prima volta, Ed è probabilmente un invito ai Russi perché imbarchino Erdogan (oltre all’Iran che fornisce milizie combattenti e da qualche giorno le basi da cui partono i bombardieri Tupolev) in una soluzione finale del conflitto. Soluzione che terrebbe fuori dai giochi le potenze occidentali, sconterebbe decine di migliaia di “ribelli” morti, per costruire condizioni vantaggiose da cui poi trattare una pace più duratura. Con i Sauditi e la mediazione di Israele?.
Del burkini, delle promesse di Renzi o del libro di Hollande? Di che parleranno nella trilaterale, che si terrà su una nave al largo di Ventotene, Angela, François e Matteo? Secondo Giannelli, ognuno guarderà da una parte diversa. Forse invece guarderanno alla medesima cosa: ai sondaggi, alla possibilità di ciascuno dei tre di confermarsi alla guida del proprio paese. Una stessa partita, dunque, ma che si gioca in tre campi contigui che sembrano non comunicanti, e cioè con gli elettori tedeschi con quelli francesi e con gli italiani. Proviamo a immaginare. In Germania si vota l’anno prossimo e la Merkel rischia poco a sinistra: la SPD non sembra in grado di presentare un candidato credibile alla cancelleria e neppure di sottrarsi a un eventuale nuovo governo di Grosse koalition. Il pericolo per lei viene dall’effetto dalla Brexit perché la Germania esporta tanto in Gran Bretagna. Il pericolo viene dall’immigrazione, perché l’apertura ai profughi siriani (e poi il patto con Erdogan per limitarne l’arrivo) le sta costando parecchio in termini di popolarità. Il pericolo viene dalla crisi, ormai evidente, della Europa a trazione tedesca. La cancelliera non è pronta per uno scenario b e dunque dovrà provare a tenere in piedi l’Unione com’è. Rigore in economia, prudenza su migranti e guerra.
Per Hollande la situazione è quasi disperata. Nel libro he ha dato alle stampe scarica parte della sua impopolarità sul suo primo ministro (Valls) che “non sa parlare ai francesi”. E annuncia che si candiderà per un secondo mandato (elezioni nel 2017) qualora ci fossero le condizioni di vincere. Che vuol dire, visto che i sondaggi lo danno terzo ed escluso nel ballottaggio per le presidenziali? Che Hollande è convinto che Sarkozy vincerà le primarie con Juppé e he si presenteranno al voto due destre spaventose, quella della Le Pen e di quella dell’ultimo Sarkozy. Questo spaventerà l’elettorato di sinistra e Hollande spera di poter convincere i Montebourg e i Melenchon a lasciargli il passo. Lo aiuterebbe ottenere un qualche successo contro terrorismo jihadista e Daesh. e forse lo aiuterebbe una vittoria di Trump l’8 novembre, per il terrore che diffonderebbe a sinistra. Alla fine penso che Hollande perderebbe lo stesso, ma passerebbe come il leader, sconfitto, di una Francia ragionevole.
E il nostro? Bonus e sgravi, Germania permettendo. Eh sì, credo che Matteo Renzi (con l’avallo di Padoan) stia preparando la finanziaria più fantasiosa della pur fantasiosa storia delle italiche promesse (non mantenute). Non solo i contratti per gli statali (8 miliardi), né la rassicurazione che l’Iva non aumenterà (15 miliardi per evitare che scattino le cause di salvataggio), ma anche un aumento dei bonus agli imprenditori e persino la riduzione dell’Irpef, imposta che tartassa i ceti intermedi. Scrive il Corriere: “ma la simulazione del governo lasciano pochi spazi alla trattativa con Bruxelles”. Nel 2017, infatti il deficit salire al 2,9% e e il debito al 134% del PIL. Che spazi avrà l’Europa di dire sì? Pochi, ma il nostro cavaliere coraggiosa non demorde. L’idea sarebbe quella di scrivere un castello di balle, farle approvare dal parlamento, vincere il referendum costituzionale e poi nel 2017 si vedrà. A Hollande e Merkel dirà: se cado io, a ruota cadrete anche voi, dunque lasciatemi fare. Fino a dicemnbre. In Italia avremo Renzi penitente, che non personalizza più, che sfida di meno e promette lunga vita alla legislatura, e candidature alla minoranza qualunque sia la legge elettorale con la quale nel 2018 andremo a votare.

