Cosa si prova a trascorrere 23 ore al giorno in una cella che misura meno di 2 metri per 3, per un tempo indefinito che può essere di qualche giorno, come di settimane, mesi o perfino anni?
Il Guardian ha provato a restituirci almeno in parte quest’esperienza con l’aiuto della realtà virtuale e dei Google Cardboard, i visori di cartone realizzati da Big G che con meno di 30€ permettono di fruire di contenuti in Vr. Il risultato è sorprendente ci si trova catapultati in un carcere statunitense e per la precisione in una cella d’isolamento, nella quale ci vengono raccontati i danni psicologici ai quali va incontro chi deve subire questa pena. Il video fa parte di una serie di servizi interattivi realizzate dall’eminente testata britannica per sensibilizzare il suo pubblico sul tema delle carceri e dei diritti dei carcerati.
Benvenuti in prigione. Vivere in una cella d’isolamento 2metri per 3 grazie alla realtà virtuale
Le legge austriaca che nega l’asilo e le radici recise dell’Europa

Il Parlamento austriaco ieri ha votato una legge che restringe in maniera sostanziale il diritto di asilo e la possibilità, per la gente in fuga dalla guerra, di fare domanda e vedersi riconosciuto lo status di rifugiato. Le autorità potranno respingere le persone già alla frontiera, senza dare loro il tempo di fare la domanda, decidere insomma se chi si presenta al confine ha o meno la faccia da rifugiato o da immgrato. Il governo ha i poteri di dichiarare lo stato d’emergenza in materia di immigrazione, stato che consente appunto alle guardie all frontiera di respingere le persone, che queste siano siriane in fuga dall’Isis, eritrei, iracheni. La legge limita il diritto d’asilo a tre anni. Entrambe le misure pongono l’Austria fuori dai trattati internazionali in materia.
Tra le misure considerate dal governo del Paese dove domenica al primo turno delle presidenziali ha vinto Norbert Hofer, candidato dell’estrema destra dell’Fpo, lo sappiamo già, c’è la costruzione di una barriera al Brennero. I controlli sulle auto e i camion ci sono già.
Il governo italiano, che nella vicenda rifugiati non ha mostrato gran coraggio ma un po’ di buon senso sì, respinge l’idea austriaca di chiudere le frontiere. Renzi ha ragione ed è anche terrorizzato di ritrovarsi, con la chiusura della rotta balcanica e il conseguente aumento dei flussi in ingresso in Italia, in una situazione greca – con la differenza che la Grecia è un Paese in ginocchio, piccolo e che era disabituato a flussi migratori come quelli di questo ultimo anno.
Il ministro degli Interni austriaco Sobotka si è giustificato: «Se gli altri Paesi europei si rifiutano di fare la loro parte, non possiamo essere noi a portare questo fardello»· Non ha tutti i torti e ce li ha. I Paesi che hanno chiuso i loro confini hanno semplicemente lasciato il fardello alla Grecia, infischiandosene. L’Austria, che è il secondo Paese europeo per numero di rifugiati pro-capite, non vuole fare la stessa fine. Il torto sta nel mancato rispetto dei diritti delle persone, nel non aver alzato barricate quando altri chiudevano i confini e, oggi, nello scegliere la strada dell’atto unilaterale.
La ragione sta nel fatto che gli altri Paesi europei, egoisti, chiusi, spaventati dall’onda bruna che sta crescendo ovunque nel continente – Ungheria, Repubblica Ceca, Polonia e a modo suo persino Gran Bretagna, che pochi giorni fa ha rifiutato l’ingresso a migliaia di minori non accompagnati siriani – non stanno muovendo un dito e disattendono l’accordo di ricollocamento dei rifugiati. Lo abbiamo scritto già almeno dieci volte, ma continueremo a farlo, che alle notizie come queste non ci si può e non ci si deve abituare: a ottobre ci si era accordati per una redistribuzione di 160mila rifugiati e richiedenti asilo, a oggi i ricollocati sono meno di duemila.
