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Il punto non è controllare la natura ma la capacità di rinnovarsi

Ci siamo chiesti come stare sul terremoto. Lo abbiamo fatto a lungo. Abbiamo guardato immagini e letto. E siamo andati a cercare fuori, lontano in Paesi che “vivono col terremoto”. Poi siamo tornati in Italia. Mai più: è la locuzione più utilizzata nel nostro Paese dopo ogni catastrofe che, puntualmente, si ripete. Forse per una certa tendenza a dare peso relativo alla vita su questa terra o più semplicemente perché, poi, quando questo “mai più” deve tradursi in scelte lungimiranti si preferisce piuttosto puntare su quelle che permettono di riscuotere consensi a breve termine.

Abbiamo letto e riletto il ragionamento fatto dal presidente del Consiglio nella sua eNews datata 29 agosto e dedicata al sisma di Amatrice. Non vogliamo soffermarci sulla retorica del «dolore» e della «reazione» degli italiani «bravi e coraggiosi». Né ci interessa indugiare sulla trasparenza della ricostruzione, alla quale contiamo di contribuire facendo bene il nostro mestiere, o sull’impegno a lavorare «senza annunci» accompagnato dall’hashtag #CasaItalia che per ora è un mix di buone quanto generiche intenzioni, con l’immancabile contorno di testimonial – stavolta al sempreverde Raffaele Cantone si è aggiunto Renzo Piano, cui va riconosciuto il merito di aver rimarcato la necessità della prevenzione. Ma su qualche punto fermo che pare esserci, almeno a prima vista. Da quello che scrive, non ci aspettiamo ricette dagli esiti catastrofici analoghe a quella messa in campo dall’accoppiata Berlusconi-Bertolaso nel 2009 a L’Aquila. E possiamo almeno sperare che si mandino una buona volta in soffitta tante inutili – e spesso dannose – mega-opere, almeno finché non sarà in fase avanzata la “grande opera della prevenzione”. Per una serie di ragioni, però, non siamo tranquilli: la tendenza a trasformare anche i progetti più ambiziosi e lungimiranti in “mal-affari” di piccolo cabotaggio è sempre dietro l’angolo. Ma soprattutto quello che mettiamo in discussione nel nostro sfoglio sul terremoto, è l’impostazione di fondo che traspare nelle parole di Matteo Renzi, quando dice che «la pretesa di tenere sotto controllo la natura è miope e persino assurda». Parole che sembrano indulgere a una sorta di rassegnazione di cui invece dobbiamo fare a meno. Renzi afferma che l’idea del rischio zero è “iper razionalista” eppure a Tokyo, come potete leggere su questo numero di Left, è un obiettivo fissato per le Olimpiadi del 2020.

Il punto non è “la natura da controllare”, ma la nostra capacità di adattamento ai fenomeni climatici come a quelli naturali, la nostra abilità nell’essere resilienti. Non è la natura il nostro nemico, siamo noi stessi. Quando costruiamo male e nel punto sbagliato, quando pur disponendo delle tecnologie più innovative ed efficaci non le usiamo, diventiamo nemici di noi stessi. Perché non siamo capaci di rinnovarci e di rinnovare, rimanendo ancorati a una supposta necessità di costruire tutto come sempre.

Renzi parla di «un progetto che tenga più al riparo la nostra famiglia, la nostra casa». Non è di un riparo che ha bisogno l’Italia, ma di luoghi aperti, di una sicurezza fatta di adeguamenti antisismici e, al tempo stesso, di comunità inclusive, aperte al cambiamento. Il nostro Appennino, spesso definito con insopportabile retorica la “spina dorsale” del Paese, non deve diventare un museo a cielo aperto, ma un insieme di comunità vive, attraversabili e attraversate, più e meglio di sempre. La storia e i monumenti di Amatrice si mettono in sicurezza se si aprono al mondo, approfittando di tecnologie che li rendano “a rischio sismico zero” ma anche di quelle in grado di rendere umanamente agibili e abitabili questi territori. Il nostro augurio alle comunità colpite dal terremoto è di avere i tetti necessari (e quando possibile solari) ma anche di incontrarsi e di “connettersi” al nuovo in piazze aperte e ritrovate.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 3 settembre

 

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Le donne italiane strette tra vecchi e nuovi materialismi

L’Italia è ormai da anni tra i Paesi a più bassa fecondità in Europa e tra i Paesi Ocse, anche se non ne detiene più il primato, essendo stata raggiunta e in alcuni casi, superata, in Europa, da Spagna, Germania, Portogallo e alcuni Paesi dell’Est europeo. L’Italia è anche un esempio del rovesciamento del rapporto tra tasso di occupazione femminile e tasso di fecondità avvenuto nei Paesi sviluppati alla fine del secolo scorso. Paese a fecondità relativamente alta e occupazione femminile bassa ancora negli anni Settanta del Novecento, già a metà degli anni Ottanta mostrava sia tassi di occupazione femminile sia tassi di fecondità tra i più bassi, attorno all’1,5 figli per donna. Quest’ultimo tasso ha continuato a scendere fino al 1996, toccando l’1,19 figli per donna. Da allora è risalito molto lentamente (e in larga misura a motivo del più alto tasso di fecondità delle donne migranti), ma rimanendo sempre al di sotto dell’1,5. Negli ultimi anni, inoltre, la tendenza è tornata ad essere discendente. Nel 2013 (ultimo anno per cui sono disponibili i dati), il tasso di fecondità era di 1,39 figli complessivamente, più basso tra le italiane che tra le straniere. Si è anche alzata l’età della madre alla nascita del primo figlio, con un progressivo aumento delle nascite da madri che hanno più di 35 anni. Nel 2013 l’età media delle donne alla nascita dei figli è stata di 31,5 anni, circa due anni e mezzo in più rispetto al 1995 (era 29,8).

Negli ultimi anni, la diminuzione della nascite è stata particolarmente veloce nel Mezzogiorno, dove nell’arco di poche generazioni il livello di fecondità è andato convergendo, al ribasso, con quello del Centro Nord, nonostante (ma forse proprio a motivo) tassi di occupazione femminile molto più contenuti. Per altro, il fenomeno, raro, della maternità in età molto giovane, prima dei 18 anni, è concentrato pressoché solo nel mezzogiorno, segnalando una possibile mancanza, per alcune giovani donne appartenenti a gruppi sociali svantaggiati, di opzioni alternative, quali l’investimento nello studio e nel lavoro prima di effettuare una scelta di questa portata per le sue conseguenze nel medio e lungo periodo, per sé e per i figli. Avere un figlio “troppo presto” può, infatti, essere rischioso per le chances di vita di una giovane donna. D’altra parte, anche decidere di avere un figlio – e ancor più averne un secondo – può essere oggi impossibile per le donne che vorrebbero entrare nel mercato del lavoro, ma si trovano strette nella doppia scarsità della domanda di lavoro e degli strumenti di conciliazione famiglia-lavoro, come succede a molte donne del Mezzogiorno, specie se a bassa qualifica. Può essere anche molto difficile per chi riesce ad accedere al mercato del lavoro, ma deve scontrarsi con le sue rigidità o flessibilità sfavorevoli (insicurezza contrattuale, part time forzato), proprie e o del proprio compagno, unite alla carenza di strumenti di conciliazione anche nelle situazioni più favorevoli. Tutto ciò in un contesto culturale e di aspettative con- divise – e talvolta istituzionalizzate – secondo cui il benessere psicofisico dei figli, soprattutto quando piccoli, è una prevalente, quando non esclusiva, responsabilità delle madri. L’Italia è uno dei Paesi in cui è più elevata la percentuale di chi ritiene che un bambino in età prescolare soffra se la mamma lavora.

