Home Blog Pagina 1157

Nuova ondata di arresti in Egitto, la protesta della famiglia Regeni per Ahmad Abdullah

Egyptians demonstrate against President Abdel-Fattah el-Sissi in Mesaha square in Cairo's Dokki district, Monday, April 25, 2016. Police fired tear gas and birdshot on Monday to disperse hundreds of demonstrators calling on el-Sissi to step down over his government's decision to surrender control over two strategic Red Sea islands to Saudi Arabia. (AP Photo/Mostafa Darwish)

I genitori di Giulio Regeni hanno condannato l’arresto di Ahmad Abdullah, un attivista per i diritti umani al Cairo che lavora come loro consulente legale in Egitto. In una dichiarazione, scrivono di essere addolorati per la recente ondata di arresti in Egitto di attivisti, avvocati e giornalisti, alcuni dei quali sono stati «Coinvolti direttamente nella ricerca della verità sul rapimento, la tortura e l’uccisione di Giulio».

L’arresto di Abdullah, dicono i Regeni, è particolarmente sensibile per il ruolo che l’organizzazione da lui diretta, la Commissione egiziana per i diritti e le libertà, svolge. Abdullah è stato arrestato lunedì da poliziotti pesantemente armati, arrivati ​​su quattro furgoni ed entrati a forza in sua casa alle 3 del mattino, hanno sequestrato il suo telefono cellulare e il computer portatile per poi arrestarlo.È accusato di istigazione alla violenza per rovesciare il governo, adesione a un gruppo “terroristico” e promozione del “terrorismo”.
Amnesty International ha protestato per l’ondata di arresti in varie occasioni spiegando che almeno 238 persone, tra cui attivisti e giornalisti locali e stranieri, sono state arrestate in varie città dell’Egitto il 25 aprile, giorno in cui si celebra il ritiro nel 1982 di Israele dalla penisola del Sinai. Almeno altre 90 persone erano state arrestate tra il 21 e il 24 aprile. Gli arrestati dovranno rispondere di varie accuse, tra cui reati contro la sicurezza nazionale e violazioni della legge antiterrorismo e della legge sulle proteste. Tra le persone arrestate figurano la nota attivista Sanaa Seif, l’avvocato Malek Adly.

L’ondata di perquisizioni e arresti al Cairo ricorda da vicino quella che precedette e seguì le proteste programmate per lo scorso 25 gennaio – il giorno in cui Giulio Regeni è scomparso. Quelle proteste erano previste in occasione del quinto anniversario della rivolta di piazza Tahrir. Abdullah in quell’occasione disse di avere evitato l’arresto. L’ondata di questa volta ha preceduto le manifestazioni previste per il 25 aprile (ieri), convocate per protestare contro la cessione di due isole egiziane all’Arabia Saudita.

Le proteste di questi giorni, disperse con violenza dalla polizia, che ha fatto in modo che nessun raduno diventasse di massa, sono le più grandi e costanti da quando al Sisi ha preso il potere. Nei giorni scorsi decine di persone sono state arrestate in diverse province.

La Commissione egiziana per i diritti e le libertà è sotto pressione costante da parte delle egiziane perché registra traccia delle sparizioni forzate. Nel suo rapporto 2015, ha nominato 340 casi di sparizioni tra agosto e novembre 2015, circa tre casi al giorno.

Lussemburgo ed evasione fiscale, al via il processo contro le gola profonda di LuxLeaks

epa05277747 Defendant, former employee of PricewaterhouseCoopers, Antoine Deltour (C) leaves on the first day of the LuxLeaks whistleblower trial in Luxembourg, 26 April 2016. Three men, two former employees of accounting firm, PricewaterhouseCoopers (PwC), and a journalist, are facing trial accused of leaking thousands of confidential documents revealing corporate tax deals. EPA/JULIEN WARNAND

«Ero alla ricerca di file di training nel network aziendale perché avevo deciso di lasciare il lavoro quando mi sono imbattuto in una cartella, che era facilmente accessibile da chiunque in azienda, che conteneva centinaia di decisioni fiscali, che ho copiato». Così ha detto a Le Monde Antoine Deltour la gola profonda che ha passato alla stampa 28mila pagine riguardanti gli accordi per aggirare le tasse tra 350 corporations e il governo del Lussemburgo. Deltour ha spiegato di essere rimasto di stucco nello scoprire come gli accordi abbiano consentito ad alcune multinazionali di pagare tasse in percenutale ridicola – in alcuni casi l’1%.

