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Renzi fatica, ma può contare sul dilagante virus Zedda

Quando gli italiani voteranno Raggi o Giachetti, Matteo Renzi sarà in Russia, con Putin. «A me che importa – ha detto alla sua retroscenista Maria Teresa Meli – quello per i ballottaggi è “un voto locale”, che non investe il governo». Ma come? Renzi che si vanta di metterci sempre la faccia e per questo accetta, anzi provoca – ha spiegato alla Meli – i fischi di Confcommercio, proprio Renzi ora si distrae prima del voto di tutte, proprio tutte, le principali città?

Così si deve essere deciso in camera caritatis. Infatti quando all’attivo post-elettorale del Pd, l’ingenuo (?) Tocci ha chiesto «perché mai non giochiamo la nostra carta migliore, perché non mandiamo in campo l’alfiere della squadra, Matteo Renzi a fianco di Giachetti», nessuno gli ha risposto, né Orfini e nemmeno Giachetti. Niente cori, “Matteo pensaci tu”. Perché a Napoli, con la Valente, Renzi la faccia ce l’aveva messa e si sa come è andata a finire. Ora Sala dice: «non è che Renzi mi abbia scelto dal mazzo», Merola non lo vuole a Bologna, Fassino a Torino.

Giachetti, da parte sua, sfrutta l’assenza del premier per provare a recuperare qualcosa a sinistra. Ha risposto su Huffington Post alle 5 sfide lanciate, a lui e alla Raggi, da Stefano Fassina. E poi conta sul “virus Zedda”, la voglia che si avverte in una parte di Sel e di Sinistra italiana (Si) di fare come a Cagliari, di puntare sul centro sinistra, anche se ora al Nazareno c’è Renzi e non Bersani.

Peppe De Cristofaro, aprendo il comitato nazionale di Sinistra italiana, ha detto che quella esperienza è da considerarsi «eccezionale», cioè non ripetibile, perché Si è alternativa al Pd di Renzi. Ma Arturo Scotto e Marco Furfaro sono apparsi più cauti, già contagiati dal Virus Zedda, come Ferrara e Smeriglio e Claudio Fava ha reso pubblica la sua professione di fede: votare, senza se e senza ma, per l’amico Giachetti. Sempre che abbia recuperato la cittadinanza romana.

Non sulla stessa lunghezza d’onda Ignazio Marino: «Io Giachetti non lo posso proprio votare, il Pd, che pure ho contribuito a fondare, si è suicidato, voterò Virginia Raggi, persona di carattere, donna intelligente» ha detto stamani alla Stampa. E da Lilli Gruber Renzi fa meno ascolti di Bersani. Un segnale?

Trump è un «dinosauro in estinzione». Owen Jones intervista Michael Moore

Si chiama Where to invade next. È l’ultimo documentario del regista americano Michael Moore, uscito in Italia il mese scorso ( qui la recensione di Left) . Nel film il ineasta si immagina di «invadere» il mondo per conto del Pentagono per «importarne» in patria gli stili di vita, e in particolare l’avanzato sistema di sicurezza sociale. Per l’occasione il giornalista del Guardian Owen Jones, noto anche per il suo impegno a sostegno di Jeremy Corbyn, ha intervistato Michael Moore. Molti i temi dibattuti: Brexit, Bernie Sanders e le responsabilità di Tony Blair nella guerra in Iraq. Ma sopratutto il timore che Donald Trump diventi il prossimo presidente degli Stati Uniti. Ecco cosa si sono detti.

«Tony Blair è più responsabile di George W. Bush per la guerra in Iraq». I liberal sono, secondo il regista, i principali responsabili dello spargimento di sangue del Medio oriente: «da uno come Bush mi aspetto cose del genere. Ma Bush ha potuto fare queste cose perché è stato inaspettatamente sostenuto dalla sinistra, dal New York Times, dal New Yorker magazine, e da Tony Blair. I liberal devono farsi un esame di coscienza», ha concluso Moore.

Ha poi paragonato il Regno Unito che opta per la Brexit ad una squadra della Premier League che può fare una buona stagione senza sforzi ma che decide di autoescludersi: una follia. «Una buona parte dell’opinione pubblica inglese – continua Moore – si sta facendo influenzare dalle idee di Trump. Ma siamo su un’isola, non si possono costruire muri. Si propongono quindi queste soluzioni. E si creano problemi falsi, come l’immigrazione o appunto l’Europa, che distolgono dai veri problemi, che sono la diseguaglianza sociale e lo strapotere dei ricchi. E non a caso Trump è un miliardario».

