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C’erano l’italiano, il francese e la tedesca…

epa05394908 German Chancellor Angela Merkel (C) alongside French President Francois Hollande (R) and Italian Prime Minister Matteo Renzi (L) after a press conference, after meetings in the wake of Britain's referendum vote to leave the EU, in Berlin, Germany, 27 June 2016. EPA/WOLFGANG KUMM

Il richiamo retorico dell’incontro organizzato da Matteo Renzi con la cancelliera tedesca Angela Merkel e il presidente francese François Hollande a Ventotene («si torna a Ventotene per ripartire con l’Europa dei valori, della cultura», ha detto il premier italiano il mese scorso, aggiungendo che «il compito dell’Europa è quello di rendere più bello il mondo») forse suonerebbe stantio persino ad Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi. Nell’isola in cui erano confinati dal fascismo, i due intellettuali liberalsocialisti sognarono un’Europa molto diversa da quella attuale: mentre era in corso la guerra più sanguinosa tra le potenze del Vecchio Continente, con Italia e Germania guidate da dittatori imperialisti e sanguinari, Rossi e Spinelli individuarono nello Stato nazionale l’origine delle disgrazie dell’Europa. Solo uno Stato sovranazionale, sul modello degli Stati Uniti d’America, avrebbe potuto eliminare il rischio di nuovi conflitti, stabilendo una kantiana pace perpetua nel Continente, il progresso sociale e persino, scrivevano, il socialismo liberale e non marxista di cui erano seguaci.
Settant’anni di pace l’abbiamo conosciuti, una conquista straordinaria considerata la storia europea, sopravvissuta persino alla fine dell’equilibrio armato Usa-Urss, ma sul piano del progresso sociale l’Europa ha significato, soprattutto negli ultimi 8 anni, più passi indietro che in avanti. E di socialismo, ovviamente, nemmeno l’ombra.
Probabilmente non poteva che andare così, se guardiamo alle tappe del processo di integrazione, tutte dominate dall’economia: la Comunità del carbone e dell’Acciaio, quella dell’energia atomica, poi il mercato unico, la Cee, e infine l’euro. Persino la famigerata “Costituzione europea”, bocciata da diversi referendum e poi trasformatasi nel trattato di Lisbona, era in realtà un trattato volto principalmente a togliere agli Stati il potere di legiferare in materia economica. In questo lungo cammino di unione politica si è visto molto poco, o per meglio dire si è vista pochissima democrazia. Il Parlamento europeo, unica istituzione “federale” elettiva, è rimasto privo di veri poteri. Gli Stati hanno ceduto così sovranità a un ente sui generis, un po’ federazione, un po’ confederazione, un po’ semplice somma di accordi intergovernativi. Una cessione di potere che però non si è accompagnata a una cessione di responsabilità, cioè a un bilancio federale. Il risultato è che l’Unione è divenuta un ente sovrannazionale, dominato dal Paese più influente, che detta regole e prende decisioni che poi devono essere applicate dai singoli Stati. I governi hanno potuto così in larga parte liberarsi del peso dei propri stessi parlamenti, mettendoli di fronte a fatti compiuti e decisioni di fatto irrevocabili. “Ce lo chiede l’Europa” è diventata così la scusa più utilizzata dai governanti di qualsiasi colore per ridurre i diritti dei lavoratori e tagliare lo stato sociale, applicando il programma neoliberista dell’Unione su cui in verità nessuno ha mai votato. Non stupisce che i cittadini abbiano perso fiducia e ogni volta che qualche Paese ha deciso di sottoporre una decisione europea ai propri cittadini se l’è vista bocciare. La tappa più importante e deleteria di questo processo è stata, senza alcun dubbio, la moneta unica. Attraverso la cessione della sovranità monetaria gli Stati si sono legati da soli. E così, paradossalmente, quell’unione monetaria nata dall’esigenza francese di togliere alla Germania l’egemonia sulla politica monetaria europea attraverso il marco, è diventata uno degli strumenti in mano alla stessa Germania (con la complicità un po’ di tutti, va detto) per tenere al guinzaglio i riottosi, come accaduto nella vicenda greca. Che non venga in mente a nessuno di ribellarsi, altrimenti basta togliere liquidità alle banche per piegare anche il governo meno incline all’ubbidienza al credo delle “riforme strutturali”.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 20 agosto

 

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Fuori dagli schemi per un’Europa dei popoli

Le letture sui “ribelli di oggi” che vi abbiamo proposto a Ferragosto raccontano della necessità di uscire dagli schemi per provare a uscire dall’impasse. Se guardiamo – come facciamo in questo numero – alla nostra Europa, questa necessità diventa urgenza. Intanto perché, lo rivela un rapporto redatto da un organismo di valutazione indipendente del Fondo monetario internazionale, gli schemi su cui si basano le politiche monetarie europee sono truccati, al punto che nel chiuso delle loro stanze Fmi, Bce e Commissione hanno deciso di sacrificare i destini di un Paese – la Grecia – e dei suoi cittadini, pur di salvare le “loro” banche e la moneta unica. Quest’ultima, ha ribadito di recente il Nobel per l’Economia Joseph Stiglitz, porta con sé «un errore di fondo»: l’euro è nato senza che si pensassero, al contempo, istituzioni in grado di farlo funzionare.

Ma Stiglitz ci racconta una ragione ancor più importante della crisi: «La struttura della zona euro, le sue regole e regolamenti, non sono stati progettati per promuovere la crescita, l’occupazione e la stabilità». E così se certi interventi hanno consentito agli Stati Uniti, ad esempio, di riportare l’occupazione nei ranghi fisiologici, in Europa questo non è accaduto e non potrà accadere perché le istituzioni che dovrebbero farlo non ne hanno la potestà. Nell’Eurozona – e in particolare in Germania – la “fede incrollabile nei mercati” consente solo di procedere per piccoli aggiustamenti lungo la strada dell’austerity. Per giunta continuando a dare la colpa alle vittime, ai Paesi forse già deboli ma di certo colpiti a morte dalle loro politiche. Una rivittimizzazione che ricorda le condotte di certi regimi sudamericani.

Per questo vi accompagniamo noi a Ventotene, prima che le trombe della propaganda giunte al seguito di Renzi, Merkel e Hollande spaccino per “nuova” la loro idea di Europa dopo averle dato una mano di vernice. Se si vogliono scongiurare le mille possibili “exit” in agguato dopo quella britannica, servono schemi nuovi, priorità diverse. A una politica assente e rappresentativa di interessi particolari dobbiamo opporre – e ce ne sono i presupposti – una politica inclusiva, accogliente, in grado di valorizzare le differenze riducendo le disuguaglianze, di innovare pensiero e azione tenendo sempre al centro le persone. Perché, ad esempio, non “osare” decidendo di abbandonare le fonti fossili e puntare tutto su efficienza, sharing economy e sull’energia pulita, diffusa e distribuita grazie a reti intelligenti altamente tecnologiche? Questa è innovazione, è pensiero diverso, come lo sarebbe la sperimentazione di una diversa regolamentazione dell’orario di lavoro: se l’automazione espelle la manodopera, perché non cogliere l’opportunità e promuovere la qualità della vita riducendo il numero di ore lavorate?

Diverso deve essere anche il pensiero per garantire l’accoglienza dei migranti in arrivo sulle nostre coste. Partono perché le loro terre sono depredate o martoriate da guerre anche nostre (è dall’Europa che si esportano le armi destinate ai Paesi orientali e alla Siria, per un business di un miliardo di euro in quattro anni). E quando arrivano possono rappresentare un’opportunità sotto molti aspetti: in Germania, per fermarci ai possibili vantaggi economici, la Bartelsmann foundation ha censito 1,3 milioni di posti di lavoro nati nel solo 2014 grazie a persone di origini straniere. Lavoro procurato, altro che rubato.

