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Attentati, licenziamenti, risorse economiche: la settimana nera di Trump

Per Donald Trump è un brutto periodo. La notizia di cronaca è quella relativa al giovane cittadino britannico fermato a un comizio mentre cercava di sfilare la pistola dalla fondina di un poliziotto con l’intento di sparare al candidato miliardario. Lo hanno preso e Trump non è mai stato davvero in pericolo, il 20enne Michael Steven Sandford pianificava – si fa per dire – di voler uccidere Trump da un anno e, finalmente, pensava di avere il piano perfetto: far finte di chiedere un autografo, sfilare la pistola e sparare. Non ne ha avuto nemmeno la lontana occasione, ma questo episodio è solo l’ultimo di una serie di incidenti minori. I comizi di Trump attirano proteste serie – musulmani, ispanici che alzano cartelli contro la sua xenofobia – e persone come Sandford e non finiscono mai in maniera completamente tranquilla. Non è un buon inizio per una campagna elettorale che solo ora diventa vera.
Michael Steven Sandford, arrestato durante un comizio di Trump (AP)
E quando il gioco si fa duro serve gente che sappia giocare. Per questo, dopo mesi di pressioni, mezzi passi avanti e poi indietro, ieri il candidato repubblicano ha finalmente licenziato il manager della sua campagna, Corey Lewandosky. Divenuto famoso per aver strattonato la reporter Michelle Fields che cercava di fare una domanda al suo capo – cosa che il manager di una campagna presidenziale proprio non fa – negli ambienti che sanno quel che succede all’interno degli staff presidenziali, l’ex braccio destro di Trump era noto per i suoi modi bruschi e per perdere continuamente le staffe con il personale. «Siamo una piccola campagna, abbiamo alle dipendenze meno di cento persone e il nostro capo lavora 20 ore al giorno…se vedo che la gente non fa lo stesso, certo posso perdere le staffe» ha detto Lewandosky alla Cnn in una intervista post-licenziamento.

Il vero problema di Trump, che aveva già imbarcato un consigliere repubblicano più esperto, è che Lewandosky non è in grado di giocare il gioco dei grandi: un conto è gestire le primarie repubblicane ed usare l’appeal mediatico del candidato per portare gente – tutto sommato poca e motivata – alle urne, altro è dover gestire una complicata macchina elettorale. Trump si è accorto che per giocare la partita vera servono professionisti navigati e li sta imbarcando. La necessità è quella di apparire più presidenziale, ma quel che ha portato al successo del candidato repubblicano è esattamente il suo essere fuori e sopra le righe. C’è una quadratura del cerchio?

Difficile a dirsi e a farsi, la natura di Trump è quella mostrata in questi mesi e forse è un po’ tardi per cambiare. Almeno a giudicare dal grafico prodotto da Philip Bump del Washington Post che segnala come il candidato in attesa di essere nominato dalla convention non goda di particolare sostegno: fa peggio di Bush nel 2004, di McCain nel 2008 e di Romney nel 2012. Gli ultimi due hanno perso e Trump non ha neppure avuto una spinta nel momento in cui è diventato il nominee, cosa invece capitata agli altri che per qualche settimana si sono molto avvicinati nei sondaggi a Obama. I numeri del miliardario texano, invece, non fanno che peggiorare.

C’è di più: non sono solo i sondaggi a essere pessimi, ma anche le donazioni. Qui sotto il tweet di Mark Murray della Nbc che segnala come Clinton stia stroncando Trump in termini di fondi impegnati nell’ultimo mese: in alto il confronto con il 2012 e quanto spendevano nello stesso mese Romnet e Obama, in basso c’è solo il blu di Clinton. Ventitré milioni a zero negli Stati che contano. Trump ha anche enormi problemi di raccolta fondi: i resoconti finanziari del mese indicano come il repubblicano abbia in cassa un milione e 400mila dollari contro i 41 milioni di Hillary Clinton. Un problema serio: Trump ha reso noto di voler lasciare al partito l’onere di organizzare il lavoro sul campo Stato per Stato. Di solito funziona al contrario: il partito si accoda e contribuisce al lavoro della campagna del candidato. I pochi soldi spesi in pubblicità Tv sono anche un segnale del fatto che le organizzazioni indipendenti che investono finanze nelle presidenziali – Americans for prosperity dell’ex cervello di Bush, Karl Rove, i miliardari fratelli Koch – non stanno puntando su Trump: prevedono una sconfitta e spenderanno per mantenere la maggioranza in Congresso. Un mese fa Trump era alla pari con Clinton, oggi i sondaggi assegnano alla ex first lady tra i 2 e i 12 punti di vantaggio. L’estate comincia male per Donald Trump.