Durante il colloquio si è parlato molto di The Donald. La possibilità di vittoria del candidato repubblicano alla Presidenza degli Usa è «spaventosa e realistica» per Moore. Che lo definisce «un dinosauro», il rappresentante di un mondo che sta per estinguersi, quello dei «maschi bianchi over 40 che hanno guidato il mondo per oltre 200 anni. Quello dei sostenitori di Reagan, la cui maggior parte è morta». «Ora», invece, «bisogna lasciare posto ai giovani, alle donne e alle minoranze, che rappresentano l’80% delle persone».

Il ruolo dei giovani e Sanders. Moore imputa il successo di Sanders al voto e all’attivismo giovanile: «in base ai sondaggi Sanders batterebbe Trump con un margine molto più alto rispetto a Hillary Clinton. Sanders rappresenta i giovani nati dopo la guerra fredda. Giovani a cui – unico merito della mia generazione – abbiamo insegnato a non odiare i comunisti, chi ha un altro orientamento sessuale o un diverso colore della pelle. I sostenitori di Reagan non ci sono più: questa gente non odia, il mondo è cambiato». E invita Sanders, Moore, a continuare la battaglia contro Hillary Clinton, «alternativa debole al conservatorismo dei repubblicani e di Trump».

E se nel prossimo numero di Left il nostro Martino Mazzonis ci spiega le reali possibilità di vittoria di Donald Trump, «Cosa succede se vince Donald Trump?», chiede Jones a Moore. «Molti si trasferiranno in Canada», scherza il regista-invasore, «e infatti invito il Canada a rivedere la propria legislazione sull’immigrazione».

Questo articolo continua sul numero 24 di Left in edicola dall’11 giugno

 

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Parlare di successione per Berlusconi è «di cattivo gusto» dice una spaventata Forza Italia

Parlare di successione è «di cattivo gusto», sì, anzi è «un’invenzione dei giornali che non avranno la soddisfazione». Dicono così, nell’ordine, Nunzia De Girolamo e Renato Brunetta. Ma l’operazione al cuore di Silvio Berlusconi chiama nei fatti un’altrettanto irrimandabile operazione a cuore aperto per Forza Italia. «Mio padre non dovrà più salire su un palco», pare infatti abbia detto Marina Berlusconi che ha preso sul serio le parole del medico del San Raffaele secondo cui Berlusconi «tra un mese potrà tornare a fare ciò che vuole», certo, perché i medici sono i migliori e lui è «praticamente immortale» – come disse Scapagnini, elargitore di pillole magiche – «ma io gli sconsiglio da tempo di fare il leader». Ecco allora che si rincorrono i nomi di Stefano Parisi (che però da bravo candidato, smentisce e dice che lui vuole fare il sindaco «e basta») e Mara Carfagna. Poi però c’è Gelmini e pure Toti.

C’è però soprattutto l’idea di un nuovo partito di destra moderata, capace di rovinare i piani di Salvini che sperava che finissero tutti nel Partito della nazione di Renzi, che però nel mentre ha detto che lui Verdini l’ha sedotto ma poi lo abbandonerà: «Nel 2018 il Pd si presenterà da solo, un partito a vocazione maggioritaria come previsto dallo statuto. Punto».

Sono state le amministrative, con il loro esito tripolare, a consigliare un’altra via, tanto a Renzi quanto ai forzisti. Una via che mette un sacco paura, «a tutti quelli che hanno abusato del grande cuore di Berlusconi per fare carriere e ottenere onori che mai si sarebbero sognati», come scrive Bisignani sul Tempo. Paura che però ci sarebbe lo stesso.