Ecco perché, se si incide sulla forbice tra ricchissimi e poverissimi, questa e altre ipotesi di innovazione sono ancora percorribili. Certo, se questi traguardi non sono ancora stati raggiunti è sintomo che l’Europa ha perso la sua spinta propulsiva. Eppure l’Europa, intesa non come Unione europea ma come Stati Uniti in divenire, rappresentava l’avanguardia possibile, il traino per la conquista di nuovi diritti, il termine di paragone che sull’ambiente, sull’integrazione, sul welfare e su tanto altro ci costringeva ad essere migliori. Oggi il quadro è cambiato radicalmente. E la speranza resta aggrappata a una ritrovata centralità della politica. Se continuiamo a delegare a tecnici e commissari, o a metterci nelle mani di mercati e mercanti, si trasformerà in un incubo il sogno di Ventotene. «In quel luogo nacqui una seconda volta» ebbe a dire Spinelli prima di dar vita, nel confronto con altri, al Manifesto clandestino. Ecco, se come individui e come comunità politica fondiamo, insieme, la nostra rinascita su “nuovi mezzi e nuovi fini”, rinascerà l’Europa dei popoli.

Questo editoriale lo trovi su Left in edicola dal 20 agosto

 

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Aylan e Omran. I due volti bambini dell’orrore in Siria

Non una parola. Non un suono. La scena è impressionante, a fare da sfondo rumori di spari, bombe, guerra. Un uomo tiene in braccio un bambino che ha appena estratto dalle macerie dopo un bombardamento. Siamo ad Aleppo in Siria e qui, scene del genere sono all’ordine del giorno. Il bambino rimane aggrappato al suo soccorritore come se fosse una cosa, senza emettere un gemito, un pianto o un lamento. Completamente in stato di shock viene posato su un sedile arancione all’interno di un’ambulanza, qualcuno gli scatta una foto lui nulla. Fermo, immobile. Poi un gesto, avvicina la mano al viso ferito e si tocca l’occhio, ritira la mano, la guarda: sangue. Il suo volto si riempie di terrore e disgusto. Guarda quella mano come se fosse una cosa estranea, non sua, la allontana dal viso e cerca di pulirsi dall’orrore sfregando il palmo contro il sedile arancione. Poi, di nuovo immobile. In silenzio.
Lui, il bambino dell’ambulanza si chiama Omran Daqneesh, ha 5 anni ed è sopravvissuto a due attacchi aerei russi su Aleppo mercoledì.

Attenzione: il video contiene immagini forti che potrebbero urtare la vostra sensibilità.

Sono questi i 37 secondi del video diffuso dall’Aleppo Media Center il 17 agosto a seguito di uno degli attacchi aerei che quotidianamente sconvolgono la città.
Secondo il reporter Mahmoud Raslan, presente al momento del salvataggio di Omran, e autore di uno scatto diventato velocemente virale sul web, il bambino è stato trasferito in un ospedale denominato “M10”, il bombardamento del quale è stato vittima ha colpito il quartiere di Qaterji (nelle mani dei ribelli siriani) dove Omran abitava in un appartamento con la sua famiglia, composta oltre che dal padre e dalla madre anche da una sorella di 11 anni e altri due fratellini di 6 e un anno. Nonstante la ferita alla testa le condizioni di Omran, come quelle dei suoi parenti, sono stabili e non sono stati rilevati danni al cervello.
L’orrore generato dal vedere Omran ferito e in stato di shock su quella sedia arancione ricorda quello provato da un altro scatto che ha impressionato il mondo e portato all’attenzione mediatica l’emergenza rifugiati: quello di Aylan Kurdi, il piccolo siriano morto sulle coste della Turchia mentre tentava di arrivare in Europa assieme alla famiglia proprio per fuggire da quella stessa guerra che ha colpito Omran.
Due volti del conflitto siriano, quelli di Alain e Omran, che non possono lasciare indifferenti e che chiedono soluzioni. A partire da un cessate il fuoco e dalla predisposizioni di corridoi umanitari che permettano ai civili rimasti intrappolati ad Aleppo di fuggire.

Ribelli senza odio. I nuovi resistenti di Todorov

Todorov

La ricerca della verità, rifiuto dell’ipocrisia e della delazione. Lotta non violenta, senza lasciarsi avvelenare dall’odio e senza sottomettersi all’oppressore. Capacità di reagire, per non farsi distruggere, anche interiormente. Cercando di tenere viva la mente in condizioni estreme, non rinunciando al sentire, per quando è doloroso. Sono queste qualità, profondamente umane, a unire gli otto personaggi, diversissimi fra loro, che Tzvetan Todorov racconta nel suo nuovo libro, Resistenti, pubblicato in Italia da Garzanti. Donne e uomini, “indomiti e ribelli” che hanno lottato per la giustizia, i diritti, la libertà di espressione. Tra le pagine di questo nuovo, appassionato, lavoro dello studioso francese di origini bulgare ritroviamo Nelson Mandela e Malcom X, ma anche scrittori che hanno attuato una rivolta silenziosa come Boris Pasternak e che sono finiti in un gulag come Aleksandr Solženicyn o in un campo di sterminio come l’ebrea olandese Etty Hillesum. O ancora partigiane che hanno combattuto il nazismo come Germaine Tillion, torturata in carcere affinché rivelasse i nomi dei compagni e reclusa in condizioni di deprivazione sensoriale, perché la sua testa cessasse di funzionare. Come avrebbe voluto (lo disse esplicitamente) il giudice che condannò Antonio Gramsci.

A rendere originale il racconto di Resistenti è anche il punto di vista di chi scrive: storico, filosofico e molto personale rievocando memorie d’infanzia nella Bulgaria comunista, dove Todorov ha vissuto fino al diploma, finché decise di andare a studiare Filosofia del linguaggio a Parigi. A spingerlo a trasferirsi in Francia fu un doppio choc: «Dal 1944 la Bulgaria era entrata nell’orbita dell’Unione sovietica: il Paese era stato progressivamente sottomesso a un regime totalitario dominato dal Partito comunista. Il 1956 ha rappresentato per me un punto di svolta. Mi ero iscritto a Filologia all’università di Sofia. Era il momento in cui sarei dovuto entrare nella vita adulta con una certa autonomia di giudizio», scrive Todorov. Due avvenimenti cambiarono il corso della sua vita. Il primo fu il congresso del Pcus in cui il segretario Nikita Kruscev denunciò i crimini di Stalin e dello stalinismo. «Stalin era stato adorato come un semidio, prima e dopo la morte, nel 1953, e improvvisamente venivamo a sapere, dalla fonte più autorevole, che era uno dei peggiori criminali dell’epoca». Anche se il rapporto segreto di Kruscev rivelava solo una parte della verità, per lo studente fresco di diploma e gran parte dei suoi connazionali, crollava un mondo. «Senza dubbio era l’inizio di una nuova epoca, mi dicevo». Ma presto ebbe un nuovo choc, una bruciante delusione. Lo stesso Kruscev che aveva denunciato i crimini di Stalin ordinò l’invio di carri armati in Ungheria, soffocando nel sangue ogni tentativo di riforma e di autonomia del Paese. Il regime comunista, che professava ideali di uguaglianza e libertà, che parlavano di “uomo nuovo”, continuava a violare i diritti umani.