Gino Strada: «Non esiste la guerra giusta»

«Essere definito un “utopista” per me è una benemerenza, non certo un’accusa. Ma in questo caso penso di essere un “realista”. Perché non c’è niente di più “realista” che battersi per abolire la guerra. E trovo davvero incredibile che l’assemblea generale delle Nazioni Unite in tutta la sua storia non abbia mai posto questo tema all’ordine del giorno». L’utopista-realista è l’uomo che ha recentemente ricevuto dal Parlamento svedese il “Right Livelihood Award” (Premio al corretto sostentamento), il Premio Nobel alternativo: Gino Strada, fondatore di Emergency. La motivazione del premio racchiude in sé il senso di un impegno che ha saputo unire nel tempo, valorizzando al massimo la “cultura del fare”, idealità e concretezza.Gino Strada è stato premiato «per la sua grande umanità e la sua capacità di offrire assistenza medica e chirurgica di eccellenza alle vittime della guerra e dell’ingiustizia, continuando a denunciare senza paura le cause della guerra». Ed è quello che il fondatore di Emergency fa anche nell’intervista esclusiva concessa a Left. Idealità, passione e concretezza. È il fecondo “impasto” che Gino Strada ha rivolto alla comunità internazionale, parlando davanti ai parlamentari svedesi in occasione della consegna del premio: «Io sono un chirurgo. Ho visto i feriti (e i morti) di vari conflitti in Asia, Africa, Medio Oriente, America Latina e Europa. Ho operato migliaia di persone, ferite da proiettili, frammenti di bombe o missili. Alcuni anni fa, a Kabul, ho esaminato le cartelle cliniche di circa 1.200 pazienti per scoprire che meno del 10 per cento erano presumibilmente militari. Il 90 per cento delle vittime erano civili, un terzo dei quali bambini. È quindi questo il “nemico”?». «Chi paga il prezzo della guerra?».
Abolire la guerra. Per averlo affermato, anche in occasione del Nobel alternativo, è stato tacciato di essere un “utopista”.
Per me è un complimento, non un insulto. “Utopia” era abolire la schiavitù duecento anni fa, eppure è stata abolita. L’accusa di “utopia” è un’assoluta sciocchezza. L’utopia è qualcosa che non si è ancora verificata ma non è detto che non debba o possa realizzarsi. È il sale della vita, dà un senso all’impegno quotidiano, crea movimento, dà una ragione forte per passare dall’“io” al “noi”. Qualsiasi conquista che ha segnato il cammino dell’umanità, in ogni campo, a partire da quello scientifico era un’illusione, un’intuizione, fino al giorno prima di diventare realtà. Oggi non siamo ancora riusciti a debellare il cancro, ma questo non ci porta a sostenere l’inutilità della ricerca, degli investimenti in questo campo. E nessuno liquida la lotta contro il cancro come una “utopia” da abbandonare. Questo, per me, vale anche per la guerra, che è il cancro dell’umanità. La guerra, come il cancro, continua ancora a esistere, e dovrebbe essere un impegno condiviso, a tutti i livelli. Ognuno, per quel che può, deve cercare la soluzione, l’“antidoto” per debellarla. La violenza non è la medicina giusta: non cura la malattia, ma uccide il paziente. «Siamo l’unica specie animale che fa la guerra»: non è un’affermazione dei giorni nostri, a dirlo fu Erasmo da Rotterdam, che già 500 anni fa smontò il concetto di guerra “giusta”. In un mondo come quello di oggi, dove i conflitti si moltiplicano in continuazione e si espandono, dove le armi disponibili potrebbero distruggere il pianeta, è ragionevole o no porsi il problema di come se ne esce? Io credo che sia la cosa più ragionevole. Abolire la guerra è una prospettiva molto più ragionevole che continuare a far finta di niente e continuare con questa pratica devastante. Il fatto che bombe e armi abbiano segnato, marchiato a sangue, il nostro passato, non vuol dire che debbano essere parte obbligata del nostro futuro. La guerra non è iscritta nel destino dell’umanità!
Stabilito che non esistono guerre “giuste” nell’orizzonte concettuale di Gino Strada, esistono guerre “necessarie”? Combattere Hitler, il nazifascismo, è stata una guerra “necessaria”…
Vorrei essere io a porre una domanda: è finito Hitler, è finito Mussolini, sono finiti tanti altri dittatori, ma non lo spirito del nazismo, del fascismo. Emergency, nel suo piccolo, è testimone sul campo di guerre che erano spacciate come “giuste” o “necessarie”, e che hanno solo finito per accrescere l’oppressione, moltiplicare il dolore di popolazioni intere, depredare quei Paesi teatro di guerre delle loro ricchezze. Perché non va mai dimenticato che è la povera gente, il popolo, la grande vittima delle guerre. E allora, torno a chiedere: tutto questo, l’oppressione, la crudeltà, è sparito con Hitler e Mussolini? No, non è sparito. La Prima guerra mondiale, la “Grande guerra”, sarebbe dovuta essere la guerra per far finire tutte le guerre, come affermò il presidente degli Stati Uniti Thomas Woodrow Wilson. Ma le cose non sono andate così. Dopo la Grande guerra, nella maggior parte dei Paesi europei si insediarono dittature feroci. Poi, si è arrivati alla Seconda guerra mondiale, che è costata almeno 50 milioni di morti e che ha lasciato un’Europa in macerie, semi-distrutta. E dopo quella guerra, che tutti continuano a ritenere non solo necessaria ma indispensabile, cosa è successo? Si è aperta un’epoca di pace, di stabilità? No. In tutto il mondo ci sono stati oltre 170 conflitti, molti dei quali sono ancora in corso; conflitti che hanno provocato più di 25 milioni di morti. A cambiare sono state