Violenza contro le donne: uomini dissociatevi

Presidente, una donna non ama più e l’uomo, che diceva di amarla, la ammazza in modo atroce. Come è possibile in un Paese dove da anni si parla di diritti uguali per tutti, di parità di genere, e talvolta si censura persino uno sguardo audace perché può offendere?
Perché è una condizione antica, legata a secoli di sottomissione della donna, e dunque difficile da estirpare. Non dimentichiamo che in questo Paese, ancora fino al 1981, il codice contemplava il delitto d’onore e il matrimonio riparatore. Noi donne italiane partivamo da molto lontano. Il fascismo ci aveva messo all’angolo, estromettendoci da ogni forma di vita sociale e politica. Fino al 1946 la donna non poteva entrare in un seggio elettorale, era considerata di fatto un essere inferiore. Il percorso della nostra emancipazione è iniziato 70 anni fa, con il suffragio universale. Abbiamo ingaggiato e vinto battaglie importanti, ma non ancora risolutive. Abbiamo conquistato strumenti giuridici e penali utili a debellare il fenomeno della violenza. Ma non basta, bisogna fare anche un lavoro culturale, a cominciare dalle scuole. Serve che le donne non deleghino ad altri l’affermazione dei propri diritti. E le donne che occupano posizioni di vertice, in particolare, hanno una responsabilità aggiuntiva: rimuovere gli ostacoli che loro hanno incontrato nel percorso di avanzamento. C’è molta strada da fare: sicuramente in Italia la parità non c’è ancora.

Crede che l’odio verso le donne sia aumentato e se sì perché?
C’è una parte della nostra società che continua a volere la donna sottomessa e che si rifiuta di accettarne l’avanzamento. Basta vedere i social media: la gran parte dei messaggi violenti e volgari è ai danni delle donne. La misoginia è forte, è dura a morire. C’è sempre stata, ma oggi è più evidente, più palpabile, perché tutti hanno la possibilità di esprimersi nei modi più svariati. Bisogna fare qualcosa di concreto per arginare questo fenomeno. Per questo ho istituito alla Camera la Commissione contro l’hate speech, il discorso d’odio: perché non possiamo accettare supinamente che le donne vengano sempre di più umiliate anche verbalmente; che quando un uomo non è d’accordo con una donna possa rovesciarle addosso insulti a sfondo sessuale. La Commissione è nata per stigmatizzare tutti i discorsi di odio, e quello ai danni delle donne è il più diffuso.

È un fenomeno italiano, magari legato a un vecchio che non vuol morire, o siamo davanti a una reazione mondiale che prende il corpo della donna, la femminilità delle donne, la loro stessa vita, come campo di una battaglia contro la civiltà?
No, non è un fenomeno solo italiano, tant’è che il termine “femminicidio” – cioè l’uccisione di una donna in quanto donna – nasce in Messico. L’utilizzo sprezzante delle parole ai danni delle donne, il tentativo sistematico di delegittimarle è entrato purtroppo anche nel dibattito politico. E questo è pericoloso, perché se lo fanno i politici allora tutti, i giovani in particolare, si sentono autorizzati a mutuare questo linguaggio. Se esponenti politici usano affermazioni volgari, discriminatorie, sessiste – lo vediamo in Italia, ma anche in molti Paesi europei e negli Stati Uniti – questo ha un pessimo effetto moltiplicatore.

L’intervista a Laura Boldrini è di Corradino Mineo

Questo articolo continua sul numero 24 di Left in edicola dall’11 giugno

 

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Le guerre costano si spendono 13 miliardi di dollari. Ecco la mappa dei conflitti

L’acronimo MENA (Medio oriente e Nord Africa) nella mappa del Global Peace Index (Gpi) 2016 ha un significato sinistro. Indica infatti una delle aree al mondo dove la pace negli ultimi dieci anni è ormai scomparsa. Stiamo parlando di Stati come la Libia, Yemen, Siria, Somalia, Sudan. E più a Est in Asia spicca il color rosso di Iraq e Afghanistan.

Sono 79 i Paesi al mondo dove la pace è diminuita, mentre 81 quelli in cui la situazione è migliorata nell’ultimo anno. Si vive bene in dieci Paesi completamente privi di conflitti: Botswana, Cile, Costa Rica, Giappone, Mauritius, Panama, Qatar, Svizzera, Uruguay e Vietnam. Quest’ultimo dimostra come a distanza di 50 anni sia possibile passare da una situazione di guerra e di tragedia a una totale assenza di conflitti.

