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Spine per Raggi,delusioni per Renzi.Caffè del 3 settembre 2016

Pil, secondo trimestre fermo a zero. È il titolo del Sole24Ore. “Il Pil delude. Per l’Italia crescita zero”, fa eco Repubblica. Insomma, dall’Istat è arrivata la gelata sui dati del secondo trimestre. Che ne facciamo, ora, delle slide ottimiste di Palazzo Chigi. A spulciare i dati, qualcosa di meno peggio, da cui trarre conforto, si trova sempre. In questo caso l’Istat ha rivisto al rialzo la crescita del periodo gennaio-luglio, portandola dallo 0,7 allo 0,8%. Uno 0,1% per cento in più, appena “un millesimo del prodotto interno lordo”, osserva Francesco Manacorda su Repubblica, che poi prosegue, impietoso: “Poco più della metà di quanto gli italiani hanno speso lo scorso anno in gelati”. È possibile che i dati del terzo trimestre siano migliori, perché entrerà nel conto il fatturato del turismo estivo e perché è possibile che a settembre gli italiani spendano un po’ di più, come avevano cominciato a fare all’inizio di quest’anno. Ma -sempre Manacorda- “Sfortunato il paese che dibatte sulla crescita dello zero virgola qualcosa”. Così il Corriere titola: “Flessibilità, pochi margini” e giù un’intervista di Federico Fubini al vice presidente della commissione europea Dombrovskis. La Stampa fa dire a Renzi che “Le banche devono dimagrire”: meno sportelli, meno impiegati. Il Fatto si diverte e sussume i dati Istat alla trovata demenziale della Lorenzin: “Fertility day: sempre crescita zero”. Dario Di Vico si consola con un altro annuncio fatto ieri da Renzi: “abbasserà il tax rate a cominciare dall’Ires”. Per l’editorialista del Corriere è l’inizio di un pentimento operoso: non più bonus e sgravi indiscriminati, ma usare il poco che c’è per ridurre il costo del lavoro. Resta il mistero su dove il governo possa trovare i fondi. E Susanna Camusso, intervistata da Repubblica, finge di correre in soccorso del governo, proponendogli  “Una patrimoniale, per finanziare il taglio delle tasse sui salari nazionali”.
Dove cacchio è finito il manuale per governare Roma? Se lo chiede Virginia Raggi, secondo Altan. È proprio questo il punto. Se la narrazione salvifica e ottimista del Renzi si è squagliata in due anni e mezzo di governo nazionale, quella dei 5 Stelle (le famose “regole del movimento”, “l’uno vale uno”, il “tutti portavoce”, la “democrazia della rete che sostituisce quella parlamentare o dei partiti”) tanta bella panoplia di certezze gridate sembra essersi sfarinata dopo solo 70 giorni dalla vittoria al comune di Roma. E la cura per i 5 Stelle è una sola: smetterla di proclamare una loro (presunta) diversità antropologica e mettersi a discutere di politica. Non c’è infatti diversità che tenga senza un’analisi realista dello stato del paese (in questo caso della città di Roma), senza un dibattito franco e pubblico sulle scelte da farsi, senza legare ogni nomina a un’idea precisa, senza il coraggio di considerare chi non è d’accordo per quel che dice e non per il danno che il suo dissenso potrebbe arrecare alla ditta pentastellata. Ha ragione Pizzarotti: “Il dissenso represso porta a liti di corrente”. Ora l’assessore dimissionario Minenna denuncia: “Con Virginia genere sbagliata”. E Virginia replica: “Cacciata una cordata di poteri forti”. Ora Di Maio avverte: “se falliamo a Roma finisce tutto”. Ora il Fatto scrive “traballa anche Paola Muraro”. Perché se non era accettabile la nomina a chiamata diretta della Raineri, non lo è neppure quella della Muraro, da consulente dell’Ama ad assessore all’ambiente.
La Francia ci chiede scusa per una vignetta. Francamente non capisco perché mai uno stato dovrebbe rispondere della stronzata di un giornale. La vignetta con i piedi delle vittime di Amatrice pressati in un italico piatto di lasagne era orribile! Sì, lo era. Per la verità erano assai discutibili anche quelle sull’Islam, “Le Coran c’est de la merde”, o sulla trinità cristiana, padre, figlio e spirito santo che si sodomizzano. Penso che una vignetta schifassi debba rispondere con la pernacchia del principe de Curtis, al secolo Totò, o meglio ancora con il pennacchio lungo lungo, “di testa e di petto”, che Edoardo De Filippo prescriveva contro un signorotto pluri titolato. Senza denunce in tribunale né scuse diplomatiche. Ma, direte, non hanno forse diritto di sentirsi offese le famiglie dei morti? Penso che quelle famiglie abbiano subito ben altro oltraggio. E la risposta del settimanale d’oltralpe, “Italiens, c’est pas Charlie Hebdo qui construit vos maisons, c’est la mafia”, che pure profuma di razzismo, evoca tuttavia un sospetto non del tutto infondato. Io dico: portiamo in tribunale chi specula sulla sicurezza e puniamo invece con lo scherno, o con il silenzio, il cattivo gusto di chi fa satira.
Nella città ostaggio di Idlib, la roccaforte di Al Nusra. Domenico Quirico a lungo sequestrato dagli islamisti, è tornato in Siria e si è spinto fin laggiù. Tra quei guerrieri che in Europa consideriamo terroristi fanatici ma che in Siria fingiamo di considerare alleati, perché combattono i Russi di Putin, gli Ayatollah iraniani vestiti di nero, il macellaio siriano Assad.”Idlib da quattro anni fa parte del califfato di Al Nusra: no, ora Al Qaeda si fa chiamare Fateh al Cham. Ancora mimetismi, trucchi semantici per attrarre altri gruppi islamici minori”, scrive l’inviato della Stampa. “Uccidono, mettono autobombe, torturano e rubano come Daesh: ma, ipocritamente. Non usano la videocamera, non proclamano ipotetiche avanzate verso Roma. Lo scopo è identico: Califfato e totalitarismo di Dio che hanno messo in pratica nella provincia di Idlib e nelle zone di Aleppo che controllano”. Ma i bond sauditi attraggano capitali finanziari in cerca di profitto. Riad compra armi sollevando il PIL. E la strage del Bataclan sembra ridursi a un danno collaterale.

