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I colpi di sole di Matteo e Maria Elena

Maria Elena Boschi, sempre peggio. Ieri ha dichiarato che chi voterà no al prossimo referendum sulla riforma della costituzione (che porta il suo stesso nome) “non ha rispetto per il Parlamento”. Si sono rizzate le orecchie di (quasi) tutti, “ma davvero ha potuto fare un’affermazione del genere?“ si sono chiesti i presenti e lei ha puntualizzato: si riferiva, ha spiegato, al lavoro fatto in Parlamento per approvare questa riforma e al lavoro che si dovrebbe fare di nuovo nel caso in cui passasse il no al referendum. In pratica il disaccordo è un ostacolo alla democrazia secondo la ministra e il Parlamento è la salvietta umidificata della banda di paninari che governa questo bistrattato Paese.

Lui, Matteo, è andato alla Festa dell’Unità, che se ci pensate quest’anno suona ancora più grottesca del solito la parola “unità” applicata a un partito che è composto dalla banda di servetti e poi un rivolo di mille bande blande. Poi Renzi, al solito coerente solo con l’amore per se stesso, ha dichiarato di avere sbagliato a personalizzare troppo il referendum fingendo di dimenticare di essere incapace di interpretare in qualsiasi altro modo la politica. E cosa si è inventato il fantasioso Matteo per spersonalizzare? L’ha affiliato a una altro. Giuro. Il mandante di questa pessima riforma (non l’ha detto così ma il sottotesto è questo) sarebbe Giorgio Napolitano. Napolitano, il Presidente: quello che avrebbe dovuto essere una garanzia e invece è stato uno sfacelo. Il comunista più destrorso del west. Prima di avere la sventura dell’arrivo di Renzi, ovviamente.

Quindi la geniale operazione simpatia del PD prevede di affibbiare la riforma Boschi non più a Renzi ma direttamente a Napolitano. Senza personalizzare, eh. Solo un po’ di cognomizzazione, al massimo.

Intanto in Rai si respira quella bella aria per cui anche se si dimettesse l’omino che ricarica la macchina del caffè diventerebbe immediatamente un idolo delle folle e dello sdegno. Buon segno: c’è tanto affetto per i governanti, evidentemente. Avanti così.

Buon mercoledì.

Ori, Olimpiadi e sessismo

Sessismo: la tendenza a valutare la capacità o l’attività delle persone in base al sesso ovvero ad attuare una discriminazione sessuale. Scrive così il dizionario e noi, presi come eravamo dall’estate, dalle vacanze, dalle gare delle Olimpiadi di Rio alla tv, pensavamo di aver lasciato quella vecchia e polverosa parola a casa. E invece no, ce la siamo portata dietro anche questa volta, perché proprio alle Olimpiadi, quelle che ci vogliono tutti uguali e che hanno addirittura formato un team di rifugiati per far capire che insomma siamo proprio tutti uguali, ecco, anche in quelle Olimpiadi e dopo soli quattro giorni dall’inizio dei giochi, non sono mancate le discriminazioni nei confronti di molte atlete in gara. Atlete ricordate dai media perché “sì ha vinto, ma guardate che culo perfetto che ha”, “brava, ha conquistato il podio, però è un po’ cicciottella”, “nuota più veloce di tutte, ma non è bella ed aggraziata”.

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Per Libero, Rossella Fiamingo non fa parte della categoria “sport” o “olimpiadi”, ma di quella “meraviglie” come vuole la tradizione del bravo maschio macho italiano.

Per le donne è così anche a Rio, obbligatoriamente impegnate in una doppia sfida: vincere e non tradire l’immagine stereotipata della donna che buona parte del pubblico a casa ha di loro. O meglio: che i giornalisti credono il pubblico abbia, perché a quanto pare chi è seduto a casa sul divano e sente imbarazzanti telecronache sessiste si arrabbia e si fa sentire sui social.

Il primo caso è stato quello scatenato dal commento di Dan Hicks della Nbc. Quando Katinka Hosszù, nuotatrice ungherese ha vinto la medaglia d’oro e battuto il record del mondo nei 400 metri misti, la telecamera ha ripreso il marito-allenatore che stava guardando la gare e Hicks non ha perso l’occasione per commentare così: «Ed ecco qui l’uomo responsabile di questa vittoria». Non Katinka con le sue gambe, le sue braccia, la testa, la fatica, l’impegno, i sacrifici, ma il marito-allenatore, ovvio no? Quale donna potrebbe fare qualcosa se non per merito di un uomo. Sui social allora si è scatenata una vera e propria tempesta di tweet e status contro Hicks, che si è scusato — troppo tardi — per una frase che «vorrebbe aver detto diversamente».

 

In ogni caso, per fortuna che ci sono gli uomini a spiegare alle altlete donne come si fa a vincere una gara. Ecco un caso di uomo comune dell’Internet che #laspiega a un’atleta olimpica…ops volevo dire “ragazzina inesperta”.

A proposito di parole sbagliate al momento sbagliato. Probabilmente, con il senno di poi, avrebbe voluto titolare diversamente anche il direttore del QS quotidiano sportivo, Giuseppe Tassi, che sul suo Resto del Carlino ha invece scelto di celebrare l’ottima prova della squadra femminile italiana di tiro con l’arco e il podio sfumato per pochissimo così:

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«Il trio delle cicciottelle sfiora il miracolo», se erano magre vincevano? Chi può dirlo. Possiamo dire invece cosa ha scatenato quel titolo: l’indignazione generale di molti dei lettori sui social e una lettera da parte del presidente della FITARCO Mario Scarzella indirizzata a Tassi direttore de Il Resto del Carlino

Caro Direttore,

questa mattina da Rio de Janeiro siamo rimasti basiti nel leggere su Il Resto del Carlino il titolo che recitava “Il trio delle ciocciottelle…” — a nostro avviso a dir poco irriguardoso — rivolto alle nostre atlete Guendalina Sartori, Lucilla Boari e Claudia Mandia.

Se Il Resto del Carlino fosse una rivista scandalistica non avremmo nulla da dire, ma focalizzare l’attenzione sull’aspetto fisico di queste ragazze su un quotidiano, che scandalistico non dovrebbe essere considerata la sua lunga e prestigiosa storia, è stato davvero di cattivo gusto.

Ci chiediamo in effetti se si possa definire giornalismo serio un titolo come questo, soprattutto in un giorno difficilissimo per delle giovani ragazze all’esordio Olimpico, che hanno lavorato per quattro anni nel silenzio dei media per vivere una delle delusioni più cocenti della loro vita, sia personale che sportiva.

Alla lettera la risposta che è arrivata immediatamente è stata quella dell’editore della testata Andrea Riffeser Monti: scuse e sollevamento dall’incarico, con effetto immediato, del direttore del QS Giuseppe Tassi.

Altro caso interessante è quello di Katie Ledecky che addirittura ci dà la possibilità di mettere a confronto la discriminazione sessista in salsa anglosassone con quella del Belpaese. Dopo che Ledecky aveva conquistato la medaglia d’oro per i 400 metri stile libero il Daily Mail ha commentato la vittoria con le uniche parole che potevano giustificare il trionfo di una donna, la somiglianza con un grande uomo e così, è presto detto: Katie Ledecky è la Michael Phelps femminile (il titolo è stato corretto ma nell’articolo rimane traccia dell’affermazione, scorrette molto verso il basso, dopo una degna celebrazione del campione maschio, troverete citata anche lei, la Ledecky nata dalla costola di Phelps secondo i giornalisti del Daily Mail).