Professor Todorov cosa c’era di sbagliato nell’idea comunista di uguaglianza e perché il regime, come lei ha detto, fu «una scuola del nichilismo»?
Questa domanda meriterebbe una risposta lunga e articolata. Dovendo esprimermi in estrema sintesi, in generale direi che gli ideali proclamati dal comunismo sono stati snaturati e svuotati di senso dai mezzi violenti e coercitivi utilizzati per promuoverli. Ma c’era di più. I regimi comunisti del XX secolo, costruiti sul modello stabilito da Lenin in Russia, non avevano davvero come base l’universalità e l’uguaglianza tra tutte le persone perché, per loro, una parte della popolazione doveva essere eliminata: la borghesia o i ricchi in Russia, gli intellettuali e gli abitanti delle città in Cambogia, solo per fare due esempi. Quei regimi si basavano sull’idea manichea che esistano due specie di esseri umani. Le loro pratiche non perseguivano l’obiettivo di una società più egualitaria e più giusta per tutti. Al contrario stabilivano molteplici distinzioni giuridiche che favorivano alcuni e discriminavano altri. Eppure programmi e parole d’ordine erano rimasti impregnati di espressioni che rimandavano a ideali di uguaglianza e libertà. Quale conclusione può trarre un cittadino dal fatto che vengono usate parole senza corrispondenza nella realtà? Il risultato fu una sfiducia diffusa verso i discorsi che enunciavano valori astratti. Non potevamo crederci. Così questi sistemi hanno cresciuto generazioni che diffidano dei valori civili, convinti che l’interesse sia l’unico movente delle nostre azioni.
Paesi dell’Est come l’Ungheria e la Polonia oggi attuano politiche fra le più feroci contro i migranti. Un caso?
Mi sembra che politiche di respingimento e chiusura verso i migranti, che possono essere osservate anche in altri Paesi dell’Europa orientale, abbiano origine nel medesimo fenomeno. L’esperienza del passato totalitario non favorisce generosità e fiducia. Non arriva a produrre nemmeno una retorica riguardo all’assistenza necessaria verso chi fugge da guerre e povertà. L’egoismo, individuale o collettivo, prevale.
Quale futuro possiamo immaginare per l’Europa, perché non sia una fortezza o una mera sommatoria di mercati?
Dobbiamo immaginare e puntare a costruire un’Unione europea in cui la riflessione politica, nel senso più ampio del termine, giochi un ruolo molto più importante di quello che ha oggi. Quando la Cancelliera tedesca Angela Merkel dichiara di voler accogliere un milione di profughi, – come appare chiaro – non lo fa per generosità, ma avendo chiara una prospettiva: nel medio e lungo termine avvantaggerà la Germania, la renderà più dinamica, forte, ricca. Ma per prendere una tale decisione, il cui risultato si vedrà fra trent’anni, si deve saper guardare oltre le considerazioni economiche a breve scadenza. Il problema oggi è che l’Unione europea non ha una guida politica, i singoli governi da soli non possono incidere su queste questioni. Anche per una ragione evidente: i leader europei non hanno legittimità democratica. D’altro canto, per quanto ci si possa giustamente lamentare della lentezza dei processi istituzionali europei, si tratta di un passaggio irrinunciabile. Non auspichiamo certo “soluzioni” rapide alla Napoleone o peggio ancora alla Hitler.
Pasternak, Tillion, Mandela, tutti i protagonisti del suo libro hanno rifiutato la violenza. Prima di tutto è stato un “no” interiore, a cui sono seguite azioni coerenti. Cosa possiamo imparare dalle loro storie oggi?
Questi personaggi “ribelli”, come li chiamo io, ci dicono che siamo in grado di combattere un nemico senza odio; e che questo approccio non violento può essere più efficace della forza e dei metodi sanguinosi. Il primo passo è non annullare l’umanità dell’altro, vedere che anche il mio nemico è una persona. Invece di gettare in mare i bianchi afrikaners come suggerivano i leader più estremisti della popolazione nera sudafricana di Mandela, lui disse che andavano considerati come cittadini a pieno titolo, lottò perché non ci fossero più discriminazioni abolendo ogni forma di apartheid razziale. Questa lezione, a mio avviso, dovrebbe ispirare oggi le nostre politiche.
Oltre al pacifista israeliano David Shulman e al pirata informatico Edward Snowden, a cui dedica l’ultimo capitolo, chi sono i resistenti oggi?
Non voglio fare elenchi e distribuire onori. Esistono, ce ne sono intorno a noi, si tratta di persone anonime, non necessariamente famose.

Questa intervista è comparsa su Left.

Negli States ci sono 54 prigionieri politici. Le loro storie e denunce nel dossier di Breno Altman su Left

Indigeni, neri, latini, musulmani, hacker, ambientalisti e militanti di sinistra. Nelle prigioni statunitensi ci sono 54 prigioneri politici. Lo rivela l’inchiesta di Breno Altman, giornalista brasiliano e direttore del quotidiano Opera Mundi. Documenti, storie e vite dei “Prigionieri politici negli Stati Uniti d’America” (questo il nome dello speciale) sono stati raccolti da Altman che per tre settimane ha visitato 17 città degli Stati Uniti d’America e ha intervistato più di 40 persone, tra avvocati e leader di organizzazioni umanitarie. Il giornalista ha anche avuto modo di visitare il sistema carcerario nordamericano e conversare con i condannati per reati politici. Il dossier, diviso in quattro blocchi, sarà pubblicato sul sito brasiliano durante il mese di agosto. E in lingua italiana da Left, in collaborazione con Opera Mundi.

«Il dossier racconta storie di persone che sono state arrestate per motivi politici nel Paese che si autoproclama campione di libertà e terra dei diritti civili», dice Altman. Oltre alle storie, lo speciale cerca anche di esporre l’apparato di repressione costruito dagli Stati Uniti per reprimere i dissidenti, mostrando tanto il ruolo dell’Fbi nella persecuzione nei confronti di leader del movimento dei neri negli anni 60, quanto la repressione selettiva contro i musulmani sulla scia della politica antiterrorismo successiva all’11 settembre. Il diplomatico Andrew Jackson Young – figura di primo piano quando Jimmy Carter governava gli Stati Uniti, tra il 1977 e il 1980 – quando, nel luglio 1978, ha rilasciato un’intervista al quotidiano francese Le Matin, degli attivisti imprigionati negli anni 60 e 70 ha detto: «Abbiamo centinaia di persone nelle nostre carceri, che potrebbero essere classificati come prigionieri politici».

Qui di seguito pubblichiamo, come primo step, la lista dei prigionieri politici, ottenuta grazie ai sondaggi realizzati dalle organizzazioni nordamericane di diritti umani – come il Movimento Jericó e l’Alleanza per la Giustizia Globale. Questa lista non include i detenuti di Guantanamo e gli stranieri giudicati negli Stati Uniti per reati commessi all’estero. Ecco chi sono:

INDIGENI:

1. Byron Shane Chubbuck (Oso Blanco)
Penitenziario Federale di Lewisburg, Pensilvania
Data di nascita: 26 febbraio, 1967
Anno di arresto: 1999
Condanna: 80 anos
Filiazione: Esercito Zapatista de Liberazione Nazionale, Messico
Sito: www.osoblanco.org

2. Leonardo Peltier
Penitenziario Federale di Coleman, Florida
Data di nascita: 12 de setembro, 1944
Anno di arresto: 1976
Condanna: due ergastoli
Filiazione: Movimento Indigeno Americano
Site: www.freeleonard.org

3. Luis V. Rodriguez
Prigione di Stato di Corcorán, California
Anno di arresto: 1981
Condanna: pena di morte, commutata in ergastolo
Filiazione: indipendente
Sito: www.luisvrodriguez.com

NERI

4. Jamil Abdullah Al-Amin (Hubert Gerold Brown)
Penitenziario Federale di Canaan, Pensilvania
Data di nascita: 4 ottobre, 1943
Anno di arresto: 2002
Condanna: ergastolo
Filiazione: Comitato di Coordinamento studentesco per la Non-Violenza

5. Sundiata Acoli (Clark Edward Squire)
Carcere di massima sicurezza di Cumberland, Maryland
Data di nascita: 14 gennaio 1937
Anno di arresto: 1973
Condanna: ergastolo
Filiazione: Pantere Nere, Black Liberation Army
Sito: www.sundiataacoli.org

6. Mumia Abu-Jamal (Wesley Cook)
Carcere di massima sicurezza statale di Mahanoy, Pensilvania
Data di nascita: 24 aprile 1954
Anno di arresto: 1981
Condanna: pena di morte, commutata in ergastolo
Filiazione: Pantere Nere, Move
Sito: www.freemumia.com