Repubblica condanna Renzi. Senza appello

I commenti che oggi Repubblica dedica ai ballottaggi sono durissimi con Renzi ,davvero spietati. Ilvo Diamanti spiega i numeri della sconfitta: “ i governi di centro-sinistra dopo il voto si sono ridotti alla metà: 45, mentre prima erano 90. Il centro-destra ha mantenuto e anzi allargato un poco il numero delle città amministrate. Mentre il M5s è arrivato al ballottaggio in 20 Comuni e li ha conquistati praticamente tutti. Cioè, 19. Tra questi, Roma e Torino sono quelli che fanno più notizia. Comprensibilmente. Però il M5s si è affermato in tutte le aree. In particolare nel Mezzogiorno. A Roma e a Torino, peraltro le sue candidate hanno intercettato il voto dei giovani, dei professionisti, dei tecnici. Ma anche dei disoccupati. In altri termini: la domanda di futuro e la delusione del presente”. Per Diamanti, dunque, la narrazione ottimista e la pretesa di rappresentare il futuro di Renzi sarebbero state cancellate dal voto.

Chi semina vento raccoglie tempesta. Per venti anni direttore, ora editorialista di Repubblica, Ezio Mauro accusa Renzi di avere rottamato “la storia” e la sinistra. “Quando si destrutturano i valori e i fondamenti culturali di storie politiche che hanno attraversato il secolo, rimane un deserto politico…Desertificato di riferimenti culturali il campo della contesa disegnato dalla sinistra al potere diventa basico e nudo, con parole d’ordine elementari e radicali. Una su tutte: il cambiamento ma senza progetto, senza alleanze sociali, senza uno schema di trasformazione, cambiamento per il cambiamento, dunque soprattutto anagrafico, spesso con una donna al posto di un uomo. La rottamazione della storia si è portata via anche il deposito di significato, la traccia di senso che la storia lascia dietro di sé, comprese le competenze e naturalmente le esperienze, quel legame tra le generazioni che forma il divenire di una comunità e si chiama trasmissione della conoscenza, del sapere, delle emozioni condivise”. Davvero, non ho mai letto una analisi più severa su quel che Renzi è e su quel che ha fatto. Per l’ex direttore di Repubblica il premier ha ritenuto che “la classe dirigente non andava rinnovata ma sostituita, come si fa con una gomma bucata. Ed ecco i nuovi gommisti all’opera. Non hanno storia, solo una feroce gioia per la crisi delle istituzioni, da combattere in attesa di comandarle”. “Governare senza una storia politica a far da cornice e dei valori di riferimento, diventa un’interpretazione autistica, staccata dal corpo sociale”. Quando paragonai io Renzi a “un bambino autistico che ti sorprende perché sa risolvere un’equazione impossibile” lo feci con affetto, per il bambino e per Matteo. Speravo ancora che la sua straordinaria abilità tattica potesse risultare utile al paese. E neanche me la presi quando Renzi ne approfitto per “asfaltarmi”. Il giudizio di Mauro è molto più duro.