 

Anche Rainews però ha voluto dire la sua sulla vittoria della Ledecky. La nuotatrice appena diciottenne ha fatto una gara straordinaria e battuto il record mondiale e i giornalisti di Rainews sembrano essere colpiti dall’impresa, ma soprattutto stupiti dal fatto che sia stata compiuta da «una ragazzona che non brilla certo per grazia o bellezza». Che quella si sa nel nuoto è fondamentale.

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Più sei figa più hai la possibilità che le acque della piscina olimpionica facciano come quelle del Mar Rosso al passaggio di Mosè.

In realtà Ledecky non è solo una nuotatrice eccezionale, ma in passate occasioni dove le è capitato di essere discriminata per il semplice fatto di essere una donna ha dato una risposta, la risposta, che vale un po’ per tutti questi episodi. Intervistata da un giornalista ad aprile era stata apostrofata, per il fatto di nuotare così velocemente, come una che «spacca in due gli uomini». Ledecky non ha battuto ciglio e in una successiva intervista rilasciata questa volta al New York Times ha semplicemente spiegato di non essersi lasciata coinvolgere perché: «probabilmente ero solo concentrata nel fare il mio lavoro al meglio». Chapeau Katie.

Se pensate che questi siano solo dei casi isolati a smentirvi arriva un recente studio della Cambridge University Press che ha analizzato il modo in cui tendiamo a parlare degli uomini e delle donne che praticano sport. Mentre gli atleti maschi sono generalmente descritti come forti, grandi, i migliori o i più veloci, le donne nel mondo dello sport vengono invece definite come: ormai vecchie, incinta o sposate. E non finisce qui, da un’analisi condotta su oltre 160 milioni di parole provenienti da blog, articoli di giornale, tweet, e paper accademici, risulta che gli atleti uomini vengano menzionati in media il triplo delle volte rispetto alle colleghe donne. Soprattutto quando vengono menzionate lo sono per la loro età o per il loro aspetto fisico.

Il mondo dello sport si rivela in sostanza un perfetto specchio delle diseguaglianze di genere che ancora permangono nella società. Più difficile invece è capire se il linguaggio che le persone comuni usano per parlare delle donne sia il riflesso di quello letto sui media oppure se siano i giornalisti a puntare su un certo tipo di linguaggio proprio perché diffuso fra il pubblico. Rio 2016 riesce però a fornirci spunti anche su questo: atleta o giornalista se sei una donna, con il sessismo ci devi fare i conti. Come nel caso della giornalista sportiva della Bbc Helen Skelton redarguita sui social dal pubblico perché a bordo piscina e con i 30 gradi di Rio commentava le gare di nuoto con un vestito troppo corto.

Una foto pubblicata da Helen Skelton (@helenskelton) in data:

 

Per onore di cronaca: esistono anche donne che pensano di risolvere il problema, utilizzando lo stesso atteggiamento maschile. Ecco a voi i peni che meritano l’oro, sì il sottotitolo dell’articolo è proprio questo.

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Agosto da collezione. Le mostre da vedere. Anche a ferragosto

Mirò

Mirò, la forza della materia a Milano

Cercava la fusione fra forza del colore e materia Joan Miró , sulla scorta della ricerca degli anni Venti e Trenta. Voleva far incontrare la fisicità della pittura  con la profondità evocativa della poesia, sottomettendo la sua opera a un processo di semplificazione della realtà che rimanda all’arte primitiva, al tempo stesso punto di riferimento per l’impostazione di un nuovo vocabolario di simboli e strumento utile a raggiungere una nuova percezione della cultura materiale. La retrospettiva al Mudec di Milano pone l’accento su questo ultimo aspetto, mostrando attraverso un’ampia selezione di opere realizzate tra il 1931 e il 1981, l’importanza che l’artista ha sempre conferito alla materia, non solo come strumento utile ad apprendere nuove tecniche ma anche e soprattutto come entità fine a se stessa. Attraverso la sperimentazione di materiali eterodossi e procedure innovative, l’artista mira a infrangere le regole così da potersi spingersi fino alle fonti più pure dell’arte. Joan Miró. La forza della materia ideata dalla Fundació Joan Miró di Barcellona sotto la direzione di Rosa Maria Malet, Direttrice della Fondazione, propone lavori dalla collezione della Fundació Joan Miró di Barcellona e da quella della famiglia dell’artista. La mostra è aperta per ferragosto e prosegue fino all’11 settembre.

 Pollock Mural
Pollock Mural

Pollock a Malaga, nel Museo Picasso
Dopo il Guggenheim di Venezia e il MoMa di New York, ora è il Museo Picasso di Malaga a rendere omaggio  (fino all’11 settembre) a Jackson Pollock con un’esposizione incentrata su Mural, l’opera monumentale che gli fu commissionata dalla collezionista Peggy Guggenheim nel 1943 e che rappresenta uno dei punti più alti dell’action painting.
Nel museo andaluso il potente murale astratto ritmato da  arricciate linee verdi, rosse e nere campeggia nell’ultima sala insieme ad altre opere dell’artista americano come il drammatico Circoncisione e il Ritratto di H.M. (1945) in cui non resta nulla di figurativo. Questa sala monografica – quasi una mostra nella mostra – accoglie lo spettatore come un vortice di energia, dopo averne attraversate altre con opere di altri protagonisti della scuola di New York che non hanno la stessa forza  e impatto emotivo. Nei fatti più interessante come studioso  che come artista, Motherwell è rappresentato qui da una grande tela astratta intitolata Elegia per la Repubblica spagnola  n. 126 (1965-75) in cui giganteggia una massiccia  catena  nera e gialla, che allude forse a un girotondo, ma che appare privo di movimento. Al pari di Lee Krasner e Robert Matta, anche Motherwell, in questo confronto diretto  finisce per restituire a Pollock tutta la sua originalità. E ancor più ne fanno risaltare il profilo epigoni delle generazione successive, come  David Reed (1946), che usano il dripping come tecnica razionale realizzando quadri che sembrano fatti al computer. Che ci riesca o meno (la sua opera è nel complesso piuttosto diseguale) l’intento di Pollock è di «lavorare per esprimere il mondo interiore». Il punto, scrive l’artista, è «riuscire ad esprimere l’energia, il movimento ed altre forze interiori». Questo è il filo che percorre la sua breve e folgorante carriera, dagli anni Trenta fin quasi al ’56 quando morì in un incidente d’auto, suicidandosi e uccidendo la sua giovane amica. La mostra Mural Jackson Pollock, la energià hecha visible di Malaga, che si dipana poco lontano dalla collezione permanente del Museo dedicato a Picasso, ha anche per questo il merito di illuminare  meglio le radici dell’astrattismo di Pollock e il suo “debito” con il pittore malagueño, di cui studiò quasi ossessivamente i quadri del periodo cubista, esercitandosi nello scomporre le figure rappresentate, alla maniera delle Demoiselles d’Avignon, fino a farle diventare segni astratti. Accanto all’influenza picassiana la mostra riporta in primo piano anche l’interesse di Pollock per la pittura di El Greco (che lavorò a Toledo): con le sue figure ritorte e fiammeggianti è una presenza costantemente evocata anche nei suoi quadri astratti.

Mimmo Rotella, Posso?
Mimmo Rotella, Posso?

