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Per una riforma della costituzione puntuale, condivisa, democratica

Una “grande riforma” della Costituzione è nemica delle riforme che servono.
È da respingere quindi l’ennesimo tentativo di mettere a soqquadro l’intera seconda parte della Costituzione, senza raggiungere gli obiettivi che concretamente servono per un migliore funzionamento del Paese.
È importante, invece, procedere a una “manutenzione” della Costituzione e a sue modifiche significative, partendo dai concreti problemi che si sono posti. Si tratta di un lavoro che non improvvisiamo alla vigilia del referendum costituzionale, ma che abbiamo condotto con cura, pazienza e attenzione, durante tutta questa legislatura che da subito ha inteso porre al centro della discussione politica la Costituzione.
Il lavoro è stato portato avanti in sede scientifica e parlamentare, dove ha trovato ascolto soprattutto da parte di Giuseppe Civati, alla Camera, e di Vannino Chiti e Walter Tocci, con alcuni altri parlamentari, al Senato. A loro si deve anche il tentativo di avere proposto una revisione costituzionale alternativa a quella del Governo, anche nella convinzione che, per essere capace di coinvolgere la più ampia parte delle forze politiche, la proposta dovesse nascere in Parlamento, come la proposta del testo costituzionale era nata, infatti, nell’ambito della stessa Assemblea costituente, tenendo insieme la prima e la seconda parte della Costituzione, ma soprattutto tenendo insieme un popolo, senza spaccarlo, tirandolo di qua o di là proprio sulla Carta che tutti deve rappresentare.

Tutto questo è possibile partendo da alcuni interventi puntuali, su cui sembra essere matura una maggiore condivisione:

1. Riduzione del numero dei deputati e dei senatori e delle loro indennità. Se il sistema rimane bicamerale (non registrandosi la necessaria convergenza per passare al monocameralismo) non ha senso ridurre soltanto i componenti di una Camera. La riduzione deve avvenire proporzionalmente in entrambe le Camere. La nostra proposta, per mantenere un adeguato livello di rappresentanza, è di 470 deputati e 230 senatori (senza senatori a vita), per un totale di settecento parlamentari. Una diminuzione del 25% degli eletti, che supera di 30 unità quella proposta dal Governo. La richiesta di riduzione del numero dei deputati e dei senatori è motivata dalla necessità di contenere i costi degli eletti. Ma per questo non basta la modifica costituzionale, è necessaria anche una legge, che si poteva fare anche a prescindere, in base alla quale l’indennità propriamente intesa dovrebbe essere ancorata ad uno stipendio decoroso e più basso come quello dei professori universitari (non quello dei Presidenti di Cassazione); i rimborsi spese dovrebbero essere ridotti, lasciando quelli per l’alloggio a Roma a chi non vi vive già e mettendo a carico della Camera d’appartenenza le spese per il collaboratore e alcuni servizi per lo svolgimento dell’attività parlamentare.

2. Fiducia al Governo espressa solo dalla Camera dei deputati. Come praticamente in tutti gli ordinamenti che hanno una forma di governo parlamentare la fiducia dovrebbe essere espressa dalla sola Camera dei deputati. Questo servirebbe non solo a evitare le difficoltà di formazione di un Governo nel caso di risultati parzialmente diversi nelle due Camere ma anche a liberare il Senato dal vincolo politico con l’esecutivo consentendogli una migliore attività di controllo (come quella su alcune nomine pubbliche, secondo il sistema dell’advice and consent statunitense).

3. Miglioramento dell’efficienza del procedimento legislativo (con l’istituzione di una commissione paritetica bicamerale). Non è vero che oggi le leggi sono sottoposte a un continuo ping-pong tra la Camera e il Senato: delle 224 leggi approvate in questa legislatura al 30 giugno 2016, ben 180 hanno concluso il loro cammino dopo un solo passaggio alla Camera e al Senato e i tempi di approvazione nella seconda Camera, quando c’è la volontà politica, sono particolarmente rapidi. Per di più la possibilità di avviare il procedimento legislativo in entrambe le Camere comporta uno snellimento dei lavori (perché mentre da una parte si affronta una proposta, dall’altra se ne istruisce e approva un’altra).
La revisione costituzionale del Governo, oltre a complicare il sistema, che viene a essere frammentato in procedimenti e sub-procedimenti di dubbia applicazione, rischia di rallentarlo in più momenti, non eliminando il rischio per cui se si vuole insabbiare una legge lo si può sempre fare nei numerosi passaggi previsti.
C’è invece una soluzione (già collaudata in altri paesi) per eliminare anche i pochi casi in cui una proposta incontra difficoltà a essere approvata, senza bisogno di stravolgere il sistema rischiando di complicarlo: l’istituzione di una commissione paritetica bicamerale (composta cioè dallo stesso numero di deputati e di senatori), da attivare nel caso in cui le Camere assumano posizioni differenti, al fine di licenziare più facilmente un testo chiaro e condiviso.

4. Potenziamento degli istituti di democrazia diretta: referendum e iniziativa legislativa popolare. Le riforme non devono essere fatte per “lasciare governare” qualcuno, senza alcun controllo, rendendo i cittadini sovrani solo un giorno ogni cinque anni, ma devono dare a questi ultimi la possibilità di incidere anche tra un’elezione e l’altra. Non solo favorendo, anche con leggi in materia, la partecipazione nei partiti e movimenti politici, ma con gli istituti di democrazia diretta.
In particolare, è da abbassare il quorum di partecipazione al referendum per renderlo valido se ha partecipato la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati (senza che ciò richieda – come nella riforma del Governo – un aumento delle firme per la richiesta). Quanto all’iniziativa legislativa popolare la Costituzione deve prevedere espressamente un obbligo di deliberazione in materia, entro un termine trascorso il quale su questa si devono esprimere direttamente i cittadini con un referendum (deliberativo).