Le giovani mamme italiane si muovono strette tra un vecchio-nuovo “maternalismo”, che coniuga il mai superato stereotipo della madre sacrificale e di maternità totalizzante con un’idea altrettanto totalizzante dei bisogni del bambino, e il nuovo modello della supermamma giocoliera, che tiene insieme tutto, figli e lavoro, solo con le sue forze (ed è sempre a rischio di essere considerata egoista, narcisista). Sono modelli solo apparentemente opposti di iper- maternità che si trovano anche in altri Paesi e che sono difficili (oltre che rischiosi) da praticare ovunque e da chiunque, ma particolarmente in un Paese come l’Italia, ove l’ideologia e le politiche troppo spesso si saldano a formare un contesto molto poco amichevole per qualsiasi tipo di mamma. Non stupisce, allora, che quasi una donna su cinque al momento della nascita del figlio lasci, o perda, il lavoro (lo dice l’Istat nel Report del 28 dicembre 2011).

Il rischio, o la scelta, di interruzione, se è particolarmente elevato tra le donne a bassa istruzione e con opportunità occupazionali a bassa qualifica e basso reddito, riguarda anche le donne a istruzione più elevata. Secondo i dati dell’indagine Almalaurea sul destino occupazionale dei laureati, a cinque anni dalla laurea è occupato il 73 per cento delle laureate senza figli, a fronte del 63,3 per cento di quelle che hanno almeno un figlio (e all’88,9 per cento dei laureati con almeno un figlio). Il fenomeno non è recente e non dipende esclusivamente, e neppure principalmente, dalla lunga crisi economica di cui sta soffrendo l’Italia dalla fine del 2007. Sembra, anzi, avere caratteristiche strutturali e riguardare tutte le coorti, senza ridursi significativamente nonostante l’aumento dei tassi di attività nelle generazioni più giovani.

Ovviamente, non si può stabilire automaticamente un rapporto causa-effetto tra nascita di un figlio e abbandono del lavoro. I due fenomeni possono, infatti, essere legati tra loro da una catena di circostanze e micro-decisioni complessa e diversificata, senza alcuna causalità lineare. Inoltre, le donne che lasciano il lavoro possono avere caratteristiche culturali, modelli d’identità di genere e di famiglia diversi da quelli di chi non lo lascia. E così via. Qui interessa solo rilevare come, nel secondo decennio del 2000, per una porzione importante delle donne italiane nella pienezza della loro vita feconda, maternità e lavoro siano sperimentati come, più o meno temporaneamente, incompatibili. Tra le più giovani, solo tra chi non è occupata (e neppure ancora in formazione), la maggioranza (57,2 nel 2013) ha un figlio entro i 34 anni. D’altra parte, per chi invece ritiene idealmente possibile e persino auspicabile, conciliare maternità e occupazione remunerata, il tipo di condizione lavorativa fa una differenza cruciale per la decisione di avere il primo (e spesso unico) figlio. Tra le donne nella fascia di età 25-34 anni, infatti, nel 2013 aveva già un figlio il 34,1 per cento delle donne che aveva un rapporto di lavoro stabile, a fronte del 23,8 di chi aveva un contratto di lavoro a tempo determinato. Non sono solo le difficoltà di conciliazione a ostacolare vuoi il lavoro, vuoi la maternità. È anche l’insicurezza (solo parzialmente garantita dal contratto a tutele crescenti, che rende estremamente poco costoso licenziare nei primi anni di lavoro, rendendo particolarmente vulnerabili le donne che compiono l’azzardo della maternità).

La decisione di uscire dal mercato del lavoro, o di non entrarvi affatto prima di essersi dedicata alle cure della maternità, può essere intesa come temporanea, all’interno di un modello sequenziale (prima formazione della famiglia, poi investimento nell’occupazione). Questa decisione, tuttavia, in Italia più che in altri Paesi rischia di diventare definitiva, per le carat- teristiche della domanda di lavoro e le rigidità dell’organizzazione del lavoro, ma anche per lo scarso sostegno alla conciliazione famiglia- lavoro offerto dal sistema dei servizi e della scuola dell’obbligo. Siamo, perciò, di fronte da un lato al permanere di vecchi modelli, più o meno forzati, di organizzazione della famiglia fondata su una forte divisione del lavoro in base al genere, dall’altro a modifiche di quella stessa organizzazione a partire dalla organizzazione del tempo femminile, cui non sempre si accompagna né una offerta adeguata di servizi di cura, né una modifica dei tempi sociali (scolastici, ad esempio), né della divisione del lavoro famigliare. Ciò spiega in parte la forte riduzione della fecondità di cui si è parlato sopra. Spiega anche come mai molte giovani donne oggi pensino che la maternità costituisce un vincolo troppo grande alle proprie opportunità, se non alla propria libertà.

È una questione che riguarda le politiche sociali, ma anche i rapporti tra uomini e donne entro le coppie e le famiglie. Diverse ricerche, anche comparate, hanno segnalato come nelle famiglie italiane i mariti/padri aiutino molto poco le donne nel lavoro domestico e nella cura dei figli e delle persone parzialmente non autosufficienti. Ciò si riflette sulle differenze nel carico di lavoro complessivo sostenuto da madri e padri, mariti e mogli, anche, se non soprattutto, quando le donne sono occupate. In particolare, gli studi sull’uso del tempo effettuati in Italia a partire dagli anni Novanta dall’Istat, indicano che le donne occupate che hanno anche responsabilità familiari lavorano complessivamente – nel lavoro remunerato e in quello familiare – dalle 9 alle 11 ore in più alla settimana degli uomini, nonostante abbiano in media orari di lavoro remunerato più corti e tempi di trasporto casa-lavoro più brevi.