“Imagine” al Guggenheim di Venezia
Il verbo “to imagine”, in inglese, ha un senso evocativo, «corrisponde al formarsi dell’immagine mentale come qualcosa che non è presente ai sensi». Ma che è fortemente coinvolgente e corrisponde ad un’apertura al nuovo. A questa preziosa espressione, che rimanda ai processi di ideazione e alla nascita di un nuovo immaginario, Luca Massimo Barbero dedica la mostra Imagine, nuove immagini nell’arte italiana 1960-1969, aperta fino al 19 settembre al Guggenheim di Venezia. Una retrospettiva che legge in parallelo l’esperienza dell’Arte Povera torinese e quella della Scuola di piazza del Popolo a Roma, che fu animata da Mario Schifano, Franco Angeli, Tano Festa, Giosetta Fioroni con altri artisti che si aggiunsero in seguito come Pino Pascali. Ad attrarli verso una prospettiva internazionale fu la Biennale di Venezia del 1964 che portò in Italia la Pop art. Quell’onda forte e prepotente di artisti che celebravano il sogno americano e il boom economico non trovò però in Italia una terra di epigoni e replicanti. Tutt’altro. Come raccontano bene questa retrospettiva e alcuni saggi critici pubblicati nel catalogo Marsilio. E se la risposta più originale e profonda venne da Torino dove Michelangelo Pistoletto, Mario Merz e altri avviarono un nuovo linguaggio artistico che usava materiali poveri per creare sculture dalle forme poetiche ed essenziali, rimettendo al centro l’umano, a Roma, già dal 1960-61 artisti come Schifano e Angeli intuirono che occorreva uscire dall’attardato figurativismo che ancora dominava la Capitale. Per far sorgere nella mente nuove immagini, Franco Angeli ricoprì le sue tele di nero, vivo e cangiante, da cui vediamo emergere in filigrana sagome come quella della lupa capitolina che avanza come una pantera. Per raccontare questo passaggio chiave nel percorso di questo schivo artista romano il curatore Barbero ha ideato un effetto camera oscura, inanellando un trittico di opere nere. È come se questa serie iniziata proprio con La lupa del 1964 rappresentasse una sorta di grado zero della pittura, una porta stretta dell’arte italiana del ‘900, oltre la quale – come accade qui al Guggenheim di Venezia – si scorge il fiorire di nuove, più “leggere” immagini di avanguardia, penso al giardino di Kounellis, le sue fiabesche barche a vela (quasi un monocromo alla Manzoni) e i suoi stilizzati fiori giapponesi. Oppure, su un versante di nuova mescolanza di linguaggi, i ritratti ricreati dall’antico di Giulio Paolini che combinano disegno e stampe di quadri di Lotto o di Velàzquez, per arrivare poi a dipingere direttamente su tela fotografica, lasciando irrompere un inaspettato azzurro su meste figure magrittiane. Il 15 agosto, la Collezione Peggy Guggenheim deroga dalla normale chiusura e rimane aperta con il solito orario.

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Anish Kapoor foto di Stefano Leone

Anish Kapoor a Napoli
Non appartiene a un genere definito, non si iscrive in una corrente e non è imitabile il modo di fare scultura di Anish Kapoor. L’artista angloindiano riesce a fondere in maniera originalissima tradizione orientale (nella scelta dei pigmenti in particolare) e occidentale (nel classicismo di eleganti forme primarie). La sua ricerca nasce all’incrocio di architettura e scultura, con l’attenzione rivolta al sociale che caratterizza la Public art ma  al contempo appare come  il risultato di un solitario percorso. Come ben racconta  la mostra raffinata ed essenziale, che Kapoor presenta nelle sale di Casamadre a Napoli, fino al  15 ottobre. Nelle eleganti e luminose stanze di questa galleria aperta dal curatore Eduardo Cicelyn negli storici spazi  di piazza dei Martiri che furono di Lucio Amelio s’incontra una manciata di opere di Kapoor, ma che sintetizzano in maniera incisiva e potente tutto il suo lavoro: dalle sculture di cera  che sembrano forme in fieri, malleabili, sensibili al contatto, fino alle sculture specchianti, come quella nera che conclude il percorso napoletano, capace di moltiplicare e di capovolgere le usuali prospettive, catturando l’immagine dello spettatore a testa in giù. Quella di Kapoor è una cosmogonia di forme senza trascendenza (come nota giustamente Cicelyn) che giocano con gli opposti, concavo e convesso, morbido e duro, luce e ombra, superando la scissione interno esterno. Le sue sculture di puro pigmento colorato invitano quasi a toccarne la pelle, come membrana che mette in connessione, non come barriera. Così come il fondo nero dei quadri specchianti non  nasconde un vuoto ma attira lo sguardo verso una profondità magnetica, vibrante, piena  di riflessi cangianti, in continuo movimento. Andare oltre la superficie delle cose, evocare forme latenti che “intercettano” lo sguardo dello spettatore quasi fossero oggetti animati, questa è la sfida di Kapoor. Quando realizza sculture monumentali che ridisegnano completamente il contesto urbano in cui sono inserite. Ma anche quando, come in questo caso,  accende spazi bianchi e minimal con sculture che sembrano vive “presenze”.

Egitto a Pompei
Egitto a Pompei

L’Egitto a Pompei
Sul fascino che esercitò Cleopatra sulla nobiltà romana, al tempo in cui era ospite di Cesare e sua amante, è stato scritto molto. E proprio nella Capitale, nel 2013, una mostra dentro il Chiostro del Bramante ricostruì efficacemente la diffusione della moda egizia nella latinità, soprattutto nelle ricche case patrizie che si riempirono di decorazioni ispirate ai geroglifici e di scene affrescate con visioni fantastiche del Nilo, di pigmei e coccodrilli.  Ma non fu solo esotismo per svago dei ricchi. La mostra Egitto a Pompei (fino al 2 novembre), curata dal soprintendente Massimo Osanna con Marco Fabbri negli scavi di Pompei (nella palestra grande) documenta una penetrazione ampia e profonda di alcuni culti provenienti dell’Egitto. A cominciare da quello di Iside, a cui era dedicato un tempio importante nella città vesuviana. Tanto che  il ricco commerciante locale (forse un ex liberto) che lo ricostruì a sue spese dopo il terremoto del 62 d.C. ebbe per ricompensa un posto nel Senato pompeiano. I romani, come è noto, praticavano una politica inclusiva nei riguardi dei culti pagani dei popoli assoggettati, spesso accogliendo  queste nuove divinità nel proprio Pantheon. Ma nel caso del complesso culto di Iside, che sfuggiva all’ordine e alla razionalità su cui era basata la società latina,  ebbero molti sospetti e cercarono, se non di regimarlo, almeno di tenerlo sotto controllo, come racconta Eva Cantarella che alla vita quotidiana nella cittadina distrutta dal terremoto del 79 d.C. ha dedicato due libri Pompei è viva (Feltrinelli) e Nascere e vivere e morire a Pompei (Electa Mondadori), entrambi scritti con l’archeologa Luciana Jacobelli. Fu dunque soprattutto la comunità greca che viveva a Pompei a mediare e a diffondere il culto di Iside, come testimonia anche l’impianto ellenistico del tempio, che fu riportato alla luce durante le campagne di scavi del 1764 e il 1766. Allora gli affreschi furono staccati e si possono vedere al Museo nazionale archeologico di Napoli, dove  ha aperto una nuova sala dedicata al culto isiaco in Campania. Qui all’interno del percorso della mostra Egitto a Pompei, organizzata da Electa, la curatrice  Valeria Sanpaolo ha ricostruito la disposizione originaria che affreschi, rilievi, mosaici e statue  avevano all’interno del tempio, in stile ellenistico con un megaron per il sonno visionario degli iniziati. Alcune raffinatissime coppe di ossidiana, con intarsi di pietre dure, provenienti probabilmente da Alessandria d’Egitto e ritrovate a Stabia testimoniano la diffusione della cultura egizia anche in altre zone della Campania, non solo a Pompei.

