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Idomeni, sgombero dei profughi con 400 poliziotti

All’alba, e con i giornalisti tenuti a tre km di distanza, è iniziato lo sgombero del campo dei migranti di Idomeni, il campo della vergogna al confine tra la Grecia e la Macedonia. L’ultima fermata del viaggio della speranza per migliaia e migliaia di siriani, soprattutto, fuggiti dalla guerra. Per loro l’Europa è diventata un sogno dopo che è stato deciso di chiudere le frontiere. I circa novemila profughi ammassati in quella che era una stazione abbandonata verranno inviati in due campi ad Atene e a Salonicco. Quindi l’Europa del Nord si allontanerà sempre di più. Circa 400 poliziotti in tenuta antisommossa stanno provvedendo all’operazione che durerà alcuni giorni. Il portavoce del governo greco sui rifugiati Giorgos Kyritsis ha detto che la polizia non avrebbe usato la forza. Ma il fatto che i giornalisti siano stati fermati ad un posto di blocco lontano dal campo non è una buona notizia.
La stragrande maggioranza dei profughi di Idomeni è costituita da famiglie con donne e bambini che provengono dalla Siria devastata dalla guerra che cercano di ricongiungersi a familiari già all’interno dei confini europei, ma ci sono migranti che arrivano anche da Afghanistan e Iraq.

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Sono oltre 50mila i profughi rimasti intrappolati in Grecia dopo la chiusura delle frontiere. Da Idomeni i profughi negli ultimi mesi avevano cercato invano di passare il confine. Un mese fa sono stati usati anche i lacrimogeni (qui) contro chi cercava di scappare, aiutato dagli attivisti che sono accorsi per aiutare i profughi fermi nella tendopoli. Una condizione di vita insostenibile, quella dei profughi. Tende, bracieri di fortuna, fumo, e mancanza di igiene: così vivevano ammassati le migliaia di migranti di Idomeni.

L’accordo tra Ue e Turchia ha provocato «una esternalizzazione ai confini dell’accoglienza di profughi che ci provocherà sempre più problemi», ha detto questa mattina ai microfoni di Radio3, Loris De Filippi, responsabile italiano di Medici senza frontiere che ha duramente criticato la politica europea. Proprio da Idomeni, i volontari di Msf rendono noto che lo sgombero si sta svolgendo in maniera tranquilla: le persone vengono caricate sugli autobus senza tensioni.
Intanto Amnesty fa sapere che il 20 maggio «un richiedente asilo siriano che era giunto sull’isola greca di Lesbo e aveva fatto domanda d’asilo dopo la firma dell’accordo tra Unione europea e Turchia, ha vinto un ricorso in appello contro la decisione di rimandarlo in Turchi». La motivazione è che «la Turchia non può essere considerata un paese sicuro perché non fornisce ai rifugiati la piena protezione prevista dalla Convenzione di Ginevra sullo status di rifugiato né garantisce l’attuazione del principio di non respingimento». Secondo Amnesty altri 100 ricorsi simili sono all’esame dell’organo d’appello.

Città al voto, chi sono i candidati a sinistra? E cosa ne pensano i cittadini?

Il 5 giugno si vota in 1342 Comuni, di cui 25 capoluoghi di provincia. Sono: Cosenza, Crotone, Benevento, Caserta, Napoli, Salerno, Bologna, Ravenna, Rimini, Pordenone, Trieste, Latina, Roma, Savona, Milano, Varese, Isernia, Novara, Torino, Brindisi, Cagliari, Carbonia, Olbia, Villacidro, Grosseto. Abbiamo realizzato per voi una mappa della sinistra al voto per fare un punto sui candidati nelle principali città italiane e un video-reportage nel quale, in quattro tappe, abbiamo incontrato i cittadini di Bologna, Milano, Napoli e Roma per sapere cosa si aspettano da queste elezioni e cosa dovrebbe fare il nuovo sindaco una volta eletto

Falcone: la commemorazione migliore ha gli occhi degli immigrati di Ballarò

C’è un Paese con le fasce tricolori che inaugura vie, sale e monumenti. C’è un Paese per cui Giovanni Falcone è una tappa commemorativa obbligatoria tutti gli anni, come al Monopoli ogni volta che si passa dal via e si ritirano le ventimila lire. Parole e impegno che durano il tempo delle riprese dei telegiornali e poi si spandono in un effluvio di comunicati stampa tutti uguali, tutti gli anni, ogni anno.

Poi c’è una di quelle storie che ti viene da pensare che forse, a Falcone e Borsellino, avrebbero acceso un sorriso dello stesso sapore di quella foto di loro due che sorridono e che rimbalza dappertutto. Quando ridono, Falcone e Borsellino, hanno il sorriso luminosissimo di chi prende terribilmente sul serio il proprio mestiere: quel sorriso lì che fa il giro di tutta la faccia.

E l’alba di Ballarò, quartiere storico e maledetto di una Palermo impigliata tra i denti della mafia, ieri è stata un’alba da incorniciare, da farne un libro di storia: una decina di arresti tra gli esattori del pizzo nel quartiere. Soldatini prepotenti e scontati di una mafia che succhia la fragilità degli altri per farne sostentamento economico. In più le vittime questa volta non sono nemmeno italiane: commercianti arrivati dal Bangladesh che subiscono la violenza mafiosa con una punta di razzismo. Figurati se si ribellano ‘sti negri, avranno pensato questi quattro picciotti sgarrupati che vivono come zecche sulle schiene del lavoro degli altri.