La mappa a colori che segnala in verde scuro le aree di pace e in rosso sempre scuro quelle di guerra è stata pubblicata dall’Institute for Economics ad peace di Sydney che lo redige da dieci anni. È una visione globale sui conflitti e al tempo stesso sui processi di pace in tutto il mondo. È anche una analisi dei costi delle guerre, in termini di vite umane e di risorse economiche. Per esempio dal 2011 i morti per terrorismo sono aumentati da meno di 10.000 a oltre 30.000. Nell’anno scorso i morti per terrorismo sono aumentati dell’80 per cento e solo 69 Paesi sono rimasti immuni da attentati. Ci sono Stati il cui livello di sicurezza è peggiorato e sono: Guinea-Bissau, Polonia, Burundi, Kazakistan e Brasile. Per quanto riguarda i morti in battaglia, se dal 1990 al 2014 ci sono stati più d 50mila vittime in un anno in sei occasioni, dal 1965 al 1989 la stessa cifra si era raggiunta in 24 conflitti. Questo significa che negli ultimi anni la guerra si è inasprita mietendo più vite umane. La Siria è stato il teatro di guerra più disumano. Questo Paese, insieme a Iraq e Afghanistan sono i luoghi in cui perde la vita il 75% di tutti i morti in battaglia.

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Tra le conseguenze dei conflitti, ovviamente, l’ondata migratoria. Il numero dei rifugiati e degli sfollati è aumentato e dal 2007 al 2015 è di 60 milioni di persone. Come se la popolazione dell’Italia scomparisse totalmente. Somalia e Sud Sudan hanno il 20 per cento della popolazione ormai in fuga, ma è ancora la Siria a detenere il triste record con oltre il 60 per cento di sfollati.
Si vive meglio e in pace in America Centrale e Caraibi, aree che secondo il GPI,  hanno registrato una migliore condizione di vita rispetto al passato. E Islanda, Danimarca, Austria, Nuova Zelanda e Portogallo sono i Paesi più tranquilli. Cosa che non avviene per l’Ucraina e nemmeno per uno dei Paesi trainanti dei Brics, il Brasile, che scende al 105esimo posto in classifica.
Il Gpi calcola anche il costo delle guerre in termini economici. L’impatto della guerra e dei conflitti sull’economia globale nel 2015 corrisponde a 13 miliardi e 600 milioni di dollari, il 13,3% dell’attività economica del mondo, 1,876 dollari a persona. Se solo una parte di questa ricchezza venisse convogliata in azioni di pace, che cosa potrebbe accadere? Dove c’è la pace si crea sviluppo e cultura; lo dimostrano i 70 anni che ci hanno separato dalla seconda guerra mondiale. Un progresso mai visto nella storia dell’umanità.

L’Italia post rottamata e l’umiltà che serve per ripartire

L’istantanea dell’Italia che ci consegna il voto di domenica 5 giugno è quella di un Paese con tre forze politiche: le destre costrette a convivere, il Partito di Renzi e il Movimento 5 Stelle. Al tempo stesso è un’Italia non troppo fedele alle sue appartenenze e che spesso «fa zapping» – come ha detto Renzi – in cabina elettorale. Così accade che la destra possa quasi scomparire a Torino, il M5s apparire irrilevante a Milano, il Partito di Renzi non passare il turno a Napoli.

Un’Italia che sembra dividersi a seconda del luogo in cui abita: chi ha casa nel centro storico tende a ritrovarsi nelle promesse del governo, chi sta solo a pochi metri di distanza, ma fuori dalla città-vetrina, sembra più incline al malumore e più propenso alla protesta.

Un’Italia che in maggioranza va ancora a votare, ma che crede sempre meno nei partiti e nella politica. Non si appassiona alle campagne elettorali, non abbraccia una visione del futuro, forse perché nessuno gliela offre. Il sogno di Berlusconi è infatti svanito, le promesse di Renzi non riscaldano più il cuore. C’è il governo degli onesti dei 5 stelle, ma dovrebbe essere una premessa, non il contenuto della proposta.

Direi che quella odierna è un’Italia-post, post liberale, post liberista, post democristiana, post comunista. Stanca del passato, ha abbracciato la rottamazione renziana, ma ora sembra stanca anche di quella, si sente post rottamata.