 

Attesa, mix da Mimmo Jodice
Attesa, mix da Mimmo Jodice

Mimmo Jodice al Madre di Napoli
Poesia visiva, così è stata definita l’arte fotografica di Mimmo Jodice. Una definizione che ben si attaglia soprattutto alla serie “Attese”, immagini in bianco e nero dalle atmosfere incantate, in cui si stagliano rovine e straordinari paesaggi archeologici, da ogni parte del mondo, dalla sua Pompei , ad Atene, a Palmira, recentemente tornata drammaticamente di attualità, dopo la re-conquista jihadista. Al Museo Madre di Napoli – che fino al 23 ottobre dedica una grande retrospettiva a Mimmo Jodice, organizzata da Electa – la serie Attese campeggia accanto ad opere di Morandi, di Sironi, di De Chirico illuminando i “debiti” del grande fotografo con la pittura del Novecento capace di trasfigurare la realtà, di mostrare l’invisibile al di là dell’oggettività fredda delle cose.
Ma andando ancora più indietro nel tempo, ecco anche l’universo caravaggesco di Ribera, protagonista della pittura napoletana del Seicento che Jodice ha molto amato e studiato, come dimostrano alcuni suoi ritratti realizzati per strada, nei bassi e nei quartieri più poveri di Napoli e nelle fabbriche di Bagnoli. Al museo Madre   sono esposti, insieme ad altri lavori di taglio sociale al piano terra, nella sala-agorà che si apre direttamente sulla città e che il direttore Andrea Valiani ha voluto chiamare “Re_pubblica madre”. E se in serie fotografiche come le Attese si dischiudono immagini dalle atmosfere, decantate, magiche, in questi lavori prevale una teatralità forte ed espressiva, che parla di capacità di resistere, di ingegnarsi, per reinventarsi la vita ogni momento.
È questo l’aspetto più straordinario di Jodice, la sua capacità di passare da un registro all’altro con disinvoltura, mantenendo sempre una grande intensità e uno sguardo originale. Fin dagli esordi, quando era vicino ai movimenti di avanguardia come il Gruppo 58 e faceva sperimentazione, realizzava opere “meta-letterarie” e al tempo stesso praticava un foto giornalismo schietto, diretto, privo di fronzoli. Jodice, infatti, esordì negli anni Sessanta con stampe off-camera, «impronte lasciate su carta sensibile e sviluppate parzialmente». Nel 1965 nacquero così i suoi Graffiti, che sovvertivano per molti versi il linguaggio fotografico dell’epoca. In questi lavori non c’erano celebrità, notizie, scoop, al contrario protagoniste della scena sono carcasse di auto, cataste di legna, pezzi di pavimentazione. Materiali di scarto, che sembrano avere una propria vita. Accanto a questa poetica della “materialità” Mimmo Jodice praticava una raffinatissima arte realizzando nudi femminili in controluce, che appaiono misteriosi, enigmatici, stranianti come Nudo Silhouette (1966) e poi Nudi maschili, colti in frammenti, allo specchio (una suggestione mutuata da Michelangelo Pistoletto), fino ad arrivare a sovvertire interamente la logica documentale della carta di identità, creando immagini che diventano arte a pieno titolo.

Domon Ken
Domon Ken

Domon Ken a Roma
Ara Pacis, a Roma. La teca di vetro progettata da Meyer, che protegge l’altare augusteo della pace, custodisce ora anche un altro tesoro: uno spicchio di Giappone antico e moderno. In poetico bianco e nero. Fino al 18 settembre qui sono esposte le straordinarie fotografie di Domon Ken, che nel secolo scorso ha raccontato per immagini il volto discreto e gentile del suo Paese, “narrando” la  vita dei villaggi, delle pescatrici di perle, ma anche gli anni durissimi della guerra, il volto algido e militare del Giappone e poi e la rapida modernizzazione delle grandi città. Come in un film scorrono sulle pareti, rosse o scure, sequenze di stampe che testimoniano tutte le trasformazioni della nazione dal 1935 al 1979. Per questo maestro dalla sguardo morbido ed elegante furono più di cinquant’anni di intenso  lavoro.  All’insegna di un realismo che non si ferma alla documentazione. Il suo sguardo si posa con pudore e con un profondo dolore su Hiroshima. Domon Ken non si nasconde dietro l’obiettivo. Le sue opere seducenti, evocative, rivelano la sua intima partecipazione a ciò che ritrae. Specialmente quando i soggetti sono dei bambini. Che nelle sue foto appaiono straordinariamente vivi e vitali. Anche in mezzo alle macerie del dopo guerra, quando escono in strada al tramonto inventandosi sempre nuovi giochi. Nel catalogo Skira che accompagna la mostra, Kamekura Yusaku ricorda il rapporto immediato, d’intesa e di simpatia, che Domon Ken  stabiliva con loro. Erano anni di povertà e di fame, di vita nelle baracche e di vestiti laceri, ma bastava poco perché nei più piccoli si accendesse la scintilla dell’immaginazione.  E Domon Ken sa cogliere questi momenti “magici”, raccontando i bimbi per strada la sua ricerca tocca i momenti più liberi, alti e spontanei. Ma affascinanti sono anche i suoi lavori più ufficiali: ritratti di vigili issati su fragili strapuntini in mezzo alle prime strade trafficate del dopo guerra e abbaglianti parate militari, in cui Domon Ken insinua una vena sottilmente ironica, una critica felpata al militarismo evitando le provocazioni, ma al contempo lasciando intendere il suo pensiero. Bellissimi poi i ritratti di fanciulle in fiore e di giovani donne, sensibili, eleganti, sui tacchi alti e con i vestiti della festa, sognando amori nei giorni della ripresa e di pace. Alcune immagini anni Cinquanta hanno l’appeal tutto francese del cinema alla Resnais. Altre evocano la tradizione antica in abiti di seta richiamando i rituali di una  geisha, ma  perlopiù sono  rare le tracce del passato. Quelle più seducenti vengono dalle maschere del Teatro No e dai templi buddisti in una imprevista esplosione di rosso, di nero e di oro. Fino al 18 settembre.

Scultura buddista dal Giappone

Quella offerta dalle scuderie del Quirinale dal 29 luglio al 4 settembre: per poco più di un mese nel centro storico di Roma si schiude uno spicchio di Giappone antico e poco conosciuto. L’esposizione curata da Takeo Oku invita a fare un viaggio nell’arte buddista che è fiorita soprattutto nel periodo Asuka tra il VII e l’VIII secolo e poi  fino al periodo Kamakura (1185-1333). Un’arte che si è espressa in una elegante e potente statuaria in legno e altri materiali pregiati. La mostra Capolavori della scultura buddhista giapponese (nata nell’ambito di un ciclo di iniziative per far conoscere la cultura e le antiche tradizioni del Giappone) presenta 21 sculture di epoche diverse, provenienti da raffinati e silenziosi templi immersi nel verde, disseminati in varie zone  del Paese come mostrano le fotografie che, insieme a approfonditi apparati informativi, accompagnano e contestualizzano le opere esposte.  Percorrendo i due piani della mostra s’incontrano rappresentazioni di budda dorati e imponenti, sul volto un’espressione gentile, un sorriso appena accennato che sembra voler alludere a una dimensione interiore di calma e di apertura verso l’altro, ma si incontrano anche samurai dai volti corruschi e guerreschi. Se i primi rimandano alla tradizione indiana che si riferisce al budda storico, il principe Shakyamuni, le seconde sembrano piuttosto inserirsi nella tradizione guerriera giapponese o riferirsi alla mitologia   asiatica – coreana in particolare – ricca di maschere grottesche, insieme orrorifiche e fiabesche.  A  colpire è la varietà di stili e di modi di rappresentazione all’interno di un canone prestabilito, fortemente codificato, che prosegue per parecchi secoli. A trasmettere di generazione in generazione stili e tecniche erano i  busshi: spesso si trattava di monaci, in ogni caso erano scultori che lavorano a un risultato collettivo senza apporre la propria firma. Dalle loro mani uscivano non solo rappresentazioni di budda (maestri illuminati) e di sognanti bodhisattva (persone  che aiutano gli altri). Ma anche di sovrani celesti corazzati. Quelli in mostra appartengono al periodo Heian (X secolo). E incuriosisce in particolare uno dei sei Kannon di Kyoto, dotato di sei braccia (dal potere taumaturgico). In questo caso appare evidente l’ibridazione fra culture diverse. Il precedente sostrato indù fu assorbito dalla filosofia buddista in Giappone anche utilizzandone l’iconografia. Ma fortissima è anche l’influenza dell’arte buddista cinese che conobbe il momento di massimo splendore sotto la raffinata dinastia Tang. Per approfondire consigliamo la nuova monografia Einaudi L’arte cinese  di Sabina Rastetelli.