E invece loro, “i negri”, si sono ribellati. E non solo: hanno denunciato. Con l’aiuto dei ragazzi di Addiopizzo hanno imparato in fretta le regole, le leggi, i diritti e i doveri.
E si sono presi il diritto di esercitare il dovere denunciare. Una rivoluzione. Mosche bianche, seppur dal Bangladesh. E mentre gli uomini della Squadra Mobile arrestavano i taglieggiatori nel blitz di primo mattino il quartiere ha scoperto che fidarsi dello Stato funziona.

Ieri a Ballarò i fragili per una volta hanno vinto sui prepotenti.
E i fragili hanno mostrato di essere fortissimi, più forti dei tanti “mimetizzati” che tacciono per non avere problemi. I perdenti per vocazione hanno sconfitto gli uomini d’onore e lo Stato ha fatto la sua parte. Chissà come ha sorriso, Falcone.

Buon martedì.

Lo scampato pericolo in Austria ennesimo segnale di un’Europa politica in crisi

Alla fine in Austria ha vinto l’ambientalista indipendente Sacha Van der Bellen: aveva bisogno del 60,3% dei voti postali per rimontare lo svantaggio rimediato alle urne. E ce l’ha fatta. È un’ottima notizia, ma il dato del voto austriaco resta inquietante: la metà esatta, meno qualche migliaio, di elettori di un Paese europeo, che non ha conosciuto crisi clamorose, che non è in preda a un’invasione e dove si vive bene – nel senso che il Paese resta ricco e ben organizzato – vota un candidato dell’estrema destra nazionalista.

Già, perché Hofer non è un candidato conservatore qualsiasi. La sua campagna elettorale era centrata sul pericolo invasione (di rifugiati siriani), su questo ha cercato voti. Tra le cose dette dal candidato del FPO c’è l’idea di espellere i musulmani, c’è un commento sull’aumento della diffusione delle armi in Austria, come «conseguenza naturale» dell’aumento dell’immigrazione. Lo stesso ingegnere ed ex guardia di frontiera, ha fatto campagna elettorale girando il Paese armato (c’è una foto sui suoi social, oggi sparita, nella quale lo si vede sparare assieme alla sua famiglia). E la promessa di presentarsi assieme al cancelliere ai vertici europei – oggi il presidente ha un ruolo istituzionale e poco politico – era un brutto segnale dell’idea di democrazia di Hofer: ho il mandato popolare e me ne infischio dei poteri attribuitimi dall’ordine costituzionale.

Un tema caro a Hofer riguarda da vicino l’Italia e non ha a che vedere con la chiusura del Brennero per fermare i flussi di immigrati: durante un comizio del 2015, il leader della destra nazionale austriaca si è detto a favore del ritorno del territorio dell’Alto Adige all’Austria o, almeno, alla necessità di concedere la doppia nazionalità ai cittadini italiani della provincia di Bolzano. Il valore simbolico di una sua elezione sarebbe stato enorme (in negativo).

Il risultato austriaco evidenza un’ulteriore spaccatura: quella tra centro e periferie, tra città, dove i fenomeni sociali sono più intensi ma le diversità già note da tempo, e le zone più remote e isolate, dove la paura aumenta alimentata da vecchi conservatorismi e paure del mondo che cambia (persino il voto per Trump nelle primarie repubblicane ricorda un po’ questa tendenza). La mappa qui sotto ne è una rappresentazione plastica: per Hofer hanno votato tutte le campagne, per Van der Bellen Vienna e le altre aree urbane (l’immagine è relativa ai voti espressi ai seggi, con il voto postale le zone verdi diventano più  verdi).

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Il fatto che in un Paese come l’Austria la metà della popolazione abbia votato l’estrema destra resta un segnale inquietante ed evidenzia, una volta di più, come lo status quo politico europeo stia andando in pezzi. Del resto, anche il vincitore della corsa all’ultimo voto (3mila la differenza esatta) è un outsider. L’anno prossimo si vota in Olanda e in Francia, due Paesi dove l’estrema destra è molto ben posizionata per ottenere risultati clamorosi – in Francia, un particolar modo.

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Il vento populista e nazionale che soffia in Europa è ben riassunto in una infografica pubblicata dal New York Times che sta facendo il giro della rete. I dati sono quelli che abbiamo collocato sulla mappa europea qui sopra: non tutti i partiti sono uguali, i quasi nazisti di Jobbik e dell’SNS Ceco e non sono come la destra francese e men che meno somigliano all’Ukip britannico, alcuni hanno ascendenze fasciste, altri sono nazionalisti, non vogliono immigrati ma sono antifascisti a parole (chi non ricorda le tirate sulla resistenza di Umberto Bossi, la cui Lega?). Insomma, anche la mappa della destra europea è frastagliata, unita solo e soprattutto dalla avversione all’accoglienza dei rifugiati e dall’odio verso Bruxelles. Anche nei Paesi dove la crisi economica non è arrivata in maniera così feroce o dove non si è posto il problema di accogliere rifugiati (la Polonia, ad esempio).  Le due crisi di questi anni – dei rifugiati ed economica – hanno alimentato un clima brutto e pericoloso in Europa e le elezioni austriache, che pure sono finite bene, sono qui a ricordarcelo.


Leggi anche:

Chi è Sacha Van der Bellen, il nuovo presidente austriaco

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Sulla rotta dei migranti (seconda puntata)

Centro di accoglienza, isola di Leros. © Filippo Luini

Sono 7 i fotografi italiani che Fondazione Fotografia Modena ha inviato in Grecia per documentare l’emergenza migranti. Questa è la seconda tappa del nostro viaggio con loro nella penisola ellenica, siamo stati a Idomeni con Simone Mizzotti e sull’isola di Leros con Filippo Luini.