La nuova legge austriaca è solo l’ultimo passo di un abbandono da parte dell’Europa delle sue leggi fondative. Altro che radici cristiano-giudaiche. E comunque anche quelle imporrebbero il dovere dall’accoglienza. La crisi dei rifugiati, difficile da affrontare, complicata da gestire, costosa per Paesi che hanno difficoltà di bilancio, è un bell’esempio delle differenze tra destra e sinistra. In Europa, nel 2016, sta vincendo nettamente la destra. Quella peggiore.
I conti con la Grande guerra al Teatro India: Friendly Feuer, il fuoco amico
Ha ancora un senso parlare della prima guerra mondiale, a un secolo di distanza? Cos’altro c’è da sapere su quella cesura della storia del Novecento, quello strappo doloroso, costato milioni di vittime?
«E’ come se fosse un pentolone: più cerchi dentro e più ti accorgi che qualcosa parla a te. È una relazione, quella della guerra di un secolo fa, che è ancora viva con l’oggi. C’è qualcosa di scomodo, di penoso, qualcosa che non è finito, non è chiuso, al di là delle celebrazioni». Risponde così Marta Gilmore, regista e drammaturga della “polifonia europea” cioè lo spettacolo Friendly Feuer che debutta stasera, 28 aprile, al Teatro India di Roma. Il primo di una serie di lavori teatrali del progetto Guerre/Conflitti/Terrorismi promosso dal Teatro di Roma sul palcoscenico dell’India.
Nello spettacolo-performance, oltre a Marta Gilmore, in scena Eva Allenbach, Tony Allotta, Armando Iovino e Vincenzo Nappi.
Il “fuoco amico” dello spettacolo prodotto da Isola Teatro, Collettivo di teatro, racconta Marta, che ne è la regista e l’autrice del testo, dopo un processo di scrittura collettiva, è quello “contro i disertori, quelli che volevano passare al nemico, ma che non risparmia nemmeno gli ufficiali che si suicidavano per il senso di colpa di aver mandato al macello i propri uomini”. L’assurdità della guerra colta nel suo momento più universale. Con l’uso di lingue diverse, facilmente comprensibili e “adattate” ai corpi degli attori in scena.
“In mezzo alla piccola vallata, beyond la linea of our wire fences, soldat Marrasi, le pieds affondati dans la neige, hands up, pas de fusil, avanzava stentatamente verso the enemy’s Schutzengraben. Sur le vacarme dei colpi si levava the baritonal voice of lieutenant Cosello: Shoot le deserteur!”
(Libera traduzione da Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano).
Uomini e donne insieme, come a rappresentare l’essenza del dramma, al di là della differenza di genere. “Le nostre sono figure più che personaggi. A parte il fatto che oggi la guerra è combattuta anche dalle donne, noi non abbiamo voluto lavorare in maniera naturalistica. Non siamo nemmeno vestiti da soldati, abbiamo solo qualcosa che richiama i militari, cioè gli stivali. Volevamo entrare e uscire dalla storia, come a guardarla da fuori”, spiega la regista. , quasi a confermare naturalistici”, precisa Marta.

Una storia, quella della prima guerra mondiale, talmente assurda che non si è fermata.“Una follia assoluta che in qualche luogo è arrivata fino ad oggi. Come a Cercivento, in Carnia. Là vennero fucilati 4 alpini che erano della zona, un episodio che è diventato memoria collettiva”, racconta Marta. I quattro non si erano rifiutati di eseguire un ordine, ma semplicemente di rimandare l’azione a un momento meno rischioso. “Ebbene, sono stati messi sotto processo e al mattino dopo fucilati”, dice la regista. Questa storia non finisce qui perché un discendente di uno degli alpini ha chiesto che il suo antenato venisse riabilitato con tutta una serie di ripercussioni burocratiche che hanno coinvolto anche il ministro della Difesa che all’epoca era Ignazio La Russa il quale doveva rappresentare il parente fucilato. “Sai come è andata a finire? Il tribunale militare ha bocciato la richiesta di riabilitazione sostenendo che non c’erano prove sufficienti a dimostrare che era stato commesso un errore!”.