Spagna, nuovo No a Rajoy. Verso il terzo voto in un anno?

epa05516919 Spanish Socialist party leader Pedro Sanchez attends the debate on the second day of the investiture debate at the Lower House in Madrid, Spain, 31 August 2016. The Spanish Parliament holds the investiture debate in which MPs will vote in favour or against acting Prime Minister and leader of the People's Party (PP), Mariano Rajoy, after he managed the most number of votes but without the necessary majority to form Government on second elections last June. Forecasts are that Rajoy will not receive enough support to be chosen as Prime Minister forcing third general elections, despite his party's agreement with Spanish party Ciudadanos. EPA/MARISCAL

Feliz Navidad Espana, è il caso di dire. Alle ore 21 La Cortes voterà ancora, e per l’ultima volta. òa fiducia a Mariano Rajoy. E sarà ancora una volta, un No. A questo punto, la Spagna andrà dritta dritta verso le terze elezioni in un anno, fissate il 25 dicembre. A meno che nuove alleanze non nascano in tempo, e cioè entro due mesi.

Al primo voto, di mercoledì, Rajoy ha ottenuto 170 voti a favore e 180 contro. E i socialisti hanno confermato che il loro No rimarrà tale anche al secondo voto di questa sera alle 21. A questo punto, re Felipe riaprirà le consultazioni con i partiti per nominare un altro primo ministro incaricato. La soluzione dovrà arrivare entro il 31 ottobre, due mesi di tempo come previsto dalla Costituzione spagnola, per un nuovo governo. Potrebbe essere – difficilmente – ancora una volta Rajoy, o – molto più probabile – il socialista Pedro Sanchez o anche qualcuno che non fa parte del Parlamento, purché sia di nazionalità spagnola e abbia i diritti politici, dice la Costituzione.

Tanto è certo che Rajoy non ce la farà, che già si discute delle terze elezioni, previste per il giorno di Natale. Mariano Rajoy ha promesso agli spagnoli che non rovinerà loro il cenone e che riuscirà a trovare un accordo per cambiare data. E, almeno su questo, l’accordo sembra alle porte. Inclusa Unidos Podemos che scongiura l’incremento dell’astensione. E, però, approfitta per ricordare: «Si può fare ancora molto per evitare le terze elezioni». Il messaggio è ovviamente diretto al Psoe di Pedro Sanchez che da questo momento ha in mano la situazione.

Che problemi ha Virginia Raggi

La sindaca di Roma Virginia Raggi in aula Giulio Cesare in Campidoglio, durante l'assemblea comunale straordinaria sul caso rifiuti, Roma, 10 agosto 2016. ANSA/ANGELO CARCONI

Lasciamo perdere le lacrime di cui scrive Repubblica, un pianto che sarebbe persino comprensibile, immaginando la pressione caduta sulle spalle di una sindaca con poca esperienza amministrativa, che in Comune è già entrata, ma c’è stata solo per tre anni e da consigliera d’opposizione. La prima crisi affrontata da Virginia Raggi è una crisi complessa, frutto anche dell’accavallarsi di diverse questioni. Raggi ha molti fronti aperti, alcuni causati dalle sue scelte (come quella di aver voluto tenere al suo fianco Raffaele Marra, ex collaboratore di Alemanno e Polverini, anche se era in aperto contrasto con la dimissionaria Raineri), altri legati alla natura del Movimento 5 stelle che – in estrema sintesi – si sta scoprendo partito, vedendo svanire, in soli tre mesi, anni di propaganda sui cittadini al potere, sull’assenza di corpi intermedi, sulla trasparenza assoluta e la democrazia diretta.