Daniel Buren
Daniel Buren

Dialogo fra antico e moderno a Roma

Per poter parlare di arte “contest specific”, «non basta issare una scultura su una rotatoria, come fanno molte amministrazioni comunali. Anche perché, perlopiù, si tratta dell’opera di un cugino del sindaco o di qualche altro suo congiunto|». Così una delle maggiori esperte di public art, Anna Detheridge, ha stigmatizzato la via tutta italiana a questo genere di arte pubblica fra i più stimolanti oggi a livello internazionale. E che, se interpretata in senso proprio, permette di ridisegnare aree urbane, curando le zone di degrado, aprendole alla fantasia con sculture, installazioni e graffiti che regalano un senso nuovo e profondo agli spazi collettivi, siano essi una piazza, una stazione, un parco o una strada. Come dimostrano gli interventi di un artista come Anish Kapoor, per fare un esempio alto. Più delicata e complessa è l’operazione di public art quando gli artisti sono chiamati ad intervenire in contesti antichi, stratificati, delicati, complessi. Come è il caso della Capitale. La mostra Par tibi, Roma, nihil, organizzata da Romaeuropa festival con Electa e da poco aperta tra le rovine del colle Palatino ci offre lo spunto per fare qualche riflessione in proposito. Curata da Raffaella Frascarelli, fino al 18 settembre, è un esempio affascinante di arte “contest specific”. Si tratta in realtà di una mostra collettiva ma pensata come fosse un’opera corale in cui 36 opere di altrettanti artisti – maestri dell’arte povera e talenti più giovani- si compongono come brani di un’unica sinfonia, capace di far risuonare insieme antico e moderno. Da segnalare, tra l’altro, che la mostra segna il ritorno a Roma di Janis Kounellis, che proprio nella capitale più di 50 anni fa iniziò la sua ricerca. Ma rilevante è anche la presenza di Daniel Buren, l’artista francese che con le sue installazioni di vetri colorati, qualche anno fa ha trasformato il Grand Palais a Parigi in un calidoscopico scrigno, in un universo della fantasia abitato dai visitatori. Qui Buren non ha scelto il suo vocabolario a vetri più celebre (con il quale ha anche ridisegnato l’esterno del Centre Pompidou di Malaga) ma ha optato per le bandiere, perché entrano in risonanza con la storia multietnica di Roma, per secoli abituata ad accogliere nella civitas persone provenienti da altre culture. Ed è invece tutto merito della curatrice l’aver saputo far dialogare questo contesto archeologico latino con opere come quella di Chen Zen, raffinato artista cinese, scomparso prematuramente nel 2000.

Maura Banfo foto di Stefano Esposito
Maura Banfo foto di Stefano Esposito

Carrara diventa una galleria diffusa
Il centro storico di Carrara, d’estate, si trasforma in un’affascinante galleria a cielo aperto. Quest’anno nelle piazze, nelle strade, s’incontrano opere di autori raffinati e dal lungo percorso come Remo Salvadori e, in spazi insoliti come l’aula magna dell’Accademia, realizzazioni di artiste sensibili come Maura Banfo che, dopo aver sperimentato con la fotografia e il video, da qualche tempo si dedica alla scultura in modo intenso e personale. Per l’edizione 2016 di Carrara Marble weeks, curata dallo scultore e docente Luciano Massari, ha creato un radioso nido argenteo che emerge dal buio della sala come in un sogno. Una scultura-installazione “romantica” che invita a riflettere sulle prime forme dell’abitare. Un’opera fragile, vibrante di luce e anti monumentale che dimostra come il linguaggio della scultura possa essere radicalmente rinnovato e le forme arricchite di risonanze profonde. Anche Salvadori lavora su forme essenziali, nel suo caso quasi classiche, eleganti, come la scultura in marmo site specific in piazza del Duomo (in foto). Il titolo Non si volta chi a stella è fisso rimanda al complesso background filosofico a cui lo scultore toscano ama rifarsi. Rimanda al tema dello spazio-tempo, invece, il cerchio che Salvadori ha posto ai piedi della statua del Gigante. Un’opera circolare fatta di fili di acciaio intrecciati, ma che sembra di morbida corda. È la magia di Remo Salvadori che, con materiali nobili o poveri crea forme poetiche, altamente evocative. All’apparenza minimali, ma da cui promana un “calore” umano, niente a che vedere con la fredda razionalità della Minimal Art di stampo americano. Le due opere che Salvadori ha disposto all’aperto rinviano poi ad una terza, intitolata Nel momento e dalla tessitura complessa, in rame e in piombo, un’opera a parete sul fondo di uno spazio affacciato su piazza Duomo. E che, al tramonto, si illumina di riflessi, come una raffinata vetrata orientale.

 

Bosch al Padro, per il quinto centenario

La forza del colore, un tripudio di giallo, rosa, verde brillante è ciò che colpisce del Trittico delle delizie prima di metterne a fuoco le complesse e bizzarre fantasmagorie. L’intensità e la trasparenza dell’azzurro che sfuma in un orizzonte infinito, ma anche il nero e il rosso intenso dell’incendio sullo sfondo. Lo smalto delle tinte dà leggerezza al quadro nonostante il tema religioso. Sembra quasi di cogliere il divertimento dell’artista nel dipingere scene visionarie da fiaba nera. Con animali che parlano, fragole giganti e amanti che se la svignano solcando il cielo in groppa a un enorme pesce. Forse anche per il pubblico scelto a cui era destinata, un’atmosfera di festa permea questa messa in scena della creazione, di una effimera felicità e dell’inferno. Nel palazzo dei conti Nassau a Bruxelles questo trittico del 1500- 1505 doveva stupire gli ospiti, far parlare di sé. Questa era l’intenzione del suo autore, all’epoca già affermato. Benché avesse trascorso la vita a ’s-Hertogenbosch, cittadina mercantile del Brabante, dove gli unici eventi erano feste sacre e il carnevale. Di lui si sa che era figlio d’arte e il suo vero nome: Jeronimus van Aeken, poco altro. Il che rende ancora più enigmatico questo artista del XVI secolo ancora medievale nel modo di creare allegorie senza prospettiva, originale fino all’estremo eppure ligio alla dottrina e sferzante verso l’avidità della nascente borghesia. Toccando questi e altri temi, nel V centenario della morte dell’artista olandese, il Prado invita a una lettura molto approfondita della sua opera con una retrospettiva (fino all’11 settembre) che raduna a Madrid 25 suoi dipinti: quasi tutti quelli superstiti, scampati all’iconoclastia luterana. Con questa monografica (presa d’assalto dagli spagnoli che lo considerano una gloria nazionale) la curatrice Pilar Silva ricostruisce l’intero percorso di Bosch. Al centro c’è il Trittico delle delizie. Ed è un’esperienza unica vederlo accanto alle Tentazioni di Sant’Antonio del museo di Lisbona, ad Ecce homo proveniente da Boston, al corrusco Giudizio finale di Bruges. Al trittico di Venezia e molto altro, compreso il Sant’Antonio del Nelson-Atkins Museum di Kansas City, di recente attribuzione. Vista nel suo insieme, l’opera di Bosch appare variegata e al tempo stesso coerente, pur nella continua lotta fra quaresima e carnevale (per dirla con un suo titolo); nutrita di leggende popolari e letteratura dell’epoca, come l’opera satirica La nave dei folli di Brant a cui Bosch dedicò l’omonimo quadro del Louvre.
Chagall, un  Forte di Bard pieno di saltimbanchi

