Domenica si vota. È tempo delle ultime sportellate a Roma e Milano. Poi c’è Torino, mentre Napoli è da tutti data come chiusa. Lì Luigi de Magistris si scontra con Gianni Lettieri, del centrodestra, con il Pd a guardare. A guardare fino a un certo punto però, perché se il partito ha detto che non darà indicazioni, gira un appello di un gruppo di elettori e militanti dem orientati verso Lettieri. Che quindi può salire, contando ad esempio sul sostegno dei verdiniani di Ala, che al primo turno sono stati con la dem Valente. Ma è poca cosa – l’1,4 per cento – rispetto ai voti dei 5 stelle su cui può ragionevolmente puntare De Magistris. È il 9 per cento: non poco per chi è già avanti di 18 punti. Distanza anche maggiore rispetto a quella che c’è tra Raggi e Giachetti, a Roma: 11 punti, 140mila voti.
Anche qui una vittoria di Giachetti avrebbe del miracoloso. La vicenda della consulenza alla Asl di Civitavecchia, non basta, e al massimo pareggia la vicenda della villa a Subianco che Giachetti aveva definito «due casaletti». Diciamo che entrambi i candidati stanno sbagliando molto. Raggi però sconta anche il fatto di non esser riuscita a chiudere una giunta. Solo indiscrezioni dunque, come quella di Paolo Berdini all’urbanistica – confermata dall’interessato – ma niente di paragonabile a Giachetti, che ha presentato la squadra già per il primo turno.
Torino pare però più scivolosa: tra Appendino e Fassino corrono 50mila voti. Bisogna dunque vedere come si distribuisce la destra: 30mila della Lega, 20mila di Forza Italia, 20mila dei centrista Rosso. Poi ci sono i 14mila di Airaudo, ma contano meno.
Milano si annuncia al cardiopalma: sarà una bella notte, che potrete passare a contare i decimali. Parisi insegue Sala, ma con meno di un punto di scarto. È vero però che Sala ha virato a sinistra, nelle ultime due settimane, recuperando endorsement del mondo della cultura e dello spettacolo milanese, finora freddini, e quello di Basilio Rizzo, candidato della sinistra.
E se passarete la notte a seguire gli spogli, non potete però perdervi anche la sfida di Benenvento, che ha un suo interesse perché vede il ritorno in politica di Clemente Mastella, arrivato al ballottaggio distanziando di solo 166 voti il suo avversario. Mastella ci crede, e dice che fare il sindaco per lui è un po’ un sogno un po’ un risarcimento. C’è poi la sfida di Sesto Fiorentino, tutta a sinistra. O meglio tra il Pd e il candidato di Sinistra Italiana. Nell’ex Sestograd si sfidano così due Lorenzo: il dem Zambini che parte dal 32,5 e il sinistro Falchi, che insegue ma con il vantaggio di poter attrarre voti dagli esclusi, dei 5 stelle (che sono il 10 per cento) e soprattutto di Rifondazione, che aveva un suo candidato arrivato terzo con il 19 per cento.
Spostandoci in Emilia è interessante (perché serio) il destino di Finale Emilia, epicentro del sisma del 2012. Il sisma aveva già fermato la ricandidatura del sindaco uscente, il Pd Fernando Ferioli. E poi ha spedito il candidato di centrodestra, Sandro Palazzi, quasi 14 punti avanti a Elena Terzi, del centrosinistra. Riuscirà la rimonta?
Breve guida per i ballottaggi
A qualcuno Jo Cox dà fastidio pure da morta

Jeremy Corbyn è andato sul luogo dell’attentato. Stasera veglie in onore di Jo Cox a Edimburgo, a Manchester, a Birmingham, Brighton, Gasgow, Cardiff e Belfast. La più importante si terrà a Londra, in Parlament Square di fronte a Westminster. Si apprende che da tre mesi Jo Cox, la giovane donna di 41 anni, la deputata laburista, la mamma che lascia due figli, subiva minacce anonime. La polizia stava per decidere nuove misure di protezione quando Tommy Mair le ha sparato, poi le è saltato addosso, la ha accoltellata, più e più volte. Perché tanto odio? Perché era donna, e gli uomini in crisi odiano le donne. Perché era figlia di un operaio e aveva ottenuto la laurea a Cambridge. Perché gli elettori del West Yorkshire avevano fiducia in lei. Perché lavorava per integrare nella democrazia britannica immigrati musulmani e sosteneva il dialogo tra le chiese, cattolica e protestante. Perché, con Save the Children, aveva a cuore la sorte dei bambini africani.