Raggi ha dunque diversi problemi, e il primo è proprio Beppe Grillo. Almeno da punto di vista politico – perché, sì, spiace, ma i partiti hanno spesso problemi politici. Negli staff del Movimento descrivono Grillo come «arrabbiatissimo» e preoccupato da possibili ulteriori sviluppi. Una prima telefonata con la sindaca non è bastata, e il leader del Movimento scenderà a Roma lunedì, interrompendo le sue vacanze sarde. Resterà alcuni giorni, ancora non si sa bene quanti. Tutto il tempo che servirà per mettere ordine e evitare che Raggi si avviti ancora di più, chiusa tra i suoi fedelissimi e appunto Marra. Non è un commissariamento della sindaca – non lo è ancora – e questo per alcuni consiglieri è persino un male: «Magari», dicono sottovoce.

C’è poi il problema delle nomine. Problema che Grillo aiuterà a risolvere, ma che per il Movimento rischia di essere cronico, connaturale. Nello specifico della crisi romana, ci sono da sostituire l’assessore Minenna (che aveva deleghe importanti, al Bilancio, al personale e alle partecipate, e che molti nel Movimento già vedevano lanciato verso il ministero dell’Economia), il capo di gabinetto (che sarebbe il terzo, dopo Marra, poi retrocesso, Frongia, poi fatto vicesindaco, e Raineri), e i vertiti di Ama (Alessandro Solidoro era appena stato nominato, ma era un uomo di Minenna) e Atac. Le nomine arriveranno nei prossimi giorni, ma per ora non si sa dove sbattere la testa. Perché la questione è appunto più larga: il Movimento 5 stelle ha scoperto che non avere una propria classe dirigente, amministratori e dirigenti di fiducia e di area, è un dramma, una mancanza che ti spinge a fidarti del primo che trovi, ad ascoltare consigli che magari si rilevano poi (come alcuni 5 stelle sostengono, tra cui Di Maio) polpette avvelenate. Come è stato per Muraro, secondo molti.

A preoccupare di più, però, sono i consiglieri comunali. Che sono il terzo problema di Virginia Raggi, rappresentando una crisi che si intreccia ma è diversa da quella innescata dalle dimissioni di Minenna e Raineri. Giusto due giorni prima che scoppiasse il delirio, gli eletti dei 5 stelle si erano infatti riuniti negli uffici di via del Tritone e avevano approvato un documento con alcune precise richieste da girare alla sindaca. C’era la questione delle retribuzioni (con la richiesta di un tetto a 78mila euro) e c’era soprattutto la questione del coinvolgimento. Chiedevano un uomo (il capogruppo Ferrara) fisso nel direttorio, e riunioni periodiche con la sindaca. Perché dal balletto sulle Olimpiadi alle nomine, i consiglieri non hanno toccato palla, e lo sanno. Quel poco che è stato fatto è stato deciso tutto da Raggi, che infatti adesso – anche con Grillo – paga il suo impuntarsi, l’aver dato retta alla corrente del Movimento che ha ad esempio difeso Marra. E i consiglieri, a differenza di Grillo che può al massimo trattarti come un Pizzarotti qualsiasi, possono sfiduciare un sindaco.

Aylan, un anno fa: in un anno non è cambiato nulla

Un anno fa, il 2 settembre, il mare trascinava il corpo di Aylan Kurdi sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia. Un anno fa il mondo si commosse, rimase sconvolto, parlò, discusse della tragedia siriana. Da un anno a questa parte, in Siria si è continuato a combattere, le persone, quelle che rimangono nel Paese, hanno continuato a cercare di fuggire.

Certo, i flussi sono calati, il portale dell’Unhcr ci spiega che in Grecia fino al 31 agosto sono sbarcate 163.734 persone, contro le più di 850mila del 2016. Un calo netto, dovuto fondamentalmente all’aumento dei controlli e all’accordo illegale con la Turchia. In un anno, insomma, le cose sono leggermente peggiorate per chi è in fuga dalla guerra e il clima in Europa, che per un paio di settimane rimase colpita dal cadavere di quel bambino, la voglia di ribadire che i profughi sono i benvenuti sembra essere scomparsa. All’indomani della morte di Aylan la commissione europea approfittò per spingere l’Europa ad accettare una politica di redistribuzione, politica annunciata, negoziata, mediata e miseramente fallita: i profughi ricollocati dovevano essere 160mila, a oggi, quasi un anno dopo, sono state ricollocate 4mila persone e i posti resi disponibili sono meno di 13mila.