Gli elogi ai vincitori arma contro gli avversari interni. Infine Stefano Folli svela il trucco da saltimbanco che si cela dietro l’ammissione della sconfitta. “Renzi non si considera realmente dalla parte dei vinti. È come se dicesse ai “grillini”: voi avete espresso con maggiore efficacia un punto di vista che anch’io sostengo; in fondo ci troviamo sullo stesso versante della barricata; e se voi questa volta siete stati più bravi di me, è solo perché io sono appesantito e frenato dal mio Pd, oltre che dalle cure del governo”. Dunque egli prepara “una direzione drammatica al Nazareno”. Il famoso “lanciafiamme”, insomma, pur di non ammettere che è la sua politica, sua di Renzi, ad aver provocato l’attuale disastro. “Sembra che tutto si risolva individuando una Chiara Appendino o una Virginia Raggi renziana”. Ma la situazione è più complessa -avverte Folli- “ con l’Italicum i Cinque Stelle possono battere il candidato del centrosinistra: soprattutto se riescono ad attirare i voti di destra. Tuttavia resta improbabile che il governo accetti di riaprire il “dossier” della legge elettorale. Qui Renzi resisterà. Nel frattempo tenterà di recuperare i voti “grillini” blandendoli e ammiccando ai temi anti-sistema. Il che configura una scommessa temeraria, dal momento che una linea anti-casta non s’improvvisa. E imitare l’avversario rischia di accreditarlo invece di svuotarlo”.

Mi chiamo Erdogan e mangio i bambini. In missione per l’Europa

L’Europa piange lacrime di polistirolo per celebrare la Giornata Mondiale del Rifugiato che, visto il quadro generale, sembra uno scherzo mal riuscito. Invece no. Ieri tutti i burocrati hanno finto almeno per un minuto di essere tutti contriti per poi lasciarsi andare all’ammazzacaffè. La Giornata Mondiale del Rifugiato è un po’ come il progetto di un distributore automatico di diritti: buono per farci sopra narrazione da campagna elettorale ma poi alla fin fine semplicemente una perversione da calendario.

Intanto, ventiquattro ore prima, le guardie turche (i militari servetti di una nazione indegna di essere considerata democratica eppur profumatamente pagata dall’Europa per “risolvere” il problema dei rifugiati) hanno pensato di schiacciare il grilletto per disinfettare il confine: sarebbero otto morti di cui quattro bambini. Un presepe di cadaveri. Una cosa così.

Le fonti ufficiali turche (che valgono più o meno come le dicerie da bar) dicono e non dicono, confermano ma non troppo e infine cercano di raccontare la difficoltà di “vigilare i confini”. Già, non potete immaginare come sia terribile vedersi minacciati da bambini laceri e scalzi. Roba da film dell’orrore. Già. Così mentre tutti fingono in Turchia sparano. E questa volta i rifugiati muoiono anche senza acqua salata. All’asciutto.

Se una grave emergenza umanitaria viene affidata ad un Paese che non rispetta (al di là della conferma di questa ultima notizia) i diritti umani come si dice? Vigliaccheria. Pilatesca codardia. Niente comunque che dia il diritto di fingersi dispiaciuti.

Buon martedì.

La polizia sgombera gli insegnanti, 6 morti e 100 feriti in Messico

epa05378714 A handout picture provided by the Quadratin agency shows clashes between members of the Federal Police and protestors on the Oaxaca-Mexico highway and the federal highway 190, near the municipality of Nochixtlan, Mixteca, in Oaxaca, Mexico, 19 June 2016. Mexican reporter Elidio Ramos Zarate, of the El Sur newspaper, was killed on 19 June in the southern state of Oaxaca by unknown individuals while covering protests by teachers against the education reform, according to media reports. EPA/QUADRATIN HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

È di sei morti e un centinaio di feriti il bilancio degli scontri avvenuti tra insegnanti e polizia federale la scorsa domenica nel sud del Messico, nello Stato di Oaxaca. La protesta è esplosa violentemente, con alcuni veicoli dati alle fiamme, dopo che le forze dell’ordine hanno sgomberato in maniera piuttosto violenta, con l’uso di lacrimogeni, un concentramento che da oltre una settimana bloccava uno strada nella città di Asuncion Nochixtlan.