Il dossier diffuso da Deltour, ex dipendente di PriceWaterhouse&Coopers (PwC) è passato alla storia come LuxLeaks ed è la rivelazione più clamorosa sulle modalità attraverso le quali le multinazionali aggirano le tasse prima dei Panama Papers.

Contro Deltour è cominciato oggi il processo per furto, violazione del segreto professionale e accesso non autorizzato a un database. La pena massima a cui potrebbe essere condannato è dieci anni di prigione. La verità è che senza quella fuga di notizia non avremmo saputo degli accordi tra Lussemburgo e le corporation e l’Unione europea, che in questi mesi si sta muovendo per far pagare le tasse sui profitti fatti nei singoli paesi, alle multinazionali che le aggirano, non avrebbe mosso un dito.
Oggi, invece, la Commissioni sta adottando misure che costringeranno le varie Apple, McDonald e Amazon a pagare quanto devono. Tanto è vero che Deltour ha anche vinto il premio Cittadino europeo assegnato dal Parlamento di Strasburgo e che una petizione in suo favore ha raccolto 115mila firme (oltre che 20mila euro per le spese legali).

 

Assieme a lui a processo anche il giornalista che ha ricevuto le carte, Edouard Perrin. Il tema, ancora una volta, è come proteggere chi rivela notizie scomode, che si tratti di carte che testimoniano l’evasione e la fuga di capitali a quelle che rivelano come alcuni governi raccolgano segretamente dati e comunicazioni di tutti noi.

Le 28mila pagine di LuxLeaks hanno rivelato come l’amministrazione lussemburghese, all’epoca guidata dall’attuale presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker abbia negoziato segretamente con le multinazionali dei pacchetti per far aggirare le tasse che sebbene in Lussemburgo siano fissate al 29% vengono abbassate con stratagemmi di trasferimento di fondi, assunzione di perdite da parte di filiali straniere – che diventano sgravi per le sedi lussemburghesi – tutti perfettamente legali nel Granducato membro dell’Unione europea. Tra le imprese coinvolte nei LuxLeaks ci sono Ikea, Amazon, Fiat, Finmeccanica, Apple, Heinz, FedEx, Gazprom. Ma l’elenco è molto lungo. Lussemburgo, che è un Paese piccolo, guadagnava nell’incamerare poche tasse da molte compagnie e dal volume di affari generato dalla quantità di servizi di cui queste hanno bisogno, gli altri Paesi europei ci perdevano- perdono – in raccolta fiscale.
La federazione europea dei giornalisti ha commentato l’apertura del processo dicendo che «È una vergogna che le autorità del Lussemburgo decidano di perseguire un giornalista che ha agito nel nome dell’interesse pubblico. Le autorità dovrebbero immediatamente far cadere le accuse contro Perrin».

«Il governo del Messico ha depistato le indagini sui 43 studenti scomparsi»

epa05276198 Relatives of the 43 missing Mexican students of the school of Ayotzinapa, who were last seen on 26 September 2014 in Iguala, Guerrero State, hold up banners as they attend the presentation of the Interdisciplinary Group of Independent Experts (GIEI) second report on the students' case in Mexico City, Mexico, 24 April 2016. Banners reading 'We Are Missing 43!' The group that investigates the violent facts related to the students' disappearance presented its second report. EPA/SASHENKA GUTIERREZ

Se c’è una certezza nella tragica vicenda che ha visto la sparizione – e probabilmente la morte – di 43 studenti a Iguala, in Messico, è che il governo ha partecipato attivamente a depistare le indagini. La seconda certezza è che nella fossa comune che contiene i resti carbonizzati di 17 persone identificata dagli investigatori messicani a Cocula non ci sono i corpi di quegli studenti – il che getta un ulteriore luce sinistra sul Messico, dove si trovano fosse comuni contenenti persone che non si sa da dove vengano. Queste sono le conclusioni del gruppo di esperti internazionali incaricati di rivedere tutti i fascicoli e ascoltare le testimonianze relative alla sparizione. Le responsabilità, secondo gli esperti, arrivano fino al vertice della Capitale federale, non sono depistaggi di politici e polizia locale, è il governo del presidente Enrique Pena Neto ad essere chiamato in causa.

La notizia risale a domenica, ma vale la pena di riprenderla: nella loro relazione finale gli esperti respingono in maniera secca le conclusioni delle indagini ufficiali. «I ritardi nella raccolta delle prove che avrebbero potuto essere utilizzate per indirizzare le indagini si traducono in un incentivo all’impunità» si legge nella relazione degli esperti incaricati dalla Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani (CIDH).