7. Zolo Agona Azania (Rufus Lee Averhart)
Prigione di Stato dell’Indiana, Michigan City, Indiana
Data di nascita: 12 dicembre 1954
Anno di arresto: 1981
Condanna: pena di morte, commutata in ergastolo
Filiazione: Repubblica della Nuova Africa

8. Herman Bell
Carcere di massima sicurezza statale di Great Meadow, New York
Data di nascita: 14 gennaio 1948
Anno di arresto: 1973
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo 25 anni
Filiazione: Pantere Nere, Black Liberation Army
Sito: www.freehermanbell.org

9. Kojo Bomani Sababu (Grailing Brown)
Penitenziario Federale di de Canaan, Pensilvania
Data di nascita: 27 maggio 1953
Anno di arresto: 1975
Condanna: 55 anni
Filiazione: Black Liberation Army

10. Jalil Muntaquim (Anthony Bottom)
Carcere di massima sicurezza statale di Attica, New York
Data di nascita: 18 ottobre 1951
Anno di arresto: 1971
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo 25 anni
Filiazione: Pantere Nere, Black Liberation Army
Sito: www.freejalil.com

11. Joseph Bowen
Carcere di massima sicurezza statale di Coal Township, Pensilvania
Data di nascita: 15 gennaio 1948
Anno di arresto: 1973
Condanna: due ergastoli
Filiazione: Black Liberation Army

12. Veronza Bowers
Penitenziario Federale di Atlanta, Georgia
Data di nascita: 4 febbraio 1946
Anno di arresto: 1974
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Pantere Nere
Sito: www.veronza.org

13. Fred “Muhammed” Burton
Carcere di massima sicurezza statale di Somerset, Pensilvania
Data di nascita: 15 dicembre 1946
Anno di arresto: 1972
Condanna: ergastolo
Filiazione: Conselho de Unidade Negra, Filadelfia

14. Romaine “Chip” Fitzgerald
Prigione di Stato di Kern Valley, California
Data di nascita: 11 aprile 1949
Anno di arresto: 1969
Condanna: due ergastoli
Filiazione: Pantere Nere
Sito: www.freechip.org

15. Kamau Sadiki (Freddie Hilton)
Prigione Medica di Stato di Augusta, Georgia
Data di nascita: 19 febbraio 1953
Anno di arresto: 2003
Condanna: ergastolo
Filiazione: Pantere Nere, Black Liberation Army
Sito: www.freekamau.com

16. Mohamman Geuka Koti (James Johnson)
Centro Medico Federale Butner, Carolina del Nord
Data di nascita: 11 ottobre 1926
Anno di arresto: 1978
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo i 25 anni
Filiazione: Black Liberation Army

17. Richard Mafundi Lake
Carcere di massima sicurezza statale di Donaldson, Alabama
Data di nascita: 1 marzo 1940
Anno di arresto: 1983
Condanna: ergastolo
Filiazione: Comitato per la sopravvivenza dei poveri africani, Organizzazione nazionale dei prigionieri africani

18. Robert Seth Hayes
Carcere di massima sicurezza statale di Sullivan, New York
Data di nascita: 15 ottobre 1948
Anno di arresto: 1973
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo i 25 anni
Filiazione: Pantere Nere

19. Maliki Shakur Latine
Carcere di massima sicurezza statale Shawagunk, New York
Data di nascita: 23 agosto 1953
Anno di arresto: 1979
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo i 25 anni
Filiazione: Pantere Nere, Black Liberation Army
Sito: www.justiceformaliki.org

20. Ruchell Magee
Prigione di Stato di Los Angeles, California
Data di nascita: 17 marzo 1939
Anno di arresto: 1963
Condanna: ergastolo
Filiazione: Pantere Nere

21. Mutulu Shakur
Complesso di massima sicurezza federale di Adelanto, California
Data di nascita: 8 agosto 1950
Anno di arresto: 1986
Condanna: 60 anni
Filiazione: Movimento di azione rivoluzionaria, Black Liberation Army, Repubblica della Nuova Africa
Sito: www.mutulushakur.com

22. Edward Poindexter
Penitenziario di Stato di Lincoln, Nebraska
Data di nascita: 1 novembre 1944
Anno di arresto: 1970
Condanna: ergastolo
Filiazione: Pantere Nere

23. Joy Powell
Carcere di massima sicurezza di Bedford Hills, New York
Anno di arresto: 2007
Condanna: 16 anni
Filiazione: Uguaglianza e Giustizia per tutti
Sito: www.freejoypowell.org

24. Russell Maroon Shoatz
Carcere di massima sicurezza statale di Graterford, Pensilvania
Data di nascita: 23 agosto 1943
Anno di arresto: 1970
Condanna: ergastolo
Filiazione: Conselho da Unidade Negra, Panteras Negras, Exército Negro de Libertação
Sito: www.russellmaroonshoats.wordpress.com

25. Charles Sims
Carcere di massima sicurezza statale di Dallas, Pensilvania
Data di nascita: 7 aprile 1956
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Move
Sito: www.onamove.com

26. Debbie Sims
Carcere di massima sicurezza di Cambridge Springs, Pensilvania
Data di nascita: 4 agosto 1956
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Move
Sito: www.oneamove.com

27. Delbert Orr
Carcere di massima sicurezza di Dallas, Pensilvania
Data di nascita: 21 giugno 1951
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Pantere Nere, Move
Sito: www.onamove.com

28. Edward Goodman
Carcere di massima sicurezza di Mahoney, Pensilvania
Data di nascita: 1947
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Pantere Nere, Move
Sito: www.onamove.com

29. Janet Holloway
Carcere di massima sicurezza di Cambridge Springs, Pensilvânia
Data di nascita: 13 aprile 1951
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: MOVE
Sito: www.oneamove.com

30. Janine Phillips
Carcere di massima sicurezza di Cambridge Springs, Pensilvania
Data di nascita: 25 aprile 1956
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Move
Sito: www.oneamove.com

31. Michael Davis
Carcere di massima sicurezza di Graterford, Pensilvania
Data di nascita: 6 ottobre 1955
Anno di arresto: 1978
Condanna: 100 anni, con diritto alla condizionale dopo 30 anni
Filiazione: Move
Sito: www.oneamove.com

LATINI

32. Álvaro Luna Hernández
Unità James V. Allred, Texas
Data di nascita: 12 maggio 1952
Anno di arresto: 1996
Condanna: 50 anni
Filiazione: La Raza
Sito: www.freealvaro.net

33. Oscar López Rivera
Carcere di massima sicurezza federale di Terre Haute, Indiana
Data di nascita: 6 gennaio 1943
Anno di arresto: 1981
Condanna: 55 anni
Filiazione: Forze Armate di Liberazione Nazionale (Porto Rico)
Sito: www.prolibertadweb.org/oscar-lopez-rivera

MILITANTI DI SINISTRA

34. Bill Dunne
Carcere di massima sicurezza federale di Herlong, California
Data di nascita: 3 agosto 1956
Anno di arresto: 1979
Condanna: 75 anni
Filiazione: Comunhão Nascente

35. David Gilbert
Carcere di massima sicurezza di Wende, Nova Iorque
Data di nascita: 6 ottobre 1944
Anno di arresto: 1981
Condanna: ergastolo, con diritto alla condizionale dopo 75 anni
Filiazione: Weather Underground

36. Jaan Karl Laaman
Penitenziario Federale di Tucson, Arizona
Data di nascita: 21 marzo 1948
Anno di arresto: 1984
Condanna: 53 anni
Filiazione: Fronte Unico per la Libertà

37. Thomas Manning
Centro Medico Federale di Butner, Carolina del Nord
Data di nascita: 28 giugno 1946
Anno di arresto: 1985
Condanna: 133 anni, con diritto alla condizionale dopo 35 anni
Filiazione: Fronte Unico per la Libertà
Sito: http://www.geocities.com/CapitolHill/Parliament/3400/tom-bio.htm