Ci sono tanti perché, e tutti non spiegano. L’attentatore pare simpatizzasse per il gruppo neonazista americano National Alliance. Era abbonato da anni alla rivista dello Springbok Club, organizzazione che odia l’Europa, ed è a favore dell’apartheid. Un terrorista di casa nostra, insomma, per parafrasare Barak Obama. Come un terrorista di casa, non un alieno da “congiura degli ultracorpi”, era l’islamista con pulsioni omosessuali che inviava sms alla moglie mentre massacrava persone omosessuali all’interno del Pulse. Come il francese di origini magrebine, passato dal carcere, che è entrato nella casa di un poliziotto che conosceva, ha ammazzato lui e la moglie sotto gli occhi del figlio e poi ha dedicato il massacro, su facebook, al califfo del Daesh.
Ha ragione Obama: è dal nostro inconscio che si solleva il nemico. Noi gli forniamo le armi, noi non diamo un nome alla sua malattia. Con le nostre ossessioni, noi gli forniamo l’alibi ideologico, la bandiera per la quale ammazzare e alla fine ammazzarsi. Nazismo e follia wahabita sono mostri del nostro immaginario. E dovremmo prenderne atto.
Jo Cox forse lo faceva. Ben prima di entrare alla Camera dei Comuni, era “un’attivista”, stava con la gente del West Yorkshire, parlava, provava a capire, combatteva l’odio e dava speranza. Forse l’abbiamo lasciata sola. La campagna per il Leave o il Remain è stata modesta e irrazionale: ha visto contrapporsi le ragioni (economiche) della City, che non vuole perdere i suoi clienti dell’Europa continentale, e il rimpianto pe ri fasti dell’impero di un Boris Johnson, che ha paragonato l’Europa a guida Tedesca a quella nazional socialista, sotto il tallone di Hitler.
Dov’è l’idea, dov’è la speranza, dove la prospettiva per cui battersi, dov’è il coraggio di fare i conti con lo scontento per isolare il rancore, e metterlo in condizione di non ammazzare, di non terrorizzare? Noi l’abbiamo lasciata sola, a qualcuno Jo Cox dà fastidio pure da morta. Il Giornale: “Tre colpi di pistola contro una donna salvano l’Europa”. No comment.
Londra ha già votato contro la Brexit. Intervista a Vincenzo Visco
Perché i toni della campagna pro leave o pro remain in Gran Bretagna sono così accesi? Davvero in caso di Brexit Londra pagherebbe un prezzo forte?
La Gran Bretagna sarebbe colpita seriamente nella misura in cui è la City l’anima e il motore di quel Paese. La politica dell’Inghilterra, dall’età imperiale fino ai giorni nostri, è stata caratterizzata dalla volontà di mantenere questo ruolo centrale e decisivo alla City. Se ora la Gran Bretagna uscisse dall’Europa, è probabile che i fondi di investimento, alcuni grandi operatori finanziari, cercherebbero una diversa collocazione. In questo senso si può dire che le borse abbiano votato. Contro Brexit, che appare una scelta incomprensibile in un contesto di forte globalizzazione. L’area euro e i Paesi dell’Europa continentale sono buoni clienti per la City. E poi è probabile che la vittoria della Brexit ridia attualità a una possibile uscita delle Scozia dal Regno Unito. È dunque un referendum che ne chiamerebbe un altro, da evitare. Infine i campioni del Leave, come Nigel Farage per esempio, non sono che dei reazionari imperialisti, vogliono la Grande Inghilterra, come se la Storia possa pretendere di ritornare indietro nel tempo. Perciò spaventano. Anche se è vero che nel popolo inglese l’avversione nei confronti di un’Europa a guida tedesca è molto forte. Dopotutto hanno combattuto due guerre contro la Germania.
Dunque Boris Johnson quando evoca addirittura il rischio di finire sotto l’ala di un nuovo “nazional socialismo” tedesco, coglie un sentimento diffuso. Si tratta di una sparata meno caricaturale di quanto non possa sembrare sentendola?