Le testimonianze raccolte parlano di una notte di terrore, di un assalto dei mezzi della polizia agli autobus degli studenti che avevano partecipato a una manifestazione di protesta e di minacce da parte della polizia: «Vi ammazziamo tutti, dicevano» racconta uno degli autisti a cui è stata puntata una pistola al petto. Gli studenti sono stati caricati su mezzi militari sotto lo sguardo vigile di poliziotti statali e federali e dopo di allora nessuno li ha più visti. Ma i loro telefoni sono rimasti attivi per ore o, in alcuni casi, per giorni.

Gli studenti avevano dirottato una serie di autobus di linea per andare alla manifestazione – un episodio piuttosto comune – ed erano stati inseguiti dalla polizia. Nella notte che è seguita ci sono stati scontri, colpi di arma da fuoco da parte dei poliziotti e anche attacchi ad autobus che viaggiavano sulle stesse strade e che nulla avevano a che vedere con gli studenti. Il conducente e un giocatore di una squadra di calcio dilettantistica sono morti in seguito a spari da parte di un gruppo nel quale si riconoscevano anche divise.

Nelle ore successive in tutta la zona circostante ad Ayotzinapa, da dove erano partiti gli studenti, sono comparsi e scomparsi posti di blocco dai quali partivano colpi di arma da fuoco. Persino una conferenza stampa improvvisata è stata interrotta da due auto i cui occupanti, dopo aver fatto le foto ai presenti, hanno aperto il fuoco. Il corpo di uno studente presente sul luogo e fuggito, è stato ritrovato con muscoli strappati e diverse fratture sul cranio. La sua morte e quella degli altri giovani scomparsi la notte del settembre 2014 continua a essere un’ombra colossale sulle autorità messicane.

 

Trent’anni dopo Chernobyl

Non sappiamo esattamente quanta gente sia morta a causa del collasso del reattore il 26 aprile del 1986 a Chernobyl. I morti nell’immediato furono circa 50, ma le stime su quanti si sono ammalati e sono morti a causa dell’esposizione alle radiazioni negli anni successivi oscillano tra 9mila e 9omila (un dato di Greenpeace). Ancora oggi nelle zone di confine tra Ucraina e Bielorussia nascono bambino con deformazioni e danni causati dalle radiazioni e alcune aree sono ancora radioattive. Oggi si tratta di costruire un sarcofago di cemento per riporre l’uranio rimasto nel reattore, che sta lentamente invecchiando. Per completarlo servono 2 miliardi di euro.

Quello di Chernobyl è a tutt’oggi il peggior incidente nucleare della storia e oggi è stato celebrato con le sirene e i parenti del personale della centrale, che viveva in quella che oggi è la città fantasma di Pripyat, che è andata a visitare le proprie case. «C’è una foresta di alberi in casa mia», racconta una donna alla Bbc. Qui sotto delle foto delle commemorazioni, dei giorni della fuga nucleare e dei decenni passati. Foto di Pripyat abbandonata, di luoghi coperti di polvere radioattiva (come i mezzi allineati ad arrugginire).

[huge_it_gallery id=”183″]

Usa, l’alleanza repubblicana anti-Trump tracolla prima di partire

Una tregua durata un battito di ciglia: la santa alleanza tra Ted Cruz e John Kasich per fermare Donald Trump collassa 24 ore dopo essere stata annunciata, contribuendo a rilanciare l’immagine di un partito repubblicano messo male e proiettando, una volta di più, una luce sinistra sulla convention di luglio a Cleveland.

Il senatore texano e conservatore e il governatore dell’Ohio, il moderato Kasich, che Trump definisce in un tweet “1/38”, perché fino ad oggi ha vinto solo nel suo Stato, si erano accordati per lasciarsi reciprocamente spazio nel voto per le primarie in tre Stati. Kasich avrebbe evitato di mobilitare i suoi in Indiana e Cruz avrebbe restituito il favore in Oregon e New Mexico. Il loro è un calcolo banale: fare in modo che Trump non arrivi alla convention con 1237 delegati, il numero necessario per ottenere la nomination senza fare alleanze. Lavorando ciascuno per conto suo, stringendo alleanze con altri, sia Kasich che, soprattutto Cruz, sperano di sfilare la nomination al miliardario newyorchese che, comunque vada, sarà la persona a portare più delegati alla convention di luglio a Cleveland.

Un giorno dopo, però, Kasich ha fatto in modo di ricordare che lui in Indiana corre ancora incontrandosi con un senatore locale, dicendo in conferenza stampa: «Chi mi sostiene deve votare per me, non ho mai detto di non farlo» e annunciando la partecipazione a una raccolta fondi per la sua campagna nello Stato. Lo stesso dove gli alleati di Cruz continuano a comprare spazi televisivi per attaccarlo (qui sotto uno spot che è un segno di disperazione: “Volete fermare Donald Trump, allora fate il calcolo dei delegati”, non proprio un argomento politico con il quale convincere un elettore X, al massimo un quadro di partito).