Che fare? Non riproporre vecchi pezzi di identità. Non funziona. Giorgio Airaudo è stato un buon sindacalista della Fiom, ma che dice oggi la sua esperienza all’Italia dei voucher? E Stefano Fassina? Ha speso a Roma la sua faccia di deputato per bene, che ha lasciato il governo e il Pd quando non ne ha potuto più. Ma da un parlamentare, da un politico, gli elettori pretendono di più – con chi stai, che farai?- e non solo a Roma. Lo slogan di Marino «non è politica, è Roma» era sbagliato pure allora, oggi tra mille “liste civiche” e finto civiche fa dubitare anche delle migliori intenzioni.

In verità io credo che si dovrebbe partire dal dopo Renzi. La rottamazione è avvenuta, è stata un successo, nessuno di noi faccia finta di poter essere quello che era: basta guardarsi indietro.
Bisogna ripartire dalle disuguaglianze che oggi il sistema produce e accentua. Bisogna partire dalla realtà dei ragazzi che non trovano lavoro o lo trovano precario. Bisogna partire dagli immigrati che sono donne e uomini, lavoratrici e lavoratori. Dai consumi comuni, senza mitizzarli, tentando semmai un uso parziale alternativo del capitalismo che li sta trasformando in business. Dal post ecologismo, magari ammettendo che gli Ogm non sono sempre e in ogni caso crusca del diavolo o che l’allevamento intensivo dei maiali inquina più di una piattaforma che estrae gas.
Bisogna fare i conti con la reazione, con l’odio per le donne che ritorna e ci interpella tutti. E non possiamo far finta di risolvere il problema con il politicamente corretto, con la doppia verità. Quella che si predica e quella che si pratica.

Dobbiamo poi definire il campo della nostra battaglia. Qui, come ha scritto bene Iglesias in un articolo sul Pais, tre sono i momenti: le città come fabbrica delle iniziative, i parlamenti nazionali e la sovranità che devono recuperare, l’Europa come casa comune, moltiplicatore della cultura illuminista, memoria delle guerre imperialiste, genitrice dello Stato sociale.

In Francia la lotta è contro il jobs act di Hollande, in Spagna per un governo delle sinistre Podemos e Psoe.
In Italia è tempo di fare un passo indietro per poterne fare due in avanti. Rimettersi in gioco, rinunciare se occorre al proprio ruolo, per ripartire insieme.

Questo editoriale lo trovi sul numero 24 di Left in edicola dall’11 giugno

 

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La Francia in ginocchio che accoglie gli Europei

I tifosi rumeni o britannici o italiani che siano saranno accolti dalla puzza dell’immondizia che nessuno raccoglie da giorni nelle strade di Parigi a causa del blocco degli inceneritori. Stasera allo Stade de France, a Saint Denis, nella banlieue parigina, si apre l’Europeo di calcio e il Paese ospitante non è messo tanto bene: i servizi pubblici sono in sciopero da giorni, una parte importante dei giovani è in rivolta contro la riforma del codice del lavoro e il presidente socialista è impopolare almeno quanto lo era Bush alla fine del secondo mandato. E in strada ci sono 3mila tonnellate di rifiuti da raccogliere. Gli stessi tifosi, stasera, torneranno allo Stade De France dopo gli attacchi terroristici del 13 novembre. Le ultime immagini dello stadio dove gioca la nazionale francese sono quelle del campo pieno di gente spaventata che scappa mentre fuori si sentono delle esplosioni.

13 NOVEMBRE 2015 ATTACCO ALLA FRANCIA
Per cercare di non trasformare gli Europei nell’ennesimo disastro politico e di immagine, il presidente Hollande si è appellato ai sindacati, fondamentalmente alla CGT, che è alla guida degli scioperi di queste settimane: «Mi appello al senso di responsabilità di tutti – ha detto il presidente – affinché questo evento sia una festa condivisa». A lui ha fatto eco il ministro dello sport Braillard: «Ci sono momenti in cui fare sciopero è lecito, ma in questo caso, scioperando, impediranno a tanti sostenitori delle squadre di arrivare agli stadi»· Per evitare che gli 80mila che hanno un biglietto per la partita inaugurale tra la nazionale transalpina e la Romania non riescano ad arrivare allo stadio a causa degli scioperi della SNCF (la compagnia delle ferrovie), è previsto un servizio di navette.