Quando «vidi per la prima volta alcune opere di Chagall – ero al liceo – rimasi affascinato dal senso di gioia che ne promanava, dalla presenza della musica, dai violinisti sul tetto, dal contesto “esotico” del mondo ebraico orientale, venato di malinconia e tenerezza». Così ricorda Lorenzo Gobbi nel saggio L’albero coricato (Castelvecchi) dedicato a Marc Chagall, rievocando un’esperienza comune a molti. La sua “semplicità”, la forza del colore, le atmosfere oniriche e fiabesche catturano all’istante, nel rapporto diretto con le sue opere dal vivo (che non rendono altrettanto in riproduzione, per quanto tecnicamente perfetta). E l’emozione è fortissima in vetta, al Forte di Bard, castello arroccato e solitario in Val d’Aosta che ospita ben 265 opere del pittore bielorusso (poi naturalizzato francese). Sono dipinti, disegni, bozzetti, acquerelli, gouaches, ceramiche, litografie, che si irradiano intorno a La vie (1964), un olio su tela di quattro metri per tre, mai esposto prima in Italia.
Curata da Gabriele Accornero, la mostra, che resterà aperta fino al 13 novembre, è stata pensata come una sorta di biografia per immagini, a cominciare da una lunga teoria di autoritratti, come L’uomo con bouquet (Per Aimé) del 1958 dalla Collection Maeght di Parigi e poi la Russia fatata di antichi villaggi, personaggi buffi, poetici e stralunati della tradizione popolare yiddish che unisce comico e tragico, la natia Vitebsk, i saltimbanchi, gli acrobati del circo, paesaggi immaginari verde e blu cobalto. Per arrivare poi, con un deciso salto cromatico, alle tele che raccontano in un tripudio di rosso e di giallo la turbinante Parigi, la metropoli moderna dove Chagall si trasferì nel 1923, rimanendo un “apolide” che si riconosceva in molte e differenti culture. Stando dentro e fuori le avanguardie, apprezzandone le novità ma mantenendo sempre una propria poetica, un universo visivo fuori dal tempo, incentrato su temi universali che riguardano tutti gli esseri umani, la nascita, il gioco, la fantasia, l’amore, a cui è dedicata una intera sezione con Fidanzati su fondo blu (1930), Gli innamorati al chiaro di luna (1952) e altre opere. Un altro tema chiave è il viaggio, lo sradicamento, il continuo errare. Questo è anche il significato di “Schagallen” in russo nota nel catalogo della mostra Markus Müller, direttore del direttore del Museo Picasso di Münster, che ha prestato opere come Gli sposi nell’atelier.
Interessante, infine, anche la lettura che Müller offre dell’ultima parte della mostra dedicata alla Bibbia. Invitando lo spettatore a guardare questa serie di opere come creazioni ispirate alla Bibbia non come libro sacro, ma come testo poetico letterario. Fino al 13 novembre 2016.

«Trump sarebbe un presidente pericoloso», scrivono i super esperti di sicurezza

Tempi duri per Donald Trump. Qualcosa comincia a scricchiolare in modo evidente nella campagna del candidato republicano alla presidenza Usa. Dopo l’endorsement dell’ispettore Callaghan-Clint Eastwood e quello meno gradito, forse, del leader dei nazisti americani Rocky Suhayda, adesso dall’interno del suo partito arrivano bordate di critiche. Per nulla piacevoli. «Sarebbe il presidente più pericoloso della storia americana», scrivono 50 funzionari di politica estera e della sicurezza nazionale. Per quale motivo? Per la sua inesperienza sia in affari internazionali che interni e per il suo temperamento, non proprio diplomatico, diciamo. Nella lettera si fa riferimento proprio all’«ignoranza allarmante» di Trump. Pubblicata sul New York Times e sottoscritta da funzionari della amministrazione George W.Bush la lettera sottolinea che Trump per la sua incompetenza e per la mancanza di «carattere, valori e esperienza» potrebbe «mettere a rischio il nostro Paese, la sicurezza nazionale e il benessere». Già un’altra lettera a marzo, firmata da influenti nomi della diplomazia americana aveva acceso il riflettore sulle effettive capacità del miliardario americano. Adesso, mentre il candidato repubblicano strizza l’occhio a Putin (nella foto un graffiti in Lituania con un bacio tra i due), arriva quest’altra lettera, firmata da super esperti della sicurezza, come l’ex direttore della Cia Michael Hayden, gli ex segretari alla Sicurezza interna Michael Chertoff e Tom Ridge, gli ex rappresentanti per il commercio Carla Hills e Robert Zoellick, ex funzionari del dipartimento di Stato come Eliot Cohen e Philip Zelikow.

L’ultima stoccata poi al piano “egualitario” di Trump – “meno tasse per tutti”, arriva dalla sua avversaria Hillary. Il piano di Donald Trump «concede sgravi fiscali alle grandi aziende e ai ricchi. E non aiuta l’economia», ha detto la candidata democratica. Hillary Clinton boccia la ricetta di Trump per il rilancio economico. «Vuole liberarsi delle regole per Wall Street. Vuole eliminare il Consumer Protection Bureau che ha consentito agli americani di risparmiare miliardi di dollari» mette in evidenza Hillary, precisando che i «ricchi devono pagare il giusto di tasse per favorire il cambiamento».

La battaglia del referendum. Caffè del 9 agosto 2016

La battaglia per il referendum. Con il sì della Cassazione, i 500 milioni consegnati e Boschi e soci (che hanno avuto il merito di raccogliere le firme), le difficoltà economiche dei comitati per il No (rimasti all’asciutto del finanziamento pubblico), con i contorcimenti prevedibili in seno al governo governo tra chi vorrebbe rinviare il voto fin quasi a dicembre e chi invece rompere gli indugi e farci pronunciare prima dell’approvazione della legge di stabilità, il treno referendario è finalmente partito. Il parlamento ha deciso di modificare 47 articoli della costituzione. C’era bisogno di cambiarne tanti? Qualunque costituzionalista, anche il più acceso sostenitore delle riforme, vi risponderebbe no, Ma, c’è sempre un ma. Così -grazie alla volontà di potenza del duo Boschi-Renzi e al senso di colpa di un parlamento che si sentiva illegittimo, così si è riuscito a cambiarla la Costituzione. In un altro modo forse non si sarebbe riusciti. Non c’è la prova, ma nemmeno quella contraria. Dunque?