AMBIENTALISTI

38. Marie Mason
Centro Medico Federale di Carswell, Texas
Data di nascita: 26 gennaio 1962
Anno di arresto: 2008
Condanna: 22 anos
Filiazione: Fronte di Liberazione della Terra
Sito: www.supportmariusmason.org

39. Rebecca Rubin
Carcere di massima sicurezza federale di Dublin, California
Data di nascita: 18 aprile 1973
Anno di arresto: 2012
Condanna: 5 anni
Filiazione: Fronte di Liberazione della Terra, Fronte di Liberazione degli Animali

HACKERS E MILITARI

40. Jeremy Hammond
Carcere di massima sicurezza federale di Manchester, Kentucky
Data di nascita: 8 gennaio 1985
Anno di arresto: 2012
Condanna: 10 anni
Filiazione: indipendente

41. Barrett Brown
Data di nascita: 14 agosto 1981
Anno di arresto: 2015
Condanna: 5 anni
Filiazione: Anonymous
Sito: www.freebarrettbrown.org

42. Chelsea E. Manning
Forte Leavenworth, Kansas
Data di nascita: 17 de dezembro, 1987
Anno di arresto: 2010
Condanna: 35 anni
Filiazione: indipendente
Sito: www.chelseamanning.org

MOVIMENTI ISLAMICI

43. Patrice Lumumba Ford
Carcere di massima sicurezza federale di Mendota, California
Data di nascita: 1971
Anno di arresto: 2002
Condanna: 18 anni
Filiazione: Portland 7

44. Tarek Mehanna
Penitenziario Federale di Marion, Illinois
Data di nascita: 1973
Anno di arresto: 2008
Condanna: 17 anni
Filiazione: indipendente

45. Aafia Siddiqui
Centro Medico Federale de Carswell, Texas
Data di nascita: 2 marzo 1972
Anno di arresto: 2008
Condanna: 86 anni
Filiazione: indipendente
Site: www.freeaafia.org

46. Mohammad El-Mezain
Centro Medico Federale de Terre Haute, Indiana
Data di nascita: 1951
Anno di arresto: 2004
Condanna: 15 anni
Filiazione: Fondazione Terra Sagrada
Sito: www.freedomtogive.com

47. Shukri Abu-Baker
Penitenziario Federale di Terre Haute, Indiana
Data di nascita: 3 de fevereiro, 1959
Anno di arresto: 2004
Condanna: 65 anni
FilFiliazione: Fondazione Terra Sagrada
Sito: www.freedomtogive.com

48. Ghassan Elashi
Penitenziario Federale di Marion, Illinois
Data di nascita: 1951
Anno di arresto: 2004
Condanna: 65 anni
Filiazione: Fondazione Terra Sagrada
Sito: www.freedomtogive.com

49. Abdulrahman Odeh
Carcere di massima sicurezza federale di Adelanto, California
Data di nascita: 1959
Anno di arresto: 2004
Condanna: 15 anni
Filiazione: Fondazione Terra Sagrada
Sito: www.freedomtogive.com

50. Mufid Abdulqader
Carcere di massima sicurezza federale di Terre Haute, Indiana
Data di nascita: 1959
Anno di arresto: 2004
Condanna: 20 anni
Filiazione: Fondazione Terra Sagrada
Sito: www.freedomtogive.com

51. Rafil A. Dhafir
Centro Medico Federale di Devens, Massachusetts
Anno di arresto: 2003
Condanna: 22 anni
Sito: www.dhafirtrial.net

52. Abdelhaleem Ashqar
Carcere di massima sicurezza federale di Petersburg Low, Virginia
Anno di arresto: 2007
Condanna: 11 anni
Filiazione: indipendente

53. Amina Farah Ali
Centro Medico Federale di Carswell, Texas
Data di nascita: 1977
Anno di arresto: 2010
Condanna: 20 anni
Filiazione: indipendente

54. Hawo Mohamed Hassan
Penitenziario Federale di Hazelton, Virginia Occidentale
Data di nascita: 1946
Anno di arresto: 2011
Condanna: 10 anni
Filiazione: indipendente

La mia rivoluzione per la terra e l’umanesimo. L’intervista a Pierre Rabhi

Narra la leggenda che un giorno, davanti a un enorme incendio nella foresta, gli animali, terrorizzati, osservavano inermi il disastro. Solo il piccolo colibrì prendeva nel ume delle gocce d’acqua, col becco, per gettarle sul fuoco. Quando l’armadillo lo derise – “Non è con queste gocce d’acqua che spegnerai il fuoco!” – il colibrì rispose: “Lo so, ma faccio la mia parte”. Left ha incontrato il padre dei Colibrì, Pierre Rabhi, il pioniere dell’agroecologia. Che nel 2017, sarà candidato alle presidenziali francesi per rimettere l’Uomo e la natura al centro. Franco-algerino, 77 anni, losofo, scrittore, poeta e contadino. Da 45 anni è a capo della protesta contro l’agricoltura industriale. Con le mani callose di chi lavora duro, gli occhi di chi ri ette a fondo sul futuro e la premurosa gentilezza di un leader, Rabhi ci ha parlato di autoproduzione e ri uto della logica mercantile, di abbandono della chimica per la concimazione naturale, di varietà biologica invece di monocoltura, di valorizzazione del locale, autosuf cienza e autonomia come alternativa al mercato mon- diale. Pierre e i suoi sono “ritornati alla terra”, in Ardèche, nel sud della Francia, per «resistere al sistema rendendosi autonomi nella sopravvivenza» e cercare modelli di crescita alternativi. Oggi il suo movimento – Terre & Humanisme – raccoglie consensi e adesioni. Mentre a Milano sta per calare il sipario su Expo, abbiamo chiesto a Rabhi come si fa a “nutrire il pianeta”.

A 20 anni è emigrato dall’Algeria in Francia. Pochi anni di vita operaia e poi la scelta di ritornare alla terra. Ricorda il perché?

È stato un cambiamento avvenuto tramite un approccio loso co alla vita. Avevo l’impressione che rimanendo in città avrei impiegato tutta la mia vita in un sistema arti ciale, non trovavo più un senso. Quindi mi è sembrato in- dispensabile lasciare la città e tornare a vivere nella natura. Gli esseri umani dovrebbero mettersi in armonia con il resto degli esseri viventi. Siamo parte della natura ma ce lo dimentichiamo, pensiamo di essere importanti e insieme riteniamo che la natura non lo sia.

Come “nutrire il pianeta” ed evitare la “deserticazione” è il tema centrale di Expo 2015. A Milano molte multinazionali hanno messo in vetrina il loro “bio”, la loro versione “ecologi- ca” di cibo. Che ne pensa?
È molto disonesto, quello che conta per loro è fare profitto. L’ecologia deve essere accompagnata da un’etica: il rispetto della vita, delle generazioni future. Le multinazionali cercano il loro interesse, il pro tto, la loro intenzione non è né loso ca né etica, è unicamente commerciale. L’essere umano deve capire che è parte di questo percorso: siamo acqua, materia terrestre, materia minerale, siamo gli della natura stessa.

A proposito, l’Ue ha escluso l’acqua dal Trattato di liberalizzazione con gli Usa (il Ttip), ma non le sementi e l’agroalimentare. Non sono beni comuni per l’Unione. Una prateria per le mutinazionali…
Sul pianeta esistono persone potenti perché noi le abbiamo rese tali. I semi, le terre, si sono
accaparrati tutto. È una rapina. Una rapina, in qualche modo, legalizzata. Dovrebbe esistere una regola internazionale per impedire che una minoranza con schi dei beni che appartengono all’umanità. Ma, come sappiamo, la politica, il commercio e gli affari sono uniti: l’uomo d’affari saccheggia e il politico convalida.

E la cultura dominante sembra approvare o, quantomeno, subire.
Sì. Il fatto è che quando una mamma alleva suo glio, spesso, lo prepara alla società. Lo cresce per farlo diventare un consumatore o un produttore, questa madre offre suo glio al sistema. Dovremmo insegnare ai bambini come funziona la vita e, invece, impartiamo loro le competenze utili al sistema.