A luglio, i negoziati preparatori del vertice delle Nazioni Unite sui rifugiati del prossimo 19 settembre hanno rinviato al 2018 l’esame della proposta del segretario generale Ban Ki-moon di un “Global compact sulla condivisione delle responsabilità sui rifugiati”. «A settembre rischiamo di assistere a un altro conclave di leader mondiali che terminerà con dichiarazioni ipocrite mentre altri bambini resteranno a soffrire» – ha dichiarato Salil Shetty, segretario generale di Amnesty International «Se non si assumeranno maggiori responsabilità di fronte alla crisi che si sviluppa davanti ai loro occhi e se non accoglieranno un maggior numero di persone in fuga dalla guerra e dalla persecuzione, i paesi più ricchi condanneranno altre migliaia di bambini a rischiare la vita in viaggi pericolosissimi o a rimanere intrappolati in campi per rifugiati senza alcuna speranza per il futuro».

Secondo i dati raccolti da Unhcr i rifugiati siriani sono più di 4 milioni e 800mila, più di due milioni e mezzo in Turchia, il 70% sono donne e bambini. I morti nel Mediterrano, invece sono 3169 solo quest’anno, 3700 nel 2015. I bambini che arrivano via mare il 29% del totale.

Rimane la potenza di quell’immagine scattata da Nilufer Demir,  la giornalista dell’agenzia di stampa turca Dogan. «Spero fermi dramma», aveva detto. Il dramma non si è fermato ma certo quella fotografia ha avuto un impatto fortissimo. Anche gli artisti hanno reso omaggio al piccolo Aylan. Da ricordare il cinese Ai Wei Wei che qualche mese fa si è fatto ritrarre come Aylan in quella spiaggia maledetta.

Il piccolo Aylan morì insieme ai fratellini e alla madre, mentre il padre aveva cercato disperatamente di salvarli dopo che la barca si era rovesciata nel tratto di mare da Bodrum all’isola di Kos. Lo stesso padre, Abdullah, ad Arbil, in Kurdistan, oggi dichiara al Bild: «Ognuno al tempo ha sostenuto di voler fare qualcosa Ma che sta accadendo ora? Le persone continuano a morire e nessuno sta facendo nulla». L’uomo racconta che negli ultimi giorni è tornato a sognare la famiglia.

 

Il Jazz Italiano per Amatrice: concerti per salvare il Cinema Teatro

L’obiettivo dei musicisti jazz italiani adesso è ricostruire il Cinema teatro Garibaldi di Amatrice, un bell’edificio dal colore rosso vivo. Nel giro di pochi giorni la macchina del Jazz italiano per l’Aquila in programma dal 2 al 4 settembre ha rimesso in moto una nuova e capillare rete di concerti, il 4 settembre, a Roma, a L’Aquila e in altre 20 città italiane. Doveva essere la seconda edizione della manifestazione che nel 2015 ha riportato un fiume di persone (60mila) nella città colpita dal sisma del 2009. Ma il terremoto ad Amatrice e negli altri luoghi dell’Appennino con la sua scia di tragedie e distruzione ha sconvolto tutta l’organizzazione. Così il direttore artistico Paolo Fresu, Mibact, Comune de L’Aquila, Associazione I-Jazz, Midj, Musicisti italiani di Jazz e Casa del Jazz, sono arrivati alla decisione di annullare il programma. Che però è stato immediatamente cambiato e indirizzato verso un altro obiettivo: Il Jazz italiano per Amatrice e gli altri territori colpiti dal sisma.

«Non sarà la stessa cosa, ma il messaggio è unitario. Vogliamo comunque con un’azione corale portare solidarietà per la popolazione ma anche e soprattutto un aiuto concreto. Ci teniamo a dirlo, anche dopo la polemica innescata da Fiorello su dove vanno a finire i soldi dei concerti benefici: siamo noi a raccogliere i fondi per la ricostruzione del Cinema teatro di Amatrice e li gestiremo noi», sottolinea Ada Montellanico, presidente Midj, impegnata a organizzare in tempi da record la nuova manifestazione.  Oltre 500 musicisti  saranno impegnati nei palchi della Casa del Jazz di Roma, a L’Aquila, nel piazzale antistante la basilica di Collemaggio (dove l’anno scorso si tenne un affollatisismo concerto di Paolo Fresu) ma anche in altre città tra cui Milano, Torino, Napoli, Parma, Catania, Pisa, Lecce, Nuoro, addirittura Lampedusa (il programma città per città qui). Questo grazie anche ai direttori dei festival italiani che hanno dirottato i musicisti nelle piazze dove esistevano le condizioni materiali per far svolgere concerti.

La maratona del 2015 a L’Aquila, dalla mattina a notte inoltrata, è stata una pietra miliare, difficile da dimenticare. «Un inaspettato successo di musica ed emozione, talmente forte e pregnante – afferma Paolo Fresu – che forse la storia del jazz italiano si può ora dividere tra un prima e un dopo L’Aquila». La musicista romana ne evidenzia i risultati concreti. «L’evento dell’anno scorso non è stato solo un “eventone”, ha portato dei benefici reali, dall’accelerazione nella ricostruzione allo sviluppo delle attività musicali a L’Aquila. E poi ha ridato la voglia di fare, un po’ di speranza, ha lasciato una traccia profonda negli aquilani», continua Montellanico. Intanto, un primo risultato del crowdfunding è stato raggiunto, con la donazione di un pianoforte a coda al Conservatorio Alfredo Casella nel corso dei convegni previsti – e rimasti – a L’Aquila il 2 settembre. Adesso con il Jazz italiano per Amatrice l’obiettivo è il Cinema Teatro, un altro luogo da ricostruire per far sì che dalla cultura e dalla musica possa ripartire la vita di una comunità, pur attraversata dal dolore.