5. Eliminazione del Cnel. Se l’introduzione del Cnel è stata determinata dalla necessità di rappresentanza dei corpi sociali, questa esigenza sembra superata almeno in queste forme (forse servirebbero piuttosto altri interventi come, ad esempio, leggi di regolazione delle lobby). Comunque, dato che nella pratica il Cnel ha funzionato con scarsa efficacia, riteniamo che sia giusto eliminarlo.

Questi sono alcuni dei motivi che giustificano il NO al referendum costituzionale. Ma vi è una ragione in più a favore di un voto negativo. Se venisse approvata questa cattiva riforma, si creerebbero molti problemi nel nostro ordinamento e ci potrebbero volere altri vent’anni per abrogarle e fare cose migliori. Quindi conviene evitare tutto questo e riprendere il cammino molto più semplice delle revisioni costituzionali leggere e condivise.

Gianfranco Pasquino, professore emerito di scienza politica Università di Bologna,
Andrea Pertici,
Professore ordinario di diritto costituzionale, Università di Pisa,
Maurizio Viroli,
professore emerito di Teoria politica, Princeton University,
Roberto Zaccaria,
professore di diritto costituzionale all’università di Firenze

Germania, maschi e operai: ecco da dove vengono i voti alla destra dell’AfD

Members and supporters of the AfD party react after first exit polls in Schwerin, Germany, Sunday Sept. 4, 2016 after the state elections in Mecklenburg-Western Pomerania. Exit polls indicate that the nationalist, anti-immigration party has performed strongly in a state election in the region where Chancellor Angela Merkel has her political base, likely overtaking her conservative party. ( Daniel Bockwoldt/dpa via AP)

Dunque nel piccolo Lander di cui è originaria Angela Merkel, il Meclenburgo-Pomerania,  gli elettori hanno deciso che la politica delle porte aperte (relative) scelta dalla Cancelliera nei confronti dei rifugiati siriani è sbagliata e va punita. O almeno questo è quanto si è detto nelle prima ore successiva al voto. Piuttosto grande e poco popolato, questa lander dell’estremo nord baltico è stato parte della Repubblica popolare tedesca fino alla riunificazione del 1990, ha dato i natali alla premier ed è culla, fin dagli albori della Germania unita, di movimenti di estrema destra.

Per dire la verità gli elettori hanno punito tutti: come mostra la tabella qui sotto perdono SPD e CDU, i due membri della Grosse Koalition che guida lo Stato, perde la sinistra, perdono i Verdi, persino i piccoli Pirati e l’estrema destra estrema del NPD. A guadagnare è solo l’AfD, l’Alternativa per la Germania guidata dalla 41enne Frauke Petry.

 

Relativamente isolata, prima città Rostock, appena 220mila abitanti, il Meclenburgo-Pomerania è un caso di scuola per segnalare come l’ascesa dell’estrema destra. Se la campagna è davvero segnata dalla paura dei rifugiati, è interessante segnalare come questi, gli invasori siriani, in Pomerania non ci siano quasi. E come, dunque, lo spavento per l’invasione non sia, come spesso accade, da mettere in relazione con qualcosa di reale, concreto, alle porte di casa. I dati sono inequivocabili, come mostra la figura della IOM qui sotto il 66% del totale dei rifugiati è ospitato, vive nei 5 lander più grandi, ricchi e popolosi, meno, molto meno negli altri. In Pomerania, come ci segnala questa pagina dell’ufficio federale per le migrazioni , i rifugiati sono il 2% del totale. Solo in due altre regioni sono di meno.

Iom refugees Germany

Accade di frequente che le paure si alimentino con la distanza dai fenomeni. E che di questi tempi, in Europa (ma anche negli Usa, come ha mostrato il trionfo di Trump alle primarie repubblicane) la propaganda populista contro i pericoli da immigrazione e terrorismo islamico, accompagnati dalla crisi economica, sia capace di parlare alle categorie di persone più colpite e azzannate dal mondo che cambia. O spaventate, colpite dal cambiamento.

I tre tweet qui sotto ci segnalano come alcune categorie, le stesse che raccolgono il messaggio populista altrove,  siano quelle che scelgono la AfD e che abbandonano la sinistra. Alternativa per la Germania è il primo partito tra i maschi, un terzo dei lavoratori sceglie l’AfD e la sinistra raccoglie la percentuale più bassa tra gli operai e va meglio tra altri gruppi sociali (compresi i disoccupati). Il passaggio dei voti da Linke, che a est è sempre stata forte e ha incanalato la protesta e la difesa di alcuni standard dei tempi della repubblica Democratica, è un passaggio in qualche modo storico. Se questo quadro politico si dovesse confermare.

— Europe Elects (@EuropeElects) 4 settembre 2016

L’elaborazione grafica di Die Zeit (e interattiva sul sito del giornale tedesco), che evidenzia i flussi di voto verso l’AfD ci segnala come il partito neonato, ma ormai presente nei Parlamenti di quasi tutti i Lander, siano in uscita da tutti i partiti o quasi. E come coloro che alle ultime elezioni non avevano votato (Nichtwahler, il gruppo più in basso) siano una colonna del voto per la destra.

flussi elettorali

Cosa significa il risultato per il governo e la tendenza politica nel Paese? Che probabilmente la Germania è destinata a essere governata da una Grande coalizione per qualche anno a venire. Gli ultimi sondaggi nazionali segnalano infatti un consenso molto alto per AfD (14%) che non cambia però gli equilibri. La CDU di Merkel resta prima al 33% delle intenzioni di voto, seguita da SPD, Verdi e Linke. Le intenzioni di voto per AfD nei Lander dell’est segnalano come quella parte del Paese, dove sommate, destra e sinistra extra Grosse Koalition pesano il 39% contro il 19% dell’Ovest, viva ancora una crisi da riunificazione e non si sia pienamente inserita nel mood del resto del Paese. Nonostante i due mandati e mezzo di frau Merkel, che quelle aree del Paese dovrebbe avere care.