I testi a cui si sono ispirati gli artisti del collettivo indipendente sono molti, tra questi c’è Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu, con la figura di Marrasi, il disertore. “Muore dopo che si incammina verso il nemico a mani alte, disarmato. Gli austriaci tacciono ma a sparare sono i suoi”. Il dramma del disertore è questo: “L’idea, il tentativo di passare dall’altra parte per scampare alla guerra perché ti trovi in una situazione senza scampo: ti mandano al massacro, vedi quelli davanti a te cadere, ma tu non puoi sottrarti perché dall’altra parte c’è il plotone di esecuzione”.
E oggi, nell’Europa che innalza i muri, le barriere come quelle – guarda caso – tra Austria e Italia? “L’idea della ribellione alla violenza oggi è chiara”, risponde Marta Gilmore. “Mentre adesso c’è un rifiuto radicale, quello di allora era un rifiuto solitario, disperato. A me colpisce, essendo cresciuta con il senso della storia che nasce nella resistenza, con il senso del noi, del fare una scelta. Lì non c’è tutto questo. C’è l’individuo da solo, la macchina bellica, una forte propaganda che spacciava un universo valoriale dove l’azione del sottrarsi è una vigliaccheria, non una presa di posizione”, sottolinea la regista.
C’è un altro filone del racconto di Friendly Feuer, quello delle patologie psichiatriche, continua Marta. “Sì, c’era la cosiddetta epidemia da shell shock, la nevrosi da guerra dovuto a scoppi di granata, da combattimenti cruenti. Sono in realtà sindromi isteriche, manifestazioni del disagio psichico provato da quegli uomini mandati a morire. Sordità, paralisi alle gambe o tremori. E’ come se la guerra fosse entrata nelle loro teste. Questo fenomeno diventa oggetto del dibattito psichiatrico a livello internazionale. Solo che – spiega Marta – da parte delle gerarchie militari c’è la richiesta di mandare i soldati al fronte e poi non si può avallare il fatto che questi scampino alla guerra. Quindi la psichiatria in questo caso diventa un braccio della gerarchia militare e gli psichiatri spesso sono ufficiali medici che adottano qualsiasi mezzo per farli tornare a combattere”. Scariche elettriche alle gambe, ai genitali, vere forme di tortura, oppure shock procurati in modo da far loro più paura della guerra stessa. Tutto questo mentre nella realtà, come testimoniano tante lettere e diari della prima guerra mondiale, i soldati dei due schieramenti di fronte nelle rispettive trincee magari a pochi metri di distanza “instauravano le tregue informali”.
Un altro testo che sta dietro il lavoro del Teatro Isola è Il nemico, un racconto di Erich Maria Remarque, in cui il dialogo è metà in francese e metà in tedesco.
Lo spettacolo debutta stasera al Teatro India e rimarrà in scena fino al 30 aprile. Ma alle spalle c’è un lungo lavoro durato due anni. Un’anteprima nel 2015 al Fringe festival di Napoli, una residenza al festival Armunia di Castiglioncello e soprattutto una gavetta in prima linea, si potrebbe dire. “Siamo reduci da matinée con le scuole, ci siamo misurati con centinaia di ragazzi. E’ stato interessante vedere come gli adolescenti abbiano compreso il linguaggio contemporaneo, storie e immagini di loro coetanei di un secolo fa. Adesso andiamo in scena ma ci ha fatto bene l’assalto con i ragazzi”, conclude ridendo Marta Gilmore.