Per le donazioni: progetto “Un teatro per Amatrice” su www.eppela.com

Continua a leggere su Left in edicola dal 3 settembre l’intervista al pianista Franco D’Andrea

 

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Cosa ha in mente D’Alema

ANSA/ANGELO CARCONI

«È stata pensata come una riunione organizzativa», ci ha spiegato Massimo D’Alema in una lunga intervista a cui abbiamo dedicato la nostra prossima copertina, spiegandoci l’appuntamento del 5 settembre. Ma ovviamente è qualcosa di più, l’evento, e non solo perché le adesioni sono state «più di quante avevamo previsto all’inizio». E quella del leader Massimo è falsa modestia. Lui che organizza il fronte del No – il fronte del No interno al Pd, soprattutto – è ovviamente notizia capace di tenere banco tutta l’estate. Vuole riprendersi il partito? Vuole solo cacciare Matteo Renzi? È diventato veramente un conservatore o è finito con il diventare un girotondino, come lo dipinge l’ex fidato Matteo Orfini?

Sono tutte domande a cui ci risponde con calma, D’Alema, spiegandoci perché dice che «la scissione sta già avvenendo», anche se («al momento») non c’è un pezzo di gruppo dirigente che stia lavorando per quello scenario. Se vince il Sì non c’è nessuna rottura nel partito, ma si allargherà la frattura, si romperà la «connessione sentimentale», questo sì, che è innanzitutto con l’elettorato. Perché «questa riforma», ci spiega esempi e numeri alla mano, «è molto simile a quella approvata da Berlusconi nel 2005. Solo che allora la bocciammo». E l’elettore e il militante di base, se lo ricorda. Si ricorda, come si ricorda D’Alema, quello che diceva all’epoca Sergio Mattarella. Si ricorda le citazioni che andavano all’epoca, quando «dicevamo che “non baratteremo il superamento del bicameralismo con un sistema nel quale, in Parlamento, c’è un capo e seicento camerieri”».

Si parla della riforma costituzionale, su Left in edicola, ma anche della sinistra, di come il Pd potrebbe tornare la casa dei tanti elettori che l’hanno abbandonata, sostituiti solo in parte da un nuovo elettorato più moderato. «Qualcuno dovrebbe dire a Renzi», ad esempio, «che la Terza via è fallita e, tra l’altro, che è un’esperienza che risale a vent’anni fa: ed è difficile presentarla come il nuovo che avanza». D’Alema che rilegge se stesso, così come Clinton sta rileggendo se stessa in Ameria: «La Terza via è fallita», ci spiega, «perché, muovendo da una visione troppo ottimistica della globalizzazione, ha sottovalutato le contraddizioni che questo processo avrebbe aperto: nuove disuguaglianze, nuova povertà e quindi la necessità di una regolazione». Diseguaglianza, migranti, mercati, lavoro: un D’Alema keynesiano, ci spiega così quello che ha in mente. E perché non è un conservatore, «ma solo un uomo di buon senso».

Su Left in edicola e in digitale la lunga intervista a Massimo D’AlemaLeft in edicola dal 3 settembre

 

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Crisi a 5 Stelle.Caffè del 2 settembre 2016

“Prima crisi” o “già paralisi” della giunta Raggi? Ha ragione il Corriere o la Repubblica? Certo è una “tempesta” -scrive La Stampa- quella che si è abbattuta ieri sui 5 Stelle e sul comune di Roma. Il Fatto Quotidiano definisce“Virginia, sindaca dimezzata”. “il supertecnico Milena -spiega- porta via i suoi dopo un duro scontro nella giunta Raggi e nel Movimento 5 Stelle”. Secondo questa ricostruzione, che mi sembra la più informata, Marcello Minenna, economista, professore associato alla Bocconi e dirigente Consob, assessore al bilancio con la delega al patrimonio e alle partecipate, ieri si è dimesso dopo l’annuncio, dato via Facebook della sindaca, che la nomina a Capo Gabinetto di Carla Raineri, doveva ritenersi revocata dato che l’anti corruzione l’aveva ritenuta non legittima in quanto a chiamata diretta. Minenna, che aveva fortemente voluto la magistrati milanese, ha considera quella rimozione un attacco ai suoi poteri e alla sua autonomia. A ruota lo hanno seguito il direttore generale dell’ATAC (azienda pubblica del trasporto) Marco Rettighieri, l’amministratore unico della società, Marco Bordolese, e anche quello dell’AMA (azienda per i rifiuti), Alessandro Solidoro. Il complotto contro Minenna (e la sua squadra di tecnici bocconiani) sarebbe stato ordito dal “Raggio magico” (nomen omen) e cioè dal vice sindaco Daniele Frongia, dal capo della segreteria politica del sindaco, Salvatore Romeo, e dal vice capo di gabinetto Raffaele Marra. “Allibiti” gli avversari a 5 Stelle della Raggi (Roberta Lombardi, Roberto Fico, Carla Ruocco), la Taverna ha denunciato “una perdita enorme”, la sindaca, in lacrime, avrebbe addirittura minacciato -dice il Corriere- le sue dimissioni: “Ora basta o mollo”.