La realizzazione del desiderio di maternità, tuttavia, può essere ostacolata da vincoli più radicali di quelli che scaturiscono dalla difficoltà a conciliare famiglia e occupazione o da ristrettezze economiche e che hanno a che fare con la capacità riproduttiva sul piano fisiologico. La questione se esista un diritto assoluto ad avere figli, anche in presenza di difficoltà di tipo fisiologico, rimane aperta. Ciascun Paese vi risponde da un lato con le norme che regolamentano l’adozione – ovvero chi e a quali condizioni può adottare – dall’altro con le norme che regola- no l’accesso alle diverse forme di tecniche di riproduzione assistita. L’Italia è tra i Paesi che ha le norme più restrittive sia per quanto l’adozione, riservata solo a chi è coniugato, sia per quanto riguarda le tecniche di riproduzione assistita, anche dopo le sentenze delle Corti Costituzionali ed europea che hanno tolto il vincolo dell’infertilità e ammesso il ricorso a donatore o donatrice. Rimangono, infatti, i divieti per le donne che non sono in coppia e per le coppie omosessuali. Chi ne ha i mezzi, aggira questo doppio divieto recandosi nei Paesi in cui questi divieti non esistono. Non è, tuttavia, un’opzione aperta a tutte, sia dal punto di vista finanziario sia da quello organizzativo. Inoltre la legislazione italiana continua a negare valore e riconoscimento (si pensi al dibattito attuale sulla legge sulle unioni civili che si è bloccata proprio sulla questione della adozione del figlio del compagno o della compagna) alla genitorialità effettivamente praticata nella vita quoti- diana. Così, mentre la modificano delle norme sull’adozione riconoscono il legame genitoriale che si è creato in una esperienza di affidamento famigliare, consentendo ai genitori affidatari (sposati, uomo e donna) di diventare genitori adottivi, questo stesso legame non viene riconosciuto se chi ha svolto una funzione genitoriale non è in coppia con una persona dell’altro sesso con cui è coniugato/a. Introducendo una nuova disuguaglianza non solo tra genitori, ma tra bambini.

Ovviamente, la spiegazione sia del rimando della maternità sia dell’eventuale rinuncia non possono essere ricercate solo nelle difficoltà che incontrano oggi le giovani donne. L’aumento generalizzato della scolarizzazione, con le opportunità che apre, almeno teoricamente, di investire anche in una professione, l’aumentata possibilità di viaggiare e fare esperienze diverse, la pluralizzazione di modelli femminili non orientati esclusivamente sulla maternità e appagati nonostante l’assenza di maternità – tutti questi fenomeni da un lato estendono il fenomeno del ritardo nella decisione di maternità che nelle generazioni oggi più vecchie era proprio solo, appunto del ristretto gruppo delle più scolarizzate. Dall’altro lato, rendono legittimo pensare, e dire, senza timore di apparire devianti o peggio, che non occorre essere madri per realizzare il proprio progetto di vita, anche sul piano relazionale e affettivo.

(da Left n.42 del 31 ottobre 2015)

Trump la guardia di confine: «Al confine col Messico un muro alto, impenetrabile, meraviglioso»

Republican presidential candidate Donald Trump speaks during a campaign rally at the Phoenix Convention Center, Wednesday, Aug. 31, 2016, in Phoenix. (AP Photo/Matt York)

Tutto e il contrario di tutto in un solo giorno. Donald Trump si è incontrato a Città del Messico con il presidente Peña Nieto per discutere di immigrazione e rapporti con il Paese e poi è tornato oltre confine, a Phoenix, Arizona, per parlare ai suoi sostenitori dello stesso argomento. Due persone diverse, o quasi.

Nel suo incontro messicano non si è parlato di chi o cosa dovrebbe finanziare il muro lungo il confine che il miliardario newyorchese ha promesso. Un segnale, era sembrato, di un tentativo di moderare leggermente le posizioni in un terreno che è scivoloso per i repubblicani: Trump ha promesso di deportare gli illegali, costruire un muro e usare maniere forti con chi, immigrato, infrange la legge. In una conferenza stampa congiunta, il presidente messicano e il candidato repubblicano hanno evitato di mostrarsi i canini a vicenda, aggirando il tema. «Non abbiamo discusso di chi pagherà per il muro proposto da Trump» è la versione del presidente messicano, le distanze ci sono anche sugli scambi tra i due Paesi e sull’immigrazione in generale. La risposta della campagna Trump è: «Ci sono distanze, negozieremo con il Messico», come se Trump fosse presidente.
Ma non è questo il punto, la verità è che se il viaggio doveva servire a moderare l’immagine del miliardario, a renderlo presidenziale, il passaggio a Phoenix, poche ore dopo la conferenza stampa con Peña Nieto, è quello del Trump della prima ora, quello che (anche) grazie alle sue sparate sui messicani ha sbaragliato il nutrito campo di concorrenti alle primarie. E così, nel discorso che presenta il suo programma in materia, tenuto in uno Stato in cui gli ispanici sono una percentuale molto alta (17% dell’elettorato nel 2012) e l’immigrazione è un oggetto di scontro, Trump ribadisce i suoi punti, introducendone di nuovi:

  • Creare una task force per l’espulsione degli immigrati arrestati (anche se non condannati);
  • Eliminare qualsiasi percorso verso la cittadinanza e costringere coloro che vogliono regolare la propria posizione a tornare nel loro Paese;
  • Introdurre test sui “valori americani” per gli immigrati in ingresso;
  • Proteggere gli interessi dei lavoratori afroamericani e ispanici, limitando i numeri di immigrazione legale
  • Ottenere duro sulle persone che rinnovano i visti, che li rende soggetti a espulsione

Supporters gather prior to Republican presidential candidate Donald Trump speech at a campaign rally at the Phoenix Convention Center, Wednesday, Aug. 31, 2016, in Phoenix. (AP Photo/Ross D. Franklin)
Sostenitori di Trump a Phoenix (AP Photo/Ross D. Franklin)

E infine costruire un muro lungo il confine che sia «impenetrabile, alto, potente, meraviglioso». Alla folla accorsa ad ascoltare il discorso di TheDonald il discorso è piaciuto, anche quando il candidato ha detto che «i messicani non lo sanno ma lo pagheranno loro» Il problema dei repubblicani è che al voto non vanno solo quelli che partecipano ai comizi e che il tentativo del partito di moderare la figura del candidato che si trova controvoglia a sostenere è saltato: se dopo la convention di Cleveland si era riuscita a imporre un direttore della campagna tradizionale – Paul Manafort – che rimettesse le cose in ordine, nel giro di poche settimane il tentativo è saltato. Trump ha licenziato Manafort, che tra l’altro aveva i suoi guai personali avendo lavorato ed essendo stato strapagato dai russi, e imbarcato due figure, Steve Bannon e Kellyanne Conway, in linea con il suo modo di essere.

“Let trump be Trump”, lasciate che Trump sia se stesso, è la nuova parola d’ordine. E il discorso di Phoenix è coerente con questo adagio, che serve a galvanizzare le folle già convinte di votare repubblicano, ma che probabilmente non funziona con quegli elettori moderati e quelli delle minoranze. Non basta dire che il presidente Nieto «ama il suo popolo ed è una brava persona» per corteggiare gli ispanici e non basta fare elenchi, Trump non dice come pagherà, come espellerà più di dieci milioni di persona. E non basta accusare Clinton di voler fare una sanatoria, la legge di riforma dell’immigrazione la vogliono anche molti repubblicani. A cominciare da John McCain, senatore dell’Arizona che cerca la rielezione e Marco Rubio, senatore della Florida, cubano, che ha bisogno del voto ispanico per riconquistare il suo scranno. I sondaggi continuano ad assegnare a Trump una distanza dalla candidata repubblicana che oscilla tra un punto e 10 punti percentuali. Non saranno le sparate sull’immigrazione a fargli risalire la china. Semmai, ad aiutarlo, c’è la pessima gestione della questione email di Clinton e la relativa incapacità di Hillary di dare un tono entusiasmante alla sua campagna.

