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In Francia si lotta con i diritti e qui si gioca con le figurine

Mentre in Francia il Paese scopre la voglia di fare muro ad una riforma del lavoro che scippa diritti ai lavoratori (e che comunque rispetto al nostro jobs act sembra un accordo sindacale) qui nelle ultime ore siamo riusciti a infangare Ingrao, Berlinguer e in ultimo riesumare Almirante.

L’immagine di per sé rende perfettamente l’idea di una politica (la nostra) che è diventata lo spasmodico rincorrere il guizzo che permetta di ottenere un ritaglio di giornale: la visibilità non è più direttamente proporzionale allo spessore delle soluzioni proposte quanto piuttosto riferibile al livello di popolarità dell’ennesima scanzonata provocazione.

Un progetto di legge frutto della paziente concertazione tra parti sociali e studi approfonditi non riuscirà mai ad ottenere un decimo dello spazio che si dedica alla cazzata quotidiana del Salvini di turno o chi per lui. Così, a forza di formare parlamentari specializzati titolisti delle proprie dichiarazioni, il dibattito pubblico si misura sulla lunghezza e profondità dell’indignazione quotidiana. Alla fine votiamo il miglior gestore della propria immagine dando per scontato che porterà benefici anche alla nazione: il presidente del Consiglio ideale quindi sarebbe la sezione della Pro Loco sotto casa nostra.

E anche quando capita l’occasione di un altro popolo che scende in piazza per i diritti (come accade a Parigi) improvvisamente ci scopriamo analfabeti di politica. Geni del talk show, esteti della provocazione, chirurgici nel perculamento degli avversari ma assolutamente ignoranti di diritti e doveri. La legge, le leggi e il Parlamento sono capitoli troppo noiosi di un programma che non leggerebbe nessuno.

Ieri, ad esempio, la candidata sindaco di Roma Giorgia Meloni, ha pubblicato un video in cui guarda sorridendo l’imitazione di sé stessa fatta dalla Guzzanti. Video elettorale, per dire. Una metapolitica che ormai vorrebbe formare conduttori piuttosto che legislatori. Altro che anni ’80.

Buon mercoledì.

Architettura sostenibile alla Biennale. Ma il Fondaco del’500 diventa un duty free

Fontego dei tedeschi

Mentre a Venezia si sta per aprire la quindicesima edizione della Biennale di architettura diretta da Alejandro Aravena, dal 28 maggio per la prima volta, senza archistar e di forte impronta etica e civile, all’insegna della sostenibilità e del rispetto del territorio, a Rialto arriva a compimento lo scempio del Fondaco dei tedeschi. Lo storico palazzo affrescato da Giorgione, che poi divenuto proprietà delle Poste Italiane e stato ceduto nel 2008 al gruppo Benetton per 53 milioni di euro. Il restauro affidato all’architetto olandese Rem Koolhaas (direttore della Biennale nel 2014) è stato concluso. L’ipotesi era che in quelle storiche sale sorgesse un polo culturale, invece il marchio Duty Free Shop, controllato dal Gruppo Lvmh, ha avuto in affitto l’edificio cinquecentesco.

Il Fondaco di 6800 metri di superficie sarà inaugurato in pompa magna a fine settembre e ospiterà sessanta boutique. A collegare il sotto e il sopra saranno quattro ascensori e la scala mobile chiamata “tappeto rosso” che porta al padiglione vetrato tenuto insieme da 22 mila bulloni. Del progetto inziale resta l’ultimo piano destinato agli eventi… Sul sito Eddyburg diretto dall’urbanista Edoardo Salzano si legge questo amaro commento: «Lo scempio è compiuto e, già dal 29 giugno, visibile. Occorrerebbe affiggere, a memoria dei posteri, una lapide con l’elenco dei protagonisti e dei complici del delitto.

La città e i suoi cittadini e abitanti hanno perduto uno spazio pubblico vitale per decenni, l’umanità un elemento di rilievo del patrimonio storico e artistico della città. In cima alla lista dei carnefici e dei loro complici non ci sarebbe solo quel signore, padrone di Benetton, che un sindaco filosofo definì «un mecenate», ma anche un paio di sindaci della città, la dirigente della soprintendenza ai Beni architettonici e paesaggistici di Venezia, gli architetti che hanno concepito e implementato il progetto, e via enumerando». La situazione di Venezia, nel frattempo, resta fortemente a rischio. Perché non è stato risolto il problema grandi navi che stanno uccidendo la laguna. A questo tema Salvatore Settis ha dedicato unlibro bellissimo quanto indignato, Se Venezia muore (Einaudi, qui l’intervista a Settis). La laguna, denuncia Italia Nostra, è il sito culturale e naturalistico più a rischio d’Europa, sotto l’aggressione congiunta del traffico delle grandi navi in laguna, dell’erosione dei suoi fondali, dell’inquinamento, della pressione turistica.