La verità è che l’accordo non aveva senso per diversi motivi. I primi due: chi intende votare il moderato Kasich difficilmente sceglierà l’ultraconservatore Cruz (e viceversa), l’accordo è un perfetto argomento per la retorica anti Washington di Trump, che infatti ha azzannato i due ai polpacci. Ecco qualche riga della nota diffusa alla stampa. I concetti sono espressi con la solita enfasi, ma la verità è che la nota non fa una piega.

Gli accordi segreti sono illegali in molti settori, eppure i due insider di Washington hanno dovuto farne uno pur di rimanere in vita. Sono matematicamente morti e l’accordo mostra solo quanto siano deboli e quanto siano le marionette in mano ai loro finanziatori e di interessi particolari. Ho aggiunto milioni di elettori alle primarie repubblicane e ho ricevuto molti milioni di voti in più rispetto Cruz o Kasich. Inoltre, sono molto più avanti di entrambi i candidati con i delegati (…) Grazie a me tutti si sono resi conto del fatto che il sistema delle primarie repubblicane è truccato. Due candidati che non hanno possibilità di vittoria si uniscono per fermare un candidato che sta espandendo la base del partito sono l’esempio perfetto di tutto ciò che è sbagliato nel nostro sistema politico.

Il risultato dell’accordo già saltato, che avrebbe avuto senso molti mesi fa, rischia di essere un incentivo ai sostenitori di Trump ad andare a votare. Come anche le notizie che arrivano dalle convention statali dove si è già votato e dove Trump ha vinto, che stanno spesso assegnando delegati a Cruz grazie a un uso spregiudicato delle regole – in alcuni Stati il delegato alal convention deve votare il candidato per il quale è stato nominato solo al primo scrutinio, in altri non c’è vincolo di mandato. Trump accusa la campagna Cruz di aver comprato delegati.
Oggi intanto saranno gli elettori di 5 Stati a scegliere chi vorrebbero nominare, sia per i repubblicani che per i democratici. Pennsylvania, Connecticut, Rhode Island, Maryland e Delaware sceglieranno con ogni probabilità Trump e Clinton, rendendo la battaglia di Cruz e Kasich pura matematica dei delegati – non n bello spettacolo – e avvicinando Hillary alla nomination. In casa democratica la grande incognita è come reagiranno quelle migliaia di persone che continuano ad affollare i comizi di Bernie Sanders quando dovranno sostenere Clinton. Il team dell’ex first lady ha cominciato a cercare un vicepresidente da candidare, tra le possibilità in campo si dice ci sia anche Elizabeth Warren, che sarebbe una figura perfetta per convincere i “Bernie boys”. Difficile che Hillary si metta in casa un figura tanto ingombrante, ma sarebbe divertente.

La nuova lotta alla corruzione: negarla.

Il presidente dell'Associazione nazionale magistrati, Piercamillo Davigo, a Pisa il 22 aprile 2016. ANSA / FRANCO SILVI

Mettere sotto processo un magistrato per una frase che non ha mai pronunciato è l’ultima frontiera di un governo che usa il machete contro gli avversari ma pretende al massimo qualche carezza servile. L’irritabilità con cui Renzi (e i soliti renzini servetti) ha risposto alla frase (non detta) di Piercamillo Davigo è una tessera del puzzle del berlusconismo che fu caduta sull’Italia di oggi; e ovviamente il pezzo si incastra alla perfezione. Non è cambiato nulla, anzi peggio: è andato in scena un fragoroso cambiamento perché nulla cambiasse davvero, il remake de ‘Il Gattopardo’ in versione paninara con Fonzie al posto del Principe Salina.

Ma ciò che conta, al di là dei soliti miseri e guasconi comportamenti, è il senso della risposta che Matteo Renzi ha voluto confezionare per la stampa di Stato: «i giudici parlino con le sentenze» ha tuonato, inconsapevole di vivere in un Paese (e guidarlo, toh, pensa te) in cui la sentenza è il traguardo di un labirintico percorso ad ostacoli tra leggine “salvapotenti”, avvocati “succhiapallottole” e prescrizioni sempre in agguato. E se davvero dovessimo seguire l’ultimo comandamento secondo Matteo dovremmo rispondere che il governo risponda con le leggi, piuttosto, come quella per cancellare la vergogna italica della prescrizione a orologeria che l’Europa ci chiede da tempo.