solo le definizioni di guerra, quelle sì. Tra questi neologismi c’è la guerra “umanitaria”: la bestemmia più grande che abbia mai sentito. Nella guerra non c’è nulla di “umanitario” ma tanto, tutto, “contro” l’umanità. Quanto ancora dobbiamo aspettare, quanti altri conflitti e morti dovremo contare, per capire che è quella cosa lì, la guerra, il vero mostro? Questa domanda è stata posta, sessant’anni fa, da alcuni dei più grandi cervelli che l’umanità abbia mai conosciuto. Mi riferisco a Bertrand Russell e ad Albert Einstein, e al loro Manifesto firmato dai più grandi scienziati al mondo. Da Percy Bridgman, Joseph Rotblat, Frédéric Joliot- Curie, Max Born, solo per citarne alcuni. Quel Manifesto poneva una domanda molto semplice: dobbiamo porre fine alla razza umana, oppure l’umanità deve rinunciare alla guerra? Quella domanda, sessant’anni dopo, attende ancora una risposta. E una risposta credibile non può non partire dalla constatazione che la situazione è diventata più critica e pericolosa ovunque. Gli stessi cittadini europei si sentono oggi più insicuri di quanto lo fossero anni fa. L’unica soluzione è discutere a livello internazionale di questo tema. Ripeto: devono discutere di questo alle Nazioni Unite. Devono stabilire che la guerra è come la schiavitù, e dobbiamo capire seriamente come liberarcene. Senza l’abolizione della pratica delle guerre questo pianeta non ha futuro.
E i “buoni propositi” professati dai sostenitori delle guerre “giuste”, “necessarie” “umanitarie”?
Le guerre, quelle degli Stati, come dei gruppi terroristi, si combattono con le armi, tra cui le mine anti uomo, prodotte anche da imprese italiane. L’80-90 per cento delle armi in circolazione sono prodotte e vendute dai cinque Paesi membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, gli stessi (Usa, Russia, Cina, Francia e Gran Bretagna) che dovrebbero vigilare sulla pace e la sicurezza del mondo. Gli armaioli sono i pacificatori! Ciò spiega molto dei buoni propositi e del per- ché l’abolizione della guerra non ha trovato mai spazio di discussione all’Onu. Ma questo non deve far venir meno l’impegno di quanti, e siamo in tanti, credono che la guerra sia peggiore di tutti i mali che pretende di risolvere. L’alternativa è la rassegnazione, la resa, la complicità persino.
Ci sono oggi capi di Stato o di governo, soprattutto quelli che hanno maggiori responsabilità, i cosiddetti “Grandi della Terra”, all’altezza di questa sfida?
Non è questione di quale sia il livello dei leader. Mettiamoci dalla parte dei cittadini del pianeta. I capi di Stato o di governo vanno e vengono, sono le popolazioni che restano. Non possiamo pensare che a risolvere i problemi siano le stesse persone, i governi, i leader, che le guerre l’hanno volute. La prima cosa è capire, studiare, dibattere, creare movimento, su come espellere la violenza dalla storia dell’umanità. È una cosa difficile? Non lo so. Molte volte abbiamo sbagliato le previsioni, e quello che sembrava impossibile si è invece realizzato e viceversa. Certamente, se non si pone il problema non se ne uscirà mai. La guerra non significa altro che l’uccisione di civili, morte e distruzione. La tragedia delle vittime è la sola verità della guerra. Esserne consapevoli ci dà la spinta, l’energia, le motivazioni, gli argomenti per provare a realizzare questa “utopia”. Perché la guerra non si può “umanizzare”, si può solo abolire. Dobbiamo convincere milioni di persone del fatto che abolirla è una necessità urgente e un obiettivo realizzabile. Se saremo in tanti a pensarlo questa “utopia” può essere realizzata.
Oggi c’è lo Stato islamico, è “giusta” e “necessaria” la guerra contro i terroristi?
La Storia si ripete, cambiano soltanto i nomi, non la logica che sottende al richiamo alla guerra “giusta” o “necessaria”. E tutti quelli che provano a eccepire sono dei pavidi, irresponsabili, se non fiancheggiatori dei mostri. Così è stato quindici anni fa, in Afghanistan, quando il “mostro” da combattere erano i talebani. Più di trenta Paesi hanno combattuto questa guerra “giusta” e “necessaria”, che ha ridotto a «danni collaterali» le migliaia di civili uccisi o feriti nel conflitto. Ora, però, che i talebani si stanno scontrando con le milizie dello Stato islamico, cosa diciamo? Quale storia raccontiamo alla popolazione afgana vittima di quindici anni di guerra “giusta” e “necessaria”? Scusateci, abbiamo sbagliato, i mostri di ieri sono gli alleati di oggi… La verità è che per essere perpetrata, la guerra ha bisogno di nuovi “mostri” da abbattere. Oggi è il turno dello Stato islamico, domani cambieranno nome e obiettivo. L’importante è proseguire su questa strada, con ogni mezzo e ad ogni prezzo. Tanto a pagarlo sono i più deboli e indifesi. Carne da cannone. Perché una cosa è incontestabile, l’ho verificata di persona, con Emergency, in tutti i teatri di guerra in cui siamo e continueremo a essere impegnati: alla fine a pagare il prezzo della guerra sono i civili. Le guerre sono sempre state dichiarate dai ricchi, dai potenti, e in molti hanno accresciuto il loro potere, ingrossato i loro conti in banca, grazie alle guerre. Sono le popolazioni civili a subirne le conseguenze. A combattere e a morire sono sempre i figli dei poveri. Quanti figli di primi ministri, di capi di Stato, di Ad delle grandi industrie degli armamenti sono andati e morti in guerra? La guerra è anche questo: la cosa più classista che l’uomo abbia prodotto. Anche per questo va debellata.