Gli azionisti pressano le Big oil per affrontare i cambiamenti climatici

Dove non arrivano ceo e amministratori delegati, arrivano azionisti e investitori. L’allarme climatico ribadito lo scorso dicembre alla Cop21 di Parigi fatica a tramutarsi in politiche attive e scelte imprenditoriali, ma c’è chi guarda con lucidità al futuro – anche a quello dei propri risparmi – e sta con il fiato sul collo a Big oil e operatori dell’industria fossile. Nei giorni scorsi gli azionisti della multinazionale anglo-elvetica Glencore hanno votato una mozione affiché la dirigenza fornisca maggiori informazioni sull’impatto che le proprie attività hanno sui cambiamenti climatici. Nella classifica dei 500 peggiori “emettitori” di gas serra, Glencore è al terzo posto dopo Gazprom (1.260 milioni di tonnellate di gas climalteranti rilasciate nel 2013) e Coal India. Sotto accusa soprattutto i loro affari attorno al carbone, la più inquinante delle fonti energetiche fossili, bersaglio prioritario delle campagne con l’hashtag #keepitintheground.

A poca distanza da Glencore, nella lista nera dei nemici del clima, c’è ExxonMobil, che durante l’assemblea annuale della prossima settimana dovrà affrontare una vera e propria rivolta degli azionisti più influenti, decisi a ottenere che la Big oil – coinvolta peraltro in un’inchiesta con l’accusa di aver nascosto agli azionisti le informazioni sui rischi climatici – pubblichi annualmente i dati del proprio impatto sul riscaldamento del Pianeta. A proporre la mozione, lo Stato di New York, una fiduciaria del New York State Common Retirement Fund, il terzo più grande fondo pensione degli Usa, e la Chiesa anglicana.

Un investitore specializzato nel pressing alle aziende più inquinanti è Calpers, il fondo previdenziale dello Stato della California che gestisce asset per 294 miliardi di dollari e che ha fatto la voce grossa sia con Glencore sia con ExxonMobil. «Siamo molto soddisfatti per il fatto che il management di Glencore sostenga questa risoluzione» ha dichiarato in una nota a commento della relativa mozione Anna Simpson, direttore degli investimenti di Calpers. «Si comprende che gli investitori hanno bisogno di un reporting ambientale per comprendere meglio i rischi e le opportunità». Il presidente di Glencore, Tony Hayward, ha reagito invece facendo buon viso a cattivo gioco e nell’accogliere la risoluzione pro-clima degli azionisti ha detto: «Il carbone resta la fonte energetica di prima scelta per i Paesi emergenti e c’è un motivo: è a buon prezzo e facilmente reperibile. Ha portato miliardi di persone fuori dalla povertà e continuerà a farlo».

Anche altre Big oil, tra cui Chevron, Royal Dutch Shell, Bp e Total hanno annunciato provvedimenti per mitigare i rischi ambientali correndo ai ripari dopo le pressioni degli investitori. D’altro canto, già da tempo l’International Energy Agency ha lanciato l’allarme alle imprese del gas, del petrolio e del carbone: se non intervengono per tempo subiranno danni per diversi miliardi di dollari. Intanto, un rapporto del Wwf con Natural Resources Defense Council e Oil Change International evidenzia come i Paesi del G7 proseguano imprerterriti a finanziare centrali ed estrazione di carbone all’estero.