Se alla politica fosse tolta la parola lasciandola solo all’azione (il legiferare, appunto) e la magistratura pensasse solo ai processi (senza parola come vorrebbero loro) forse basterebbe un mese per notare chi ne sarebbe smutandato per primo. Lui, Renzi, l’iniettore seriale di ottimismo, sogna un’Italia in cui i panettieri panificano, gli attori attorano, i giornalisti giornalano e nessuno si permetta di proferire parole per non disturbare il manovratore. Il dialogo o peggio ancora il dibattito non sono consentiti: l’interazione che ci è concessa sta nel cliccare cuoricini nella sua diretta settimanale su Facebook, si vede.

Eppure Davigo (che della riservatezza tra l’altro ha fatto una matrice professionale) disse giusto qualche giorno fa (era il 3 aprile di quest’anno): «Parlamento e governo sono liberi di fare le leggi che vogliono. Anche di depenalizzare i reati tributari, se l’Europa glielo permette. Ma non possono dire che così combattono l’evasione fiscale». Ecco, il punto sta tutto qui: se è vero che in democrazia (e sulla “democrazia” degli ultimi governi italiani ci sarebbe da scriverne un libro) un governo può legiferare come meglio ritiene opportuno è la stessa democrazia a pretendere che si sottoponga al giudizio continuo di chi opera in diversi ruoli, a tutti i livelli. Se siamo un Paese in cui un corrotto o un corruttore ha la stessa possibilità di finire in carcere di un cammello che passi  dentro la cruna di un ago ci sono solo due possibilità: o che le leggi non funzionino o che la corruzione sia più abile della nostra classe dirigente. E poiché corruzione e Stato fanno lo stesso mestiere (gestiscono denaro pubblico) o si dovrebbero fare la guerra fino allo stremo oppure convivono perché si sono messe d’accordo. Non serve un Davigo per seguire la logica.

Di sicuro c’è che la storia d’Italia ci ha insegnato qualcosa: negare un fenomeno è il più grande favore che si possa fare ai criminali che lo alimentano. Anche se non piace a Renzi.

La Resistenza raccontata ai bambini. Nel libro illustrato di Paola Soriga

La guerra di Martina illustrazioni di L. Terranera

Nel romanzo Dove finisce Roma (Einaudi) La scrittrice Paola Soriga aveva ricreato la memoria della Resistenza in modo originale, usando la fantasia per trasmettere il senso più profondo di quelle importanti pagine di storia. Ora torna a raccontare quel periodo in un libro illustrato dedicato ai più piccoli, La guerra di Martina (Laterza), con belle tavole di Lorenzo Terranera (di cui trovate qui alcuni splendidi esempi).

Immaginando che un giorno di aprile la nonna Tina si metta a raccontare la lotta partigiana contro il nazifascismo, che ha vissuto da piccola ai nipotini Tommaso e Martina. I due bambini sono rapiti dalle parole di Tina che fa rivivere davanti ai loro occhi le avventure sui colli intorno Pavia,  la storia del fratello Giovanni  e de altri partigiani,  raccontando loro anche della pericolosa banda dei fascisti. E di quando con coraggio  riuscì a compire una missione importante: con l’amico Simone e il fedelissimo cane Paco ritrovò una preziosa cassa lanciata in volo dagli aerei americani ai partigiani e che sembrava essere scomparsa nel nulla.

di L.Terranera
di Lorenzo Terranera

 Dopo  l’esperienza di Dove finisce Roma come è stato raccontare cos’è stato il fascismo a dei bambini piccoli, come ti sei avventurata in questa nuova e  importante impresa?

E’ stata una bella sfida, tornare su un tema, un periodo storico, che avevo già affrontato e in più pensando esplicitamente ai più piccoli. La fantasia resta la base, la fantasia e l’avventura: volevo evitare un racconto che “spiegasse”, mi premeva di più raccontare una bella storia, incuriosirli attraverso una storia.

soriga15Ne La guerra di Martina  scegli una nonna come narratrice, quanto ha contato per te la trasmissione orale? C’è il rischio oggi che quella trasmissione d generazione in generazione si interrompa?

Più che un rischio è una realtà, presto non ci saranno più testimoni diretti di quei tempi, per questo anche è importante continuare a raccontare. La nonna mi serviva anche per dare il senso di un tempo non poi così lontano, di una storia vicina.

soriga16Il racconto prcede le immagini o è nato insieme? In altre parole come si è sviluppata la collaborazione con Lorenzo Terranera?