Il problema politico è assolutamente chiaro. Quello che sta succedendo adesso è identico, mutatis mutandis, a quello che accadde negli anni 30. Dopo la prima grande globalizzazione, quella degli anni 20, il crollo del ’29 di un sistema economico iper-liberista, esattamente come questo anche quello basato su speculazione e debiti, portò non solo al nascere di regimi autoritari ma anche all’autarchia, al nazionalismo, e quindi alla distruzione della ricchezza. Adesso si propone lo stesso scenario. In forma un po’ grottesca. Non sappiamo quale effetto la Brexit possa avere sulla zona euro. Ma se dovesse saltare l’Europa, penso che ciascuno dei singoli Paesi non conterà quasi niente, non sarà in grado di gestire la propria economia, perché intanto è cambiato il contesto.
Sono giustificati la preoccupazione tedesca, l’appello di Der Spiegel ai britannici perché boccino Brexit, la minaccia lanciata da Schauble, “se uscite non rientrerete”, i toni da ultima spiaggia?
I tedeschi temono di essere messi di nuovo all’indice, dipinti come nazional socialisti, temono di trovarsi senza l’Europa che era stata per loro un approdo comodo e conveniente. Si sta riproducendo lo scenario degli anni 30. Solo che questa volta la frustrazione non è dei tedeschi ma degli altri europei nei confronti della Germania.
Ammesso che vinca Brexit, il modo giusto dell’Europa per ridurre le conseguenze negative, quale sarebbe?
In teoria, accelerare il processo di unificazione europea. Perché a quel punto ci sarebbe un contraccolpo di paura e, con le spalle al muro, si potrebbe decidere di gettare il cuore oltre l’ostacolo e dire: “facciamo l’unificazione”. Però bisognerebbe fare i conti con le paure del lavoratore tedesco, del contribuente tedesco. La paura della Germania deriva dal fatto che i suoi cittadini sono convinti che loro stanno pagando per tutti. Alla domanda di un sondaggio su quale Paese abbia beneficiato di più dell’euro, la risposta dei tedeschi è stata la Grecia. Questi sono pazzi….

Questo articolo continua sul numero 25 di Left in edicola dal 18 giugno
David Rossi. Il video in rete non è inedito. Ma le indagini continuano

«Quel video del New York Post, non dice nulla di nuovo. Il filmato noi lo conoscevamo bene. E quei due uomini che si avvicinano al corpo di David non sono degli sconosciuti, ma Giancarlo Filippone e Bernardo Mingrone. Con uno di loro mi ero trovata insieme nell’ufficio di David là sopra». Così Carolina Orlandi figlia di Antonella Tognazzi, la vedova di David Rossi commenta il video che oggi ha fatto il boom in rete, rilanciato anche dal Corriere.it. Alcune ore in cui le immagini choc hanno fatto il giro del web. Ma senza alcuna novità. Quel video – con frame tagliati – è lo stesso in possesso degli inquirenti e che la famiglia con il suo legale aveva già visionato. Ma se l’informazione oggi non ha fatto una gran bella figura, perché è mancata la verifica, tuttavia il problema – e cioè come è morto David Rossi – rimane, eccome.
Carolina è in prima linea insieme alla madre per chiedere giustizia e conoscere la verità sulla morte del giornalista senese, responsabile della comunicazione del Monte dei Paschi, che nella notte del 6 marzo 2013 venne trovato senza vita in un vicolo dopo una caduta dalla finestra del suo ufficio. Una morte liquidata subito come suicidio, nonostante ci fossero molti interrogativi sollevati invano dalla famiglia. Quasi due anni di attesa e tante polemiche, mentre i vertici di uno dei più importanti istituti bancari al mondo venivano coinvolti in vicende giudiziarie. Il 16 novembre 2015 la Procura di Siena decide però di accettare la richiesta di riapertura delle indagini presentata dalla vedova Antonella Tognazzi con l’avvocato Luca Goracci. Nuove perizie (grafologiche, medico-legali e dinamico-fisiche) presentate dal legale potrebbero gettare una luce diversa su quelle ore del 6 marzo che David trascorse nel suo ufficio. Intanto, anche Siena reagisce. La città che all’inizio era rimasta inerte di fronte alla scomparsa di un professionista conosciuto e stimato, il 6 marzo scorso, scende per le vie del centro nel corteo silenzioso che è aperto da uno striscione che chiede la verità su David.