 

Un’altalena a Idomeni

Asinet, bambina siriana di 7 anni, Idomeni © Simone Mizzotti Asinet, 7 anni, scappata dalla Siria. Hanno costruito un'altalena con i pochi mezzi a disposizione per poter offrire a lei e agli altri bambini del campo qualche momento di gioco e spensieratezza.
Asinet, bambina siriana di 7 anni, Idomeni © Simone Mizzotti
Asinet, 7 anni, scappata dalla Siria.
Hanno costruito un’altalena con i pochi mezzi a disposizione per poter offrire a lei e agli altri bambini del campo qualche momento di gioco e spensieratezza.

Asinet ha 7 anni e viene dalla Siria, è fuggita dal Paese assieme alla sua famiglia quando la guerra civile era già iniziata da qualche anno e le bombe si erano fatte sempre più frequenti. L’abbiamo trovata così intenta a dondolarsi su un’altalena costruita con mezzi di fortuna all’interno del campo profughi. È opera di alcuni rifugiati del campo che hanno pensato di ingegnarsi e recuperare qualche pezzo di legno e una corda per far giocare i loro figli. Trovare qualche ora di spensieratezza e giocare sono cose rare, ma per un bambino sono vitali quasi quanto il pane.

 

A Leros il centro di accoglienza di “mamma” Mattina

Centro di accoglienza, isola di Leros. © Filippo Luini
Centro di accoglienza, isola di Leros. © Filippo Luini

«Sull’isola di Leros passato e presente si incontrano» racconta Filippo Luini «una ex caserma costruita negli anni 20 dall’esercito italiano durante l’occupazione del Dodecaneso ora è diventata un centro di accoglienza. Qui vivono più di cento rifugiati provenienti da Siria, Iraq, Afghanistan e Pakistan. L’edificio si chiama “Pipka” ed è gestito da alcune ONG locali e straniere. È operativo dal 1 gennaio ed è un esempio virtuoso di gestione del problema dei richiedenti asilo. Durante il giorno i rifugiati sono liberi di uscire e possono decidere di passeggiare nelle strade della città, svolgere attività sportive o passare qualche ora in riva al mare. L’anima del progetto è una greca di nome Mattina, che tutti chiamano “Mamma Mattina”».


7 fotografi in grecia prima puntata

Leggi qui la prima tappa del viaggio.

Left è media partner di questo progetto realizzato da Fondazione Fotografia Modena.

Resistenza, partigiani e classe politica: una storia travagliata

Settant’anni dopo la nascita della Repubblica, si continua a litigare sulla Resistenza e i partigiani. La polemica nata dalle parole del ministro Boschi intervistata da Lucia Annunziata sui “veri partigiani” dell’Anpi che votano sì al referendum costituzionale, è solo l’ultimo episodio di un rapporto, quello della classe politica con la Resistenza, che non è mai stato del tutto all’insegna della pacificazione.
Ripercorriamo un po’ la storia. La prima miccia si accese addirittura ancora prima della stesura della Costituzione. Era il 22 giugno 1946, pochi giorni dopo il referendum del 2 giugno. Palmiro Togliatti, segretario del Partito comunista e ministro della Giustizia, scrisse di suo pugno quell’amnistia che avrebbe impedito a migliaia di criminali fascisti di entrare in carcere. Mimmo Franzinelli nel libro L’amnistia Togliatti (Mondadori 2006) racconta come quello che doveva essere un atto pacificatore, in realtà si trasformò in un atto di profonda ingiustizia, lasciando strascichi pesanti negli anni a venire. Furono amnistiati 5082 persone: 153 partigiani, 802 vari e 4127 fascisti. Un gruppo di partigiani contestò duramente il provvedimento di Togliatti: fu la rivolta di Santa Libera. Come ha raccontato Pino Tripodi autore del libro Per sempre partigiano (Deriveapprodi 2016) a Raffaele Lupoli in un articolo su Left del 16 aprile scorso, «i ribelli di Santa Libera non accettano che gli ideali della Resistenza rimangano parole vuote, che i padroni riprendano a governare, che le organizzazioni dei lavoratori facciano le belle statuine. Tolto dai piedi il fascismo, desiderano cambiamenti sociali radicali, riconoscimento pieno dei diritti dei partigiani. Si vedono invece messi ai margini».

Ma la Resistenza è indigesta anche negli anni successivi, quelli della guerra fredda. C’è da dire che metà Italia non aveva vissuto la lotta partita dal basso, né la guerra civile, come ben la definì Claudio Pavone nel suo libro fondamentale (Una guerra civile, Boringhieri, 1991). L’Italia del Sud, a parte Napoli che si era ribellata nelle famose “quattro giornate” (narrate nel bel film di Nanni Loy), era stata liberata dalle truppe alleate. Non c’era stata quindi la partecipazione attiva dei cittadini né tantomeno la popolazione aveva vissuto la violenza dello scontro tra repubblichini e partigiani. Finita la guerra poi non ci fu alcuna cesura nella burocrazia statale e nella magistratura. Le stesse persone continuarono ad assumere i ruoli che avevano durante il ventennio. Una ferita che ha pesato per decenni e che forse ha bloccato una seria riflessione su cosa sia stato il Ventennio. I massacri perpetrati dal regime fascista in Etiopia e nelle colonie, per esempio, sono venuti alla luce solo pochi decenni fa.