Ma basta cosa? Chi sono i nemici esterni che, secondo Di Maio, hanno lastricato di trappole i primi 70 giorni dell’era Raggi? “Ero convinta di dover garantire la legalità. Ma non era così”, l’accusa viene da Carla Raineri, che se ne torna alla Corte d’Appello di Milano. Dunque la giunta a 5 Stelle non vuole più “garantire la legalità” al comune di Roma? Oppure una sindaca incauta e mal consigliata aveva scelto persone sbagliate per gestire l’enorme debito della capitale e le grandi industrie che fanno capo al comune? Marco Travaglio sostiene che quelle nomine erano state volute dal “direttorio” a 5 Stelle. Pare di capire, controllare la Raggi e limitarne i poteri. “Gli errori più clamorosi – scrive il direttore del Fatto- li han commessi i vertici e la base, non solo romani, del Movimento, circondando la sindaca di direttorii, direttoriucci e direttorietti dove il primo che si alza la mattina mette becco dappertutto e twitta tutto, anche i mal di pancia”. Dopo 70 giorni di tira e molla, la Raggi si sarebbe fatta convincere a rompere l’accerchiamento, usando quel parere di Cantone secondo cui un capo di gabinetto non si può scegliere “a chiamata diretta”. In tal modo provocando le dimissioni della Raineri, poi quelle di Milena e degli altri. Gestito così -scrive Massimo Giannini, rientrato dalla Rai a Repupublica- il Campidoglio non è una casa di vetro. Diventa una corte di Bisanzio. Un concentrato di veleni e di arcana imperi di cui nessuno sa e capisce nulla. Una guerriglia sotterranea tra un maxi e un mini direttorio, un conflitto permanente tra correnti palesi e occulte, che in qualche caso fanno rimpiangere i partiti vecchi e rissosi della Prima Repubblica”.
La casa dei cinque stelle su regge su pilastri di sabbia, senza armatura in ferro. Lo scrivo – non per antipatia preconcetta- ormai da più di tre anni. Deputati e sindaci provenivano dai “movimenti”, cioè da esperienze di protesta, di denuncia e talvolta di lotta, molto eterogenee. Queste personalità erano animate (e lo sono) da culture tra loro diverse, tenute insieme da un certo stile plebeo e dalle magagne degli avversari del movimento. Mancano, però di una solida e comune intenzione politica. Come si è visto, se lasciati a sé stessi tendono a dividersi, più in fazioni che sulle cose da fare. La politica, specie in campagna elettorale, ci pensava Grillo, che con la sua pancia da attore sente la piazza e si sposta a destra (a proposito di migranti), a sinistra (salario di cittadinanza), verso soluzioni nazional-protezioniste (sull’euro) o liberiste (quando si tratta di dare addosso ai salvataggi bancari). La Casaleggio-associati doveva, invece, garantire la cornice ideologica, “la diversità pentastellata”, contrapponendo la democrazia della rete ai guasti delle democrazia delegata e del sistema dei partiti. Ma -si chiede oggi Giannini- “dove sono finite l’innocenza” e la “purezza” del Movimento, il “non partito” con il “non statuto”, che nasce e cresce dal basso e che in virtù dei sacri principi fondativi (“uno vale uno”, “i leader non esistono”) rivoluziona la politica e rifonda la democrazia?” Dopo la crisi a Roma credo che i 5 Stelle non possano più attendere a piè fermo che gli errori di Renzi li portino a Palazzo Chigi. Per resistere o rilanciarsi dovranno scegliere: dire (e dirsi) cosa vogliano essere.

Milioni in piazza in Venezuela, contro l’erede di Chavez. Dilma Rousseff destituita con il voto dei due terzi del Senato. L’America latina si rimette nelle mani di una borghesia compradora che in passato ha fallito e si è macchiata di crimini contro l’umanità. Ma ha fallito pure la sinistra sudamericana: ha promesso quello che non poteva mantenere, ha lasciato correre la corruzione, non ha preparato un piano B per i giorni delle vacche magre. Così la riconversione dell’economia avviata dal governo della Cina -più attenzione alle infrastrutture e al mercato interno, freno all’espansione fondata sull’importazione abbondante di materie prime e sulla produzione a basso costo- ha messo il terzo mondo in ginocchio. Le materie prime valgono meno, i semi lavorati e i beni di consumo durevoli non si comprano più a buon mercato. E questo ha spinto le borghesie (e le opinioni pubbliche) sudamericane a riscoprire l’insostenibile contiguità con gli Stati Uniti. Proprio mentre gli Stati Uniti vivono la più grave crisi imperiale della loro storia.