Tra i testi che hanno ispirato il lavoro collettivo c’è anche La follia e la fuga. Nevrosi di guerra, diserzione e disobbedienza nell’esercito italiano 1915-1918 di Bruna Bianchi. Con l’autrice di questo testo, docente di Storia Contemporanea alla Ca’ Foscari di Venezia, la Compagnia organizza un incontro pubblico coordinato da Attilio Scarpellini, sabato 30 aprile (ore 18.30) al Teatro India.
Tra un mese, infine, sempre a Roma allo Strike, in scena ancora, ma insieme al gruppo musicale dei Wu Ming, anche loro appassionati narratori della “guera granda”.
Adesso? Tutti zitti? Ci vuole il fisico per fare gli sbruffoni.

L’avrebbe capito anche Donald Trump che a forza di perculare gli altri per questioni minime poi si sarebbe affondati: la deriva che ha imboccato il PD usando la Commissione Antimafia come clava contro il Movimento 5 Stelle convocando la sindaca di Quarto (nemmeno indagata) tanto per alzare un po’ di polvere e distrazione oggi suona ancora più patetica dopo che il presidente campano del PD Stefano Graziano appare in tutta la sua lurida nudità fin dai primi elementi d’indagine. Fermi tutti: prima che qualcuno dica che bisogna aspettare la sentenza di terzo grado colgo subito lo spunto per riprendere le parole di Rosaria Capacchione (già vittime di minacce dai Casalesi insieme a Roberto Saviano) che dice «che il Partito democratico della Campania fosse diventato oggetto di un arrembaggio piratesco da parte di affaristi privi di scrupoli e collusi, è cosa che abbiamo denunciato da molto tempo». Oltre alla giustizia c’è anche l’inopportunità: e che nel PD campano ci siano pochi anticorpi contro il malaffare è una storia stravecchia più di quella di Bertoldo. Insomma il PD che martellava la sindaca di Quarto si trova la dirigenza campana a braccetto con i Casalesi (per collusione o per ignoranza) e oggi fa sorridere rileggere le parole del senatore Mirabelli (componente piddino in commissione) che parlava di Quarto come “quadro preoccupante” e oggi si immola dicendo che il PD “fa molto contro le infiltrazioni”. Mirabelli, tra l’altro, ex penatiano di ferro e consigliere regionale in Lombardia, è commissario dem a Caserta: lui, uno che l’antimafia l’ha studiata cercandola su google. E che ora smentisce la Capacchione. Fantastico.
Ma ho voluto aspettare almeno ventiquattro ore per capire come ne sarebbe uscito lui, il fenomenale turbo Renzi, da una vicenda che sbriciola di colpo tutte le sue arzigogolate pantomime su magistratura, indagini e sentenze; ho aspettato anche di sentire qualche sibilo dall’onnipresente Picierno (sempre pronta a lottare contro la più piccola macchia di mafia sulle camicie degli altri) o perché no De Luca, Gennaro Migliore: insomma uno a caso di questa giovane nidiata di paninari campani arrivati al governo. Niente. Silenzio. I fanfaroni dei problemi degli altri oggi si sono chiusi a chiave nel cesso, come gli adolescenti che fumano di nascosto, in attesa di imbroccare il tweet giusto per riuscire a svignarsela ma non ci sono riusciti. Come succede sempre quando la fanno troppo grossa mandano avanti i pompieri professionisti con il grigissimo Guerini che ha ripetuto tutto il giorno “abbiamo fiducia nella magistratura” che ormai è diventata un po’ la nuova “non c’è più la mezza stagione” in casa PD.