Come spiegarlo a un ragazzino che, nato e cresciuto in città, crede che il tonno cresca nelle scatolette?
Spiegandogli che la terra è l’elemento fondamentale senza il quale non saremmo nemme- no qui. Al principio, il grano era semplicemen- te un seme che cadeva per terra, e l’uomo l’ha mangiato. Dopo ha pensato che avrebbe potuto prendere quel seme e metterlo lui stesso nella terra, e si è reso conto che cresceva. Così è nata l’agricoltura: l’essere umano ha collaborato con la natura, per nutrirsi. Ed è per questo che la rivoluzione agricola ha un valore culturale importante e dovrebbe appartenere a tutti i sistemi pedagogici del pianeta.

In La sobrietà felice, 300mila copie, teorizza una rivoluzione della sobrietà. Cosa significa?
he attraverso la sobrietà eviteremo di arricchire le multinazionali. Ci lamentiamo delle multinazionali ma diamo loro ogni giorno il nostro denaro. È importante capire che nel comportamento individuale di ognuno c’è una responsabilità morale. Quello che poi bisogna chiedersi è se esiste un altro modo di riorganizzare le cose.

Ed esiste?
Sì, ma non nel registro della crescita economica, dove si cerca il “sempre più” per una mino- ranza e il “sempre meno” per la maggioranza. Incoraggio le persone a fare il loro proprio orto, se possono. Anche piccolo. La soluzione è fare resistenza, perché ogni volta che fate qualcosa che vi dà dell’autonomia fate resistenza ad un sistema che fa hold up (saccheggio, ndr) del bene comune.

A chi dice che siete degli hippy e che la vostra è una moda marginale e minoritaria, che risponde?
All’inizio la nostra scelta non è stata accolta bene, per molto tempo siamo stati considerati dei pazzi, ma oggi aumentano il consenso e le adesioni. Gli hippy, i giovani del 1968, rivendicavano il diritto di sognare in una società razionale, ma all’epoca eravamo in piena prosperità, la macchina economica funzionava bene, e loro si ribellavano al sistema consumistico. Oggi i giovani non scenderanno in strada a protestare contro il sistema consumistico, perché c’è sempre meno da consumare. Disoccupazione, crisi economica, esclusione umana, guerra economica internazionale, aumento degli armamenti: la domanda di oggi è come costruiremo l’avvenire? Possiamo restare nel sistema dicendo che non possiamo fare nulla oppure immaginare la vita in un altro modo. Ecco perché oggi il ritorno alla natura è una forma di resistenza.

Che lei pratica da 40 anni. Ci racconti come.
Con quello che ho imparato da piccolo: utilizzare gli strumenti. Riscoprendo la manualità ho potuto fare il muratore, il fabbro e l’agri- coltore. Oggi non insegniamo più ai bambini adesso il nostro impegno è diventato una te- stimonianza. Una protesta contro un modello che trasforma l’essere umano in schiavo: dare la vita in cambio di un salario, aspettando la pensione. Noi lo rifiutiamo.

Per salutarci, ci racconta una delle sue storie?
(sorride) Certo. Un pescatore con la sua piccola barca sta facendo asciugare le reti, sta lì tranquillo dopo aver finito il suo lavoro. Un uomo serio passa, lo guarda, indica la sua barca ed esclama: “Uh, ma è piccola questa barca, potrebbe averne una più grande!”. E il pescatore: “Per farne cosa?”. L’uomo: “Per pescare più pesce”. E il pescatore: “E poi?”. L’uomo: “Poi prenderete una barca ancora più grande, poi molte barche, assumerete dei pescatori, e farete affari. E dopo vi riposerete”. E il pescatore risponde: “È quello che sto facendo”.

 

Migranti da mettere al lavoro, conti che non tornano e burkini. Caffè del 18 agosto

Non lasciamoli bighellonare, mettiamoli al lavoro. Togliamo ai richiedenti asilo il diritto di ricorrere in appello. Corriere e Repubblica danno ciascuno – sia pure con titoli meno espliciti di quelli che propongo- la loro propria ricetta per parare l’emergenza profughi che crescerà nei prossimi mesi. Innanzitutto perché crescerà? Perché non potremo più chiudere gli occhi, per scelta o incapacità, e aspettare che il grosso dei profughi si trasferisca (Illegalmente) dove voleva andare, cioè nel nord europa. Le vie -l’abbiamo visto a Ventimiglia e al Brennero- saranno se non bloccate sera controllate. Possiamo, dunque, chiedere loro di lavorare (e quindi pagarsi il soggiorno) mentre sono in attesa del giudizio sul loro diritto d’asilo o sulla espulsione. Si possiamo chiederlo, i comuni che li accolgono possono organizzarsi in tal senso. Ma sarebbe necessario che si trattasse di lavori davvero utili e che si spiegasse bene ai “nativi” come si tratti di lavori per i quali loro non sono disponibili. Possiamo rendere più veloce l’istruttoria giudiziaria che riguarda i profughi? Certo che sì. Lo chiedono tutti quelli che sono venuti per restare, o che non stanno dove altro andare. Ed è vero anche che il diritto d’appello sembra spesso in Italia un modo per rendere più lungo e macchinoso il giudizio. Ho tuttavia forti dubbi che si possa negare a un siriano un diritto che si riconosce a un lombardo. Infine c’è un problema, anzi il problema. Il diritto d’asilo non spetta a chi fugge la fame. Così molti migranti rifiutano di dire le loro generalità. Non si sa chi sono, non si può metterli al lavoro né espellerli, giacché non è noto dove rimpatriarli. Che fare? Si potrebbe, in teoria, dare a ogni migrante un periodo di prova, un permesso con data di scadenza in cambio delle loro generalità. Dopo, o dentro o fuori, con un giudizio che tenga conto anche del loro desiderio e della loro capacità di integrarsi. Ci vogliono soldi, per questo. Senza investire nell’accoglienza non se ne esce. Lo sanno tutti e tutti sanno che l’Europa si nasconde.

Il burkini originale

Burkini sì, burkini no. Per il sì, Chiara Saraceno (Repubblica), monsignor Galantino (Corriere), Fernanda Contri (Stampa). Per il no, Paolo Flores (Repubblica), Daniela Santanchè (Stampa). Per il “ni”, Tahar Ben Jelloun (Repubblica). A me appare chiarissimo che portarsi in spiaggia (o entrare nel bagnasciuga) completamente vestite, tra corpi che non nascondono nulla, rappresenti una sfida. Da parte della donna che abbia scelto quel costume, o dell’uomo che glielo abbia imposto, significa dire: “siamo diversi, rifiutiamo il vostro modo di essere”. Ma il nostro, più autentico, modo di essere è proprio la libertà di essere come ci pare. Ora, quando in Francia -presidente Chirac- si scelse la proibizione del velo integrale, si spiegò che ognuno dovesse essere riconoscibile quando entra in un pubblico ufficio: dunque a volto scoperto. Si disse anche che quel velo integrale, a scuola, significava ostentare un simbolo in qualche modo religioso, proibiamolo così come non consentiamo di indossare a scuola una grossa croce al petto. Ma il burkini scopre (almeno) il volto, la persona dunque si riconosce, né possiamo impedire ai testimoni di Geova di far propaganda sul litorale. Allora? Siamo in guerra, si dice, quel simbolo “islamico” rappresenta una forma vistosa di propaganda per la parte avversa. Questo è esattamente quello che desiderano i fondamentalisti wahhabiti e salafiti: conquistare l’autentica rappresentanza dell’islam usando l’umiliazione del corpo della donna come bandiera. (Ho già detto che la prima impresa di Al Wahhabi nella sua città natale fu di far lapidare una donna “infedele”. Per questo fu cacciato dai “maomettami” per esser poi riportato dentro dalle armi di Al Saud, fondatore della dinastia che regna sull’Arabia. Penso che se fossimo in grado di tenere ferma la rotta: ogni umiliazione al corpo della donna è umiliazione dell’umanità dell’uomo -o, se si crede in un dio, al divino che è nell’uomo-, ma al tempo stesso se sapessimo tollerare ogni moda (che non crei un pericolo diretto per un altro uomo), se questo fossimo in grado di fare, non escludo che persino il burkini possa divenire un po’ più elegante, far intuire la femminilità di chi lo indossa, e rappresentare un pericolo -o l’inizio di una lezione- per quell’animale -di sesso maschile- che cammina due metri davanti alla donna, scoperto e con in testa un cappellino dalla visiera all’indietro. Mi sbaglio? Possibile.