Le precede, le immagini sono arrivate dopo. Per qualche strana alchimia le ho trovate perfettamente in linea con il racconto, Lorenzo ha colto la poetica del libro, lo sguardo.

soriga21Stai lavorando ad un nuovo libro?

In questo momento sto facendo un lavoro interessante sugli immigrati che vivano a Roma, per il settimanale  Internazionale, le mie energie di scrittura sono concentrate a raccontare le loro storie.

Resistere oggi significa avere almeno la schiena diritta

È il 25 aprile. Che bello, mio dio, evviva, la resistenza, evviva, il 25 aprile. E tutti a festeggiare il 25 aprile facendo finta che davvero la liberazione sia rimasta liberata, come se non fosse che il Paese si sia ritrovato infognato in un fascismo peggiore, indicibile, sotterraneo, mimetizzato e ormai potabile.

Il fascismo del rendere chiunque non sia d’accordo con la maggioranza un complicato detrattore: è fascista l’incapacità di ricevere critiche e osservazioni, bollarle come delazione, e trasformare i disaccordi in gufi. Rientra nel gioco facile della demonizzazione di chiunque sia d’altra opinione: se bollo gli altri come nemici mi libero dal fardello di doverli contrastare nel merito. Un gioco semplice, banale, superficiale: fascista, appunto.

Il fascismo di considerare i fragili un peso: l’abitudine di credere che chi ha avuto meno sia un’anomalia da eliminare è caratteristica fondante di un regime che chiede fede piuttosto che fiducia. «Se non ce l’hai fatta significa che non hai abbastanza nerbo» è la frase con cui il potere fabbrica il condono dei propri fallimenti. «Se non funzioni è colpa tua» e così, di colpo, vale solo quello che decidono loro.

Il fascismo di ritenere il cattivismo una nozione fondamentale: se il buonismo diventa una debolezza significa che il sistema è troppo poco sociale per mantenersi sulle regole e quindi ha bisogno di una presunzione minima per garantire la sussistenza. È come se d’improvviso ci si accorgesse che l’architettura sociale si mantiene in ordine solo lasciando spazio alle piccole presunzioni personali. Socialità sconfitta nelle regole che galleggia nei piccoli privilegi elemosinati. Una cosa così.

Il fascismo di non opporsi alla riscrittura della storia: come se la moderazione debba per forza passare dall’accettazione dei deliri della controparte perché altrimenti risulta troppo faticoso ristabilire la verità. Così succede che il 25 aprile sopportiamo tutti un po’ di neofascismo in cambio del nostro diritto (dovere) di festeggiare. E così prende piede una normalizzazione che è lo sbiancamento della Resistenza. Ma molti credono che sia il giusto dazio da pagare.

La Resistenza di avere la schiena diritta: chiamare ladri i ladri, prepotenti i prepotenti e smetterla di servire i potenti per avere in cambio un briciolo di legittimità. La Resistenza ci insegna che ci sono diritti e doveri inviolabili indipendentemente dall’etichetta di chi prova a corromperli. Non è questione di destra o di sinistra, no: si tratta di capaci contro gli incapaci, di inetti, venduti, servi che riescono comunque a raggiungere i posti di potere. Avere la schiena diritta, oggi, in questo 25 aprile, significa provare ad osare avendo un’opinione differente. Ed è così poca cosa, rispetto ai nostri partigiani.

Bella ciao, breve storia della canzone di tutti noi

Cantata in Francia ai funerali per le vittime di Charlie Hebdo come per la vittoria di Tsipras in Grecia, ma anche in Cina, in Ucraina, Bella ciao è un canto universale. «Assorbe tutte le libertà negate e per questo non ha confini”, racconta Carlo Pestelli, cantautore torinese con studi linguistici alle spalle e una passione per la cultura popolare. Ha scorrazzato per mesi tra Emilia Romagna e Toscana, ha conosciuto vecchie contadine dai nomi che dicono tutto – Comunarda, Antizarina -, ha sentito versioni varie della canzone e ascoltato storie e testimonianze della Resistenza. E poi ha cercato in Francia e in tanti altri Paesi. Alla fine ha scritto il libro Bella ciao, la canzone della libertà (add editore), pubblicato da pochi giorni. Non un saggio paludato ma, dice Pestelli, “la sociologia, la gestione delle tante traduzioni, nelle lingue principali, ma anche in quelle etnominoritarie dal dialetto cabilo delle popolazioni berbere al sinti torinese».
lisetta-Prosperina-Vallet-Partigiana-in-Valle-dAosta-big