La Resistenza dunque negli anni della guerra fredda era negata. Anche perché veniva legata al partito comunista e quindi veniva rimossa dalla ufficialità della Repubblica come ricorda Guido Crainz in Autobiografia di una Repubblica (Donzelli, 2009). Insomma, erano passati solo dieci anni dalla Liberazione, ma nei nuovi media di Stato non se ne parlava affatto, tantomeno nelle scuole, dove i libri di storia arrivavano fino alla prima guerra mondiale. Racconta Crainz che soltanto con il governo Tambroni nel 1960 e l’intensificarsi dell’attivismo del Movimento sociale italiano, si arriva alla rinascita del valore politico della Resistenza. Anche se talvolta prevarrà una celebrazione retorica che non contribuirà a un serio dibattito su ciò che veramente è stata la guerra di Liberazione. Dagli anni 80 in poi si assiste ad un rallentamento dell’interesse storiografico sulla Resistenza e questa non compare nel discorso pubblico.

Si arriva così al 10 maggio 1996 quando Luciano Violante, proveniente dal Pci, nel suo discorso di insediamento come presidente della  Camera, pronunciò quella famosa frase sulla ricerca di una memoria condivisa «perché occorre sforzarsi di capire, senza revisionismi falsificanti, i motivi per i quali migliaia di ragazzi e soprattutto di ragazze, quando tutto era perduto, si schierarono dalla parte di Salò e non dalla parte dei diritti e delle libertà». Di memoria condivisa parlò anche Gianfranco Fini proveniente dalle fila dell’ex Movimento sociale, alcuni anni più tardi, anche lui come presidente della Camera dei deputati.
La frase di Violante sul tentativo di capire le “ragioni dei vinti” suscitò molte polemiche. Rinfocolate poi dal primo libro di Gianpaolo Pansa, Il sangue dei vinti, uscito nel 2003. Ecco dunque aprirsi un’altra ferita e un fiume di polemiche invase i giornali per alcuni anni, anche perché Pansa continuò a pubblicare libri in cui tra ricostruzione storica e narrazione romanzesca continuava a indagare sulle morti attribuite ai partigiani dopo la fine della guerra. Giorgio Bocca, altro grande giornalista e partigiano nelle formazioni di Giustizia e Libertà, del Sangue dei vinti aveva detto che era «una vergognosa operazione opportunista», continuando per anni un polemica a distanza con il collega piemontese. Fatto sta che l’operazione condotta da Gianpaolo Pansa non era caduta nel vuoto, anche perché quelli sono gli anni del governo di centrodestra guidato da Silvio Berlusconi. Il quale decide di presenziare ad un 25 aprile per la prima volta soltanto nel 2009, quando si recò ad Onna, il paese dell’Abruzzo distrutto dal sisma. Ma è meglio chiamare la festa della liberazione, festa della libertà, disse allora il premier di Forza Italia sottolineando anche la necessità di rispetto per tutti i combattenti, compresi i repubblichini che erano “dalla parte sbagliata”.

Infine, eccoci alle polemiche dei giorni nostri. Oltre al ministro Boschi ieri si è aggiunta anche Giorgia Meloni che, nel caso diventasse sindaco di Roma, ha annunciato, vuole intitolare una via a Giorgio Almirante, leader del Msi, definendolo «un patriota che credeva nella democrazia e nell’onestà». Peccato che avesse collaborato alla “Difesa della razza” nel 1938  che aprì la strada alle deportazioni degli ebrei, replicano la leader della comunità ebraica di Roma e il presidente romano dell’Anpi.  Come si vede, la Resistenza non è mai stata un patrimonio collettivo.

Pizzarotti protesta: «Sospensione illegittima, sia revocata», dice. Ma aspetta l’espulsione

14/06/2012, Parma, Insediamento del nuovo sindaco Federico Pizzarotti

«Luigi vieni a Parma, Luigi vieni a Parma». È inutile il coretto con cui alcuni militanti dei 5 stelle di Parma hanno inseguito Luigi Di Maio. «Ragazzi verrò col tour dei comuni», è la risposta che gli concede il vicepresidente della Camera, che nel direttorio del Movimento 5 stelle avrebbe la delega ai rapporti con i territori e con le amministrazioni 5 stelle, ma che evidentemente, con Federico Pizzarotti, non vuole avere a che fare.

E così «è paradossale», può dire il sindaco di Parma, sospeso da Movimento, «che in questi 10 giorni nessuno si sia fatto vivo. Sarebbe stato qualcosa di dovuto, utile e doveroso, rispetto anche a tantissimi attivisti ed eletti». Può dirlo, in conferenza stampa, quando ormai aspetta solo l’espulsione, sempre giudicato colpevole di non aver detto subito al garante Beppe Grillo di esser indagato per le nomine fatte al Teatro Regio nello svolgere le sue funzioni. Non conta che Pizzarotti dica che non poteva dirlo per non ledere la privacy degli altri indagati («Abbiamo tutelato i diritti costituzionali di altre persone che erano coinvolte nell’inchiesta», ripete); non conta che le indagini, per abuso d’ufficio, muovano, e lo facciano obbligatoriamente, da un esposto del Pd, dell’opposizione.

Si aspetta l’espulsione, Pizzarotti, dunque, anche se dice «non lascio il Movimento» e «non c’è nessun accordo con il Pd», cioè nessun paracadute. Va però allo scontro, il sindaco, e parla di «sospensione illegittima» e pone una condizione: sia ritirata, tutto torni come prima e si cerchi il dialogo. Si capisce però che non ci crede: «Nell’ultimo anno non ho parlato con nessuno del direttorio», aggiunge, «mi hanno evitato». E non si capisce perché ora qualcosa dovrebbe cambiare.