Il discorso di Trump in due minuti

La Repubblica dei gufi.Caffè del 1 settembre 2016

Basta slide, la smetta di trattarci come deficienti! Un grido di dolore si deve essere levato ieri dalla redazione di Repubblica. Le slide, trenta, una per ogni mese al governo, erano tate appena diffuse da Palazzo Chigi e narravano di un paese felice in cui crescono il prodotto interno lordo e la fiducia degli italiani, aumentano gli occupati (anche fra i giovani), i visitatori nei musei, gli investimenti, gli aiuti ai bisognosi. Mentre calano deficit e debito pubblico. Un’Italia dove sempre più gente accende un mutuo per comprarsi la casa dei sogni o una bella auto nuova. Non ci credete? Ecco il link: http://bit.ly/trentamesi Come se non bastasse, è arrivata la News 440 “Abbiano nel cuore ancora il dolore di questi giorni” ma ci consoliamo con “un gruppo di bambini sfollati” che “dopo il pranzo ha organizzato la baby dance: Che bella Italia!”. E tre! Ecco le foto by Maranello, con Matteo Renzi che gongola fra i padroni del capitalismo compassionevole: Sergio Marchionne: John Elkan, mezza Confindustria, Angela Merkel, che stringe la zampa del cane pompiere. Propaganda di regime tanto spudorata da far rimpiangere, per la sua delicata auto ironia, persino il canto di Orietta Berti al capezzale dei governi democristiani e dorotei dopo l’autunno caldo e la strage di stato: “Finché la barca va, lasciala andare”. Il suggello, imperdibile, è poi arrivato da una giovane mamma e ministra, da Beatrice Lorenzin, che ci ha tele trasportati negli anni dell’Istituto Luce. Una clessidra ammonitrice e un letto, con due piedi di donna (pudicamente accostati) e circondati da due maschili, avvertono che “Renzi chiede più figli per la Patria” (titolo del Giornale) e perciò istituisce, ogni 22 di settembre, il fertilità day.
L’economia è ferma, tuona contro corrente la Repubblica. “Cala l’occupazione, prezzi in discesa, retribuzioni al palo..la ripresa che manca”. Da parte sua l’Espresso parla in copertina di “Macerie” e mostra poi “Il ricostruttore” sul fondo di una bella crepa. Provo a immaginare il colloquio stamane tra il nostro amato premier e il suo consulente, Jim Messina, che aveva curato la campagna di Obama, poi era passato a Cameron e ora si occupa di Renzi. “Guru, che succede? Anche Repubblica passa coi gufi?” “Matteo, usa le slide ti avevo detto, ma non come un bastone per rompere le teste. Evita le polemiche di partito, parla poco del referendum, non essere divisivo, e tu ne esci con il fertility day. E i Gay, allora, e le lesbiche? Bene Angela e François con te a commemorare Altiero, ma tu subito hai trascinato la Merkel tra auto rosse e padroni Senza un attimo di tregua, un momento per digerire la prima che arriva la seconda. Overdose, sai cos’è vecchio mio? Il vero problema che abbiamo è la tua insicurezza: hai paura, Matteo, e per questo non ti basta vincere, ogni volta devi stravincere. Attento, una Enews al giorno (e ne hai già scritte 440) toglie il premier di torno”.
Via, Mineo, vada alla notizia! Gli ultimi dati dell’istat sono così gravi da giustificare il cambio radicale dei toni e della disposizione d’animo del gruppo Repubblica -L’espresso. Voi lettori del Caffè siete fatti così: incontentabili. E allora dico che no, non è successo niente di così terribile. Ha quasi ragione Padoan: le ultime cifre si possono addirittura interpretare come la conferma di un flebile trend non negativo. La ripresa c’è. Ma -questo è il punto- è una ripresa che non riscalda i cuori e che serve a poco: non dà lavoro ai giovani, non spinge il ceto medio e spendere. Se poi confrontiamo dati dell’Istat, con quelli insufficienti ma più positivi forniti dagli istituti di statistica francesi e tedeschi, questa ripresa dello zero virgola parla di un’occasione perduta, di un’Italia che non ha neppure cominciato ad affrontare i problemi : corruzione diffusa, incapacità di governare burocrazia e amministrazione, banche e imprenditori che meriterebbero di fallire (non tutte né tutti, per fortuna) ma vengono tenuti in piedi dal Pantalone pubblico, scarsa produttività. In fondo le bugie di Renzi cercano in modo maldestro di nascondere queste omissioni e di non ammettere (non prima del referendum) il fallimento delle misure fin qui adottate: dagli 80 euro ai bonus, dagli sgravi all’abolizione della Tasi, dalla riforma della scuola alla balla della riforma costituzionale. A proposito, anche Luciano Violante -che si è rimesso e a cui faccio gli auguri- scrive per il Corriere della Sera che lui voterà Sì al referendum ma che Renzi dovrà cambiare al più presto la sua legge elettorale per tornare al Mattarellum. Dunque dovrà tornare a Canossa nelle fila del Pd e rinunciare alla chimera dell’uomo della provvidenza, solo al comando.

Caro prof concilia o no? L’ultima amara beffa della legge 107

La fila dei banchi viene allestita in vista dell'esame di maturità' in una scuola a Pontedera, 17 giugno 2014. ANSA/ STRINGER

“Che fa concilia?”. Non è un vigile urbano stile Alberto Sordi a porre la celebre domanda, ma è il Miur, sissignori, il Ministero della pubblica istruzione attraverso i suoi uffici scolastici regionali. Perché ai tempi della buona scuola alias legge 107, accade anche questo.

La conciliazione. Cioè una sorta di contrattazione – personale – tra singolo docente e amministrazione. Solo che il docente in questione è vittima di un errore causato dal famoso algoritmo che, oltre ad aver deciso la sorte delle assunzioni di tanti precari la scorsa estate, quest’anno pare proprio che abbia combinato un pasticcio, stando al numero di conciliazioni fioccate nei giorni concitati delle domande di trasferimento. Il cervellone del Miur ha spedito addirittura in regioni lontane dalla propria insegnanti della scuola primaria e della secondaria di primo grado, dopo essere stati scavalcati nella loro sede prescelta da insegnanti con un punteggio  più basso del loro. Come è accaduto per esempio alla professoressa che qualche giorno fa ha scritto al Tirreno. E’ una docente di musica della scuola media inviata da Prato a Venezia mentre nella sua provincia sono arrivati docenti con un punteggio inferiore al suo. Altro che deportazioni, esodi di massa, gonfiati dai media, qui si è trattato di un vero e proprio errore, dice l’insegnante.

Sull’algoritmo del Miur si mantiene il segreto più totale nonostante le proteste e le denunce di esponenti politici M5s in commissione Cultura di Camera e Senato che hanno chiesto più trasparenza “rispetto al lavoro e alla vita di persone che sono dipendenti del pubblico”. Stesse critiche anche da Giuseppe Civati e Beatrice Brignone di Possibile. Secondo i sindacati sono circa 5mila gli insegnanti “spostati” con evidente errore che hanno fatto richiesta di conciliazione. Il Miur per ora ha accolto 2600 ricorsi, prova che insomma qualcosa che non andava c’era, eccome.