Renzi fa selfie con commercianti contestatori, maglia regalo

La manovra cresce a 30 miliardi, scrive La Stampa. I conti non tornano: dalle privatizzazioni sono entrati quest’anno 800 milioni anziché 8 miliardi. Anche ammesso che vada molto bene (per l’erario) la vendita del 30% delle poste, mancheranno 5 miliardi. Il vice ministro Morando -un migliorista che tiene a non dire cavolate- spiega (a Renzi) che solo una ripresa del 2% potrebbe trarci d’impaccio. Quella prevista è dell’ 0,7%. Ferruccio De Bortoli ricorda che il prodotto interno lordo ha perso 28 punti rispetto al 2008. Rispetto alla stessa data, la produzione industriale è caduta del 20%. L’ex direttore del Corriere osserva che gli industriali “non sembrano così impegnati nel ridurre i sussidi pubblici alle imprese che distorcono la concorrenza. Non suscita alcun sincero dibattito la scelta di chi trasferisce sede legale e fiscale all’estero pur continuando a sventolare la propria italianità. Non vi è, tranne rari casi, una discussione meno rituale sul modello industriale del futuro”. Un modo per avvertire che le mance indiscriminate di Renzi sono dannose anche per il sistema industriale.

Ecco cosa dice il Manifesto di Ventotene, così lontano dalla politica di oggi

«Si torna a Ventotene – aveva detto il premier italiano giorni fa – per ripartire con l’Europa dei valori e della cultura. Il compito dell’Europa è quello di rendere più bello il mondo» così ha detto il premier Renzi parlando del vertice trilaterale che lunedì 22 agosto vedrà riuniti a Ventotene Matteo Renzi, Angela Merkel e Francois Hollande. E anche se il vertice non si terrà propriamente sull’isola, ma sulla nave Garibaldi in mare aperto di fronte alle isole pontine, la scelta di Ventotene rimane altamente simbolica perché è qui che è nata l’Europa. Ed è qui che l’Europa di oggi, quella dei muri, dell’austerity e della Troika, si confronta con il progetto di Altiero Spinelli che quest’Europa l’aveva sognata diversa. Di tutto questo parleremo sul numero di Left in edicola dal 20 agosto. E qui, ripercorrendo la storia del famoso manifesto di Ventotene. Si torna a Ventotene, dunque.

«In quegli anni, in quel luogo nacqui una seconda volta», scrive Altiero Spinelli del suo soggiorno a Ventotene come confinato. Il suo pensiero europeista che covava già da tempo si affinò, anche grazie alle discussioni con Eugenio Colorni e Ernesto Rossi. Nel 1941 insieme a quest’ultimo scrive 22 paginette che diventeranno celebri: Per un’Europa libera e unita, progetto per un manifesto. Fu Ursula Hirschmann, moglie di Colorni – e poi, dopo la sua morte, di Spinelli – a far uscire lo scritto clandestinamente, si narra ancora nell’isola, cucendo i fogli dentro una spallina dell’abito. All’inizio venne diffuso ciclostilato, poi nel 1944 la prima edizione con la prefazione di Eugenio Colorni.
Nel Manifesto Spinelli e Rossi constatano il fallimento delle Nazioni come stati indipendenti. La guerra con i suoi orrori era sotto gli occhi di tutti. «La nazione non è ora più considerata come lo storico prodotto della convivenza di uomini… ma è divenuta un’entità divina», si legge nelle prime pagine del Manifesto. Per cui l’essere umano non è più «un autonomo centro di vita». E anche il comunismo, seppur più efficace per rovesciare situazioni di totalitarismo non viene visto come una garanzia per il futuro perché abbraccia solo la classe operaia. Il loro sguardo è estremamente laico. Che fare, allora? C’è un’unica soluzione: puntare sui poteri sovranazionali degli Stati a cui deve dar vita il movimento federalista.

Un movimento che non dovrà mai diventare partito, scrive Colorni nella prefazione del 1944, ma agire all’interno dei vari partiti. «Un vero movimento rivoluzionario, dovrà sorgere da coloro che han saputo criticare le vecchie impostazioni politiche; dovrà saper collaborare con le forze democratiche, con quelle comuniste, e in genere con quanti cooperino alla disgregazione del totalitarismo», specificano Spinelli e Rossi. A proposito dei “compiti del dopoguerra”, il terzo capitolo del Manifesto, si legge che deve riprendere «il processo storico contro la diseguaglianza e i privilegi sociali». La collettivizzazione socialista però non basta, «la proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Quindi nazionalizzare i servizi pubblici sì, così come servono una riforma agraria e una industriale con estensione della proprietà ai lavoratori e la promozione di cooperative.

Nel Manifesto si ribadisce il ruolo della scuola pubblica che deve garantire i livelli superiori a tutti gli idonei, indipendentemente dal loro censo. La liberazione dei lavoratori, scrivono Spinelli e Rossi, deve far sì che questi non ricadano «in balìa della politica economica dei sindacati monopolistici». I lavoratori devono essere liberi di scegliere i loro fiduciari. Per quanto riguarda l’Italia, nel Manifesto di Ventotene c’è un punto che non è molto conosciuto: il rapporto con la Chiesa. «Il concordato con cui in Italia il Vaticano ha concluso l’alleanza con il fascismo andrà senz’altro abolito per affermare il carattere puramente laico dello stato», mentre tutte le «credenze religiose» devono essere rispettate. Il Manifesto termina con un appello a «saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge».

Come si vede, un’analisi lucida dei problemi che stava vivendo l’Europa con la proposizione di soluzioni. Come scrive Colorni nella prefazione, la lontananza dalla vita politica attiva permetteva uno sguardo più distaccato «e consigliava di rivedere le posizioni tradizionali». Ma non si trattava solo di rivedere gli errori del passato, non era una semplice autocritica, c’era l’intento, in quei prigionieri politici in esilio, di «rinunciare i termini dei problemi politici con mente sgombra da preconcetti dottrinari o da miti di partito». Una condizione lontana mille anni luce da quella che stiamo vivendo adesso, nell’Europa dei mille steccati ideologici.

Dell’Europa di Ventotene si parla anche su Left in edicola dal 20 agosto

 

SOMMARIO ACQUISTA

Il clan Buscemi, la sagra e il vomito a forma di mongolfiera

Valenzano è un piccolo comune pugliese a pochi chilometri da Bari.

A Valenzano c’è stata la sagra come succede spesso d’estate e d’agosto. Evviva.

Il 16 agosto è stata lanciata da largo Plebiscito una mongolfiera. Evviva. In onore di san Rocco. «viva san Michele, viva san Rocco» c’è scritto sui lati della mongolfiera. La dedica è alla famiglia Buscemi che, tra le altre cose, è il clan mafioso egemone del luogo. E Michele Buscemi è il boss ucciso proprio a Valenzano nel 2008.

Come scrive il deputato (PD) Dario Ginefra:

«Ieri a Valenzano c’è stata la festa patronale. La famiglia Buscemi ha fatto mettere un messaggio con dedica sulla mongolfiera che viene lanciata, tradizionalmente, in occasione della conclusione dei festeggiamenti del 16. 
Si tratta di una sponsorizzazione da parte del clan omonimo?
Questa mattina formalizzeró un’interrogazione parlamentare al Ministro dell’Interno, ma mi auguro che i media locali e nazionali diano rilevanza ad un episodio che, se confermato, rappresenterebbe una grave manifestazione che spero veda l’immediata, sia pur tardiva, presa di distanza delle autorità religiose e civili locali.»