Cosa ha scoperto ?
Ho scoperto che interessa tutti. Bella ciao non è una canzone datata nel tempo, non è relegabile a qualcosa di ormai passato, come la televisione in bianco e nero, o le mondine o anche l’esperienza dei partigiani nella Resistenza. E’ una canzone – passami il termine – “rifunzionalizzabile”. E’ come se avesse lasciato i contorni storici alle spalle venendo continuamente “rifunzionalizzata”: dai bambini, dagli studenti, dalle femministe, fino ai lavoratori in sciopero alla fine degli anni 60 che avevano voglia di nuove parole d’ordine e hanno hanno riciclato la melodia di Bella ciao. Poi è stata rifunzionalizzata negli anni 90 dai Modena City Ramblers, e fu clamoroso.

bella-ciao-WEB
Qual è l’attualità di questa canzone?
Quando vado a presentare il libro imparo sempre qualcosa. C’è sempre qualcuno che si alza e racconta. L’altro giorno una signora nata nel 1933, mi ha detto che nel 1944 abitava ad Alba, quando là c’era quella libera repubblica di partigiani immortalata da Beppe Fenoglio. Ecco, lei racconta di una canzone per un partigiano morto, una specie di ballata epica, che finiva con queste parole: “morto per la libertà”. La canzone, quasi silenziosamente è andata per gemmazione a costituirsi tra il 1943 e il 1944 in Emilia, in Piemonte, ma anche in Veneto e qualcuno ritiene anche in Abruzzo, visti i partigiani della brigata Maiella che liberarono Bologna insieme agli alleati.
La guerra finisce e tutti si misero a cantarla. Storici come Cesare Bermani, Roberto Leydi, Franco Castelli, Franco Coggiola, hanno indagato per decenni su Bella ciao, anche alla ricerca di un autore. Però si sono arresi, perché Bella ciao è la “carta assorbente” di diverse versioni di canto popolare che poi sono confluite in questa canzone.
Quali sono le sue caratteristiche?
Ha una forte ritmicità tanto che colpisce anche i bambini piccoli, poi ha delle parole fondamentali della nostra cultura: “bella” che è l’aggettivo petrarchesco per antonomasia e “ciao”. E inoltre riesce a tracciare una storia ideale di partecipazione popolare a una causa, quella della libertà, la più amata da tutti in un modo, per così dire, circolare. Inizia come in una fiaba, “stamattina mi son svegliato”, che già ti pone all’ascolto con una certa facilità. E poi, è vero, nel finale c’è uno che muore, ma muore per la libertà, non muore per la rossa bandiera o per il sol dell’avvenire, anche in questo riesce a slegarsi dall’utopia resistenziale.
Quindi è un patrimonio comune?
Sì, è stata la canzone un po’ di tutti. Lo è stata dell’antifascismo, che negli anni 50 era un concetto che sonnecchiava, e che poi è stato risvegliato negli anni 60 ma da una generazione diversa. Ma non dimentichiamo che negli anni 70 Benigno Zaccagnini concludeva le assisi dei lavori della Dc con Bella ciao.
La canzone ha avuto molta fortuna all’estero, quante traduzioni esistono?
Una quarantina, ma se ne producono continuamente. Per esempio una poetessa bretone ne ha scritta una versione di recente. Io distinguo tra le traduzioni nelle lingue principali: tedesco, francese, inglese, spagnolo e quelle delle lingue minoritarie, come il galiziano, il catalano e il ladino romanzo. C’è addirittura una versione in latino. Quando si tratta delle lingue principali vi possono essere più traduzioni. Facciamo l’esempio del tedesco: c’è quella formale ma c’è anche la reinterpretazione, come è accaduto negli anni 70 con Dieter Dehm, diventato poi un parlamentare, il quale ha ritenuto che i tedeschi non si meritassero Bella ciao perché non hanno fatto nulla per sconfiggere il nazismo da dentro, non hanno avuto un’epopea della resistenza paragonabile a quella italiana o yugoslava. E quindi lui trasforma il concetto di Bella ciao, lasciando inalterata la musica, nella storia di una lei e di un lui, entrambi guerriglieri: lei deve allontanarsi da lui perché deve andare a combattere e il finale è “mai più fascismo mai più guerra”.
In Grecia l’hanno cantata anche per la vittoria di Tispras.
Sì e non solo. In Turchia la cantano in chiave anti Erdogan, nel Sud est asiatico ci sono i russi putiniani che stanno nel Sud est ucraino che la cantano in chiave anti ucraino. Allo stesso tempo i nazionalisti ucraini la cantano in chiave anti russa. E’ buona per tutte le cause. Tra le minoranze berbere viene cantata in chiave antialgerina o antitunisina.
Bella ciao è quindi una creazione collettiva?
Un autore non c’è. Qualcuno come Ivan Della Mea – ma non è proprio lui la fonte diretta – sosteneva che l’autore forse era un medico ligure che viveva a Montefiorino nel Modenese, ma di fatto la canzone comincia a diffondersi a Bologna, a Montefiorino. Intanto nel 1944 a Torino una donna racconta che sentiva cantare una canzone sull’aria di Bella ciao con parole leggermente diverse nelle Carceri nuove. C’è poi chi nell’immediato dopoguerra racconta che con i festival della gioventù, di Berlino di Nizza, Praga, nel 1946 la cantavano tutti. C’erano delegazioni di giovani comunisti, tra cui anche Enrico Berlinguer che la insegnavano agli altri compagni. E la cantavano davvero tutti. Ad un certo punto c’era chi diceva che l’autore fosse Enzo Biagi che è stato partigiano e che era proprio della zona dove sarebbe nata. Anch’io dopo un po’ mi sono arreso. Invece ho scoperto che il Paese che più di tutti ha contribuito alla diffusione della canzone è stato la Francia grazie a un cantante di origine italiana, Yves Montand.