(Da Left n.48, 12 dicembre 2015)

Cosa ho visto in Siria. Numeri e testimonianze sulla guerra civile siriana

Ad aprile Declan Walsh, il corrispondente del New York Times dal Cairo, ha realizzato un reportage dalla Siria per mostrare quale fosse la situazione nel Paese dopo 5 anni di guerra civile. Il risultato è questo webdoc pubblicato sul sito del New York Times che vi riproponiamo qui.

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Da aprile 2016 la situazione è andata peggiorando. Molte città come Aleppo, dove la lotta fra le forze governative e i ribelli per il controllo del territorio si fa più dura, sono costantemente sottoposte ai bombardamenti aerei. Proprio Aleppo nel nord della Siria, è contesa fra l’esercito di Bashar al-Assad e le milizie ribelli e dal luglio 2016 è in stato d’assedio. A farne le spese moltissimi civili bloccati (soprattutto nelle aree sotto il controllo dei ribelli) senza possibilità di fuga e costantemente sottoposti ai bombardamenti delle forze aeree russe che recentemente hanno offerto un cessate il fuoco giornaliero di 3 ore, insufficiente per salvare le vittime degli attacchi aerei e per predisporre corridori umanitari che permettano ai civili di fuggire. Si parla di circa 250mila persone letteralmente intrappolate spesso senza la possibilità di ottenere aiuti umanitari sufficienti.

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Il numero di vittime

Secondo l’Osservatorio Siriano per i Diritti Umani (SOHR), un’organizzazione non governativa con sede a Londra, i morti nel conflitto siriano sarebbero stati 260.758 tra marzo 2011 e dicembre 2015, di questi circa un terzo è civile. Secondo dati forniti dalle Nazioni Unite dei quasi 200mila morti durante il conflitto fra marzo 2011 e fine aprile 2014, il 9.3% sono donne (contro l’83.8% di uomini) e almeno 8.803 sono minori di 18 anni.