Più politico e meno istituzionale il premier Manuel Valls, che in un comizio a Parigi ha difeso la legge El Khomri, dal nome della ministra del lavoro, e attaccato il modello sociale della destra «regressiva» che quando è stata al potere ha fatto solo tagli «e oggi, nelle figure dei candidati alle primarie de Les Republicains (Sarkozy e l’ex premier Alain Juppé) propone altri tagli per 100 miliardi». Valls è, come da par suo, molto duro anche con la sinistra «che vuole l’immobilismo e si auto marginalizza» e la attacca: «La democrazia è il voto, non le piazze». Per il governo lo scontro è sia a destra che a sinistra, dunque.

A sinistra c’è la CGT che risponde agli appelli del governo per bocca di Berenger Cernon, capo dei ferrovieri alla Gare de Lyon a Parigi: «Non siamo noi a fare il calendario: c’è un grande evento e c’è un movimento sociale in campo. Noi vogliamo un negoziato sugli accordi collettivi aperto a tutti e quindi, certo, disturberemo gli Europei». Anche nel Partito socialista è in corso una rivolta guidata da Martin Aubry, che ha scritto un documento che verrà diffuso il prossimo 18 giugno e che è stato firmato anche da ambientalisti – tra cui Daniel Cohn Bendit – ricercatori, intellettuali. Forse lo potrebbe firmare anche l’ex ministra Taubira, uscita dal governo dopo la proposta di riforma costituzionale che prevede di togliere la cittadinanza alle persone coinvolte in qualche forma in atti di terrorismo islamico.

A proposito di terrorismo, oltre all’immondizia e ai trasporti, la Francia è anche in grande allerta: a Parigi sanno di essere un obbiettivo e sanno che i grandi eventi sono il luogo perfetto nel quale colpire per seminare terrore. Del resto la notte degli attacchi del Bataclan, i primi kamikaze si fecero esplodere proprio allo Stade de France. In queste settimane 90mila poliziotti e militari saranno di pattuglia per sorvegliare le aree a rischio. Solo a Parigi saranno in 13mila. Le autorità hanno negato che il prefetto di Parigi abbia suggerito di chiudere la Torre Eiffel. In effetti organizzare un evento internazionale che attira turisti per poi chiudere uno dei monumenti più visitati di Francia sarebbe un disastro di immagine. Tra le misure messe in campo per garantire la sicurezza Saip una app del governo che segnala allarmi terrorismo e da informazioni nel caso di attacchi. Non rassicurante.

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La polizia francese avrà anche a che fare con i fans organizzati: a Marsiglia, che ospita la nazionale d’Inghilterra che sabato giocherà contro la Russia, ci sono stati scontri e incidenti tra tifosi francesi e britannici.

Cosa rimane a Hollande? La speranza che la squadra di Didier Dechamps, dopo diversi anni disastrosi – come del resto altri giganti del calcio europeo, Italia compresa – faccia bella figura o, magari, vinca la coppa. Dechamps ha una squadra nella quale alcune grandi stelle calcistiche, primo tra tutti l’attaccante del Bayern Monaco Ribery. La sua è una squadra che gioca un calcio all’attacco. In questi mesi Hollande ha sempre provato a giocare all’attacco per poi ritrovarsi in ritirata: i toni duri e definitivi dopo gli attentati a Parigi, la legge sul lavoro. Dechamps deve sperare di non fare la stessa fine. Ci spera anche Hollande, che di un successo di qualsiasi tipo, per il suo Paese, avrebbe bisogno.

Two women sit with their babies in front of a Uefa Euro 2016 installation, in Bordeaux, France, Thursday, June 9, 2016. The Euro 2016 Soccer Championship starts with the opening match on Friday, June10, 2016 in Paris. (AP Photo/Andrew Medichini)
Bordeaux (AP Photo/Andrew Medichini)

 

La dinastia De Luca. A proposito di meritocrazia

Basta scorrere l’elenco dei nomi della nuova giunta della città di Salerno per rendersi conto che c’è qualcosa che non torna: il neosindaco Vincenzo Napoli ha ritenuto opportuno continuare l’opera di Vincenzo De Luca (ex sindaco e oggi presidente della Regione Campania) infarcendosi di tutti i vicini dell’ex governatore. «Continuità politica» potrebbe dire qualcuno ma ciò che non torna (come anche nella classe dirigente nazionale) è che non si tratti tanto di una “squadra” di collaboratori politici che viene promossa ma banalmente di vicini.