Oggi, 1 settembre è il giorno in cui i docenti prendono servizio nella scuola assegnata. Ma si andrà un po’ per le lunghe, visti i problemi di conciliazione. Entro il 3 settembre,  gli uffici scolastici regionali, dovranno risolvere un problema che ha causato rabbia ma anche tanto senso di ingiustizia. ”Cercano di farci accettare la sede sbagliata, in qualche modo, ci scoraggiano ad andare avanti”, dice una docente di Firenze. “Continuano a dire che si deve accettare la sede assegnata, ma non è giusto, io farò ricorso al giudice del lavoro. Questa è una terra di non diritto”.

Prendere o lasciare: così si potrebbe riassumere il contenuto, più che di incontri ponderati tra persone, di asettiche mail. Dimenticando che si sta decidendo del lavoro ma anche della vita di persone che devono tagliare i ponti con città, amici e spesso familiari.
Il risultato di questa ennesima prova di inefficacia della macchina organizzativa della Buona scuola è, oltre che un altro schiaffo alla dignità dell’insegnante, anche una pesante zavorra rispetto al regolare inizio dell’anno scolastico. Infatti saranno molto probabili cambi di insegnanti in classe e didattica sconvolta.

Critico anche Domenico Pantaleo segretario Flc Cgil che pure aveva tentato insieme a Cisl, Uil e Snals qualche mese fa un accordo con il Miur proprio sul piano mobilità. Piano fallito miseramente, visto che sulla chiamata diretta il ministro Giannini non ha fatto alcune concessione. “Si è consumata l’ennesima ingiustizia ai danni di una parte consistente di docenti coinvolti nella mobilità. Il disagio creato a migliaia di lavoratori – dice adesso il sindacalista – che hanno dovuto lasciare la propria regione, con retribuzioni bassissime, è stato ignorato dal Governo nonostante che in molti casi era possibile trovare soluzioni che nel rispetto delle regole evitassero esodi di docenti”.
“Il nuovo anno scolastico comincia nel peggiore dei modi”, scrive la Cgil. Che insieme a Cisl, Uil e Snals ha fatto ricorso al Tar del Lazio proprio sulla chiamata diretta dei presidi, uno dei punti chiave della legge 107.

Ultima chicca in ordine di tempo: la cosiddetta rendicontazione per ottenere il bonus (ottima iniziativa)  di 500 euro previsto per la formazione dei docenti. Ebbene, la scadenza era il 31 agosto. Il Miur presenta le regole secondo le quali effettuare le rendicontazione (scontrini, ricevute ecc.) soltanto il 29 agosto. Quando cioè tutte le segreterie scolastiche avevano già finito il lavoro, con ogni istituto che si era fatto le “regole” per conto proprio, vista l’assenza delle disposizioni centrali.  Tutto da rifare, ora le regole ci sono e il termine ultimo è il 15 ottobre. Se questo non è un segno di inefficienza  cos’è?

Fertility Day: s’odono le ovaie suonare a festa

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Ho sperato che fosse uno scherzo. Ho pensato che con questa orda di webeti (figli di quella stessa televisione che ora li percula) qualcuno avesse avuto la trovata di mettere in piedi una falsa campagna istituzionale. Ma davvero il cattivo gusto e il buonpensare della ministra Lorenzin potrebbe arrivare a tanto? Mi sono chiesto. E sì. E sì. E sì.

Complice la disattenzione agostana la Morale di Stato si è infilata nel ministero e ci è apparsa in tutta la sua completezza: qui da noi la Morale è molto spesso una vecchia megera che vorrebbe insegnare agli altri cosa è giusto e cosa no, i buoni e i cattivi e, spesso, anche tutte le più recondite prurigini che rovistano tra i genitali tenendo però lo sguardo verso qualche dio, un indefinito infinito e la Ragion di Stato. Che in Italia le tre divinità si sovrappongano complica poi terribilmente le cose.

La Lorenzin (ma mica lei: il governo, tutto, che è responsabile di tutte le azione di tutti i suoi componenti) ha deciso di indire la giornata della fertilità nazionale. Ventiquattro ore di vergogna per chi è infertile per natura o per età o per distrazione mentre le ovaie calde delle partoriture suonano a festa per i borghi italiani. Ha pensato, la Lorenzin (e il governo), che il modo migliore per combattere il calo demografico sia quello di sdoganare un bell’amplesso giovanile destinato alla procreazione. Scopo della godereccia campagna sarebbe (come si legge sul sito istituzionale del ministero):

1.informare i cittadini sul ruolo della Fertilità nella loro vita, sulla durata e su come proteggerla evitando comportamenti che possano metterla a rischio

2.fornire assistenza sanitaria qualificata per difendere la Fertilità, promuovere interventi di prevenzione e diagnosi precoce al fine di curare le malattie dell’apparato riproduttivo e intervenire, ove possibile, per ripristinare la fertilità naturale.

3.sviluppare nelle persone la conoscenza delle caratteristiche funzionali della loro fertilità per poterla usare scegliendo di avere un figlio autonomamente e consapevolmente.

4.operare un capovolgimento della mentalità corrente volto a rileggere la Fertilità come bisogno essenziale non solo della coppia ma dell’intera società, promuovendo un rinnovamento culturale in tema di procreazione

5.celebrare questa rivoluzione culturale istituendo il “Fertility day”, Giornata Nazionale di informazione e formazione sulla Fertilità, dove la parola d’ordine sarà “il prestigio della maternità”.

Se lo schema vi ricorda qualcosa vi aiutiamo noi: è lo stesso nerboruto verbo con cui Mussolini incitava le donne italiche a “procreare per fare impero” e lo stesso innaturale naturalismo delle religioni che vedono la donna nell’unico ruolo dell’incubatrice di figli. Solo che questo accade nell’Italia così smart e young che Renzi e i suoi sodali continuano a propinarci come il migliore Paese possibile.

Femmine, sappiate, se non fate figli siete un inutile costo per la comunità: siete inutili come un tornio rotto, siete colpevoli di fronte al commercialista divino della riproduzione, siete antipatiche alla ministra allo sbaraglio, siete brutte, incostituzionali e troppo distratte.

Donne, la vostra fertilità è un bene comune (recita così una delle orride cartoline ministeriali): se non la userete diventerà nostra per usucapione. Se la usate a piacimento è come una vostra seconda casa di cui vi raddoppieranno la tassazione. Se la usate nei tempi sbagliati sarete la x che farà saltare l’equazione di Stato. E se non ce l’avete, beh, se siete donne non feconde, rileggetevi la campagna e tirate le somme.

Povera Italia.

Buon giovedì.

 

Cartoline dal pianeta fertilità (da rispedire al mittente)

Il 31 dicembre 2015, in Italia vivevano 60.665.551 persone, lo stesso giorno del 2014 erano invece 60.795.612, circa 130mila in più.  In Italia prosegue la diminuzione delle nascite in atto dal 2008. Nel 2015 i nati sono meno di mezzo milione (-17 mila sul 2014) e gli stranieri erano il 14,8% del totale. I morti sono stati circa 150mila in più dei nati e l’età media continua a crescere. Non c’è che dire, l’italica razza non è messa bene e non sarebbe male – per avere un Paese più dinamico, al passo coi tempi, che guarda avanti anziché indietro – se ci fossero più giovani. Dunque, se si facessero più figli.