sondaggi Germania

La resistenza dei Sioux contro i cowboy del petrolio

The great-grandson of the Hunkpapa Lakota Chieftain 'Sitting Bull' Ernie LaPointe

A cavallo, con le facce dipinte di nero e giallo, i Lakota Hunkpapa, discendenti diretti di Toro Seduto, combattono contro i nuovi cowboy dell’energia fossile e le loro infrastrutture. «Questa è la terra dove sono sepolti i nostri antenati. E in un solo giorno di lavori questa terra sacra è stata trasformata in un buco». La tribù Sioux non esita a definire “resistenza” la lotta contro l’oleodotto sotterraneo in North Dakota e chiama a raccolta tutte le altre tribù proponendosi di ospitare il National Powwow, il raduno annuale dei capi. Accampati da gennaio 2016 nel Sacred Stone Camp, nel bel mezzo della riserva dove il progetto prevede il passaggio dell’oleodotto, attendono che il giudice stabilisca se i lavori vanno sospesi oppure no.

L’udienza si terrà il 9 settembre, intanto si susseguono le proteste e gli scontri: finora si contano più di 20 arresti, dal momento in cui lo sceriffo Kyle Kirchmeier ritiene che la protesta sia illegale. E mentre gli ambientalisti affiancano i nativi d’America nel tentativo di bloccare i cantieri e presidiando la zona, il governatore Jack Dalrympe ha dichiarato lo stato di emergenza per motivi di pubblica sicurezza.

24 agosto 2016: Susan Sarandon prende parte alle proteste contro l'oleodotto
24 agosto 2016: Susan Sarandon prende parte alle proteste contro l’oleodotto

La compagnia petrolifera Energy Transfer, partner del Texas, ha scelto quelle terre sacre per costruire il Dapl (Dakota Access Pipeline): un oleodotto sotterraneo di 1.900 chilometri che dovrebbe sbucare in Illinois. Per realizzarlo si spenderanno circa 3,7 miliardi di dollari. In caso di guasto o rottura della condotta, il rischio va ben oltre la profanazione delle terre sacre ai Sioux: un incidente potrebbe inquinare le falde del Missouri e quindi compromettere i rifornimenti idrici della popolazione locale.

Perciò, spiegano i contestatori, la realizzazione del Dapl è in aperta violazione al Trattato di Fort Laramie del 1868, in cui il governo americano si impegnava a «garantire per sempre l’utilizzo indisturbato delle risorse idriche» ai nativi. Eppure, non appena l’Army Corps of Engineers (il Genio miltare) ha dato il via libera al progetto, i lavori hanno preso il via, sotto la protezione della polizia statale e dello sceriffo.

«Solo quando avrete inquinato l’ultimo fiume, abbattuto l’ultimo albero e pescato l’ultimo pesce, solo allora vi accorgerete di non poter mangiare il denaro accumulato nelle vostre banche», avverte la saggezza dei nativi. E c’è già chi dice che questa potrebbe essere il primo banco di prova per gli Stati Uniti che ratificando in queste stesse ore l’accordo sul clima di Parigi hanno promesso di cambiare rotta.