Indebolire l’attuale presidente del consiglio. “Anche un bambino sa -scrive Michele Salvati sul Corriere della Sera- che questo è l’obiettivo dei “partiti”. Ed egli sottolinea, in modo perfido seppur veritiero, che tutti i partiti “tranne il Pd (e neppure tutto) e poche forze politiche minori” sono per bocciare la riforma. Dunque, cittadini votatela! Perché -parola di Salvati- se non passasse “a essere bocciato non sarebbe soltanto il governo, il partito o il cittadino che non hanno fatto i compiti e non hanno suparato gli esami: sarebbe tutto il Paese”. Infatti “il nostro Paese sembra ritornato nelle sue solite condizioni di politica instabile, per i sobbalzi che smuovono l’intero scacchiere e per i conflitti tra i partiti ed en- tro di essi”. Dunque meglio Renzi che tutto quello che abbiamo avuto prima di lui. Nel futuro Michele Salvati non crede affatto, non vedere speranze a ape questo berrà la cicuta: “Certo, la riforma è imperfetta: anch’io ho molte critiche…ma riforme perfette non sono di questo mondo e le imperfezioni sono tollerabili se la riforma, nel suo complesso, attenua i principali impedimenti che si frappongono all’efficacia e alla rapidità decisionale dei governi”

Rafforzare i poteri del premier. L’unico senso che si può cogliere dietro il massacro di 47 articoli della Carta è appunto questo. Scrive bene Michele Ainis per Repubblica: “Via il Senato, che diventa un camerino della Camera. Via le Regioni, trasformate in megaprovince. Via le province, mentre altre riforme dimezzano i poteri intermedi (camere di commercio, soprintendenze, prefetture), non meno dei corpi intermedi (ha ancora un ruolo il sindacato?). Nel frattempo il comando s’accentra, si riunifica nel superdirettore della Rai o nei superdirigenti delle scuole. E nel Premier, ovviamente, al quale l’Italicum consegna un rapporto diretto, verticale, con il popolo. Tutto più semplice, però se soffri di vertigini magari ti viene un capogiro”. L’Italia in mano a uno solo sarà almeno più efficiente e moderna? Ne dubito e mi rifaccio a un esempio preso dalla cronaca: Erdogan e la Turchia. Laggiù può darsi che la scommessa del colpo di stato iper-presidenziale funzioni: c’erano l’altro ieri a istanbul un milione di persone a sostegno del premier. Oggi Erdogan è da Putin, il quale, umiliato dalle sanzioni europee e dai giochi di guerra della Nato alla sua frontiere, offre alla Turchia un sistema di alleanze alternative, cono la Russia e con l’Iran. Erdogan può giocarsela e lo fa ricattando l’Europa. Anche se credo che alla fine le due trazioni che ha umiliato, quella laica e kemalista e quella islamico-tollerante (ottomana), gli riprenderanno, con i curdi, il potere.

Immaginate un milione di persone in piazza per Renzi? Io no! Il potere potenzialmente acquisito -se vincesse il Si a novembre- dal premier attuale si scioglierebbe al momento del voto con l’Italicum, si squaglierebbe davanti all’evidenza che la ripresa economica cambia ben poco i destini dei giovani che cercano lavoro e del ceto medio che si sente impoverito, si frantumerebbe davanti all’evidenza che la corruzione dilaga come prima. Certo, che le cose potrebbero essere in parte diverse se l’Italicum desse la vittoria al candidato a 5 Stelle, il quale potrebbe avere il sostegno di un popolo incavolato con la classe, di destra e di sinistra, rimasta al potere per decenni. Però anche questo scenario non è probabile, se pensiamo alle difficoltà che Virginia Raggi incontra a Roma e al silenzio freddino che sta circondando i primi atti del suo governo. Im verità ritengo che sia meglio bocciare la riforma, costruire una legge elettorale rappresentativa, in cui gli elettori possano scegliere non solo un partito ma delle donne e degli uomini, e dare il mandato a queste donne e a questi uomini, nella massima trasparenza possibile, di fare accordi politici per governare il paese, con buon senso e con un moderato (e sempre critico) sostegno degli elettori.

Towels Wars, la guerra per il posto al sole finisce sul Guardian

Chissà, forse spaventa anche i turisti inglesi. Infatti è finita nella home del Guardian la  Towels Wars. Ovvero l’operazione Mare sicuro promossa dalla Guardia Costiera che consiste nel debellare la pessima abitudine di lasciare nella spiaggia libera l’ombrellone, l’asciugmano e anche sdraio e seggioline varie. Così chi arriva di prima mattina trova i migliori posti occupati dalla sera precedente. Quando le spiagge sono ampie non ci sono problemi, ma quando la porzione di sabbia è risicata trovare già chi ha preso il ruo posto sotto il sole non è particolarmente piacevole. Adesso lo sarà sempre meno poi, per i possessori degli ombrelloni “abbandonati” perché dovranno pagare una multa salata. Costerà 200 euro riavere l’ombrellone o la sdraio lasciata in spiaggia durante la notte. Probabilmente saranno pochi coloro che si autodenunceranno. Non è la prima estate che accade la Towels Wars ma stavolta fioccano le cifre dei sequestri: 37 sdraio e 30 ombrelloni lungo 100 metri di arenile demaniale a Marina di Cecina, nel Livornese; almeno 200 tra sdraie e ombrelloni a Roseto Capo Spulico, nel Cosentino; un centinaio ad Ascea, nel Salernitano. Il Guardian ricorda anche multe in passato a turisti in Liguria per aver srotolato gli asciugami prima delle 6 di mattina. “Un’abitudine antica e radicata” così definisce il giornale inglese la tipica “prenotazione” all’italiana laddove la spiaggia è libera.

Il suicidio di Manu e le cose che succedono

Dovrei scrivere un editoriale su ciò che succede. Avrei dovuto. Leggere la rassegna stampa, immaginare il tema prominente, studiare per costruirmi un’idea e poi prendere la penna che, tra l’altro, ha così poca poesia appiattita sulla tastiera di un computer. Poi avrei dovuto formare una visione cominciando da una storia minima per arrampicarmi su uno sguardo totale. Ecco. Il mio buongiorno, anche oggi, avrebbe dovuto essere così.

Invece è successo che un’amica, presenza di pomeriggi passati a casa mia, lei e la mia compagna nei pomeriggi passati a leggere insieme e poi noi a discutere del più o del meno (che è scienza popolare ma difficilissima e spesso esatta); insomma un’amica ha deciso di togliersi la vita. Suicidio. Che è una parola, il suicidio, che si tende a evitare come tumore, incidente, malattia o colpa. Una di quelle parole che attorciglia lo stomaco, chissà perché, qui da noi dove siamo abituati ala pornografia in tutti i settori.

Comunque è successo che una persona che incrociavo per casa, ultimamente sempre più silenziosa e persa, poi d’improvviso abbia smesso di essere. Così, di colpo. Si suicidano sempre quando molli la presa, le persone che conosci; come se giocassero ad allentare la corda tutto intorno per poi stringersela al collo. Ogni suicidio è un buco in un lago, un muro di traverso in un rettilineo di autostrada.

Mi domando, stamattina, se ci sia una modo di incastrare una cosa così in un lavoro, il mio, che consiste principalmente nel riordinare quello che mi succede intorno. E perdo, di fronte al suicidio di Manu. Non c’è senso, motivo, scrittura, filo rosso. Niente.

E allora mi sono detto: fingo di fingere di credermi interessato a qualcosa che mi sfiora soltanto tra i fatti del mondo o confesso? Confesso, mi sono detto. Confesso che la vita è tutto un indaffararsi di spiegazioni e poi ci sono battaglie personali che sbriciolano quello che resta. Abbiamo analisi internazionali sullo sviluppo delle ere e non riusciamo ad allinearci alla disperazione di qualcuno che frequentiamo.