Uomini o caporali: Presidente, venga qui.

In queste ore, mentre leggete questo pezzo, in Italia da nord al sud la schiavitù si riversa nei campi sotto mentite spoglie: a vederla da lontano appena di qualche chilometro sembra verdura o frutta o vino ma lì dentro, nel piatto e nel bicchiere, ci sono migliaia di persone rinsecchite dal sole e arse dalla terra per qualche spicciolo di euro al chilo.

Il caporalato è un delitto odioso perché svilisce la dignità umana fingendosi un’occasione di lavoro e perché procura ingenti guadagni ricamando sulle fragilità di persone, infilandosi tra le fragilità di chi non ha i documenti in ordine e facendo leva sulla fame.

Il Governo italiano da mesi sta approntando una legge per contrastare il caporalato ma le dimensioni del fenomeno (per disattenzione o per non disturbare troppo il settore della grande distribuzione) disegnano zone del Paese in cui il rispetto delle regole è un obbiettivo lontano da raggiungere.

Oltre a questo continuano ad assistere ad un’escalation di violenza nei confronti di chi decide di alzare la voce. Le associazioni, i comitati e le istituzioni locali che decidono di denunciare e ribellarsi spesso sono vittime di isolamento e di attentati. Solo ieri Marco Omizzolo (sociologo e responsabile scientifico dell’associazione In Migrazione) ha dovuto subire un danneggiamento della propria auto.

«Siamo uomini o caporali?» diceva Totò in un celebre film di Camillo Mastrocinque: forse è il caso che lo Stato faccia la sua parte non solo dal punto di vista legislativo ma anche nella sua funzione di cura, vicinanza e osservazione.

Per questo sarebbe significativo che il Presidente Mattarella incontri con Omizzolo i tanti che da tempo si ritrovano al fronte di questa battaglia e si rechi in visita in questi campi che sono troppo spesso bolle di inciviltà.

Presidente, porti lo Stato nei raccolti dove continuano a seccarsi i diritti degli ultimi.

I leader della sinistra latinoamericana si schierano con Dilma Rousseff

epa02759945 Brazilian President Dilma Rousseff (L) and her Uruguayan counterpart Jose Mujica (R) speak after signing bilateral agreements at the Foreign Ministry in Montevideo, Uruguay, on 30 May 2011. Rousseff is visiting the country to analyze integration, cooperation, infrastructure development and energy issues with Mujica. EPA/IVAN FRANCO

«Un colpo di Stato annunciato da molto tempo. Hanno condannato questa donna per non essere entrata nella corruzione». Così José “Pepe” Mujica ha definito la destituzione di Dilma Rousseff dalla carica di presidente, registrata il 31 agosto al Senato di San Paolo. Sono stati 61 i Sì all’impeachment di Dilma Rousseff, esattamente quanti ne aveva annunciati il presidente ad interim, Michel Temer. Lo aveva detto, Temer, che avrebbe potuto contare su 61 senatori per il «cambiamento», e così è andata. Adesso per Temer e il suo “governo maschio e bianco” si apre la strada dei pieni poteri, fino al 2018, forte di un 2% di popolarità tra i brasiliani e di un discorso di insediamento di ben 5 minuti. Zero donne e zero persone di colore nel governo Temer – non accadeva da 40 anni – e uno slogan: «Ordem e progresso». Mentre Dilma, nonostante la destituzione, non subirà l’interdizione dai pubblici uffici, la Corte Suprema le ha lasciato a Dilma Rousseff il diritto di continuare a partecipare alla vita politica del Paese.

Si annuncia la guerra civile a Caracas, si ammazza un viceministro in Bolivia, si protesta per le strade di Buenos Aires. L’America Latina è una bomba a orologeria, e se adesso il Brasile fosse il detonatore? L’analista politica argentina Stella Calloni, non ha dubbi: «Il golpe non è solo contro il Brasile, è contro la democrazia latinoamericana». Venezuela, Ecuador e Bolivia hanno già ritirato gli ambasciatori da San Paolo. «I politici e gli oligarchi, in alleanza con gli imperialisti, hanno portato a termine il “colpo di Stato” contro il Presidente Dilma Rousseff», ha detto il venezuelano Nicolas Maduro, che è egli stesso oggetto di impeachment mentre il suo Paese è sull’orlo della guerra civile. Mentre Rafael Correa, presidente dell’Ecuador, ha definito la destituzione come una «cospirazione contro la democrazia». Ancora più chiaro e preciso Evo Morales: «Poiché la destra latinoamericana non riesce a conquistare il potere, che ha perso con la sua negligenza, agisce con attacchi economici, sociali e spesso politici», ha detto Morales che si è visto ammazzare il suo viceministro Rodolfo Illanes dai minatori un tempo alleati. Duro, infine, il comunicato diramato dalla Cuba di Raul Castro per «condannare energicamente il colpo di Stato parlamentare-giudiziario che si è consumato in Brasile contro la Presidente Dilma».