epa05378457 A general view shows overturned police vechicles, which were attacked by teachers during a protest against the education reform in the country, in Oaxaca, Mexico, 19 June 2016. At least three people died and 45 got injured in the clashes that began on the Oaxaca-Puebla federal road as authorities tried to end a block, started by the protesting teachers. EPA/STR

A prendere parte alle proteste sono stati gli insegnanti del sindacato Coordinamento nazionale dei lavoratori dell’educazione (Cnte), che si oppone alla riforma dell’istruzione adottata dal presidente Enrique Pena Nieto e dal suo governo di centrodestra nel 2013. La riforma prevede, tra le altre cose, un esame obbligatorio valutativo per tutti docenti, anche quelli già in attività. Secondo la Cnte, il test non sarebbe altro che un pretesto per allontanare dall’insegnamento chi è sgradito al regime. Le proteste sono scoppiate dopo l’arresto di due leader del sindacato, Ruben Nunez e il deputato Francisco Villalobos, accusati di corruzione e di riciclaggio di denaro. A prendere parte alle proteste, secondo fonti sindacali, 80mila persone nella municipalità di Oaxaca e oltre 20mila nel Chiapas.

epa05374177 Members of the National Coordination of Education Workers (CNTE) teachers' union hold banners as they march in Mexico City, Mexico, 17 June 2016. Members of the CNTE, coming from the Mexican states of Guerrero, Chiapas, Oaxaca, and Michoacan, protested against the education reform and called for resuming negotiations with authorities. Banner reading 'End The Repression. We Demand Roundtable Talks. CNTE'. EPA/SASHENKA GUTIERREZ

La Commissione per la sicurezza nazionale messicana ha giurato che gli agenti che hanno preso parte alle operazioni fossero sprovvisti di fucili, e che il massacro sia opera di «sconosciuti giunti dall’esterno che hanno cominciato a sparare sia sui manifestanti che sulla polizia». Alcuni video mostrano però almeno un ufficiale di polizia mentre spara più volte con una pistola. Anche il capo della polizia, Enrique Galindo, ha affermato poi che una divisione armata è stata schierata contro gli sconosciuti «che hanno aperto il fuoco contro polizia e manifestanti».

CNTE teachers' union demonstration in Mexico City

 

Secondo Galindo a guidare la protesta violenta non sarebbero gli insegnanti della Cnte, ma gruppi di violenti dal volto coperto giunti da fuori. I governi federali e statale hanno dato appoggio alla polizia: per loro «ci sono notizie della presenza di vari gruppi violenti che hanno guidato i blocchi di strade e installazioni strategiche per giorni» e quindi sarebbe il sindacato a dover prendere le distanze da questi gruppi non identificati.

Mexican teachers protest after arrest of union leaders

Secondo il segretario per la pubblica sicurezza, le vittime sono tutte civili, e almeno tre dei morti presentano ferite di arma da fuoco – una di queste sarebbe minorenne. Tra i feriti 55 sono agenti federali e statali, mentre 53 sono civili. Almeno 21 persone sarebbero state arrestate. Tra le vittime ci sarebbe anche un giornalista. La Cnte, ala radicale di un sindacato nazionale, ha denunciato senza mezzi termini «l’azione repressiva dei governi federale e statale».

Il sindacato nel 2006 diede vita a una rivolta sempre nello Stato di Oaxaca per protestare contro la scarsità di fondi destinate alle scuole e ai bassi salari. La rivolta durò sei mesi, e il bilancio fu di sei morti e centinaia di feriti. Le proteste cessarono dopo l’invio di oltre 2000 celerini e dell’esercito, che sgomberarono con la forza le barricate.

A Roma una serata per i rifugiati. E un appello al sindaco Raggi

Gli immigrati ospitati nel centro di accoglienza Baobab a Roma, 7 giugno 2016. ANSA/MASSIMO PERCOSSI

La Giornata mondiale del rifugiato a Roma diventa un invito al neo-sindaco virginia Raggi, appena eletta e già messa di fronte alle necessità dei migranti, nella Capitale e non solo. Nel Giardino del Monk a Roma, questa sera Accogliamoci, una serie di sigle che ha proposto alcune delibere di iniziativa popolare, organizza una serata di arte e musica per «difendere e promuovere il diritto d’asilo e ricordare che si tratta di uno dei principi fondanti della nostra identità europea».