Si lamenta, Pizzarotti: «Siamo gli unici», dice, «ad aver pubblicato l’avviso di garanzia. Nogarin ha pubblicato altri documenti». Per Pizzarotti il sindaco di Livorno avrebbe goduto così di un trattamento di favore, perché – è il sottinteso – lui è fedele alla linea del direttorio e non osa mettere in dubbio le procedure del Movimento: «Non c’è un metro simile», continua il sindaco, «il Movimento ha usato metodi diversi con persone diverse. Servono regole univoche, chiare e applicabili per tutti». Il punto è se il Movimento le voglia avere.

Prolisseide: storia di come abbiamo conosciuto Andrea Pazienza

Paz è core - Antonio Pronostico

C’è una rubrica a fumetti di Andrea Pazienza alla quale finisco spesso per pensare negli ultimi tempi, si tratta della Prolisseide – Tutti gli uomini più importanti che mi hanno conosciuto (con i loro pregi e i loro difetti). Oggi – che di Paz sarebbe il sessantesimo compleanno – ho deciso quindi di riproporvi una piccola Prolisseide e raccontarvi la storia di come, a modo mio, ho conosciuto (anzi di come abbiamo conosciuto, ma questo lo capirete leggendo) Andrea Pazienza e soprattutto di ripercorrere un po’ la vita del genio di San Severo.

Una tavola de La Prolisseide di Andrea Pazienza. Dove Paz racconta che a 60 anni sarebbe voluto essere come Renato Nicolini, architetto che progettò a Roma il Quarticciolo e che militò fra le file del Partito Comunista Italiano.
Una tavola de La Prolisseide di Andrea Pazienza. Dove Paz racconta che a 60 anni sarebbe voluto essere come Renato Nicolini, architetto che progettò a Roma il Quarticciolo e che militò fra le file del Partito Comunista Italiano.

Cominciamo quindi dall’inizio. Ci sono personaggi che entrano nella tua vita così, d’improvviso. Ti si infilano piano piano sotto pelle e restano lì tutta la vita. 60 anni fa, il 23 maggio 1956 nasceva a San Benedetto del Tronto Andrea Pazienza. Re della matita e del pennarello, signore del fumetto italiano che Manara paragonava a Caravaggio. Io, bambina comune, con Paz, mi ci sono scontrata la prima volta a 5 anni. Ero con mio padre alla fiera del libro di Pordenone e lui mi comprò Il Bestiario.

andrea pazienza bestiario

Fu amore a prima vista. Custodivo il volume come un tesoro e lo mostravo fiera agli amichetti che venivano a trovarmi a casa. Soprattutto: passavo interi pomeriggi a tentare di copiare i suoi disegni sognando un giorno di diventare brava come lui. Questo ovviamente non è successo e alla fine ho fatto tutt’altro, ma poco fa ho scoperto che un colpo di fulmine simile – d’altronde per Paz non può che essere attrazione fatale – l’ha avuto anche Antonio Pronostico, illustratore, tra le altre cose, di Left.
In una fredda sera di novembre infatti, mentre passeggiavamo a Roma per le strade del Pigneto (ma quanto sarebbe stato bello se fossero stati i portici di Bologna!), Pronostico mi confessò di non aver mai preso una matita in mano prima dei vent’anni, finché un giorno – che dovete immaginare più o meno come una folgorazione sulla via di Damasco – non era incappato in un libro di Pazienza e: “boom!” aveva iniziato ossessivamente a cercare di riprodurre i suoi disegni e mentre copiava, imparava. Lui per davvero, non come me. Il gene di Paz gli era già scivolato sotto pelle, e allora cos’era quella vecchia velleità di diventare un designer industriale? Antonio adesso voleva fare l’illustratore. E infatti oggi, lo fa e per lui: Paz è core.

Paz è core, illustrazione di Antonio Pronostico
Paz è core, illustrazione di Antonio Pronostico

Queste sono solo due piccole storie personali, banali passioni di gente normale, nate per caso sfogliando un libro fatto da “uno” che era morto prima che noi capissimo di essere al mondo.
Eppure la grande forza del talento di Andrea Pazienza forse era anche questa: riuscire a travolgere in egual modo tanto le persone comuni, come mio padre alla fiera del libro, quanto attori, registi, cantanti (vi ricordano nulla le copertine dei dischi di Roberto Vecchioni?) e scrittori. I grandi uomini della sua Prolisseide che lo hanno conosciuto in carne e ossa e quelli che lo hanno incontrato in carta e inchiostro. Come il Premio Strega Nicola La Gioia che, nell’introduzione di Pentothal, il primo dei volumi della collana Tutto Pazienza curata da Repubblica/Fandango, parla così dell’artista di San Severo: «La sua arte avrebbe salvato molti di noi ma non se stesso. Oggi, a distanza di tempo ci ritroviamo sempre qui, bloccati tra rimpianto e gratitudine».

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D’altronde: «la pazienza ha un limite, Pazienza no», Andrea infatti comincia a disegnare da giovanissimo, «Il mio primo disegnino riconoscibile l’ho fatto a 18 mesi – dice in un numero di Corto Maltese del novembre 1983 – Era un orso. Questo testimonia quanto era forte in me il bisogno di disegnare». Figlio di un professore di educazione artistica, a 12 anni si trasferisce da San Severo, paesino in provincia di Foggia dove vive con la famiglia, a Pescara per frequentare il liceo artistico, qui conosce Tanino Liberatore con cui lavorerà in seguito.