Se passa il Ttip? L’Italia potrebbe perdere 300mila posti di lavoro

A man on stilts and dressed like the Statue of Liberty holds a banner with the slogan Stop TTIP during a protest of thousands of demonstrators against the planned Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP, and the Comprehensive Economic and Trade Agreement, CETA, ahead of the visit of United States President Barack Obama in Hannover, Germany, Saturday, April 23, 2016. (AP Photo/Markus Schreiber)

L’Italia perderebbe quasi 300mila posti di lavoro se il Transatlantic trade on investment partnership (Ttip) venisse approvato. Con guadagni di reddito pro capite che non supererebbero lo 0,5%. Lo sostiene il rapporto «Ttip and Jobs» commissionato dal Parlamento europeo alla Direzione generale delle politiche interne dell’Ue. L’accordo, in corso di negoziazione tra Stati Uniti e Unione europea dal 2013, prevede una diminuzione generale delle barriere commerciali sia di tipo tariffario (i dazi doganali sono attualmente a una media del 4%) sia di tipo non tariffario (standard e regolamenti). Secondo il report, se il Ttip venisse approvato, comporterebbe «effetti negativi di breve periodo sulla disoccupazione», alla luce di un lungo processo che vedrebbe i lavoratori trasferirsi da imprese poco competitive a industrie ad alta tecnologia orientate all’esportazione.

Le cose cambierebbero però nel lungo periodo, e secondo le previsioni il trattato porterebbe nel giro di qualche anno a una diminuzione del tasso di disoccupazione. In particolare, con la liberalizzazione commerciale, si innescherebbe un processo che potrebbe rendere l’economia europea più competitiva e produttiva, con un aumento dei salari per molti lavoratori e una diminuzione dei prezzi per i consumatori. Il testo precisa come l’accordo comporti comunque «opportunità e minacce», con una crescita di posti di lavoro in alcuni settori e una diminuzione in altri. I settori più colpiti, si prevede siano quelli dell’industria metalmeccanica, della produzione dei macchinari elettrici e del settore dei servizi finanziari. Quelle che beneficerebbero sarebbero invece il settore dei motoveicoli, quello manifatturiero, e le filiere alimentari.

Schermata 2016-05-24 alle 14.39.52È importante – continua il rapporto – che i Paesi europei abbiano «gli strumenti necessari per affrontare i costi sociali derivanti dal processo di aggiustamento»
: in questo contesto è cruciale introdurre politiche di flexsecurity, che puntino a proteggere «i lavoratori piuttosto che il lavoro», con generosi sussidi di disoccupazione e in generale politiche di sostegno al reddito.
Sarà inoltre necessario ricorrere a strumenti più ampi, come l’European globalization fund
(Egf), che prevede un sostegno ai lavoratori in esubero nel caso di «trasformazioni rilevanti del mercato del lavoro dovute alla globalizzazione». Fondo che, come sottolinea Sbilanciamoci.it, è stato ridotto da 500 milioni a 150 milioni per il periodo 2014-2020. Mentre l’America ha aumentato il budget per contrastare gli effetti negativi degli accordi commerciali di 2,3 miliardi di dollari.

Nella classifica dei paesi che sarebbero più danneggiati nel breve periodo dal Ttip l‘Italia è seconda solo alla potente Germania (che secondo le stime sarebbe compromessa di circa 450mila posti di lavoro), seguita dal Regno Unito, Spagna e Francia. Il rapporto conclude sostenendo che i benefici che apporterebbe il Ttip nel lungo periodo sarebbero si positivi ma comunque poco incisivi sotto il punto di vista della quantità dei posti di lavoro creati. Su una forza lavoro europea complessiva di 240 milioni è stato stimato che nel lungo periodo il Ttip potrebbe creare in Europa circa 102mila posti di lavoro, circa lo 0,4% in più dell’occupazione.

È rivolta nelle carceri brasiliane: 14 morti. E qualcuno invoca la privatizzazione

epa02440939 Prisoners of Raimundo Vidal prison are seen as guards watch them following a riot that ended with four dead and five hostages released in Manaos, Brazil, 10 November 2010. EPA/JAIR ARAUJO

Sciopero degli agenti e cancellazione delle visite. È rivolta in quattro carceri brasiliane, tutte nello Stato di Cearà: finora si contano 14 morti. Una spirale di violenza scatenata dalla protesta del corpo penitenziario contro la decisione dell’amministrazione di rateizzare il pagamento di spettanze arretrate. Lo sciopero ha provocato la cancellazione delle visite e questo ha fatto esplodere la rabbia dei detenuti. Danni alle strutture e regolamenti di conti hanno trovato terreno fertile nella protesta, sedata dalle forze di sicurezza. Intanto, la procura della Repubblica di Cearà ha definito illegittimo lo sciopero delle guardie carcerarie e annunciato provvedimenti verso l’amministrazione carceraria per gli omicidi, i danni e ogni reato compiuto durante le rivolte. Queste carceri, come la maggior parte in Brasile, sono sovraffollate.