Merkel o Petry, Boschi o D’Alema? Caffè del 5 settembre 2016

Abbottonatissima, Virginia Raggi schiva le domande del Corriere. Minimizza ma non nega i contrasti tra i 5 Stelle -e come potrebbe?- né esclude che siano stati commessi errori. Non insulta i callobarotori che aveva scelto e che l’hanno abbandonata, ma fa intendere di sentirsi sollevata ora che non li ha più intorno. Si vanta della sintonia con Grillo ma non svela cosa Beppe gli abbia scritto nel messaggio di sostegno. Quanto a Roma e ai suoi problemi, si limita a vantare l’intervento estivo per superare “il caos -l’emergenza- rifiuti”. Se fossimo negli Stati Uniti, si direbbe che Virginia cerchi di minimizzare il danno, senza mostrarsi scossa né annunciare svolte. Intanto su Repubblica Ilvo Diamanti scrive che per i 5 Stelle la crisi romana potrebbe rivelarsi salvifica se “costringerà il M5S non solo a “normalizzarsi”, ma a “politicizzarsi”. A diventare — e ad accettare di essere — una forza politica, e non solo antipolitica. Una possibile alternativa di governo”. Diamanti prevede che “M5S dovrà strutturarsi, formare gruppi dirigenti, stabilire contatti e collegamenti con la società, con i circoli e gli ambienti intellettuali e “specialisti”. Così facendo, cioè strutturando in modo non effimero un terzo polo, Partito non più Movimento, i 5 Stelle potranno “evitare il ritorno alla storica anomalia. Il bipartitismo (bipolarismo?) imperfetto, che ha accompagnato l’Italia nel corso del dopoguerra: l’alternativa senza alternanza tra comunisti e anti comunisti” e poi “tra anti berluscuniani e anti comunisti”. In questo schema, la novità delle riforme Boschi-Renzi mi pare già archiviata come un ferro vecchio. I poli dovranno dialogare, come sta avvenendo in Spagna, dove Sanchez ha appena ottenuto il mandato dal Psoe per trattare con Podemos e Ciudadanos per un’alternativa a Rajoy.
Balzo dei populisti, scrive la Stampa. Colpo alla Merkel, che nel suo Land, il Meclemburgo-Pomerania, ex Germania dell’est, vede la CDU arrivare solo terza, superata dalla destra della Afd. Vincono i socialdemocratici, ma perdendo ben 5 punti percentuali. Perché? Come mai se, come tutti ormai scrivono, la Germania sta meno peggio degli altri paesi europei, avendo incassato più vantaggi che costi per la moneta unica, la Merkel paga un prezzo così alto? Innanzitutto perché la crisi degli establishment che fanno politica non risparmia ormai nessun paese. E poi perché Angela Merkel per molti anni ha candidamente raccontato agli elettori che i tedeschi stavano facendo chissà quali sacrifici pur di tenere in Europa e nell’Euro paesi come Italia, Spagna e Grecia. Che persino la Francia si manteneva in piedi solo perché poteva aggrapparsi alla locomotiva tedesca. Ha detto questo per confortare la propria leadership (che io definisco “dorotea” e Tocci chiama “populista”), per affermare cioè l’immagine di una statista, inevitabilmente europeista -quale altra prospettiva avrebbe altrimenti la Germania dopo aver perso perso due guerre in Europa?- ma un’europeista molto tedesca, cioè capace di sostenere nel modo più efficace l’interesse particolare della Germania. Così facendo Angela ha tuttavia creato il prodotto politico che ora rischia di seppellirla: Frauke Petry, una nuova Merkel che però dice sempre il contrario di quel Angela dice. Ma con il medesimo tono pacato, mostrando un analogo germanico e popolaresco buon senso. Segnalo che questa signora, Frauke Petry, non è temuta in Germania come in Francia si teme Marine Le Pen. Intellettuali, anche si sinistra, non la considerano xenofoba, userebbe la paura del migrante ma per ragioni strettamente politiche. Thomas Brussig, autore di Ostalgie, si spinge a dire a Repubblica che la Petry non è un “rischio per la democrazia”. Insomma, avremmo davanti una possibile continuatrice del populismo della Merkel ma in un’accezione più marcatamente di destra e nazionalista. Naturalmente l’Europa che conosciamo non reggerebbe a una tale mutazione. Ma, d’altronde, a chi importa dell’Europa?
Il sorriso di Maria Elena e la bile di Massimo. Un mio amico caro, che fu protagonista della contestazione di Lama nel 77 e ora confida nella rottamazione renziana, mi ha chiesto, con un pizzico di fraterna irrisione, che possibilità possa mai avere il No referendario se il suo campione è il solito D’Alema. Molti (di sinistra o ex di sinistra) sceglierebbero alla fine Renzi, piuttosto che il protagonista dei troppi errori e delle tante giravolte della politica post comunista. Sì, è possibile che ciò accada, gli ho risposto. Ma non si può impedire a D’Alema di dire quel che pensa: è un cittadino italiano e come tutti noi deve essere libero di far politica, di dare -come direbbe- anche il suo “contributo”. Nè è colpa di D’alema se l’intero gruppo dirigente post comunista -dopo essersi aggrappato per decenni al potere, frustrando ogni anelito di novità nella sinistra- si sia ora ridotto all’irrilevanza. Dopo tutto “Baffino” -prima scegliendo la terza via e il semi presidenzialismo, poi appoggiando la guerra nei Balcani e varando le privatizzazioni, ancora dopo riscoprendo la socialdemocrazia per verificarne a breve l’inevitabile crisi, infine proponendosi come padre nobile e consigliere di Renzi, ma sfidandolo con rabbia subito dopo averne subito lo sgraziato rifiuto- ha percorso l’intera via crucis degli ex comunisti italiani. Chi più lo odia cerca di attribuire ai suoi errori e alla sua celebrata arroganza l’intera responsabilità di una sconfitta che è stata invece comune. Meglio la Boschi? Riconosco alla ministra molte qualità, ma sta dalla parte sbagliata e non ha il coraggio di uscirne con la mossa del cavallo, come avrebbe detto Vittorio Foa). Così balbettae il sorriso diventa una maschera. Ieri ha sentito Monti paragonare, correttamente, il sistema costituzionale che uscirebbe dalle “riforme” a quello che vige in Grecia. Maria Elena si è imbufalita: che Grecia d’Egitto, noi pensiamo alla Germania! Ma ci fa o c’è? In Germania la legge elettorale è proporzionale, il Bundesrat non ha consiglieri regionali “eletti o indicati” da chissà chi, ma rappresentanti dei Länder, che portano a Berlino il potere (talvolta di veto) delle autonomie locali. È giovane e sorride, ma già mente come un politico consumato.

Povera Roma. La Raggi vale uno. E il PD diventa grillino

Virginia Raggi ANSA/ANGELO CARCONI

Povera Roma. Appena uscita dalle grinfie di un PD che ha “licenziato” Ignazio Marino come un Pizzarotti qualsiasi mentre Mafia Capitale si infilava nei calzini dell’ultimo eletto di circoscrizione. Povera Roma. Capitale a cui sembravano avere tagliato anche la speranza s’è buttata nelle braccia della Raggi con il voto di chi non sa più dove sbattere la testa e s’è ritrovata le croste di Alemanno, le correnticchie tra uni che valgono uno e sullo sfondo gli impuniti del Pd che vorrebbero fare i moralisti.

Povera Roma. Che a sinistra s’è lanciata su Fassina che s’è lanciato su Roma per posizionarsi per un congresso che non si farà più di un partito (Sinistra Italiana) che traballa anche nel girello. Povera Roma. Una vita a crescere gli intellettuali della storia d’Italia e oggi filosofeggia sulle cinquanta sfumature d’avviso di garanzia.

Povera Raggi. Tutto questo tempo a raccontarci che schifo che fa “il partito” e poi a pagare lo scotto della mancanza di una comunità politica. Partito, in italiano. Immersa nella banda di chi dice che uno vale uno e lasciata sola come l’ultimo attivista di Ceppaloni. «Grillo mi ha mandato un sms», dice. Come se la politica non fosse solidarietà. Come la vita, del resto.