E allora perché la campagna di cartoline che annuncia il #fertilityday per il 22 settembre ha generato il finimondo? Il numero di argomenti è quasi infinito. Ci sono il nome e il tema scelto: fertilità da difendere e proteggere. Come se il problema vero e serio del Paese fosse quello della fertilità – che pure forse è in lieve calo, ma non tale da giustificare il dato demografico. C’è la campagna insultante nei confronti delle donne: la cartolina che più è stata rilanciata sul web è quella con la donna che, clessidra in mano, ci ricorda che a un certo punto si diventa infertili (anche se restate sempre belle, belle). Meglio farli subito i figli, dunque. “Sbrigatevi, che diventate infertili, vecchie e inutili” – di quanto sia delicata la campagna con le donne che non riescono ad avere figli a 25 anni non parliamo nemmeno. La cartolina sul “poi ne fate uno solo”, chiedete ai vostri amici con un figlio e 35 anni, poi, fa infuriare: soldi, tempi di vita, case, asili…ma di che parliamo?

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Che sui manifesti e sulle cartoline si raffigurino solo donne è anche un po’ buffo. Dov’è la cartolina “Non aspettare che non ti tiri più, accoppiati selvaggiamente con la tua compagna e ingravidala”? (ce n’è una con la sigaretta e gli spermatozoi che rallentano, a dire il vero, ma è un’altra cosa). In tutto questo c’è un pensiero di fondo, lo hanno scritto in tante in queste ore, che è quello dei ruoli naturali, dei compiti da svolgere nella società e di un’idea strana e poco moderna sulle scelte delle persone di sesso femminile. Somiglia in forma uguale e contraria a quanto fatto e sostenuto in Francia sul burqini: lo sappiamo noi, politici maschi (o femmine che sia) quello che fa per voi: figli e costumini discinti. Se invece scegliete di non fare figli o scegliete di coprirvi di più e lo fate liberamente, fate male.

Ma torniamo ai numeri e ai figli. Sarebbe bello averne e farne di più. E il governo, lo Stato, potrebbe fare qualcosa per incentivare le coppie giovani a farne. Non spedendo cartoline ma con politiche attive. Non c’è bisogno di ripetere che i Paesi occidentali dove si fanno più figli hanno anche politiche di welfare (asili, sussidi, case, permessi) che aiutano le coppie dove entrambi i genitori lavorano a conciliare i loro tempi di vita con i nuovi arrivati vero? E nemmeno che con salari da fame e prezzi delle case alle stelle come nei centri urbani italiani è difficile pensare di fare un figlio. E sottolineare che il calo demografico comincia nel 2008, quando esplode la grande crisi, vi dice qualcosa? Negli Stati Uniti, dove pure il welfare pubblico non esiste quasi, i figli li fanno i molto poveri e religiosi e i giovani in carriera che guadagnano molti, ma molti soldi. E che poi cambiano casa o città proprio per “colpa” del fatto che hanno fatto figli e devono spostarsi per potersi permettere 10 metri quadri in più.

Proprio negli Stati Uniti, in queste settimane è uscita la nuova edizione rivista di Unfinished business, Women, men, work, family, l’ultimo libro di Anne-Marie Slaughter, che dirige la New America Foundation, che ha lavorato per l’amministrazione Clinton e insegnato a Princeton e il cui articolo su The Atlantic “Why women still can’t have it all” ebbe un successo enorme. In estrema sintesi e con un punto di vista personale, Slaughter sostiene che senza valorizzare il lavoro di cura, dargli lo stesso peso di quello salariato, professionale e senza cambiare il ruolo degli uomini nell’organizzazione della società, è difficile pensare di raggiungere la parità. Ovvero cambiando welfare, tempi di vita, idea della retribuzione e del successo personale. Un affare complicato, sul quale cominciare a ragionare. Proprio come il riscaldamento globale o l’avvento dei robot: sono le sfide del futuro di cui tutti dovremmo discutere. Sfide che, se affrontate, ci aiuterebbero superare i problemi che non ci fanno avere figli.

Ecco delle cose da fare, del welfare a cui pensare, delle idee semplici e complicate sulle quali lavorare, delle risorse da trovare. Certo, ne serviranno un po’ di più di quelle stanziate per una campagna sballata e per mettere su un sito che mentre scriviamo è inaccessibile. Forse perché a Palazzo Chigi qualcuno si è accorto dell’errore?