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Rifugiati in fuga

Secondo i dati dell’UNHCR aggiornati all’agosto 2015, i rifugiati siriani espatriati sarebbero 4.088.078 (quasi quanto la popolazione dell’intera Irlanda), molti dei quali all’interno di Libano e Turchia. A questi si aggiungono inoltre circa 7,8 milioni di siriani sfollati all’interno del paese.

La testimonianza di Clarissa Ward, report di guerra al consiglio di sicurezza Onu

«Sono stata una corrispondente di guerra per 10 anni. Sono stata in Iraq, in Afghanistan, a Gaza. In qualsiasi terribile conflitto voi possiate ricordare. Non ho mai visto qualcosa come quello che sta accadendo ad Aleppo. In Aleppo non ci sono vincitori. […] La parola per descrivere tutto questo è “apocalittico” e ricordo quel senso di estenuazione, l’essere esausti per essere costretti a restare pietrificati dalla paura tutto il tempo»

Clarissa Ward

Vietate la coppola in spiaggia, così sconfiggiamo la mafia

L’eccellenza europea si è riunita in Gran Consiglio. Ovvio che d’agosto il Gran Consiglio si svolga principalmente sulle pagine dei maggiori quotidiani: troppa fatica viaggiare fino ai luoghi deputati quando basta un po’ di bullismo telefonico per meritarsi un quarto di pagina di qualche giornale a corto di notizie.

Ecco quindi che la Suprema Commissione per la Soluzione dei Problemi Inesistenti ha convocato una seduta straordinaria (che detta così fa quasi spavento ma in fondo si tratta di un paio di chiacchierate al massimo) per stabilire che sia giunta finalmente l’ora di sradicare i mali del mondo. I mali e tutte le loro rappresentazioni. O almeno le rappresentazioni.

Ecco quindi le decisioni principali:

  • saranno vietate le coppole in spiaggia. Nessun uomo può davvero apprezzare l’antiestetico berretto che si spiaccica sulla fronte come una pizza molliccia caduta dall’alto. Nessuno nemmeno può accettare il rischio di occlusione della vista da parte della coppola nel caso di improvvise trombe d’aria sulla spiaggia senza considerare che qualche coraggioso giornalista d’inchiesta che ha voluto sperimentare il pericoloso copricapo racconta di enormi difficoltà nelle movenze. Cominciamo dalle coppole per sconfiggere la mafia, ha dichiarato il superministro dell’ecologia indumentale. Tutti felici.
  • saranno vietati tutti i film senza nemmeno una scena di sesso esplicito. Gli intellettuali hanno stabilito che non rispetta la realtà occidentale un protagonista di film (o di romanzo) che non incorra almeno in un amplesso occasionale nel corso di una storia. È innaturale che uno sceneggiatore o drammaturgo rinunci all’eco di una bella trombata in piano sequenza. Basta con l’inutile pudicizia. Liberalizzare obbligatoriamente il sesso sarà il primo passo per sconfiggere l’invecchiamento della popolazione occidentale, ha dichiarato il superministro della proliferazione.
  • saranno vietate in spiaggia le pistole ad acqua. Il gran consiglio degli educatori ha deciso che è innaturale e grave che un bimbo si diverta schizzando acqua quando potrebbe tranquillamente dedicarsi alla pallacorda o all’unduetrestella. Vietare le pistole ad acqua è il primo passo per fermare i bombardamenti nel mondo hanno dichiarato i Paesi uniti per la pace del poter bombardare in pace.
  • sarà vietato, in spiaggia, cedere il posto sotto il proprio ombrellone. Hanno scientificamente provato che il più piccolo gesto di disponibilità in spiaggia rimbalza sulle coste libiche dando il via libera alle ondate di profughi in cerca di ristoro. Vietare la gentilezza in spiaggia è il primo passo per fermare l’immigrazione, ha dichiarato il superministro dei luoghi comuni.
  • i costumi: i costumi non potranno permettersi di avere strisce che cingano i fianchi per uno spessore maggiore ai quattro centimetri per le donne. Nessuna donna, ha deciso il gran consiglio degli uomini, può permettersi di permettersi di nascondere i fianchi. Stabilire delle misure standard di pelle scoperta è il primo passo per combattere la crisi di vendite e di share che a agosto attanaglia un po’ tutti.
  • in ultimo da domani sarà vietato alle donne in spiaggia di ricusare le avances dei bagnini. È ora che qui da noi si possa essere libere davvero: e davvero c’è qualcuno che crede che una donna vada in spiaggia senza la pretesa di essere preda dei maschi presenti? Non scherziamo. Su.

Buon venerdì.