Ma al di là del fatto in sé (i mafiosi fanno patti con chi governa e per questo difficilmente sentirete parlare di concorso esterno per qualche membro del partito dei “separatisti brianzoli” o cose del genere) stupisce che una classe dirigente sia stata talmente stupida da combattere il populismo (come lo chiamano loro) con un populismo se possibile ancora più peloso: utilizzare in politica l’antimafia per screditare l’opposizione è esattamente lo stesso atteggiamento (con gli stessi meccanismi) di cui Renzi ha accusato “certa magistratura”. Ancora una volta le zuffe tra paninari governanti e il resto del mondo hanno trascinato il dibattito nella palude da cui sembra che non si riesca ad uscire. Non sarebbe bastato che oggi Mirabelli (o chi per lui a nome del PD) avesse convocato con la stessa indole i dirigenti democratici campani in commissione antimafia? Perché la Picierno (o gli altri arieti democratici da tastiera) non hanno usato l’abituale verve per chiedere pulizia all’interno del proprio partito? Perché Renzi non ha trovato 140 caratteri arguti per dirci che in Campania si devono azzerare i vertici del partito? Già, perché?
Perché ci vuole il fisico, per fare gli sbruffoni: bisogna avere il coraggio di essere ancora più appuntiti nel vagliare le proprie mancanze, ancora più di quelle degli altri. Bisogna avere lo spessore di cercare la mafia dentro di sé ed estirpare quella, prima ancora di preoccuparsi di quella degli altri. È un po’ come la storia di quel tale e la trave nel proprio occhio. La ricordate? Ecco. In compenso fra qualche giorno li vedrete tutti tronfi a ricordare Pio La Torre: uno che, per dire, faceva pulizia nel proprio partito e per questo non era ben visto da tutti i “compagni”. Questi arriveranno tutti ggiovani e belli a fingere di commemorarlo senza immaginare che La Torre chiedeva spesso e espressamente di “entrare nel vivo delle responsabilità politiche” e lo chiedeva alla politica. Appunto.
Buon giovedì.
«Senza di noi Superman sarebbe solo Clark Kent!». Il grido di dolore delle cabine telefoniche di New York (un corto)
«Un tempo dominavamo la città. Per decenni, abbiamo assistito agli scambi di droga, agli amori, a fughe, protettori, consigli, crimine, emergenze. Nominate una cosa, noi la abbiamo sentita.…Senza di noi Clark Kent sarebbe solo…Clark Kent (e non Superman ndr.)».
Quello che vedete qui sotto è il fantastico corto di Alex Kliment, Mike Tucker e Dana O’Keefe passato al Tribeca Film Festival di quest’anno. Si tratta di un monologo, grido di dolore delle cabine telefoniche di New York. Ne rimangono ottomila e metà verranno trasformate in connessioni wi-fi gratuite. E oggi gridano: «Eravamo qui prima delle barbe degli hipster, del cibo organico…e quando Sandy ha colpito e le vostre batterie erano scariche dove siete corsi?…Avete nostalgia della New York di una volta ma non tollerate un istante di silenzio, non sapete più cosa sia una telefonata importante» (la traduzione è una sintesi). Il video è bello e suggestivo anche se non capite l’inglese.
Parte la campagna anti-Clinton di Trump, che con le sue battute sulle donne unirà i democratici

Gli elettori dei cinque Stati della costa est degli Stati Uniti che hanno votato ieri hanno messo più o meno la parola fine sulle lunghe primarie democratiche e repubblicane. I dati parlano chiaro: Hillary Clinton è a quota 1632 delegati, contro i 1299 di Bernie Sanders, un vantaggio più netto che in passato (una settantina di delegati in più di Bernie guadagnati ieri), anche non tenendo conto dei superdelegati – gli eletti democratici che si sono schierati all’80% con Hillary. Sanders ha rinnovato il suo impegno ad andare avanti e continuerà a vincere Stati e guadagnare delegati, ma i giochi sono fatti.