«All’indomani delle elezioni – spoegano gli organizzatori in una nota – chiediamo al nuovo sindaco che venga messa in cima all’agenda politica della capitale la riorganizzazione del sistema di accoglienza della città. Vogliamo che venga subito discussa la delibera di iniziativa popolare “Accogliamoci”: un’accoglienza diffusa sul territorio e finalizzata all’inclusione e all’autonomia e il monitoraggio costante del sistema sono l’unica strategia possibile per promuovere l’integrazione di richiedenti asilo e rifugiati e valorizzare il loro apporto».

Nella città di Mafia Capitale e dei luoghi dell’accoglienza sgomberati – vedi Centro Baobab – si mobilitano artisto come Ashai Lombardo Arop, Enzo Berardi, Monica Guerritore, Giuseppe Cederna, Nicola Linfante, Piccola orchestra di Tor Pignattara, Ardecore, Steadyrockerz. E spiegano: «Di fronte ai muri, ai fili spinati, ai respingimenti, alle migliaia di persone morte in mare e a quelle incastrate ai confini dell’Europa, di fronte alle strategie irresponsabili e inadeguate di un’Europa sempre più chiusa, l’unica risposta possibile ed efficace è garantire a richiedenti asilo e rifugiati protezione e accoglienza favorendone l’inclusione nei nostri territori. A partire da Roma, vittima di un malaffare che ha lucrato sulla pelle e sul futuro di migliaia di persone».

L’evento romano, cui hanno aderito numerose associazioni, è organizzato da Accogliamoci, soggetto che riunisce Radicali Italiani, A buon diritto, Arci, Consiglio Italiano per i Rifugiati, LasciateCIEntrare, Medici per i diritti umani, Città dell’altra economia, Monk.

Sempre questa sera a Firenze il concerto organizzato dall’Unhcr Italia, che ha lanciato una petizione e una campagna #WithRefugees accompagnata dallo spot qui sotto. Il programma del concerto a ingresso gratuito è qui

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Sarebbe bastato poco a Stefano Parisi per resuscitare il centrodestra – e vincere – a Milano

La candidatura di Giuseppe Sala dall’altra parte certo non ha scaldato gli animi e anche l’imprinting renziano evidentemente (come nel resto d’Italia) non ha portato benefici. Eppure Parisi (imbrigliato dall’ingombrante peso delle facce di Berlusconi, Salvini, Gelmini, La Russa e tutti gli altri) paga forse proprio questa sua moderazione così misurata e sparagnina che l’ha bloccato nelle due settimane del ballottaggio: nessuna ipotesi di giunta (sarebbe bastato qualche nome civico che allargasse l’elettorato e invece la sensazione che si è avuta è quella di delicati equilibri da ricomporre in caso di vittoria) e, soprattutto, l’incapacità di prendere pubblicamente una posizione netta su Renzi e sul referendum costituzionale di ottobre. In una tornata elettorale in cui la moderazione ha allontanato elettori piuttosto che conquistarli.

Quindi a Milano ha vinto il Pd? No, per niente. A Milano la candidatura Sala ha reso complicata una vittoria che in molti prevedevano facile facile («un calcio di rigore» aveva detto Matteo Renzi) e gli ultimi quindici giorni sotto stress da parte del centrosinistra ne hanno evidenziato i problemi: Renzi è sparito, il Pd ha avuto un improvviso innamoramento per la sinistra radicale, Pisapia ha avuto la conferma di avere scialacquato un capitale politico importante e la paura dei fascioleghisti ha funzionato più delle proposte. È un sindaco debole, Sala, per ora e lo sanno in molti: più dipendente da Pisapia che da Renzi.