I disastri a catena della sinistra latinoamericana cominciano a Buenos Aires, con la sconfitta di Cristina Kirchner alle presidenziali e la svolta ultraliberista di Mauricio Macri. Ancora Calloni mette in guardia: le misure adottate fin qui (e che verranno adesso adottate con pieni poteri) da Michel Temer somigliano molto a quelle di Mauricio Macri in Argentina, tagli alla spesa pubblica, austerità e repressione.

Sconfiggere il caporalato non basta. Impresa e politica decidano da che parte stare

Questo articolo è un parere contenuto nel numero di Left che sarà sabato in edicola. Lo pubblichiamo oggi, in anticipo, perché il suo autore, Marco Omizzolo, ha ricevuto minacce (le gomme dell’auto squarciate questa volta) per la battaglia che conduce. È la quarta volta che succede.

Sconfiggere il caporalato non basta per vincere lo sfruttamento lavorativo a cui ogni giorno migliaia di lavoratori e lavoratrici, italiani e migranti, sono sottoposti. Si deve invece mettere in discussione il modello di produzione agro-industriale e le sue logiche, insieme alla tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo, il dominio della grande distribuzione organizzata, le dinamiche delle imprese di trasformazione e della logistica. Il Ddl 2217 contro il caporalato approvato questa estate al Senato può rappresentare un passo in avanti a patto che entri nel corpo sociale vivo del Paese e nelle pratiche e prassi reali, concrete, effettive di contrasto al fenomeno, da accompagnare con riforme del lavoro e del welfare che vadano in senso contrario rispetto a quelle sinora prodotte. La supposta ripresa dello sviluppo non può passare, come in Italia invece sta accadendo, per la cancellazione dei diritti dei lavoratori e tra questi, in particolare, di quelli più esposti allo sfruttamento. Il Jobs Act in tal senso ha prodotto un arretramento dei diritti dei lavoratori ed ha certificato un rapporto di potere squilibrato tra capitale e lavoro a vantaggio diretto del primo.

Le vertenze sindacali e sociali organizzate nelle campagne italiane dimostrano la mutazione in corso, quasi antropologica, del lavoratore, soprattutto migrante, da soggetto portatore di competenze e titolare di diritti in ingranaggio di un sistema di potere nelle mani dell’impresa criminale. Quando un lavoratore è obbligato a chiamare padrone il proprio datore di lavoro e i relativi contratti vengono facilmente superati da prassi ispirate dalla logica dello sfruttamento, permesse da una legislazione complessivamente inadeguata e da controlli di scarsa qualità, la conseguenza è lo scadimento del mondo del lavoro nella barbarie dello sfruttamento.

La grande distribuzione in questo sistema ha un peso rilevante e contribuisce, con le sue logiche perverse, a trasformare l’agricoltura italiana in un’agricoltura padronale.

Per questa ragione ogni forma di rivendicazione e ribellione nei riguardi di un sistema di produzione padronale e mafioso da parte dei lavoratori va sostenuto, incentivato, accompagnato. Ed è per questo che lo sciopero di circa 2.000 braccianti indiani in provincia di Latina, organizzato ad aprile scorso dalla Comunità indiana del Lazio, dalla Flai Cgil, Cgil e dalla coop. In Migrazione, ha rappresentato un evento di portata storica. Lo stesso vale per la recente lotta di circa 400 lavoratori migranti che a Foggia, dinnanzi alla Princes, una delle aziende più note per la trasformazione del pomodoro, al grido di “il vostro made in Italy è sporco del nostro sangue”, hanno chiesto diritti e una retribuzione dignitosa. C’è però da domandarsi in queste vertenze dove siano le regioni.

Nel Lazio, ad esempio, l’amministrazione guidata da Zingaretti risulta latitante, nonostante qualche accenno di impegno col sostegno a progetti di contrasto al caporalato di breve durata. Poi il silenzio assoluto, mentre da anni riposa nei suoi uffici la proposta di legge contro il caporalato. I lavoratori in lotta, migranti o italiani che siano, dimostrano che esiste una nuova questione sociale, politica e morale che va oltre gli interessi delle imprese e la pavidità della politica. Esiste un tema fondamentale che è quello del diritto, del lavoro e della libertà, che unisce donne e uomini, lavoratori e lavoratrici, e che non può essere più nascosto o trattato retoricamente. Combattere le agromafie, la tratta internazionale a scopo di sfruttamento lavorativo e il caporalato, significa difendere la democrazia di questo Paese, garantire diritti costituzionalmente previsti e sconfiggere interessi economici e politici criminali. La politica e l’impresa devono decidere, senza tentennamenti, da che parte stare.