Povero Pd. Tutto intento a twittare i presunti fallimenti degli altri mentre su Roma si litiga per una delega di quartiere. Tutto intento a fare il maestrino dopo essere stato bocciato, bocciato e ribocciato. In attesa di un verbo sbagliato per spammare veleno su twitter. Con il vicepresidente della Camera che per hobby gioca a fare l’opposizione al servizio della compagna di Franceschini, ovviamente eletta. Povero Pd.

Povera sinistra. Intenta a apparecchiare congressi che non interessano nemmeno alla tivù di condominio. Con una botta al M5s e una al Pd e poi ciclicamente con il piattino a elemosinare da entrambi. Se per il Pd queste ultime amministrative non sono state un baratro è merito dei candidati sindaci di una sinistra più immobile di un museo delle cere.

Qualcuno ne è rimasto fuori, in realtà. Anche se a rimanerci fuori oggi poi alla fine non ti calcola nessuno.

E così Roma scorre. Scorre, Roma.

Buon lunedì.

A Ventotene i leader fanno la guerra ai migranti

Italian Prime Minister Matteo Renzi (C), French President Francois Hollande and German Chancellor Angela Merkel during the press conference at the end of their meeting on the Italian military ship "Garibaldi" near Ventotene island, Tirreno sea, Italy, 22 August 2016. ANSA/CESARE ABBATE

Da Ventotene, isola di deportati antifascisti, si progettano nuove deportazioni di profughi in Africa. Dalla portaerei Garibaldi, nave da guerra a capo dell’operazione militare Eunavfor Med, tre leader europei in cerca di legittimazione popolare confermano la guerra ai migranti, per frenarli a tutti costi, in loco. Tramite accordi con Paesi terzi, che non garantiscono alcuna protezione, anzi dove i migranti vengono arrestati, torturati, uccisi. Sullo sfondo, in vista del prossimo Consiglio europeo “informale” che si terrà a Bratislava il 16 settembre, la promessa di Renzi di ottenere dagli altri Paesi europei, sulla scorta degli impegni presi dalla Germania, una nuova fase della relocation, già fallita in partenza.

L’accordo tra Unione europea e Turchia raggiunto per fermare i profughi siriani (e rimpatriarli sotto le bombe) diventa il modello da seguire. E si pensa già di replicarlo in Libia, anche se il Paese rimane spaccato in tre parti. Si tratta di una completa inversione del sistema di valori sui quali si fondava l’idea federalista dell’Europa nel Manifesto di Ventotene. Una politica delle relazioni esterne europee che non potrà che portare ad altre guerre e alla decimazione dei migranti in transito, via terra e via mare, verso l’Europa.

Nel corso del semestre di presidenza dell’Ue, nel 2014, l’Italia aveva già lanciato il Processo di Khartoum, che tendeva a trasferire sui Paesi subsahriani, di transito e di origine, il compito di “difendere” le frontiere europee, ormai “esternalizzate”, di fronte a un crescente afflusso di migranti, aumentando i controlli anche attraverso l’agenzia Frontex, e compiendo operazioni di respingimento verso i Paesi di origine.

Renzi e il governo italiano, spalleggiati come sempre dalla commissaria Ue Mogherini, con la nuova formula magica del “Migration compact”, hanno messo a lavoro le diplomazie per concludere nuovi accordi con dittature africane, come il Sudan, governato da un noto ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di genocidio nel Darfur, come il regime eritreo, accusato di crimini contro l’umanità, o come il Gambia, dove gli oppositori politici muoiono in carcere. A questi regimi, che opprimono la propria popolazione, su commissione dell’Ue viene affidato l’incarico di bloccare alle loro frontiere i migranti in transito o in partenza. Le misure previste ricalcano il modello degli accordi di Berlusconi e Maroni nel 2009 con la Libia di Gheddafi, sul principio della «condizionalità migratoria»: in sostanza, ingenti finanziamenti europei e forniture tecniche e militari ai Paesi di origine o di transito, per contrastare le partenze dei cosiddetti “clandestini”; collaborazione attiva da parte delle polizie nell’identificazione dei migranti giunti in Europa, anche se poi nessuno garantisce il rispetto dei diritti delle persone respinte, espulse, oppure riprese in mare e ricondotte nei porti o nelle celle di partenza. Uno “scambio” tra persone migranti e armamenti e soldi, basato su una rete di rapporti commerciali dominati dalla corruzione, un uso distorto della cooperazione internazionale, finalizzata al blocco della mobilità umana.

Quella a cui si assiste, dunque, è una preoccupante negazione del riconoscimento del diritto di asilo in Europa, anche attraverso l’introduzione surrettizia di una “lista di Paesi terzi sicuri”, verso cui respingere anche chi presenta una domanda di asilo. Una proposta che non arriva a diventare una misura legislativa vincolante per gli Stati, ma che, per linee dettate dai vertici dell’esecutivo, viene assunta come criterio generale di valutazione delle richieste di asilo, sotto l’impulso dell’Easo, l’Ufficio europeo che dovrebbe supportare i Paesi in difficoltà con le richieste di asilo, e che invece impone criteri sempre più restrittivi.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 3 settembre

 

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Così Erdogan vuole mettere fine alla rojava curda

Turkey's President Recep Tayyip Erdogan addresses a rally in Gaziantep, Turkey, Sunday, Aug. 28, 2016. Erdogan said a 14 year-old suicide bomber was responsible for last weekend's explosion in Gaziantep that claimed dozens lives. Erdogan, speaking at a rally, says the city saw terror's worst when "DAESH attacked with a suicide bomber," using the Arabic acronym for the Islamic State group and adds that 34 children died in the attack.(Yasin Bulbul, Presidential Press Service, Pool via AP)

Alea iacta est. Non è il Rubicone ma l’Eufrate di guerra al quinto anno di morte siriana. Eppure il dado è tratto. Il nuovo fronte del conflitto non ha più il suo convitato di pietra compiacente e segreto, una Turchia che fino a una settimana fa aveva permesso transito di uomini e rifornimenti sul suo territorio verso il Califfato. Erdogan ha invaso il campo siriano, con carri armati, uomini e bandiere. La guerra che fino a questo momento ha condotto contro i curdi all’interno del suo stesso Stato ha varcato ufficialmente i suoi confini. L’operazione con cui è stato dato il via all’offensiva per conquistare la città di Jarablus insieme all’Esercito Siriano Libero, si chiama “scudo dell’Eufrate”.