Il sindacato penitenziario (Sindasp) chiede da anni un aumento del personale, mentre nel Paese si fa sempre più strada la privatizzazione come risoluzione del problema. Di prigioni in “outsourcing” in Brasile ne esistono già molte, in almeno altre 22 località. Di una di queste ci siamo occupati lo scorso febbraio: la prima prigione privata in Brasile, quella di Ribeirão das Neves, regione metropolitana di Belo Horizonte, Minas Gerais.

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Il 24 maggio 1915, come la Grande guerra ha cambiato l’Italia

È con la prima guerra mondiale che gli italiani del nord e del sud si ritrovano per la prima volta fianco a fianco, stipati nelle trincee imparano a conoscersi e a parlare un linguaggio comune quando invece fino a quel momento erano sempre stati per lo più abituati a utilizzare il dialetto.

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Carlo I d’Austria visita i soldati bosniaci del Infanterie-Regiment Nr. 2 inviati sul fronte italiano

La prima guerra mondiale cambia totalmente il volto del Paese e imprime nelle coscienze degli italiani il concetto che sono cittadini con dei doveri, ma anche con dei diritti, come per esempio quello di voto. Non è un caso infatti che il suffragio universale maschile venga concesso a fine guerra con una legge del 16 dicembre 1918 a tutti i cittadini con età maggiore ai 21 anni o che avessero prestato il servizio nell’esercito mobilitato.

Soldati_italiani_in_trincea
Soldati italiani in trincea

Spesso i soldati si trovano in balia di generali che hanno scarse capacità di organizzazione delle truppe, incapaci di capire che è cambiato radicalmente il modo di fare la guerra, finiscono spesso con l’ordinare cariche che mandano al massacro gran parte dei soldati di fanteria.
Il volto eroico della guerra che ad inizio secolo veniva esaltato prende presto il posto dell’orrore. Lo stesso di cui racconta Giuseppe Ungaretti, impegnato sul fronte Italo-austriaco, nei versi di Veglia:

Un’intera nottata buttato vicino
a un compagno massacrato1
con la sua bocca digrignata2
volta al plenilunio con la congestione delle sue mani penetrata
nel mio silenzio
ho scritto
lettere piene d’amore

Cima quattro, 23 dicembre 2015

soldati italiani prima guerra mondiale

La Grande Guerra è come abbiamo detto una guerra che non ha precedenti, anche dal punto di vista tecnico. Vengono introdotte le mitragliatrici, i sottomarini (i famosi U-Boat tedeschi che convinsero con i loro attacchi alle navi commerciali gli Usa a entrare nel conflitto nel 1917), vengono utilizzati i gas tossici che hanno un effetto devastante. Gli stessi soldati vennero dotati quindi di elmetti d’acciaio e maschere antigas e potevano contare sul supporto di carri armati. È sempre con la prima Guerra Mondiale che assistiamo ai primi bombardamenti aerei e sulle città. I conflitti non sono più una sfida in campo aperto fra due eserciti schierati, ma entrano a gamba tesa nella vita dei civili e anche le zone urbane si fanno terreno di scontro.

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Il marzo infinito e la sinistra perduta