 

«A vent’anni io credevo di fare la fotografa e lui di essere un genio, cosa di cui presto mi convinse»

Isabella Damiani, fotografa e amica di Paz

Nell’estate del 1972, a soli 17 anni, Paz decide di confrontarsi con Prévert così, armato di pennarelli e di un album da disegno A3, illustra con una serie di 17 tavole alcune delle opere dello scrittore francese. Un tentativo che Fernanda Pivano, nella prefazione del libro Prevert, Andrea Pazienza (Fandango Libri), descrive così: «È l’incontro di due artisti ugualmente popolari e anarchici, sperimentali e vernacolari, violentemente antiborghesi e iper-romantici, audaci e fortemente comunicativi. Sono tavole dense e complicate, realizzate eppure con un tratto semplice, essenziale. Traendo linfa da Prévert, Pazienza rappresenta l’orrore, la violenza, lo stupro, senza perdere mai di vista l’utopia e la bellezza attraverso un segno comico-grottesco, iperbolico».
Nel 1974 Andrea si trasferisce a Bologna per frequentare il Dams. Non si laureerà mai, dal diploma lo separerà un unico ultimo e temibilissimo esame: estetica con il Prof. Umberto Eco. Del quale però diventerà amico, tanto che sarà proprio Eco a fornire a Paz il primo contatto per cominciare a pubblicare su Alter Alter, rivista cult dove viene dato alle stampe per la prima volta Pentothal. È il 1977 ed è in quel momento che l’Italia si accorge del talento infinito di questo studente meridionale trasferitosi all’ombra delle due torri.

 

«Pazienza rappresenta l’orrore, la violenza, lo stupro, senza perdere mai di vista l’utopia e la bellezza attraverso un segno comico-grottesco, iperbolico»

Fernanda Pivano

Tra le persone che incrociano la vita di Andrea Pazienza c’è anche la fotografa Isabella Damiani. «A vent’anni io credevo di fare la fotografa e lui di essere un genio, cosa di cui presto mi convinse» racconta di lui Isabella. Paz la raffigura spesso anche nelle sue opere, oltre a evocarla come un miraggio nelle pagine napoletane di Pentothal, infatti la ritrae anche in alcuni quadri. E lo stesso fa lei con lui.

Andrea Pazienza visto da Isabella Damiani

Dopo essere diventato un punto di riferimento per il movimento studentesco bolognese, con l’avvento degli anni 80 il lavoro geniale di Pazienza comincia ad essere richiestissimo ovunque e Andrea inizia a collaborare con la rivista Frigidaire dando vita a un altro personaggio destinato a entrare nella storia del fumetto: Zanardi.

Mostra Andrea Pazienza in porto Genova

Pubblicità, poster, calendari, copertine di dischi, tutti vogliono un disegno di Andrea Pazienza. E lui disegna per tutti. La sua produttività è frenetica e inarrestabile, sforna tavole a fumetti in tempo record, realizza grafiche per le pubblicità e corti animati. Non si ferma un secondo, anche perché nella sua vita ha fatto capolino un nuovo amore devastante e molto dispendioso: l’eroina.

Mostra Andrea Pazienza in porto Genova

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Un amore che Paz racconta in Pompeo, un diario tormentato fatto di pagine sgualcite – recuperate indifferentemente da un album, dalla carta per fotocopie o da un quaderno a quadretti – che si trasforma nella cronaca di una morte annunciata. Quella del protagonista, ma ancor più quella del suo alterego reale: l’autore.

Mostra Andrea Pazienza in porto Genova

«Così finisce l’ultima puntata di Pompeo e, presumo, anche un lungo capitolo della mia vita… In questi anni ho scoperto di non essere un genio. Perché sì, lo confesso, da ragazzo ci speravo. Invece no, sono un fesso qualsiasi. Però, c’è sempre un però, è vero, sono un disegnatore eclettico. Un disegnatore ecletto-sfaticato. Poi ho scoperto di non essere attendibile, e di non essere tante altre cose…» scriveva così Andrea Pazienza nella pagina successiva all’ultima tavola di Pompeo, quella in cui il suo eroe-alterego: «Si buttò come fosse stato, all’improvviso, spintonato».
In perfetto stile pazienziano visto che Andrea era solito dire: «mai tornare indietro, nemmeno per prendere la rincorsa».

Mostra Andrea Pazienza in porto Genova

Ora, tornando con la nostra pseudo Prolisseide al punto da dove siamo partiti: qualche giorno fa, a casa di Antonio Pronostico, sul divano rosso del salotto, ho trovato un libro Morti favolose degli antichi, di Dino Baldi (Quodlibet). Voi direte e ora che c’entra? C’entra. Perché nella prefazione Baldi si prende la briga di spiegare che gli antichi non avevano quest’ossessione per la vita a tutti i costi che abbiamo noi, per loro la morte era un momento importante, forse anche più della nascita, perché era il coronamento di un’esistenza. E più un uomo era stato grande in vita più la sua morte doveva essere magnifica, scenografica ed esemplare. Ecco, ho pensato che anche per Andrea Pazienza – che con gli antichi ha in comune forse l’animo, ma sicuramente l’esser ormai parte del mito – debba essere così. E che forse, il modo migliore per concludere questa storia e raccontare quel 16 giugno 1988, è far fare la cronaca della vicenda allo stesso Paz, fumettista, genio, illustratore. E per l’occasione profeta:

«Mi chiamo Andrea Michele Vincenzo Ciro Pazienza, ho ventiquattr`anni, sono alto un metro e ottantasei centimetri e peso settantacinque chili. Sono nato a San Benedetto del Tronto, mio padre è pugliese[…]. Disegno da quando avevo diciotto mesi, so disegnare qualsiasi cosa in qualunque modo. Da undici anni vivo solo. Ho fatto il liceo artistico, una decina di personali e nel `74 sono divenuto socio di una galleria d`arte a Pescara: “Convergenze”, centro di incontro e di formazione, laboratorio comune d`arte. Sempre nel `74 sono sul Bolaffi. Dal `75 vivo a Bologna. Sono stato tesserato dal `71 al `73 ai marxisti-leninisti. Sono miope, ho un leggero strabismo […]. Dal `76 pubblico su alcune riviste. Disegno poco e controvoglia. Sono comproprietario del mensile “Frigidaire”. Mio padre, anche lui svogliatissimo, è il più notevole acquerellista ch`io conosca. Io sono il più bravo disegnatore vivente. Amo gli animali ma non sopporto di accudirli. Morirò il sei gennaio 1984».

Da un articolo apparso su Paese Sera il 4 gennaio 1981.

Elezioni in Spagna, Sánchez prova a smarcarsi da Podemos. Ma non troppo

epa05265210 Leader of the Spanish socialist party (PSOE), Pedro Sanchez, attends a meeting of the PSOE Federal Executive Committee to decide the new steps to negotiate a new Government before the dead line to avoid new elections in Madrid, Spain, on 18 April 2016. Amidst the country's current situation of political paralysis with no agreement between parties to form Government before the deathline set on 02 May, Spain's King Felipe VI has announced a new round of negotiations with political leaders on 25 and 26 April to resolve if he proposes a new candidate for the Presidency or proceeds to dissolve the Parliament in order for new general elections on 26 June 2016. EPA/JAVIER LIZON

«Se la mia vittoria deve dipendere dai voti di Pablo Iglesias, non c’è alcuna possibilità di avere una presidenza a guida socialista. Se dipendo da iglesias, ne sono convinto, non diventerò mai primo ministro». Il leader del Psoe Pedro Sánchez, a poco più di un mese dalle elezioni in Spagna, mette in chiaro la sua posizione nei confronti della formazione guidata da Pablo Iglesias.

Le due forze politiche sono ormai ai ferri corti, consapevoli che la battaglia elettorale si vince se si conquistano i voti a sinistra. Non a caso Podemos ha annunciato, le scorse settimane, la sua alleanza con Izquierda unida di Alberto Garzon alle elezioni del 26 giugno, con i sondaggi che danno il tandem Iglesias-Garzon attorno al 22% dei consensi.

Da qui la contromossa del socialista Sánchez, che per depotenziare l’alleanza di Unidos Podemos ha lanciato un appello per il voto «senza intermediari», affermando che «gli spagnoli devono riflettere sull’utilità del loro voto» e sul fatto che l’uniione tra Podemos e Izquierda unida «cambia l’ordine dei fattori ma non cambia il risultato».

Sánchez ha spiegato che il Psoe è l’unica garanzia di cambiamento per la Spagna, evocando un rapporto compicato con la formazione guidata da Iglesias, che dice di volere un accordo con il Psoe soltanto se vince Podemos. Ciò nonostante il leader socialista, che già ha dovuto rinunciare all’incarico di primo ministro per il veto di Podemos a un accordo con i centristi di Ciudadanos, non sbatte la porta e, anzi, si impegna a «essere generoso» con la formazione di Iglesias e «a lasciar da parte le divergenze del passato».

Un’apertura necessaria davanti ai tentativi di guadagnare consensi del premier uscente Mariano Rajoy. Il leader dei popolari ha ottenuto nei giorni scorsi un generoso lasciapassare dall’Europa, che ha deciso di rinviare a luglio le sanzioni per il deficit eccessivo (al 5,1% del Pil anche nel 2015), e al contempo ha promesso alla Commissione nuovi interventi strutturali in caso di rielezione: «Una volta che ci sarà un nuovo governo, siamo pronti a intraprendere ulteriori misure» ha scritto il primo ministro in una lettera insdirizzata alla Commissione Ue.

Al Vertice Onu, Erdogan incalza l’Europa su rifugiati e Siria

Oggi si apre a Istanbul il primo Vertice mondiale umanitario, un appuntamento fissato nel 2012 dalle Nazioni Unite che raccoglierà capi di Stato, ministri, alti funzionari e organizzazioni internazionali e che assume, per le circostanze in cui si svolge, un carattere speciale. Per posizione geografica e atteggiamento politico-diplomatico tenuto in questi anni, Ankara è al centro della crisi umanitaria siriana e irachena. Il vertice è convocato per ripensare la politica umanitaria Onu nel suo complesso, ma come capita sempre a queste occasioni, si svolgerà su due piani paralleli: quello generale, delle politiche e linee guida e poi i rifugiati.

Proprio di questi parla il presidente turco Erdogan in un articolo a sua firma pubblicato stamane sul Guardian. E paradossalmente – sebbene molto strumentalmente – dice delle cose sensate. Condite con dei toni arroganti e molto compiacenti nei confronti del proprio Paese, le parole di Erdogan puntano il dito contro il fallimento dell’Europa. Erdogan ricorda come la Turchia si sia fatta carico di una marea umana senza precedenti «mentre la comunità internazionale evitava di condividere le responsabilità» che venivano da quella crisi «mentre la Turchia e gli altri Paesi confinanti venivano lasciati soli». Erdogan gioca un po’ alla geopolitica: parlando della necessità di rovesciare Assad e di combattere l’Isis e attacca Bruxelles sostenendo – quasi a ragione – che fino a quando non sono arrivate le barche cariche di persone e le bombe dell’Isis, tutti hanno guardato dall’altra parte mentre la polveriera siriana era già esplosa e atrocità venivano commesse.