Il secondo esercito della Nato, quello turco, ha lasciato traccia sul terreno dei cingolati che hanno varcato il confine in uno dei punti dei condivisi 900 chilometri al confine tra la guerra aperta di Siria e la guerra intestina di Turchia. «Non c’è differenza tra Pkk, Ypg e Is»: Erdogan lo aveva detto prima di inviare i militari sul campo, promettendo di rimanere lì «finché il terrorismo non costituirà più una minaccia per il Paese». «Non cambia da dove proviene il terrorismo, se da Gulen o dal Pkk», il partito dei lavoratori del Kurdistan, che per lo Stato turco è un’organizzazione terroristica.

In Siriaq nessuno vince, ma l’importante è che tutti perdano. Gli alawiti e gli sciiti non conquistano potere ma nemmeno gli sciiti uniti lo guadagnano. La fanteria di terra curda, testa d’ariete degli americani che al loro posto li supporta boots on the ground, viene colpita per la prima volta dai lealisti di Assad via aerea e ora dai turchi. Caccia russi e americani si incrociano tra le nuvole. Tutti sono in Siria non perché sperino nella loro vittoria, ma piuttosto nella sconfitta dell’avversario. E da Hasakah a Damasco ognuno ne ha uno, giurato e storico in una Siria sommersa di bombe, macerie e civili rimasti uccisi in una guerra ormai solo degli altri.

Tutte le alleanze che c’erano si sovrappongono fino ad annullarsi. Più che amici in trincea di guerra, ci sono sponsor, che cambiano bandiera in una manciata di ore. Nel risiko degli attori militari della Siria 2016 il totale è maggiore della somma delle sue sempre più tragiche parti: oggi, se la sponda tra Turchia e Iraq in Siria rimane in mano curda, da Karkamis a Raqqa, fino a Deir Ezzor è ancora in piedi il minuscolo impero dello Stato islamico. Aleppo, Palmira e Damasco sono difese dagli alfieri di Assad, affiancati dagli hezbollah libanesi e dai miliziani iraniani. I ribelli siriani, insieme ai soldati turchi, assediano i confini. Dopo il varo dell’operazione Euphrate shield, il bilancio dei morti è di un soldato turco e 25 militari curdi. Ci sono stati molti feriti mentre un esercito della Nato – quello turco – combatteva contro le Sdf, Syrian Democratic Forces, di cui fa parte lo Ypg, supportate dagli Usa, dalla Nato stessa. I turchi ora puntano a Manbij, appena riconquistata dall’Is dove il sangue delle milizie dello Ypg è stato versato. È Salih Muslin, del Pyd, partito politico dello Ypg, a suggerire addirittura un accordo tra gli uomini neri dell’Is e le divise sui tank sabbia di Erdogan per allontanarsi dai territori e cederli senza combattere nelle mani dei neo ottomani.

Questo articolo continua su Left in edicola dal 3 settembre

 