Giornate difficili in Francia. La mattina del 18 maggio, per esempio, – 79 marzo secondo il calendario del movimento Nuit Debout che parte dal 31 marzo, giorno della prima permanenza in Place de la République di un gruppo di persone che si oppongono alla legge sul lavoro -, la piazza è stata occupata da una manifestazione della polizia organizzata dal sindacato di destra (Alliance) per protestare contro la “haine anti-flic”, l’odio contro la polizia, che sta crescendo in tutto il paese. A sorpresa, la visita di Marion Maréchal Le Pen. La piazza è transennata, presidiata, la stazione della metro chiusa, l’accesso vietato. Ottima scelta! Ovviamente una contro-manifestazione si è tenuta a poca distanza, verso il Canal Saint Martin dove una volante con due poliziotti all’interno è stata presa d’assalto e poi incendiata. Poi, come ogni giorno, si è messo a diluviare (anche la meteo sembra essersi adattata al nuovo calendario) e varie persone sono state arrestate. Dopo la manifestazione della polizia, la piazza è stata riaperta e verso le cinque Nuit Debout era di nuovo debout, in piedi. Il clima sociale sta peggiorando di giorno in giorno. Le manifestazioni ormai sono uno scontro frontale tra due visioni sempre più distanti del modo di gestire il dissenso. L’uso strumentale dello stato d’emergenza sta mostrando i suoi aspetti deleteri. I Crs sono sempre più armati e numerosi, i manifestanti, o almeno una parte di essi, si armano a loro volta per difesa (maschere antigas, bastoni, protezioni per gli occhi in caso di uso – sempre più frequente – dei gas lacrimogeni).
Questi i fatti. Ma cosa si nasconde dietro questo conflitto crescente? È difficile rispondere a questa domanda, anche per i francesi. La Francia ha un estremo bisogno di riforme, eppure la strada per intraprenderle non poteva essere più sbagliata. Ripercorro gli ultimi mesi e non riesco a non pensare che esista un legame tra la tensione crescente e gli attentati. Ci sono due modi per gestire la paura: negarla, allontanarla, soffocarla, oppure guardarla negli occhi e affrontarla. Il governo ha scelto la prima soluzione, senza tuttavia disporre dell’autorevolezza politica necessaria. La sinistra che si mette a fare il gioco della destra si suicida, lasciando soli i suoi elettori. E così la gente sta cercando altro; altre forme di rappresentanza politica, di gestione della democrazia, dell’economia, degli spazi pubblici, della città… Da due mesi non si parla d’altro a Place de la République. Ognuno lo fa a modo suo, scegliendo a quale commissione partecipare, a quale corteo andare, a quale manifestazione partecipare. Ognuno combatte contro il senso di impotenza che la paura ha generato. Ed è questo che, a mio avviso, la polizia ha l’ordine di reprimere. Perché quando le persone si mettono in movimento, escono dalla passività, si incontrano, discutono, si riuniscono, si impegnano, agiscono, diventano una forza dirompente, incontrollabile, che nessun partito, nessun sindacato, nessuna polizia è più in grado di controllare.
È con questo pensiero che osservo ragazzi e ragazze rimontare ogni pomeriggio le tende antipioggia, preparare da mangiare, fare i turni all’infermeria e alla radio, le persone più anziane prendere la parola, ascoltare, chiacchierare, dare consigli. Gli incidenti capitano quando a queste persone non viene data l’opportunità di esprimersi, organizzarsi, mobilitarsi. Non basta più firmare petizioni online, bisogna scendere in piazza. A quanto pare molti francesi lo hanno capito.

Bob Dylan compie 75 anni. Buon compleanno, eterno contestatore

«Quante strade deve percorrere un uomo prima di poterlo chiamare “uomo”?» (Blowin in the wind, 1963). Lui di strade ne ha percorse parecchie. Chitarra, tastiera e armonica a bocca. In decenni di carriera si è fatto chiamare Elston Gunnn, Blind Boy Grunt, Lucky Wilbury/Boo Wilbury, Elmer Johnson, Sergei Petrov, Jack Frost, Jack Fate, Willow Scarlet, Robert Milkwood Thomas, Tedham Porterhouse. Oggi compie 75 anni, una vita nel segno del continuo cambiamento. Contestatore impeccabile, innanzitutto di se stesso.

“Blowin’ in the wind”, deve in parte la sua melodia a “No More Auction Block”,
la canzone tradizionale degli schiavi

Robert Allen Zimmerman è nato il 24 maggio di 75 anni fa a Duluth, in Minnesota. Cantautore, compositore, poeta, scrittore. Ma anche attore, pittore e scultore. Più volte candidato per il Premio Nobel per la Letteratura ed è stato insignito del premio Pulitzer alla carriera nel 2008. È la scrittura delle canzoni a essere generalmente considerata il suo più grande contributo. Con le sue canzoni ha saldato storia e letteratura con la musica country, blues, gospel, rock and roll, rockabilly, jazz,swing e Spiritual.