Come siamo fallibili. Come siamo piccoli. Come siamo inumani nel cogliere i dolori.

Scriviamo notizie e intanto ci perdiamo le persone, a volte.

Buona martedì.

Pakistan, avvocati nel mirino dei talebani. E i giornalisti protestano

epa05464218 Pakistani journalists shout slogans during a protest to mourn the victims of suicide bomb attack in Quetta, in Peshawar, Pakistan, 08 August 2016. At least 90 people mostly lawyers, including two journalists, were killed when a bomb exploded when dozens of lawyers and journalists gathered outside the civil hospital following the assasination of a lawyers senior fellow in a target killing in Quetta. EPA/ARSHAD ARBAB

Escalation contro i diritti civili in Pakistan. I talebani dichiarano guerra agli avvocati. Ci sono almeno 18 legali e due giornalisti tra le 70 vittime e i 120 feriti dell’attentato di ieri in Pakistan, a Quetta, nella regione del Baluchistan. Una piccola folla si trovava all’ospedale per rendere omaggio alla salma di Bilal Anwar Kasi, il presidente dell’associazione avvocati che era stato assassinato poche ore prima mentre dalla propria abitazione si stava recando al tribunale. A causare la strage un kamikaze che si è fatto esplodere presso l’entrata principale dell’ospedale con una carica di una decina di chilogrammi di esplosivo. Negli ultimi tempi sono stati uccisi altri due avvocati, tra questi uno, Barrister Amanullah Achakzai, era il rettore della facoltà di diritto presso la locale università del Baluchistan, l’altro, Jahanzeb Alvi, era stato ucciso il 3 agosto.  Bilal Anwar Kasi aveva denunciato il pericolo costante in cui si trovano i legali in Pakistan e per protesta per due giorni aveva bloccato le cause in corso.
A rivendicare l’attentato è un gruppo talebano particolarmente violento: Jamaat ul-Ahrar, costituito dai dissidenti del movimento dei talebani pakistani (TTP) che negli ultimi tempi si è scisso in varie fazioni. Quella che ha rivendicato l’attentato di Quetta è la stessa che si è attribuita l’attacco suicida in un parco a Lahore durante il quale morirono 72 persone di cui 29 bambini. Il gruppo talebano si è scatenato anche contro chiese cristiane e la minoranza sciita. A Quetta nel 2013 un attentato contro la comunità Hazara – la stessa presa di mira dall’Isis a Kabul durante un loro corteo pacifico – causò 89 morti.
Subito dopo l’attentato davanti all’ospedale una folla di giornalisti ha manifestato contro la violenza talebana (nella foto).

In vacanza al “campo scuola” per imparare la Jihad

Nel sud della striscia di Gaza dei ragazzi palestinesi si addestrano in campo estivo in stile militare tenuto dal movimento Islamico per la Jihad durante la scuola estiva nella città di Jhan Younes. Migliaia di ragazzi tra i 6 e i 16 anni partecipano a questo tipo di campo dove ricevono sia un’educazione militare che religiosa.

© EPA/HATEM OMAR

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Military summer camp in Gaza Strip

Ok della Cassazione al referendum. Cosa succede adesso? Intanto la stampa inglese gufa Renzi

Via libera della Cassazione alle firme per il referendum costituzionale. Oggi infatti, anticipando di qualche giorno la data del verdetto prevista per il 15 agosto, la Suprema Corte ha ufficializzato l’ok alle firme per il referendum raccolte dal Comitato per il Sì e presentate a metà luglio. Le firme raccolte dal Comitato e ritenute valide sarebbero 550mila sulle 580mila presentate. La data del voto non è ancora certa ma molto probabilmente gli italiani verranno chiamati alle urne verso la fine di novembre, si parla del 20 o del 27. La celebrazione de referendum e il suo esito dipendono anche da un’altra variabile: la pronuncia della Corte costituzionale sulla nuova elegge elettorale, i cui rilievi saranno esaminati a partire dal 4 ottobre.

 

Quali sono le prossime tappe?

Dopo il responso della Cassazione devono trascorrere 10 giorni per gli eventuali ricorsi e successivamente il governo avrà 60 giorni di tempo per deliberare una data per il referendum. Le tempistiche quindi escludono la possibilità che Renzi possa portare la questione sul tavolo dell’imminente Consiglio dei ministri previsto per l’11 agosto, l’ultimo prima della pausa estiva dei lavori parlamentari. Verosimilmente, quindi, dovremo aspettare il ritorno dalle vacanze e il primo incontro dell’esecutivo fissato tra la fine di agosto e l’inizio di settembre. Ottenuta la delibera del governo, la palla passa al Presidente della Repubblica che fissa con un apposito decreto la data effettiva del referendum per una domenica compresa fra i 50 e i 70 giorni dal decreto di indizione, ovvero una domenica tra il 2 ottobre e l’11 dicembre. La data che preferisce il premier sembra quella di domenica 27 novembre: gli consentirebbe di avere a disposizione almeno tre mesi di campagna referendaria per spingere le ragioni del Sì e accontenterebbe anche Mattarella, il quale vorrebbe prima vedere approvata la Finanziaria alla Camera. Il Capo dello Stato infatti è preoccupato, perché in caso di vittoria del No Renzi sarebbe costretto a dimettersi, posticipando il referendum, anche se dovesse cadere il governo, avremmo almeno mezza legge di Bilancio approvata.

 

Bye Bye Mr. Renzi?

Secondo The Observer, il settimanale domenicale del Guardian, il referendum costituzionale rischia di mettere in grosse difficoltà Matteo Renzi. Per la stampa britannica il premier italiano dovrebbe tenere bene a mente quanto è recentemente successo a David Cameron che promuovendo il referendum su Brexit è finito costretto alle dimissioni dal risultato del voto. Ecco un estratto di cosa scrive The Observer:

Oggi il futuro appare molto meno brillante e meno sicuro, per l’ex sindaco di Firenze. Fra pochi mesi, probabilmente nel mese di novembre, gli italiani andranno alle urne per votare il referendum su una riforma costituzionale che secondo Renzi renderà più facile l’attività legislativa del parlamento limitando drasticamente i poteri del Senato, permettendo così all’Italia di superare una delle principali fonti di stallo politico.

Se però qualche mese fa la vittoria di Renzi sembrava probabile, oggi le cose si sono fatte improvvisamente più complicate. E probabilmente il primo ministro italiano, mentre contempla il destino di David Cameron, deve sentirsi lo stomaco in subbuglio.

Molto simile al voto che si è tenuto nel Regno Unito su Brexit, il referendum per gli italiani è sempre più visto come un modo per manifestare un certo malcontento generale nei confronti della classe dirigente, questo in gran parte anche perché Renzi ha giurato che, se il referendum fosse andato male, avrebbe lasciato la politica. Se Matteo Renzi perdesse la sua scommessa, i risultati del referendum potrebbero avere enormi conseguenze per l’Italia e l’Europa. Una sconfitta infatti potrebbe potenzialmente, far cadere il governo, e aprire la porta a una nuove elezioni, nelle quali potremmo vedere il Movimento 5 Stelle, partito euroscettico e populista, scalzare dal potere il partito democratico.

E mentre la stampa britannica “gufa”, Renzi cerca di schivare il colpo in arrivo ripetendo (tanto per cambiare) il suo solito mantra elettorale, ormai un classico: «Questo non è un voto sul governo». Quando mai.