E lo scrive sul suo profilo Facebook con tanto di foto:

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Dopo i petali di rosa, le carrozze, gli elicotteri, i senatori a vita, i sottosegretari e i cofondatori di partito ecco il favoreggiamento mongolfiero alla mafia. Inseguivamo i pokemon, ora puntiamo i burkini e intanto la mafia sgancia mongolfiere. Beate priorità.

Buon giovedì.

L’Europa? Pensavo fosse un’occasione, mi sono sbagliato. L’intervista a Daniele Silvestri

Arrivo a Formello, appena fuori Roma, in tempo per il caffè. Daniele Silvestri ha appena finito di pranzare e dedica la pausa a Left. «Fumiamo una sigaretta prima di cominciare?», mi chiede. Avvolge il tabacco, poggiato al tavolino sotto un ombrellone. È stanco ma carico, sta preparando l’uscita di Acrobati e il nuovo tour. L’intervista comincia prima di cominciare. Con lui è così, non c’è spazio per le formalità. «Meno male che c’è Left», dice. Lo interrompo: «Prendo il registratore». «Prego», mi sorride.
Daniele, che mi dicevi della libertà?
Che la libertà non è solo averla, non si tratta di avere dei confini sufficientemente larghi, è una roba mentale, dentro. Spesso è da te stesso che devi liberarti. Prima mi dicevo: questi due o tre argomenti li devo affrontare. Dopo questo disco non ho più questa esigenza. Anzi, ho voluto fare la cosa più sincera e istintiva possibile e sorprendere anche me. Se poi il risultato incontrerà le aspettative di chi mi aspetta, ben venga, altrimenti me lo perdoneranno (sorride sicuro).
Aspettative come i contenuti altamente politici. Dall’“Uomo col megafono” a “Cohiba”, hai veicolato messaggi importanti, alleggerendoli. È forse questo il contenuto che ti ingabbiava?
Un po’ sì. Non tanto il fatto di parlare di politica, ma di “essere politico”, e io lo sono perché vivere è fare politica con le proprie scelte e il proprio comportamento. Anche se in questo disco ho evitato l’attualità stringente, quella fatta di fatti specifici o nomi e cognomi – e non perché mi spaventi – ma perché mi sento un po’ meno in diritto di essere il portavoce di una generazione che può interpretare al meglio l’attualità. Ci sono persone che hanno molti meno anni di me che lo possono fare meglio, che hanno l’energia e la forza dell’ingenuità che si hanno a vent’anni.
E tu cosa puoi fare?
Ho 47 anni, e alla mia età quello che posso fare è avere uno sguardo più distante dalle cose, raccontare delle storie – in fondo è quello che mi è sempre piaciuto fare – che dentro hanno un’intensità, emozioni, ragionamenti, racconti e spaccati di vita. Ne faccio un atto politico. È vero che questo disco forse è più poetico che politico. Ma la poesia è politica, e a volte lo è in modo ancora più forte. È meno esplicito ma più immediato. Sembra un controsenso, invece è così.
A proposito di politica: che ne pensi dell’Europa di oggi?
Sono tra quelli che nella possibilità di metterci insieme in Europa, con l’ingenuità e l’ottimismo che m’accompagnano da sempre, ha visto una grande possibilità di ragionare finalmente e di nuovo a lungo termine. Con un’idea di Uomo da mettere avanti e un orizzonte più ampio. Intravedendo anche nello stesso Parlamento europeo la possibilità di lavorare al di fuori dei piccoli fatterelli e delle piccole polemiche di cui mi sembra sia fatta ormai la nostra politica. Mi sono sbagliato… (alza le spalle e allarga le braccia).
Non sarai troppo drastico?
La sensazione è questa. Le istituzioni dovrebbero sempre rappresentare il meglio e non il peggio. Io sono un vetero comunista (fa una smorfia, con autoironia) e penso allo Stato come a un padre che ti educa, ti aiuta, ti protegge. E, soprattutto, ti è di esempio. Vale ancora di più per le istituzioni europee e per un’intera comunità che è un insieme di popoli diversi, conciliabili solo in ragione di valori alti. Per me è quasi automatico, eppure nei fatti succede l’esatto opposto.
A meno che non ci si voti alla cultura del “contro”: proteggerti dai non europei fa di te un europeo.
Già, si ricomincia a parlare di un’Europa più piccola, di proteggere chi “merita” di essere protetto e di lasciare fuori il resto… a cominciare dai migranti.
Tu che frontiere non ne hai mai avute – e questo disco lo dimostra – come te lo spieghi che il mondo torna xenofobo?
Scusami, la prendo un po’ larga. Mi piace studiare la storia dell’Umanità e del Pianeta: quando hai questa passione, finisci per considerare il nostro periodo come una parentesi dentro un arco di tempo molto più grande. E la storia dell’Uomo è fatta di migrazioni: è la chiave fondamentale di tante guerre, certo, ma anche di tante rivoluzioni, persino genetiche. Migrare è una caratteristica essenziale dell’Uomo, che ha imparato nei millenni a spostarsi quando ne aveva bisogno. Non saperlo, non considerarlo, non prevederlo è una della principali cecità che possiamo avere.
Siamo appena tornati da Madrid. Varoufakis, Ada Colau, Ken Loach e Noam Chomsky hanno messo la faccia su un piano B per l’Europa. Cosa ti aspetti?
Dai nomi che mi fai qualcosa me l’aspetto, proprio un orizzonte. Perché quello che mi manca è un orizzonte. A me non interessa il piano economico come orizzonte. Certo, non se ne può prescindere, ma vengono prima le idee. Un progetto di Uomo, di Umanità e di Collettività. Anche se ci vorranno anni, magari decenni, va realizzato.
Che poi l’economia dovrebbe servire a rendere concreto quello che dici…
Sarebbe così, ma il mercato e l’economia sono diventati la vera spinta politica, una spinta senza anima e senza idee. Che bada solo alle necessità del profitto.
Essere contro il profitto e il capitalismo è vecchio. È stato rottamato, non lo sai?
Eh sì… e non ci vedo per forza qualcosa di negativo. Le parole dopo un po’ che sono usate perdono la loro forza, diventano “astratte”, mentre dentro contengono il mondo.
E allora come si fa?
Il mondo cambia e quindi anche il linguaggio deve cambiare. La lingua – e lo insegna non la politica ma l’arte – è sempre cambiata nel tempo. E non è sbagliato che sia così. Poi, certo, c’è chi interpreta furbescamente questa realtà dei fatti, e sicuramente Renzi in questo è un maestro. Se penso all’ingenuità con cui Bersani sceglieva le parole da usare e alla capacità di Renzi di scegliere quelle giuste… c’è poco da dire, in questo è proprio bravo… Ma non deve essere una rincorsa a una terminologia che inganni. Potrei parlare tanto di Renzi, ma non sono tra quelli che pensano che sia tutto lì il nostro problema.
Beh, dietro un “grande” uomo c’è un grande niente. Dov’è finita la sinistra?
Se guardo a sinistra vedo una Sinistra che non ha nemmeno fatto lo sforzo di capire che certe parole non possono avere più la stessa forza. Le parole vanno “pulite”, perché la Storia è cambiata e certe cose arrivate dopo non hanno ancora un nome. E se usi male le parole rischi di allontanare invece di avvicinare le persone.
Un’ultima domanda. Qual è la tua morale della favola?
Le parole che mi vengono in bocca sono: libertà e curiosità. Il desiderio di dare onore alla prima – mi ritengo una persona libera – unito alla seconda, che distingue un essere vivente da uno che non vive più, è la mia personale ricetta per continuare a sentire che la vita e questo mestiere hanno un senso.
Grazie Daniele.
E di che.