DYLAN

A lui si deve più d’un primato: l’ideazione del folk-rock, con Bringing It All Back Home (1965); il primo singolo di successo con una durata non commerciale con Like a Rolling Stone, oltre 6 minuti (1965) e il primo album doppio della storia del rock con Blonde on Blonde (1966).  Per la rivista Rolling Stone è il secondo nella lista dei 100 miglior artisti, secondo solo ai Beatles, e il più grande cantautore di tutti i tempi.In tour con una formazione cangiante, con lui hanno suonato Joan Baez, George Harrison, The Grateful Dead, Johnny Cash, Paul Simon, Eric Clapton, Patti Smith, Bruce Springsteen, U2, The Rolling Stones, Joni Mitchell, Neil Young, Van Morrison, Ringo Starr, Mark Knopfler, Stevie Ray Vaughan, Carlos Santana, The Byrds.

Per qualcuno, il video promozionale del brano “Subterranean Homesick Blues” (1965) 
è il primo videoclip della storia

Minneapolis. Dal Rock’n’roll al folk
Nel suo sangue scorrono le origini turche dei nonni paterni, emigrati da Odessa in fuga dai pogrom antisemiti del 1905, e quello ebreo lituano di nonni materni, anch’essi emigratii negli States. Nasce a Duluth ma cresce a Hibbing, nel Minnesota. Qui ascolta blues, country e rock’n’roll alla radio, e forma le sue prime band al tempo della scuola: The Shadow Blasters, The Golden Chords. E si esibisce in due concerti con Bobby Vee suonando il pianoforte. Robert si iscrive alla University of Minnesota Twin City e si trasferisce a Minneapolis.

Bob Dylan ritratto da Richard Avedon, New York 1965.
Bob Dylan ritratto da Richard Avedon, New York 1965.

Il rock and roll lascia il posto al folk. Galeotta fu Odetta che, racconta Dylan, una volta ascoltata, lo convinse a dar via la chitarra elettrica e l’amplificatore per comprare una Gibson acustica. «Sapevo bene, quando mi sono dedicato alla musica folk, che si trattava di una cosa molto più seria… C’è più vita reale in una sola frase di queste canzoni di quanta ce ne fosse in tutti i temi del rock’n’roll». In quei giorni, Zimmerman abbandona il college. E comincia a presentarsi come Bob Dylan.

Bob Dylan con Joan Baez

New York. I primi contratti e le canzoni di protesta
È al suo idolo Woody Guthrie che si deve il trasferimento di Dylan nella Grande mela, per una visita al New Jersey Hospital dove Guthrie è ricoverato. A New York City, Dylan suona per club finché attira una recensione positiva sul New York Times e viene notato dal talent scout della Columbia Records, John Hammond, che lo scrittura per il suo primo disco: Bob Dylan è una raccolta di canzoni della tradizione folk, blues e gospel, con due inediti di Dylan. L’album vende solamente 5mila copie nel primo anno, abbastanza per pagare appena le spese.

Bob Dylan performing on TV show, BBC TV Centre

Non stracciarono il suo contratto, a difenderlo si alleò anche Johnny Cash. Nel ’62 cambia nome all’anagrafe (in Robert Dylan) e cambia manager assumendo Albert Grossman uno che, scherza Dylan, «sapevi che stava arrivando dal profumo», dice Dylan nel documentario No Direction Home: Bob Dylan. Il secondo album, The Freewheelin’ Bob Dylan (1963) è l’inizio della sua fama da autore di canzoni di protesta. Molti artisti, tra cui The Byrds, decidono di incidere sue canzoni, portandole a un rinnovato successo. In poco tempo,insieme a Joan Baez, diventa un punto di riferimento per il movimento per i diritti civili.

Seal & Jeff Beck in una delle tante versioni di “Like A Rolling Stone”

Da leader folk a rockstar
Ma è un uomo dalla “claustrofobia” facile, Dylan. Non è ancora finito il 1963 che già si sente imprigionato dal movimento folk e di protesta. Un anno dopo, in una sera soltanto, registra Another Side of Bob Dylan dove sfotte se stesso e torna agli esordi rock and roll. Da leader del movimento folk diventa una rock star: il guardaroba di Carnaby Street prende il posto dei blue jeans usurati e delle camicie da lavoro.
Con Bringing It All Back Home (1965) arrivano anche gli strumenti elettrici, l’influenza di Chuck Berry e la poesia beat. Per il nuovo Dylan è ora di salpare verso l’Inghilterra. La rocambolesca esibizione di quell’estate al Newport Folk Festival, dove viene pesantemente fischiato, è la molla che lo porta in studio per registrare Positively 4th Street, capolavoro di paranoia e vendetta. La collisione s’è fatta guerra, il movimento folk per Dylan è morto e sepolto. Adesso è il momento di scalare le classifiche. E il momento arriva con il singolo “Like a Rolling Stone”, (secondo negli Usa e quarto in Uk): inno contro l’ipocrisia del benessere sociale.