SOMMARIO ACQUISTA

Roberto Perotti,consigliere.Caffè del 4 settembre 2016

Firma tra Stati Uniti e Cina, e sotto la foto di Obama che stringe la mano di Xi Jinping. “Emissione compiuta”, titola il manifesto. Usa e Cina sono i più grandi inquinatori del pianeta e la prima e la seconda potenza economica. Firmando l’accordo di Parigi per ridurre l’emissione di gas serra, si impegnano a far meno danni. In realtà entrambi hanno già fatto qualcosa. Washington ha investito molto sull’economia cosiddetta verde, ed è stato questo anche il motore di una ripresa, negli Stati Uniti meno flebile che in Europa. La Cina, constatata l’insostenibilità del suo modello di sviluppo, ha scelto di raffreddare la crescita, fondata sulla produzione a basso costo di tutto per invadere tutti i mercati, scegliendo di investire su infrastrutture e consumi interni. Così facendo, mentre crollava il prezzo del petrolio e delle materie prime, ha però consegnato l’economia mondiale a una sorta di stagnazione che i più allarmati definiscono secolare. È la contraddizione della fase attuale.
Muraro indagata, la crisi di Roma e il rebus di Raggi. Così titola il Corriere della Sera. Perché rebus? Perché pare che la sindaca voglia confermare Muraro dopo aver cacciato Raineri, sulla base di un parere chiesto all’autorità anti corruzione e non, come sarebbe stato più corretto, al consiglio di stato. Perché non si capisce se Marra, l’uomo che la Raggi ha estratto dalle fila di Alemanno e Polverini, sia stato promosso o invece posto in quarantena. Perché l’ultimo indipendente di prestigio della giunta romana, l’assessore all’urbanistica Paolo Berdini, si dice “scosso” dall’accaduto e “a disagio”. L’unica novità a 5 stelle è la difesa della Raggi firmata Di Battista. Una difesa che attacca i giornali che parlano dei guai della Reggo e non di quelli, peggiori, del sindaco di Milano. Sala, scrive Di Battista, “ha mentito sulle sue proprietà. Ha nominato assessore un suo socio in affari ed è stato costretto a rimuovere il suo segretario generale (dopo solo 5 giorni) perché è stato rinviato a giudizio per turbativa d’asta”. Ma che discorso è, caro “Ale”? Non era Sala un renziano, uno della casta, votato dal Pd, ammanicato con ’Expo? E la Raggi non era invece la Virginia del Movimento, l’apriscatole che svela ogni magagna di casta, la pulzella d’Orleans dei cittadini al governo? Se si mettono i due a confronto, si ammette la perduta verginità del Movimento 5 Stelle.
Pensioni si cambia. Banche la rivolta dei sindacati. Titoli di Repubblica e della Stampa. Quanto alle pensioni, si tratterebbe di varare una specie di prestito flessibile, cui potrebbe accedere chiunque voglia andare in pensione anticipata. E, insieme, di concedere qualcosa ai pensionati al minimo. Costo previsto 2 miliardi: il governo ne discuterà martedì, in una sorta di simil concertazione. Quanto alle banche, la Stampa sostiene che il premier avrebbe già messo la sordina alle sue dichiarazioni sul numero eccessivo degli sportelli e sull’indispensabile taglio dei bancari. Ma, secondo Stefano Lepri, “al tavolo del G20 in Cina tutti gli altri attorno a lui (Renzi) sapranno che le banche italiane preoccupano l’intero pianeta”. È davvero così? E se così è, basta per rassicurare i mercati l’annuncio di qualche taglio?
Indossavano la maglietta del No, scrive il Fatto: “la polizia li ha tenuti fuori”. Non si fa, non si professa un’altra religione, non alla festa del Pd trasformata in festa del Sì. Sempre al Fatto Zagrebelsky annuncia che se vincessero i Sì rinuncerebbe a insegnare diritto costituzionale. “Perché io -dice- molte parti di quella riforma non le ho capite”. Per esempio come possano i consigli regionali “eleggere”, cioè scegliere, i senatori se poi questi devono essere “indicati” dal voto popolare. Sul voto referendario la Stampa pubblica un sondaggio di Piepoli: No al 51%, Sì al 49. Tra gli elettori del centro sinistra aumentano i Sì, 29%, e diminuiscono i No, 13%. Tra gli elettori del “centro destra e indecisi”, crescono invece i No, 20% e calano i Sì, 16%. Il sondaggista ne desume che a decidere l’esito del voto saranno alla fine gli elettori del centro destra. Dunque se Renzi trovasse “una quadra” con mister B, potrebbe ben sperare. E la Consulta potrebbe favorire una tale “quadra”. Accogliendo i ricorsi sull’Italicum e “tagliando” i ballottaggi, potrebbe “sminare” il confronto. La riforma resterebbe pessima ma apparirebbe meno pericolosa senza una legge ultra maggioritaria.
Perotti, chi era costui? Scommetto che non ve ne ricordate. Economista bocciano, da settembre del 2014 a novembre del 2015 è stato consigliere del presidente del consiglio. Per il Corriere lo ha intervistato Federico Fubini e vi consiglio di leggere l’intervista nella versione integrale. Ecco l’incipit: “Ero andato a Palazzo Chigi, chiamato, per ridurre la spesa pubblica. Poi però mi sono reso conto che si era deciso di non farlo seriamente”. Si tratta di una garbata ma inesorabile bocciatura dell’intera politica economica del governo. Anche se -ma questo è persino peggio- Roberto Perotti riconosce a Renzi la buona fede: avrebbe voluto e non ha saputo. Dal punto di vista del Caffè, il dialogo Fubini – Perotti rivela come stia crescendo, in parte della borghesia “illuminata”, il desiderio di trovare un’alternativa meno parolaia e più efficace di quanto non si stia rivelando la “narrazione” renziana. Sempre sul Corriere, Dario Di Vico sostiene che a Cernobbio “l’europeismo tradizionale” scopre le disuguaglianze”. Da Padoan a Timmermans a Dijsselbloem i guru di questa Europa si starebbero convincendo che non aveva torto Piketty: se continuano a crescere le disuguaglianze, non ci sarà ripresa che tenga, il ceto medio continuerà ad essere molto arrabbiato, la stabilità politica resterà a rischio. Altro che “flessibilità” da concedere, quella che non tiene più è l’intera strategia della Terza Via.

Perché è importante che chi governa non possa decidere tutto da solo

Dopo una breve vacanza, la questione del referendum costituzionale torna ad occupare, giustamente vivaddio, uno spazio centrale, nonostante il dramma del terremoto che ha colpito di nuovo il nostro Paese, fragile e bello. La questione della forma della nostra democrazia non è un fatto a se stante, neppure rispetto al dramma del terremoto, perché parte di una visione di Paese; di una visione del ruolo della classe politica, del potere dei cittadini e del peso delle associazioni che danno loro forza e rappresentanza sociale; di una visione, infine, del ruolo dei controlli istituzionali oltre che extra-istituzionali (in primis, i mezzi di informazione). Tutto questo si tiene insieme nella proposta di revisione costituzionale, e gli effetti potenzialmente perversi si mostrano anche in situazioni di emergenza come questa del terremoto. Il quale mette in luce la fragilità non solo dell’Italia fisica ma anche dell’Italia politica, del senso di legalità delle forze di governo e imprenditoriali poiché, come puntualmente si ripete in occasioni come questa, al danno del sisma si assomma quello di lavori eseguiti male e di una gestione della cosa pubblica o incompetente o lassista o disonesta; un nodo di problemi che mette il dito sulla piaga dell’opacità delle funzioni pubbliche. In casi come questo, come si ripete ogni volta che succedono, si vede come i sistemi di controllo preventivo, non solo di punizione a reato avvenuto, definiscono la fisionomia dello Stato e dell’apparato istituzionale.