E per quanto riguarda la musica, ci sono influenze e tradizioni popolari?
Anche in questo caso si potrebbe dire che è una bella insalata russa (ride). Principalmente si ritrova qualcosa in “Bevanda sonnifera”, un canto epico lirico diffuso in pianura padana, ma anche in alcune villotte diffuse in Trentino che contenevano quell’iterazione di “ciao ciao” scandito con le mani che serviva a dare il ritmo al gioco dei bambini. Per quanto riguarda il testo, ci sono dei progenitori. Un canto in particolare intitolato “Fior di tomba”, che diceva “mi son svegliato e ho trovato il mio amor”, risale al XIX secolo, molto noto in Piemonte e in Veneto. Il finale è drammatico perché è l’amore non corrisposto. Bella ciao insomma assorbe tutte quelle libertà negate che fanno parte del canto popolare: il condannato, l’amore non ripagato, la famiglia come prigione… Il fiore lasciato sulla tomba è il simbolo del ricordo. Un po’ come l’albero della libertà. Dove c’è una minoranza che rivendica dei diritti si può essere sicuri che c’è anche Bella ciao.

bella-ciao-WEB

Libertà è consapevolezza. A colloquio con Niccolò Fabi

Siamo comodamente seduti sul divano della sua casa in campagna, dalla finestra si scorge un pacato panorama agreste. Anche se, in realtà, siamo dentro un palazzo della Capitale, tra quattro mura, in mezzo al traffico. È questo il potere di Niccolò Fabi, può portarti con sé non appena gli presti ascolto. «Hai studiato?», mi chiede mentre sistema la stanza per rendere l’ambiente più accogliente. E le domande comincia a farle lui: «E allora, ti è sembrato naturale o artificiale?», mi chiede di Una somma di piccole cose che è appena uscito, il 22 aprile, per Universal music. Nove crogioli che custodiscono una consapevolezza raggiunta in anni di fatica. E, in sottofondo, il folk rock della West Coast.

Naturale, un disco sorprendentemente folk, alla Bon Iver giusto?
Sì, è quello, indie folk americano. Anche se il folk di un 25enne del Wisconsin è diverso da quello di un 50enne di Roma (ride). Sono cresciuto con i genitori di questa nuova leva, con i Joni Mitchell e il Fort della West Coast, quel fricchettonismo americano del folk nella sua elaborazione rock.

Perché hai scelto il West Coast?
È una scelta non solo di stile musicale ma di ambientazione emotiva: una persona su un divano, isolata dal resto, fa una fotografia di quel preciso stato d’animo, rivisita la realtà che ha vissuto, la confusione, successi e insuccessi, gioie e dolori. E attraverso una lente di ingrandimento fa un’immersione dentro di sé. È un topos emotivo, un racconto interiore che anche l’ascoltatore riesce a sentire.

Con quest’album vuoi darci un consiglio?
Indirettamente sì, contiene un consiglio ma non ha quella “missione”. Ma questo è il classico disco che piace più a chi l’ha fatto che a chi lo ascolterà. È un’acquisizione: non sarei stato in grado di farlo 20 anni fa, mi sarebbe mancata la necessaria consapevolezza. Ma un lungo percorso mi ha portato ad avere questa sicurezza, adesso sento di potermi fare un regalo, potermi prendere un lusso.


 

Questo articolo continua sul n. 17 di Left in edicola dal 23 aprile

 

SOMMARIO ACQUISTA