Su questo Erdogan chiede, rivolgendosi ai membri permanenti (o meglio, a russi e americani) che il Consiglio di sicurezza Onu si muova: per la Turchia muoversi significa rimuovere Assad e bombardare l’Isis. Naturalmente Erdogan sorvola sulle sue crisi, sulle bombe sganciate sui curdi siriani, considerati una minaccia perché alleati con il Pkk turco – il parlamento turco ha votato una legge che elimina l’immunità per i parlamentari, un provvedimento che tutti indicano come diretto a consentire alla polizia di incarcerare deputati dell’Hdp, la sinistra laica e filo-curda.

epa05248126 Refugee children along with their mothers stand in front of riot policemen during a protest demanding the opening of the borders at the border line between Greece and FYROM at the refugee camp of Idomeni, Greece, 07 April 2016. Migrants who refuse to apply for asylum are to be deported to Turkey, in accordance with a tit-for-tat agreement between the European Union (EU) and Turkey on the refugee and migration crisis. EPA/KOSTAS TSIRONIS
Rifugiati siriani e polizia macedone alla frontiera con la Grecia (Epa/K. Tsironis)

L’articolo di Erdogan ha un chiaro obbiettivo: far funzionare l’accordo con l’Europa e irrobustirlo. Funzionari turchi hanno detto al Guardian che sperano che l’Europa si faccia carico di mezzo milione di persone – la Turchia ne ospita due milioni. L’Europa ha tutte le colpe possibili, nel suo complesso e nel caso dei singoli Paesi. I due piani approvati dai consigli dei ministri europei, quello di redistribuzione interna delle persone già presenti sul territorio europeo hanno partorito dei topolini molto piccoli: il primo prevedeva la redistribuzione di 160mila persone e in sei mesi siamo al massimo a poche migliaia (se nelle ultime settimane c’è davvero stata un’accelerazione); il secondo e controverso accordo, che prevede il ritorno in Turchia delle persone che sbarcano in Grecia e per ogni riammesso in Turchia un ingresso legale in Europa, ad oggi, ha determinato l’arrivo entro i confini europei di 177 persone.

Il problema dei vertice è che i governi nazionali, che pure possono essere pronti a donare e impegnare più risorse, non vogliono nella maniera più assoluta accogliere persone. Le nuove rotte, che riguardano l’Italia, la tensione con l’Austria, proprio a causa della nuova direzione presa dai flussi migratori, segnalano una volta di più quanto i rischi di un fallimento del summit siano dietro l’angolo. Non a caso diverse organizzazioni internazionali ne hanno criticato l’agenda e l’organizzazione. Medici Senza Frontiere ha addirittura ritirato la propria partecipazione definendo il vertice una «foglia di fico dei fallimenti umanitari». I problemi posti da crisi come quella seguente al terremoto nepalese – che richiedono capacità di intervento ma non grandi sforzi diplomatici – sono anni luce distanti da quelli relativi alla crisi siriana. Da un lato c’è bisogno di organizzazione, impegno e risorse, dall’altro di tutte queste, ma anche di politica, diplomazia, accordi internazionali e pressione economica (o persino militare).

Raccogliere tutte le crisi, radunare tutti assieme, significa aumentare il rischio di rendere questo vertice un «parlatoio molto costoso», come lo ha definito Oxfam. Del resto, gli accordi con la Turchia e le ipotesi di aprire hotspot per rifugiati in Paesi africani il cui pedigree in materia di rispetto dei diritti umani è tutt’altro che buono, è un segnale di come le preoccupazioni politiche dei singoli Paesi europei facciano passare in secondo piano legalità, ideali di accoglienza e crisi umanitarie. Probabilmente alcune scelte si prenderanno, ma solo e soprattutto perché, a latere del vertice, si svolgeranno incontri e riunioni bilaterali e multilaterali. A Istanbul ci sarà Merkel, che con la Turchia discuterà di rifugiati. Forse si parlerà anche della guerra in Siria e di come uscirne, ma non ci sarà Putin, e senza di lui, parlare di Assad è praticamente inutile.


Il vertice umanitario di Istanbul in cifre

  • 125 milioni di persone hanno bisogno di assistenza umanitaria, più di 60 milioni sono sfollati e 218 milioni sono stati colpiti da calamità naturali negli ultimi due decenni.
  • 38 milioni sono le persone sfollate all’interno dei loro Paesi, 20 milioni i rifugiati, 2 milioni i richiedenti asilo.
  • Tra 2008 e 2014 184 milioni sono stati  evacuati o hanno dovuto lasciare le loro case a causa di un disastro. Una al secondo.
  • Oggi si spendono 25 miliardi di dollari per far fronte alle crisi umanitarie – 12 volte più che nel 2001 – per aiutare chi ha bisogno di assistenza. Secondo un rapporto Onu sono necessari altri $ 15 miliardi.
  • Il vertice si svolgerà su cinque assi, alcuni dei quali hanno risposte concrete, altri vaghi e tipicamente Onu: la prevenzione dei conflitti e la chiusura di quelli esistenti; rispetto delle regole internazionali di guerra; lavoro per includere tutti nel lavoro per lo sviluppo sostenibile; lavorare in modo nuovo per ridurre i bisogni.
  • Al vertice parteciperanno 5mila persone, tra ministri, funzionari, rappresentanti delle Ong e del settore privato