Dopo un mese, ad aprile scorso, sul corpo di David è stata effettuata una nuova autopsia i cui risultati ancora non sono noti. Ma sabato prossimo, 25 giugno, forse un altro tassello verrà aggiunto al quadro tutto da chiarire sulla dinamica della sua morte. Verranno infatti effettuati sia la simulazione della caduta che un sopralluogo nel suo ufficio. Tanti i dubbi che rimangono. Quel famoso filmato girato da telecamere di videosorveglianza presenta ancora aspetti che alla famiglia sembrano oscuri. «Come il tempo effettivo dell’ora segnata nell’orologio: mancherebbero sei minuti. Oppure un’ombra che si vede in fondo al vicolo che è un po’ offuscata», dice Carolina Orlandi. Interrogativi. E risposte che ancora non ci sono. Fare chiarezza, invece è importante, come aveva detto a Left Antonella Tognazzi, prima della marcia silenziosa del 6 marzo. «Io sento e cerco di far capire a tutte le persone, che è vero, è un’immane tragedia personale ma in realtà è l’espressione di un sistema malato. A me ha tolto la persona amata ma a Siena molte persone sono state danneggiate, nella città la situazione è terribile. David è una vittima, ma lo è anche la città».
Sanders ai suoi militanti: Battere Trump
Sanders e Clinton trattano. Il videomessaggio di 20 minuti ai suoi sostenitori registrato dal senatore del Vermont è una chiamata alle armi contro Trump, il segnale che l’ex senatrice di New York è pronta a cedere su molte questioni perché si rende conto che la trionfale corsa di Sanders, una sorpresa per tutti, per lei in primis, è un campanello d’allarme per lei e il suo partito.
Il messaggio, sebbene non dica “mi sto ritirando”, contiene un punto chiaro: per vincere la nostra battaglia è necessario che alla Casa Bianca torni un democratico. E che in Congresso arrivi qualche rappresentante che provenga dalle fila della sinistra del partito. Così, e mantenendo viva la mobilitazione, sembra voler dire Bernie, potremo ottenere dei risultati. Diversamente i rischi sono enormi. Le parole di Sanders sono vaghe ma sono il primo passo nella direzione di una campagna unitaria da qui a novembre.
Le prossime settimane ci chiariranno se e come Sanders riuscirà a strappare concessioni vere. Su qualcosa Clinton dovrà essere necessariamente chiara ed esplicita: i toni della campagna delle primarie sono stati a tratti aspri e per recuperare un pezzo di elettorato, specie giovane, sono importanti argomenti, questioni simboliche su cui unire tutti coloro che hanno lavorato per far vincere i due candidati. La fortuna di Clinton è in parte la selezione di Trump: l’unità in questo caso si costruisce anche contro.
Sarà di grande interesse vedere cosa capiterà alla convention e, dopo, osservare se i volontari di Sanders sapranno mantenere vivo e vivace il network creato in questi mesi. Obama ci provò dopo essere stato eletto, ma non gli riuscì granché. Dalla sua Bernie ha il fatto che non diventerà presidente e che, quindi, potrà continuare a enunciare idee e proposte senza doverle mettere in atto. Se davvero al senatore del Vermont riuscirà l’impresa di tenere assieme le sue truppe, allora potrebbe aver contribuito a un cambiamento permanente nella politica Usa.
Catastrofe del Brexit e falsa coscienza dell’Europa
Quando, 40 anni fa, fu chiesto ai cittadini britannici se volessero entrare nella Comunità economica europea – il quesito traduceva Common market – il 70% rispose sì. Poi vennero il trattato di Maastricht e quello di Amsterdam, Schengen e l’euro. La Gran Bretagna si andò trasformando in un ospite pagante, interessato a sviluppare i rapporti commerciali con l’area Euro, ma sospettoso e renitente davanti alla prospettiva che l’Europa si desse una politica economica e istituzioni comuni.
Il fantasma del Brexit viene dunque da lontano, ma la sua forza dirompente muove dalla mutazione genetica intervenuta nel capitalismo dopo la crisi del 2007. È da allora che si è consumato il divorzio tra City e democrazia, tra Wall street e Main street. Boris Johnson ora può chiedere il leave sostenendo che l’Europa tedesca tornerà presto “nazionalsocialista”. Cameron, che ha indetto il referendum, ora dice che fuori dall’Europa la Gran Bretagna non potrà più pagarsi le pensioni. La prima vittima del referendum sull’Europa è dunque la destra britannica, divisa tra pulsioni nazional-populiste e la tradizionale difesa degli interessi finanziari.
La seconda vittima è la Germania, che ha paura di finire nelle braccia della Francia, supponente e stagnante, e dell’Europa del Sud – Italia e Spagna – non abbastanza rigorosa.