De Magistris sindaco «24h» ma pronto a esportare il “modello Napoli”

Il rieletto sindaco di Napoli Luigi de Magistris durante i festeggiamenti all'interno di Palazzo San Giacomo, sede del municipio, dove ha indossato magliette 'Controllo Popolare' a Napoli, 20 giungo 2016. ANSA/ CIRO FUSCO

Canta Bella ciao, compie 49 anni, prende il 66,85%. De Magistris promette di fare il sindaco «h24» fino al 2021. Ma già vuol esportare il “modello Napoli”. Il sindaco “zapatista”, con indosso la maglia azzurra del Napoli canta Bella Ciao e festeggia una vittoria «contro tutti», dai 5 stelle (ai quali lascia la porta aperta) a Lettieri, a Renzi, che la sconfitta se l’è andata a cercare, andando a sfruculiare Napoli con le promesse (e il commissariamento) di Bagnoli.

Per De Magistris non ha “vinto la protesta” ma un’esperienza innovativa, di buona amministrazione fondata sulla partecipazione dei napoletani. «Siamo l’unica vera ed effettiva novità politica – dice – di questo voto». Ora non resta che capitalizzare questo “effetto novità”, sia nel governo della città sia per chiarire con i fatti come Napoli possa diventere «un soggetto autonomo, una forza nazionale e internazionale».

Qualche idea l’ha già data, De Magistris, guardando con favore alle municipalità spagnole – la Barcellona di Ada Colau in primis – e al modello Podemos, il movimento che si candida a conquistare la Moncada in alleanza con Izquierda unida. Che quello sia il riferimento del sindaco lo confermano le donne e gli uomini della sua squadra, comprensibilmente entusiasti.

Alessandra Clemente, “miss preferenze” con 4.666 voti che la candidano alla presidenza del Consiglio comunale, spiega: «Abbiamo il dovere di collegare quello che sta accadendo a Napoli a tutte le altre città italiane», approfittando dell’evidente «crollo della rappresentanza politica esercitata attraverso lo strumento del partito». Un movimento, quindi, che da Napoli “minaccia” di farsi protagonista della politica nazionale.

Appendino a Torino è la vera novità dei ballottaggi

La candidata sindaco di Torino, Chiara Appendino, durante il convegno "Le verit?? sul sistema Torino clientele e vizi della sinistra e della destra in citt??", Torino, 02 marzo 2016. ANSA/ALESSANDRO DI MARCO

Chiara Appendino, 32 anni, 5 stelle, nata a Moncalieri, buoni studi, è la vera novità emersa dai ballottaggi. L’hanno votata torinesi di sinistra e di destra, oltre, naturalmente, ai 5 stelle. Negli ultimi giorni, 25mila torinesi hanno ritirato il certificato per poter andare a votare.

Tra il primo e il secondo turno Piero Fassino, sindaco uscente, ha racimolato solo 8mila voti in più, Chiara Appendino ben 90mila. Eppure Torino non ha vissuto niente di simile a Mafia Capitale, né Fassino è stato mai tirato dentro un qualche scandalo. No, i torinesi hanno voluto bocciare Renzi, quel suo modo scomposto di corteggiare Marchionne, la sua narrazione scioccamente ottimista, mentre la città si sentiva ferita: troppi giovani disoccupati, troppi lavoratori poveri.

«Torino si è liberata – dice Marco Revelli – della cappa di ipocrisia che la opprimeva». Il centrodestra, politicamente irrilevante e perciò escluso dal secondo turno, ha votato a sua volta Appendino, intendendo punire il premier. Muove da Torino (lo scrive Gramellini) «una rivoluzione contro l’Ancien Régime», di cui l’ex rottamatore è diventato il garante.

Ora Renzi ha la quasi certezza che perderebbe, contro un 5 stelle, nel ballottaggio previsto dall’Italicum. Dovrebbe cambiare politica e legge elettorale, rinunciare al referendum come plebiscito sulla sua persona, dovrebbe dismettere la spocchia e cercare di coprirsi a sinistra, magari con Pisapia. Non lo farà: dopo due anni e mezzo da segretario e premier appare già prigioniero dei suoi stessi errori.