Casi di emergenza come il terremoto dimostrano una volta di più come nessuna leadership può operare per il bene del Paese se le regole non impongono limiti al suo potere, e controlli e monitoraggi continui su ogni sua decisione. La revisione della Costituzione che questo governo ha pilotato a partire dal suo insediamento è volta ad allentare questi controlli e a rendere le decisioni del governo fatalmente più esposte non solo alla corruzione ma anche alla disfunzione. È proprio in casi dolorosi e tragici come questo che gli organi amministrativi dimostrano quanto poco ci si deve fidare delle promesse dei leader e quanto importante sia non lasciare mai chi governa solo a decidere.

Il referendum per il quale andremo a votare ci chiede di approvare una revisione in senso dirigista della nostra democrazia parlamentare, di dare il via libera a una nuova Costituzione che umilia il diritto dei cittadini ad essere rappresentati (soprattutto se si considera il combinato con la legge elettorale), che restringe il ruolo e lo spazio della sovranità popolare, che infine sbilancia il sistema decisionale a favore dei poteri delegati amministrativi, come appunto il governo. L’intero piano di riforma è concepito per rendere la presidenza del Consiglio più libera di operare. Il nuovo Senato può infatti ostacolare o rallentare l’attività legislativa della Camera, ma non ha alcuna incidenza sull’attività del governo, il quale inoltre può con la “clausola di supremazia” farsi rappresentativo dell’interesse nazionale e intervenire senza alcun limite in qualsiasi materia di competenza legislativa esclusiva delle Regioni “quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica ovvero la tutela dell’interesse nazionale”.

A considerare l’intero pacchetto di articoli modificati, si vede che il solo organo che ne risulta rafforzato è il governo, ovvero il potere meno collettivo e più personale che opera nello Stato, ed anche quello delegato o quindi più distante dalla volontà popolare. Il presidente del Consiglio dei ministri – come il sindaco – assomiglia sempre più ad un amministratore delegato di una multinazionale che nomina il suo governo, impone alla Camera legislativa i tempi di lavoro, e subisce meno fermi e interferenze possibili da parte degli organi parlamentari.

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Obiettivo rischio zero, così Tokyo si prepara al day X

Acqua da bere e per lavarsi: almeno tre bottiglie da due litri o una vasca da bagno piena; un fornello a gas portatile e una bomboletta di ricambio; una coperta isotermica; una torcia; una mantellina da pioggia; candele, fiammiferi e carta igienica. E poi cibi secchi e in scatola, pasta e noodle liofilizzati, salsa di soia e sale. Da qualche anno a questa parte, nella capitale del Giappone c’è chi si prepara all’arrivo di un grande terremoto. Nel 2012, uno studio dell’Università di Tokyo ha avvertito: entro i prossimi 30 anni, c’è il 98% delle possibilità che la città sia colpita da un terremoto di magnitudo pari o superiore al settimo grado. «Non voglio andare nel panico perché mi manca qualcosa», spiega Kazuko, una donna minuta sulla sessantina residente nel distretto di Shinagawa a Tokyo. Per completare il suo kit di sopravvivenza ha da poco acquistato un set da campeggio, tenda e materassino, entrambi arancioni. In una valigia 24 ore c’è tutto il necessario per scappare, anche in aereo, nel caso in cui la situazione vada fuori controllo.

Tokyo è il fulcro di un’area metropolitana da oltre 36 milioni di abitanti. Le aree densamente antropizzate, una rete intricatissima di ferrovie e strade sopraelevate la rendono vulnerabile ai danni causati da un sisma di grandi proporzioni. C’è chi ha fatto delle stime: un evento sismico di portata pari o superiore a quello del marzo 2011 causerebbe più di 20mila vittime e 856 miliardi di dollari di danni, ha da poco fatto sapere l’ufficio governativo per la gestione delle calamità naturali. Ma le autorità rassicurano: la messa in sicurezza degli edifici e i sistemi di early warning, di preavviso di eventuali onde anomale, limiteranno i danni del 70%.
Ad agosto il governo giapponese ha varato un piano di investimenti pubblici – circa 75 miliardi di euro – che prevede anche opere di adeguamento antisismico delle infrastrutture. Anche il governo metropolitano ha accelerato i preparativi. A febbraio è stata presentata una proposta per rendere Tokyo «immune» ai sismi. Secondo il documento dell’amministrazione della capitale, al momento oltre l’80% delle abitazioni è adeguato agli standard antisismici. Si supera il 95% per gli edifici pubblici identificati come punti di ritrovo e accoglienza in caso di sisma: municipi, scuole, palestre e ospedali. L’obiettivo è mettere in sicurezza il 90% delle strade entro il 2020 e il 95% delle case entro il 2021.

Tra meno di quattro anni la capitale giapponese ospiterà le Olimpiadi estive e tutto deve essere pronto, anche all’eventualità di un disastro naturale di grosse proporzioni. Lo scorso anno il governo metropolitano ha distribuito ai suoi abitanti una guida, disponibile anche in inglese online, aggiornata con mappe e consigli utili per affrontare un disastro naturale di grandi proporzioni. L’introduzione del volume di oltre 200 pagine è affidata a un fumetto manga, intitolato Tokyo Day X. Le vignette in bianco e nero rappresentano una Tokyo totalmente devastata da un grande terremoto. La narrazione si chiude con una riflessione: «Questa non è una storia fatta con i “se”. Questa è una storia che nel prossimo futuro diventerà realtà». L’invito finale è «Prepariamoci!».
Ma se da un lato la città potrebbe resistere all’impatto di un sisma violento, è il rischio tsunami ad aprire scenari ignoti.

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