Il vescovo e il libero arbitrio.Caffè del 31 agosto 2016

Non uccide il terremoto, uccidono piuttosto le opere dell’uomo. Il vescovo di Rieti ha scelto Rousseau (vedi il Caffè del 26 agosto, “Sul terremoto..di Lisbona”), ha posto l’accento sul libero arbitrio e dunque sulla responsabilità piena degli uomini. Così Francesco vuole salvare la sua chiesa: liberandola da ogni ruolo di supplenza nei confronti del potere, facendone una voce libera che, in nome del divino che è poi l’umano dell’uomo, sia capace di dialogare con altre voci libere e di squarciare il velo delle ipocrisie che usavano scaricare sul fato o sulla volontà di dio quel che deriva invece da atti umani. Le parole dei telecronisti -per quel poco che ho ascoltato- stridevano con tale messaggio e spandevano, con toni “sobri”, il miele della retorica del dolore e della solidarietà. Ma quelle parole restano, come resta l’immagine di Mattarella e di Renzi “confusi” -così ha detto un cronista- tra la folla dei semplici cittadini. Corriere e Repubblica usano titolano “l’accusa del vescovo”. Insomma: tu l’hai detto, Pompili. Sei tu che ci rubi il mestiere.
I fondi spariti dalla ricostruzione. La Stampa denuncia: “Spesi in consulenze il 40% dei fondi destinati alle case crollate”. Sul Corriere Sergio Rizzo accusa “i professionisti della ricostruzione” e ricorda i tempi dell’Aquila. Dietro le promesse roboanti del premier di allora (era Silvio Berlusconi), dietro l’immagine dei capi di stato e di governo che si riunirono a corte tra le macerie, si muovevano imprenditori sciacalli, lesti a definire quella tragedia “una botta di culo”, c’era “l’intreccio, comune nei piccoli centri, tra geometri locali e politica”, c’era l’evidenza che “lavorano sempre gli stessi, tirano su muretti e palazzine e li riparano se crollano”. Insomma, “un sistema di illegalità diffusa”, come scrive sulla Stampa Gustavo Zagrebelsky: “È malato un paese.. in cui metà delle pagine alle indagini di una procura della Repubblica, alla loro ampiezza e alla diffusione di illeciti e reati, che quasi sembrano costituire la normalità”. Eh no, L’Aquila non si tocca! E basta coi giudici Il Giornale si ribella: “Indagano anche i morti”. “Tutti a caccia di colpevoli. Pm e giustiziasti contro i privati. All’Aquila ci furono 200 inchieste,19 processi, poche condanne”. Una excusatio non petita che Zagrebelsky ha forse previsto: “Se un tocco di sarcasmo è consentito si può notare che i regimi corrotti di solito hanno una magistratura asservita: della corruzione si può bisbigliare, ma senza prove. L’Italia corrotta è incoerente, poiché mantiene una magistratura indipendente. E allora la corruzione viene fatta emergere ed è sotto gli occhi di tutti. Ma inutilmente, poiché l’ipocrisia protegge la corruzione”.
Apple deve restituire 13 miliardi, titola il Sole24Ore. Sia lode a Margrethe Vestager commissaria europea alla concorrenza, che ha osato sfidare il colosso di Cupertino. La vicenda è semplice: le multinazionali pretendono che i governi le ringraziano perché creano posti di lavoro (pochi), perché muovono le borse e contribuiscono al PIL. Dunque ritengono di non avere ulteriori doveri e in particolare di non essere tenuti a pagare le tasse se non dove più gli conviene e nella misura minore possibile. Può funzionare? Forse sì, ma solo se si smantella il welfare pubblico in ogni dove (sanità, scuola, trasporti, previdenza, assistenza, prevenzione sismica, tutela del territorio) e si affida la nostra vita quotidiana interamente all’iniziativa privata ed, eventualmente, a un welfare messo su dalle multinazionali. A rigore una contraddizione resterebbe perché le multinazionali wall street avranno comunque bisogno almeno della forza degli eserciti, che le difendano dagli attacchi dell’anti- (di questo tempi islamica). Si può fare, certo, ricorso a eserciti mercenari -ricordate i contractors delle guerre di Bush?- e alle multinazionali delle armi. Ma poi occorrerà socializzare quei costi, tutt’altro che indifferenti. Ma non voglio divagare. Il punto secondo me è che sia la tassa richiesta ora dall’Europa ad Apple, sia il blocco imposto al trattato di libero commercio, Ttip, testimoniano del contrasto che si è aperto (vedi Brexit) tra due idee entrambe di destra: Il nazionalismo protezionista e l’universalismo a misura della finanza e delle multinazionali. Mi chiedo con chi stia la sinistra. Quella che vedo, dà un colpo al cerchio e uno alla botte,strizza l’occhio, vivacchia.
Anche Macron lascia Hollande. Chi è Macron? Il ministro delle finanze voluto dal presidente, un uomo che avrebbe dovuto rappresentare la destra della sinistra, il liberista spinto di un governo gestito da un socialista della Terza Via, Emmanuel Valls, e guidato da un socialista compassionevole, cioè Hollande. Macro ha 38 anni, ritiene che destra e sinistra siano categorie ormai senza senso, che la democrazia dei partiti sia giurassica, che la politica abbia bisogno di uomini soli che si rapportino direttamente al popolo. E ha fondato un movimento che si chiama “En marche”. Bellissimo, modernissimo? “Fino a questo momento -osserva Marc Lazar su Repubblica- per vincere un’elezione c’è sempre stato bisogno di un partito: un semplice movimento potrà bastare?”. Dunque Lazar definisce Macron “avventurista” anche se ammette che “la bomba Macron è esplosa ed è forse il preannuncio di una vasta ricomposizione della scena politica francese”.

Si parte. Al via la 73° festa internazionale del cinema di Venezia

Apertura della festa internazionale del cinema all’insegna del lutto e della sobrietà. Niente cena di gala e poche passerelle per rispetto delle vittime del terremoto del 25 agosto e delle loro famiglie che stanno passando momenti terribili.

La festa internazionale del cinema numero 73 ha  come madrina, discreta ed elegante, l’attrice Sonia Bermagasco che ha studiato al Piccolo di Milano con Giorgio Strelher ed è diplomata in pianoforte al Conservatorio “Giuseppe Verdi” di Milano.  La rassegna  si apre ufficialmente al Lido  il 31 agosto  e prosegue fino al 10 settembre, puntando sul cinema italiano con tre film  in concorso Piuma del giovane e talentuoso regista e scrittore pisano Roan Johnson, il documentario Spira Mirabilis di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti e Questi giorni di Giuseppe Piccioni. In gara insieme a grandi maestri come Wim Wenders, Emir Kusturica, François Ozon e Terrence Malick. E ancora il nuovo film dello stilista Tom Ford e del framcese Denis Villeneuve. Fuori concorso sarà presentato il western I magnifici 7, remake di un film anni 60 diretto da Antoine Fuqua,  che poi aprirà Toronto.

Sonia Bergamasco
Sonia Bergamasco

l nuovi lungometraggi della Selezione Ufficiale sono 55, di cui 20 in Venezia 73 (Concorso) , 18 Fuori Concorso (di cui 7 documentari),  19 in Orizzonti. La giuria internazionale diretta da Sam Mendes ha fra i suoi componenti  la musicista americana Laurie Anderson e il giallista e magistrato Giancarlo De Cataldo.

Decimo film per il regista Giuseppe Piccioni in Questi giorni racconta la storia di un gruppo di ragazze di provincia, negli anni dell’università in cui si fanno scelte che cominciano a sembrare non più rinviabili. Nel cast Margherita Buy, Maria Roveran, Filippo Timi, Alessandro Averone, Mina Djukic e molti altri. Tratto dal romanzo inedito Color betulla giovane di Marta Bertini, il film è prodotto da 11 marzo, Publispei, Rai Cinema e distribuito da Bim.

Piuma di Roan Jhonson
Piuma di Roan Jhonson

 Piuma  è il quarto film di Roan Johnson  e segue il suo filone più fortunato, quello di una storia di ragazzi, questa volta una giovanissima coppia che, mentre sta preprando gli esami di maturità, si ritrova alle prese con una gravidanza inattesa e «con il mondo che inizia ad andare contromano». A calarsi nei panni di Ferro è Luigi Fedele, mentre Cate è Blu Yoshimi. Prodotto da Palomar e Sky Cinema, con il contributo del Mibact il film è distribuito da Lucky Red.

Manco a dirlo, quelli della gestazione saranno i nove mesi più burrascosi della loro vita, anche perché nel frattempo bisogna preparare la maturità insieme al Patema e agli altri amici,  senza trascurare i viaggi da tempo sognati in Spagna e Marocco. Un fim in cui Roan Johnson, autore anche di un interessante romanzo per Einaudi, Prove di felicità a Roma est, riallaccia i fili con suoi lavori precedenti come  I primi della lista e Fino a qui tutto bene.

Quanto a Spira mirabilis, il  film documentario di Massimo D’Anolfi e Martina Parenti immaginato come una sinfonia visiva sui quattro elementi,aria, acqua, fuoco e terra.

Nocturnal animals Tom Ford
Nocturnal animals Tom Ford

La scena internazionale . Il regista e stilista Tom Ford è atteso al varco della seconda prova. A Venezia presenta in concorso Nocturnal animals, interpretato da Jake Gyllenhaal, Amy Adams. Come il precedente film A Single Man, che regalò a Colin Firth una Coppa Volpi a Venezia è una storia che affronta il tema della perdita di un amore. Il film è un adattamento del romanzo di Austin Wright, Tony and Susan, ( pubblicato in Italia da Adelphi) un thriller esistenziale la cui sceneggiatura è stata scritta dallo stesso Ford.