La copertina di Der Spiegel che si appella agli elettori di sua Maestà – “Please don’t go!” – e il tono burbero e minaccioso di Schäuble – «In is in, out is out» – si spiegano con la paura che l’Europa continentale possa reagire al Brexit puntando a una maggiore integrazione politica ed economica.
La terza vittima è la Sinistra, la Sinistra di Tony Blair e di Matteo Renzi, di Hollande e di Sánchez, che si è rassegnata a non mettere mai in questione la City né Wall street, che aspetta la ripresa sperando di poterne distribuire i dividendi, che non ha un’idea dell’Europa e non osa andare oltre la navigazione dorotea, peraltro già ben garantita da Angela Merkel.
I toni del Brexit diventano esagerati, le previsioni catastrofiche, proprio perché nessuno ha voglia di affrontare la questione vera: quale senso abbia una integrazione economica, politica e istituzionale della vecchia Europa. Serve un nuovo soggetto tra Cina e Stati Uniti? Può l’Europa unita garantire il welfare ai suoi cittadni, preparare una fase di crescita economica? Può aiutare la pace in Medio Oriente, proporsi come partner dei Paesi dell’Africa e del Sud America? Silenzio, si grida. Guai a voi, guai a noi!
Non diverse origini ha la contraddizione (apparente) che si manifesta tra il nostro premier e il suo ministro per le Riforme. Il voto di Roma, Milano, Napoli e Torino sarebbe solo una «quesione locale» per Renzi, ma intanto la Boschi minaccia la Appendino di ritirare 250 milioni già stanziati dal governo per la Città della Salute di Torino, accusa Parisi di negazionismo perché il Giornale ha pubblicato Mein Kampf, e va in giro a chiedere voti «di sinistra» paventando la nascita di un nuovo fascio-grillo-leghismo.
Il punto è sempre là: più si va avanti e appare chiaro che le disuguaglianze restano, l’occupazione non cresce, la corruzione è intrinseca al sistema, più le classi dirigenti della destra o della Terza Via devono esagerare il pericolo del baratro, del Brexit, della frantumazione dell’Europa, dell’ingovernabilità.
Tuttavia, più si agitano più legano la questione economica a quella democratica, erodendo il proprio consenso e generando mostri. Il peggiore esito possibile? Rafforzare Donald Trump. La possibilità positiva? Che Unidos Podemos vinca le elezioni del 26 giugno in Spagna e riapra il cantiere di un governo delle sinistre.

Questo editoriale compare sul numero 25 di Left in edicola dal 18 giugno
Colpirne uno (cretino) per educarne cento.

Lui è uno di quesi senatori che possono sperare al massimo di non farsi notare. Ce ne sono, a Roma, di parlamentari, che si insabbiano sperando semplicemente di non fare cazzate. Tipo un “prendi i soldi e scappa” solo che in questo caso i soldi non sono nemmeno da cercare, arrivano direttamente sul conto corrente personale insieme alla diaria su carta intestata del Senato della Repubblica. Eppure lui, il senatore Bartolomeo Pepe (volutamente minuscolo) ieri sera proprio non ce l’ha fatta a non dire la sua e così ha twittato:
Colpire uno per educare cento. Secondo Pepe, in poche parole, la deputata laburista Jo Kox è stata ammazzata per un labirintico complotto ordito da quelli che non vorrebbero la Gran Bretagna fuori dall’Europa. Anzi, forse sarebbe proprio l’Europa la vera mandante. Che così fa ancora più figo e più internazionale. E così il senatore ex Movimento 5 Stelle e oggi nel gruppo ‘Grandi Autonomie e Libertà’ (pensa te) in un colpo solo ha colpito di cretinismo migliaia di persone che non sapevano della sua esistenza. E non ha educato nessuno. O forse sì.
Buon venerdì.
L’Italia è diventata egoista: i dati di un rapporto su Europa e rifugiati
L’Italia è tradizionalmente un Paese compassionevole. Saranno i 50 anni di Democrazia Cristiana, la sinistra forte e solidale, il passato quasi recente di emigrazione e grande povertà. O tutte queste cose messe assieme. Bene, a giudicare dai dati raccolti dal Pew Research Centre, la crisi economica e quella dei rifugiati stanno trasformando nel profondo le opinioni degli italiani. Il rapporto dal titolo Gli europei guardano al mondo divisi tra loro è un mega sondaggio in dieci Paesi e ci racconta alcune cose di noi e di altri cittadini europei.