Vicini, sì, come può essere vicino Angelo Caramanno, oggi assessore allo sport della città campana e qualche mese fa avvocato difensore dello stesso De Luca in merito all’incompatibilità del suo ruolo di viceministro nel governo Letta. “Ci siamo ispirati ai criteri della competenza e della professionalità per la creazione di una squadra che realizzerà tutti gli impegni presi con i cittadini, in continuità con il progetto di città che stiamo portando avanti” ha detto il neosindaco.

Benissimo. Allora qualcuno ci spieghi (in termini convincenti) se davvero a Salerno la delega al Bilancio e allo Sviluppo (un assessorato pesante) sia normale che venga affidata a Roberto De Luca, commercialista trentaduenne, figlio di cotanto Vincenzo. Davvero l’uomo che ha tenuto “in mano” la città ha avuto la sfortuna (o la fortuna) di riconoscere solo nel proprio figlio le capacità politiche per ricoprire quel delicato ruolo e raccogliere l’eredità politica? Davvero ancora siamo convinti che un ruolo politico che passi da padre in figlio sia indicativo di un buon stato di salute della democrazia?

Ma soprattutto: ma davvero la meritocrazia così tanto decantata da Renzi e i suoi in questi ultimi anni può ridursi a questo? Ecco, qualcuno ci dica, per favore che ci stiamo sbagliando.

Buon venerdì.

«Uccidete pure me. L’idea che è in me non l’ucciderete mai». 10 giugno 1924, Matteotti e l’inizio del regime

10 giugno 1924, ore 16.15 circa. Giacomo Matteotti esce di casa per recarsi a Montecitorio. Percorre il lungotevere Arnaldo da Brescia per poi tagliare verso Montecitorio. Giunto agli archi di Porta del Popolo, ad attenderlo, c’è un’auto con a bordo Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo: agenti della polizia politica. Lo aggrediscono, Matteotti si divincola buttandone uno a terra. Arriva un terzo che lo colpisce al volto con un pugno. E intanto gli altri due lo caricano in auto. La rissa prosegue, Matteotti lancia dal finestrino il suo tesserino da parlamentare. Matteotti non si ferma. Uno degli agenti, Giuseppe Viola, estrae un coltello e lo colpisce sotto l’ascella, poi al torace, fino a ucciderlo dopo ore di agonia.
Il corpo seppellito e piegato in due di Giacomo Matteotti viene ritrovato due mesi dopo alla Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano a 25 km dalla Capitale.

Così Giacomo Matteotti, giornalista, antifascista, segretario del Partito Socialista Unitario, viene ucciso quando ha appena compiuto 39 anni. Dagli scranni del Parlamento, una decina di giorni prima – il 30 maggio – aveva denunciato alla Camera le violenze che avevano segnato la campagna elettorale di aprile, durante le elezioni politiche che avevano visto la forte affermazione del partito fascista (6 aprile 1924). E da tempo, Matteotti, denunciava la corruzione del governo nella vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Proprio il 10 giugno, il giorno del suo assassinio, Matteotti avrebbe dovuto rivelare le sue scoperte sullo scandalo finanziario che avrebbe coinvolto anche Arnaldo Mussolini, fratello del duce.

Il Parlamento, dapprima, non nota nemmeno l’assenza di Matteotti. E la notizia della sua scompardsa appare sui giornali solo il giorno dopo. Il 12 giugno, all’interrogazione parlamentare di Enrico Gonzales, Benito Mussolini risponde: «Credo che la Camera sia ansiosa di avere notizie sulla sorte dell’onorevole Matteotti, scomparso improvvisamente nel pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora ben precisate, ma comunque tali da legittimare l’ipotesi di un delitto, che, se compiuto, non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del governo e del parlamento». Per protesta tutta l’opposizione parlamentare si ritira nel cosiddetto Aventino. Seguono mesi di braccio di ferro, in cui il governo fascista sembra quasi capitolare. Finché il 3 gennaio 1925 Mussolini si assume la responsabilità politica del delitto Matteotti: «Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale, ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e morale io l’ho creato con una propaganda che va dall’intervento ad oggi». E con il sangue di Matteotti, ha ufficialmente inizio il Ventennio.