Sono i 5 stelle il vero partito della Nazione. Il risultato di Roma lo dimostra

Da sinistra, Luigi Di Maio, Virginia Raggi, Alessandro Di Battista e Roberta Lombardi, durante la chiusura della campagna elettorale della candidata del M5s a sindaco di Roma Virginia Raggi, Ostia (Roma), 17 giugno 2016. ANSA / ALESSANDRO DI MEO

Raggi prima donna al Campidoglio. «Un brutto colpo per il governo Renzi», titola il Wall Street Journal. “Big wins for Five Star Protest Party”, scrive la Bbc. Non hanno funzionato granché le telefonate di Maria Elena Boschi. «Pronto?». «Pronto». «Ciao Tommaso, sono Maria Elena. Volevo ricordarti di votare per Rob…». Tu-tu-tu. Roberto Giachetti tra il primo e il secondo turno è riuscito a convincere solo 50mila romani in più, a votare per lui. Niente. Almeno rispetto ai 309mila in più convinti da Virginia Raggi. Il Movimento 5 stelle, si dirà, raccoglie i voti della destra. Possibile, anzi probabile: è il fattore Italicum e questo dovrebbe però far riflettere palazzo Chigi, finora convinto di doversela giocare con il centrodestra: Roma ricorda invece che l’Italia non è Milano.

«Sono i 5 stelle il vero partito della Nazione», ammettono ora nel Pd, Matteo Orfini compreso – incurante delle richieste di dimissioni che gli stanno recapitando i colleghi di partito, soprattutto chi, come l’ex coordinatore cittadino Marco Miccoli, aveva detto che cacciare Marino «senza neanche uno straccio di piano B» non era un buona idea. Però è vero. I 5 stelle sono un perfetto partito della Nazione, soprattutto se – come hanno fatto a Roma durante la campagna elettorale – ben coperti a destra dal giustizialismo e dall’antipolitica, aprono a sinistra: contro le privatizzazioni, contro le grandi opere, annunciando il nome di Berdini all’Urbanistica, studioso nemico giurato di Caltagirone.

Il bacino più grande a disposizione, in città, era quello di Giorgia Meloni, ricco di 269mila voti: che siano andati in larga parte su Raggi è evidente. Ma sempre a destra c’erano i 143mila voti di Alfio Marchini (sostenuto da Forza Italia e da Storace) e Marchini – per mesi papabile candidato del Pd – aveva detto di preferire il candidato renziano. Roberto Giachetti si ferma però a 376mila voti, confermando così – non fosse bastato il risultato di Rutelli nel 2008 – che quella del voto moderato più che un’oasi è un miraggio. E che inseguendo quella, di certo non prendi granché dei 58mila voti andati a Fassina, in molti invece rassicurati dal volto presentabile dei 5 stelle. Non serve a molto neanche terrorizzare l’elettorato, tentare di accostare i 5 stelle a Casa Pound, né suggerire ai giornali l’esistenza in Procura di un fascicolo su Raggi, per la consulenza sulla Asl di Civitavecchia.

Così Giachetti prende solo duemila voti in più di quelli presi da Alemanno nel 2013, battuto da Ignazio Marino, fiaccato da Parentopoli e l’avvio di Mafia Capitale. Non può essere un buon risultato, e si capisce così che al primo turno non c’era stato nessun «mezzo miracolo» come invece aveva detto Renzi, pronto a spacciare per vittoria una sconfitta. Non è tutta colpa sua, però. Leggendo i dati dei quartieri periferici si svela che il voto è pur sempre anche un voto amministrativo. A Roma Est, a Lunghezza, Virginia Raggi sfiora l’80 per cento. Conterà qualcosa il fatto che lì – urbanizzazione degli anni veltroniani – per entrare a Roma, la tua città, ci sia solo l’autostrada, con tanto di pedaggio?