Prendiamo la prima domanda “Il mio Paese dovrebbe: a) occuparsi dei propri problemi e lasciare che gli altri si occupino dei loro; b) Aiutare gli altri Paesi a occuparsi dei loro problemi” , che segnala una volta di più quanto la preoccupazione per il futuro cancelli la voglia di pensare agli altri. A questa domanda, infatti, gli italiani rispondono nel 67% dei casi che è meglio occuparsi dei fatti propri, più isolazionisti solo ungheresi e greci. Gli ultimi hanno tutto sommato qualche argomento, noi e gli ungheresi molto meno. Sul fronte opposto svedesi, tedeschi e spagnoli, che pensano in maggioranza che sia importante aiutare gli altri. La sorpresa è quella spagnola, visto che i primi due Paesi stanno meglio e reggono bene alla globalizzazione. Sarà un caso se la crisi in Spagna ha prodotto gli Indignados e Podemos (e persino Ciudadanos, partito di centrodestra ma che guarda al futuro).
Impressiona anche la divisione delle opinioni sulla base della propensione politica. Le persone che si autodefiniscono di sinistra (da democratico in poi, quindi) ritengono che sia necessario badare ai fatti del proprio Paese nel 61% dei casi, contro il 21% dei tedeschi, il 34% degli spagnoli, il 34% dei britannici, il 48% dei francesi. Di nuovo, peggio di noi solo Grecia, Ungheria e Polonia. Le persone di centrodestra destra tedesche e spagnole sono più multilateralisti di quelli di sinistra italiani.
Gli italiani, assieme a greci, spagnoli, francesi e britannici, sono anche tra coloro che vedono l’influenza del loro Paese ridimensionata dall’Europa e dalla crisi. Rispetto a 10 anni fa il 52% ritiene che abbiamo perso peso, i tedeschi la pensano così nell’11% dei casi.
Il paradosso di questa risposta, e anche della prima, è che gli italiani vorrebbero una Unione europea più attiva nel 77% dei casi. Il nostro, forse, non è anti-europeismo in senso stretto, ma delusione. Più coerenti i britannici che tra pochi giorni si esprimeranno sulla loro permanenza nell’Unione: il 55% vuole un Ue più attiva. Comunque un risultato sorprendente. Nel complesso il 90% degli europei vuole un ruolo attivo.
Sui rifugiati l’attitudine degli italiani è pessima: il 65% ritiene che si tratti di una minaccia tra le più gravi. Un’opinione simile ce l’hanno polacchi, greci e ungheresi. Il bello è che, a parte gli ungheresi, che hanno visto aumentare la popolazione immigrata dell’1,5%, negli altri Paesi non è successo nulla (come potete vedere nel grafico qui sotto, l’Italia vede un aumento dello 0,1%). Sono la quotidianità degli sbarchi, la cattiva informazione e la pessima politica che creano queste opinioni.
Veniamo alla Brexit, che non c’entra con gli italiani, ma è cruciale per il futuro dell’Europa. Cosa pensano i britannici dell’Europa? La divisione tra chi è cresciuto in anni in cui il Regno Unito era fiero e lontano, custodiva geloso le sue abitudini, la guida a sinistra e le code alla fermata degli autobus e chi è nato dopo che i trattati europei erano entrati in vigore, è grande: il 51% dei giovani sotto i 34 pensa che alcuni poteri debbano essere restituiti ai governi nazionali, contro il 73% degli over 50; il 42% dei giovani pensa che la Gran Bretagna debba farsi gli affari propri e lasciare gli altri ai loro, gli over 50 che la pensano così sono il 59%.
L’opinione sull’Europa varia molto anche in altri Paesi. Qui sotto due grafici tratti da un altro rapporto del Pew pubblicato in questi giorni che indicano come l’opinione pubblica sia cambiata negli anni (Italia -20% in 10 anni).
Questo grafico illustra invece le differenze tra l’opinione pubblica giovane e quella più anziana. L’Italia è l’unico tra dieci Paesi indagati dove i giovani sono più contrari all’Ue dei vecchi. Pessimo segnale.
La copertina di Left in edicola dal 18 giugno
Sulla Brexit trovate un reportage da Dover, dove immigrazione e conservatorismo trascinano il Sì, un’intervista a Vincenzo Visco sulle conseguenze economiche, un’analisi sulla situazione politica di Dario Castiglione e il punto da Londra di Massimo Paradiso