E Sanders, che pure ha detto nel comizio con cui ha salutato i suoi che «Se vuole i nostri voti Hillary dovrà assumere le nostre posizioni su Sanità, commercio e ambiente», ha anche spiegato in un’intervista televisiva che farà tutto quanto è in suo potere per impedire che un repubblicano – entri alla Casa Bianca. Come fece nel 2008 Clinton con Obama, insomma, Sanders probabilmente farà comizi e organizzazione per la sua avversaria alle primarie. O almeno così sembra di capire. Sembra anche di capire che all’interno dell’organizzazione di Sanders ci siano delle divisioni: lo stratega della campagna Ted Devine ha parlato di riflessione da fare con Politico.com, mentre il capo raccoglitore di fondi ha spedito una mail – alla mailing list colossale di Bernie – in cui si mostra una foto dei coniugi Clinton assieme a Donald Trump. Vedremo come finirà e se Hillary saprà trovare argomenti o idee per convincere il senatore del Vermont. Che oggi twitta: «Non c’è una cosa tra quelle che abbiamo detto in questa campagna che è idealismo irrealizzabile». Come dire: Hillary, prendi alcuni piani del mio programma oppure…
Completamente diverso il discorso in casa repubblicana: Trump ieri ha umiliato gli avversari, guadagnando 100 delegati sui 106 in ballo, avvicinandosi al numero fatidico di 1237 (il 50% più 1 dei delegati alla convention) e rendendo sempre più complicati i tentativi di fermarlo da parte del partito. I delegati guadagnati fino a oggi da Kasich e Cruz sono 713, il miliardario newyorchese, da solo, ne ha conquistati 950 e, a ogni tornata elettorale si avvicina alla soglia della maggioranza. Anche non dovesse riuscire a ragiungere la maggioranza, farlo fuori si rivelerebbe un disastro per il partito. Nominarlo, anche potrebbe essere un autogol. Il partito repubblicano è insomma in un vicolo cieco. Non solo: la vittoria in 5 Stati su 5, con Cruz che arriva terzo in quattro Stati è un segnale agli elettori delle prossime primarie, dove pure Trump non è favorito. Se in Oregon e Indiana, dove si vota la prossima settimana, davvero si assistesse all’alleanza tra i due inseguitori, comunque chi andrà a votare avrà in testa che c’è un vincente in queste primarie e che si tratta del miliardario newyorchese. A questo punto della corsa l’essere molto più vincente degli altri è un asso notevole.
Ieri abbiamo anche avuto un assaggio della campagna che sarà e che vedete riassunta nel video qui sotto. Durante il suo discorso trionfale Trump ha spiegato al pubblico che «Hillary gioca la carta della donna, ma vi garantisco che se fosse un uomo avrebbe difficoltà a prendere il 5% dei voti…sarà più facile battere lei che non i repubblicani che ho sconfitto fino a oggi». Hillary risponde: «Se giocarsi la carta delle donne significa battersi per la sanità alle donne, il diritto al congedo parentale, la paga uguale per tutti, allora sì, mi gioco la carta delle donne». Trump era già scivolato sulle mestruazioni della presentatrice del dibattito Tv Megyn Kelly (troppo dura con lui perché mestruata) e del fatto che le donne che allattano in pubblico sono disgustose.
Con il suo attacco Trump apre un altro fronte e, probabilmente, contribuisce ad unire il partito democratico. I suoi attacchi su terreni scivolosi come quello “della carta delle donne” sono destinati a compattare come una falange le varie costituencies democratiche: le donne, gli ispanici e possibilmente altri gruppi enormi e capaci di spostare il risultato di un’elezione possono essere convinti in negativo a non votare per Trump. Nel 2012 le donne non sposate erano un quarto dell’elettorato totale e votarono Obama al 67%, le donne che scelsero il candidato democratico furono il 55%, nel 2012 come nel 2008. Quest’anno a correre è una donna bianca e non giovane, e visto che Obama tra queste ha perso (sebbene in misura minore di John Kerry nel 2004), per i democratici questo potrebbe rappresentare un ulteriore vantaggio. Quanto agli ispanici, questi nel 2012 hanno votato al 71% per Obama ed erano il 10% dell’elettorato. Nel 2016 il loro peso crescerà ancora, specie in alcuni Stati che sono tutto sommato vitali per vincere. La sparate di Trump, che sono buone per galvanizzare il proprio elettorato alle primarie e trasformare i suoi comizi in arene urlanti, fanno danni incalcolabili in gruppi di elettori enormi che, a novembre, avranno sentito e risentito le sua battutacce. Sbagliare accenti, frasi, battute sull’elettorato femminile e sulle minoranze, un elettorato sempre più cosciente di sé, è un rischio incalcolabile: gli elettori non votano col cervello e neppure, in fondo, con il portafogli.