Continuare è impossibile, la carriera di Dylan è un fiume in piena, un incessante susseguirsi di successi e cadute di stile, concerti e leggende misteriose, di conversioni religiose. Fino a giungere ad oggi: Fallen Angels, 37esimo album in studio in cui rilegge dodici classici del canzoniere Usa e della storia della musica.

I democratici ascoltano Sanders: anche suoi rappresentanti scriveranno il programma

Mentre Hillary Clinton e Donald Trump la buttano sul sesso, Bernie Sanders ottiene un primo risultato con la sua candidatura alle primarie: ovvero dare voce a quelle parti del partito democratico che normalmente ne hanno appena.

Quelli che saranno i candidati alla Casa Bianca a meno di terremoti in California – sempre possibili, ma improbabili: Hillary ha un vantaggio di 10 punti nei sondaggi – duellano sul rispetto nei confronti delle donne, con Clinton che rilancia una serie di gaffe e uscite fuori luogo del miliardario newyorchese e questi che rilancia tirando fuori un video in cui due donne accusano l’ex presidente Bill di un tentativo di stupro. Il tema per entrambi è il voto delle donne: da un lato convincerle che il candidato repubblicano (e il partito più in generale) sono arretrati, non hanno a cuore una serie di bisogni e diritti e hanno una concezione volgare e maschilista delle donne, dall’altra l’uso di vecchi scandali per colpire il “falso femminismo” di Hillary. Uno scontro appena cominciato, che avrà mille tappe e un’unica certezza: essendo uno dei due rivali Donald Trump sarà duro, rumoroso e volgare.

Per combatterlo, i democratici, sembrano aver capito di quanto avranno bisogno di Bernie Sanders (e Obama) per portare ai seggi segmenti di elettori che potrebbero restare a casa. Il Democratic National Commitee (DNC) e le due campagne hanno infatti concordato su un ruolo cruciale di alcune persone nominate da Bernie nella scrittura della piattaforma programmatica che la convention approverà. Le figure scelte danno un segnale molto chiaro sui temi sui quali Sanders punta a influenzare il programma democratico: ambiente e lobby petrolifera, Medio Oriente e rapporti con Israele (questa Israele) e poi dare una voce alle istanze più radicali degli afroamericani. Tra le persone nominate dalla campagna del senatore del Vermont ci sono infatti James Zogby, che all’interno del partito democratico è una voce importante in favore dei diritti dei palestinesi, Bill McKibben, fondatore di 350.org e leader del movimento che negli Usa si batte contro l’industria degli idrocarburi e Cornell West, intellettuale liberal e nero tra i più radicali e “rumorosi” (e duri con l’amministrazione Obama). Sarebbe divertente poter osservare le riunioni in cui il focoso West farà le sue proposte.

L’aver ottenuto questi spazi, per Sanders è un successo. Ed è anche un segnale che il partito si rende conto che c’è una spaccatura nella base e che per ricomporla occorre portare nella convention le idee che il senatore incarna e rappresenta. Normalmente il comitato che scrive la piattaforma è di nomina del leader del DNC, mentre stavolta le due campagne hanno potuto nominare i loro rappresentanti e il partito ha tenuto per sé solo 4 posti. Dopo le tensioni in Nevada, i toni sembrano pian piano tornare alla normalità: Sanders sta facendo la campagna elettorale in California usando toni meno duri nei confronti di Clinton e citando soprattutto la sua difficoltà a far diventare la sua candidatura un candidato vincente: la notizia del sorpasso di Trump nei sondaggi è un po’ esagerata, ma certo clamorosa. L’argomento di Sanders è però giusto: il sondaggio Washington Post/Abc, l’ultimo importante, registra soprattutto come la maggioranza degli elettori è insoddisfatta dei due candidati. Il voto americano di novembre, a meno di un’iniezione di idealismo – che Sanders e Obama potrebbero portare – rischia di essere un referendum su chi, tra Clinton e Trump, piace di meno.

24 maggio 2016 | Il caffé di Corradino Mineo

Le notizie del giorno commentate dal direttore di Left Corradino Mineo, da ascoltare calde al mattino mentre si beve il caffè.