Frantz eil  sedicesimo film di François Ozon ( nel cast c’è l’astro nascente francese Pierre Niney) è stato scritto dal regista ed inizia in una cittadina tedesca poco dopo la Prima guerra mondiale. È la storia di Anna che si reca tutti i giorni sulla tomba del fidanzato Franz, ucciso in Francia. Finché un giorno Adrien, un misterioso ragazzo francese, porta dei fiori alla tomba e la sua presenza susciterà delle reazioni imprevedibili in un ambiente segnato dalla sconfitta tedesca innescando una storia imprevista.

Fra i film da segnalare c’è anche il film  Brimstone. Protagonista del film di Koolhoven un uomo di Chiesa  che, in nome di Dio, commette ogni tipo di crimine. Il reverendo interpretato da Guy Pearce fra accoltellamenti, mutilazioni, impiccagioni, fucilazioni, frustate, violenze sessuali.  In questo insolito film ambientato nel West, coprotagonista è una donna priva della parola ( Dakota Fanning), moglie e madre, in fuga da un padre folle e abusivo, pedofilo, esaltato. L’escalation di violenza nel film è raccontata in capitoli, come se fosse un film di Lars von Trier , al centro  la costante è l’ossessione maschile del possesso della donna.  Nella visione misogena del West, sempre da  punire, se non ci sta, nei modi più selvaggi e spietati. Privandola della libertà, del proprio corpo, della vita.

La Chiesa e la sua visione medievale è al ccentro anche del documentarui Liberami il vero volto degli esorcisti di Federica Di Giacomo, un docufilm scritto con Andrea Zvetok Sanguigni e prodotto da Mir Cinematografica con Rai Cinema, che sottolinea il numero crescente dei preti che lo praticano,  a partire dalla storia di padre Cataldo, esorcista in Sicilia e da quelle di Gloria, Enrico, Anna e Giulia che ogni martedì seguono le messe di” liberazione”.

Ancora per quanto riguarda docufilm di qualità, da non perdere di vista, l’anteprima il 5 settembre di Zaza, Kurd di Simone Amendola, progetto vincitore del bando MigrArti del MiBACT. «Racconta la fine di un lungo esilio. Un segno di speranza e bellezza per un popolo senza lingua e senza Paese». Il film, prodotto grazie alla vittoria del Bando MigrArti del MiBact, è un documentario breve che attraverso l’uso di vari linguaggi vuole dare voce alle ferite che il protagonista si porta dentro. In un momento in cui la Turchia è sempre più sotto la stretta autoritaria del governo Erdogan, che attacca i curdi, dicendo di voler combattere l’Isis, il film propone al pubblico del Lido spunti di riflessione importanti.

Anche quest’anno sarà possibile vedere i film di Venezia da casa. Una selezione di opere provenienti dalle sezioni Orizzonti, Biennale College e anche da altre sezioni ufficiali del festival saranno online. Il biglietto è di 4 euro per ogni film. Sarà possibile accedere alle visioni a partire dal 1 settembre attraverso la pagina di Festival Scope. Per l’occasione, indie-eye, in collaborazione con Festival Scope di cui è media partner, lancia un contest a partire da oggi stesso che si concluderà il 4 di settembre. Fino a quella data potete riempire questo form dedicato e partecipare alla vincita di un pass che vi darà la possibilità di godervi 5 film gratis a partire dal 5 settembre fino al 10 settembre.

I premi alla carriera quest’anno vanno Jean-Paul Belmondo e al regista polacco Jerzy Skolimowski.

«In un momento in cui la crisi del mercato si fa sentire – dice il direttore  della Biennale cinema 73 Alberto Barbera– proponiamo un ventaglio articolato di proposte di film diversi ed eterogenei, che hanno in comune la più o meno sotterranea intenzione di rivolgersi ad un pubblico il più vasto possibile, annullando o riducendo le distanze fra spettatori cinefili e quelli che cercano in primis un’occasione di intrattenimento non banale».

 

Apple, Facebook, Google e il bullismo fiscale

epa05388504 Mark Zuckerberg, Founder of Facebook, speaks during the 2016 Global Entrepreneurship Summit at Stanford University in Stanford, California, USA, 24 June 2016. EPA/MONICA M. DAVEY

Niente crea più disuguaglianza che aiutare tutti nello stesso modo. Eppure non accade nemmeno questo: i forti con i deboli tendono a essere poi deboli con i forti per una legge del contrappasso che gli è favorevole. E così succede che in quest’Italia di professionisti digrignatori di denti (di fronte ai fragili demonizzati, preferibilmente profughi e stranieri) si apparecchi un’accoglienza barzotta a Mark Zuckerberg con il sorriso servile di chi ha intravisto uno sceicco e a nessuno venga in mente di chiedere al fondatore di Facebook (che ha dispensato slogan motivazionali da baci Perugina) se ritenga giusto pagare all’Italia 200.000 euro di tasse di fronte a un incasso di 350 milioni di euro.

Niente. Renzi era troppo preso a postare (su Facebook, appunto) la foto di lui e Mark; il Papa sempre intento a simulare giovanilismo e gli studenti universitari si sono scordati di chiederglielo. Avrebbero potuto farlo i giornalisti ma, ahinoi, i giornalisti non potevano fare domande. Succede. Cosa ne pensa un lavoratore italiano qualsiasi della differenza tra la propria pressione fiscale e quella del proprietario di Facebook invece è facile immaginarlo. Anche senza domande.

E mentre l’Italia si inzerbinava per Zuck (che apre la strada alla beneficienza con i buoni sconto, come al supermercato) l’Europa per la prima volta ha deciso invece di alzare la voce contro il bullismo fiscale di Apple che con la sua sede irlandese (finta) ha goduto di un’aliquota fiscale dello 0,005%. Sì, avete letto bene: al fisco europeo mancano qualcosa come 13 miliardi. E la Commissione Europea (senza bisogno di portaerei, passerelle e necrofilia storica) ha deciso di alzare la voce.

Insomma, l’Europa si arrabbia con le multinazionali e, per una volta, insegna a far politica ai Paesi membri. Proviamo ad applicare le regole, magari? E fuori succede un finimondo: Apple si indigna, l’Irlanda (la mangiatoia di Apple ma anche di Facebook e di Google) reclama il diritto di esercitare la propria prostituzione fiscale e i soliti noti balbettano qualcosa.

La fine che vorremmo? Che si approfittasse della moda per attaccare davvero i prepotenti senza fermarsi ai giganti informatici americani: ci sono banche, aziende farmaceutiche, coaguli finanziari e bande di potere che meriterebbero un controllo approfondito. Chissà se il coraggio basterà.

(Intanto, sullo sfondo, Marchionne ci insegna che è immorale guadagnare più di 50 milioni di euro all’anno. Lui, con residenza americana. Ovviamente. Al Capone era un chierichetto, al confronto)

Buon mercoledì.