Marco Martinelli, il teatro come “farsi luogo”
Dal 27 al 29 aprile all’Angelo Mai di Roma va in scena lo spettacolo Slot machine del Teatro delle Albe di Ravenna. Qui pubblichiamo l’articolo pubblicato su Left n.18 in cui Marco Martinelli, che della compagnia è il fondatore insieme ad Ermanna Montanari, parla del suo libro-manifesto Farsi luogo, del progetto di un film e, appunto, dello spettacolo Slot machine.
Quando Marco Martinelli finisce di leggere l’ultima pagina di Farsi luogo (Cue Press), per alcuni minuti, la penombra dell’Angelo Mai sembra conservare il suono delle sue parole. In piedi, in mezzo agli spettatori dello spazio romano, l’artista dispiega un manifesto poetico che al tempo stesso è anche politico. «Più che la messa in scena mi interessa la messa in vita, un corto circuito, un legame infuocato tra gli artisti e i cittadini» dice il drammaturgo che con Ermanna Montanari e altri compagni d’avventura ha reso il Teatro delle Albe di Ravenna una delle realtà culturali più vive d’Italia. Per alcuni giorni la compagnia ha fatto tappa a Roma: oltre alla lettura pubblica di Farsi luogo anche lo spettacolo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi al teatro Argentina. E dal 27 al 29 aprile, le Albe torneranno all’Angelo Mai con Slot machine.

Farsi luogo, pubblicato dalla casa editrice di Mattia Visani, ha come sottotitolo “Varco al teatro in 101 movimenti”. «Varco come una breccia, una fessura che si apre, oggi che sembra tutto chiuso», dice Marco Martinelli. Non si riferisce solo al teatro: è il «pantano italiano di questi ultimi trent’anni» che affiora. Scrive infatti in Farsi luogo: «Non c’è mai stata una seconda, una terza, una quarta Repubblica: si vivacchia in una eterna Tangentopoli, nel Reame della Corruzione e della Truffa, nel Regno di Fandonia e Cerimonia». Come reagisce allora l’artista, cosa significa il “farsi luogo” nei “non luoghi”? «Dopo trent’anni di di teatro – risponde – “farsi luogo” significa non poter separare il creare spettacoli dal creare mondo, comunità, legami. Non mi è sufficiente l’opera, gli spettacoli devono essere la punta scintillante dell’iceberg, ma sotto ci deve essere il mondo che tu crei con la tua energia». Un’attività che non si deve limitare al cerchio degli spettatori, per diventare «una spirale che invade la città e mette le generazioni a contatto tra loro, attraverso i diversi linguaggi», continua Marco. «Così il teatro, non più un passatempo serale un po’ nobile, torna al suo vero luogo, nel cuore della città e delle sue contraddizioni. Il grande teatro da Aristofane e Shakespeare fino a Brecht è stato questo: teatro e società, teatro e polis. La dimostrazione che è ancora possibile che gli esseri umani si relazionino tra di loro là dove l’arte e la bellezza non sono separabili dalla sfera etica che non è una categoria astratta, ma semplicemente è il rispetto dell’altro essere umano».
Nel libretto, «sgorgato da solo, in 3-4 mesi tra una tournée e l’altra», si parla di conoscenza (di “sete”) e di necessità di dialogo e di ascolto. Del resto, all’origine del Teatro delle Albe c’è l’ “omaggio” agli asini «condannati ad ascoltare tutti i lamenti» con le loro grandi orecchie (Siamo asini o pedanti, del 1989). Ma oggi la cultura “normale” sostiene che la verità non esiste e che è inutile cercare, facciamo notare. «Non è vero, io parlo invece di retta opinione. Anche se non la vediamo, comunque c’è!», dice ridendo. Poi spiega: «È un desiderio di conoscenza e di amore allo stesso tempo. La sfera conoscitiva è indistinguibile da quella erotica, nel senso proprio affettivo: noi siamo carezze, siamo abbracci. Questa è la nostra sete e la nostra fame, non certo quella di cui parlano i pubblicitari».
Il “farsi luogo” diventa lettura del presente sul palcoscenico, in Slot Machine, con Alessandro Argnani come protagonista. «Vedendo tutte quelle persone, donne, anziani, persi davanti davanti a quelle macchinette mi chiedevo: cosa sono queste vite e dove stanno andando?». Così ha incontrato decine di giocatori d’azzardo, si è fatto raccontare le loro storie. «Nel momento in cui ho cominciato a scrivere io ero un giocatore d’azzardo». Il protagonista, Doriano, contadino romagnolo ricco perché i genitori «si erano spaccati la schiena a lavorare la terra», è rimasto lì, in campagna. «Ma vive la dimensione del giudizio degli altri, ne ha paura. Una cosa che ci riguarda tutti perché viviamo in un’epoca in cui il giudizio è di una ferocia pazzesca», racconta Martinelli. Al suo Doriano accade di vincere, all’inizio, ma poi «entra in un inferno per cui conta solo giocare, stare davanti alla macchinetta, magari rubando i soldi ai fratelli. E perché? Perché lì non c’è giudizio, non ci sono gli altri che ti trattano male, lì, non c’è più nulla. È l’alienazione più assoluta» dice serio.
Chiediamo infine dei progetti in cantiere. Ed ecco la novità: un film come regista, il primo per l’uomo di teatro. «Ad agosto compio 60 anni», sorride, «e ci facciamo questo regalo, mi lancio». È la storia dell’“orchidea d’acciaio”, il premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, interpretata sulla scena da Ermanna Montanari. Il film non sarà la ripresa video dello spettacolo, anche se «il fuoco del lavoro è quello: la spinta spirituale e politica che lo percorre». «Ma io nel film riparto da una bambina che si perde in un grande magazzino di teatro, un labirinto, pieno di maschere, costumi, scenografie. Un luogo che è anche un sogno», racconta Marco. Ad un certo punto apre una porta e vede un toro vero, la richiude e scappa. «Finché, attraverso una porticina non entra dentro l’abside di una chiesa che fa parte del magazzino: qui trova una carta geografica della Birmania. A quel punto, lei, che è stata sempre seguita dalla macchina da presa, si gira e guarda negli occhi lo spettatore, dicendo: “Salve, io sono la vostra nuova maestra e oggi vi racconterò di Aung San Suu Kyi e della Birmania”». La bambina terrà in mano tutta la narrazione, sarà una favola orientale, continua Marco. I luoghi delle riprese ci sono già: il magazzino è quello della compagnia, sterminato, poi il teatro, dove esiste un’abside del ’200 e infine Punte Alberete, un luogo incontaminato: «Paludi, alberi rampicanti, animali: una Birmania a 5 km da Ravenna». Aung San Suu Kyi, ha promesso che quando verrà in Europa andrà a vedere lo spettacolo delle Albe. «Lei – conclude Marco – non è un’artista ma ha creato arte e bellezza nella vita, con la sua resistenza, con il suo non cedere al conformismo». Anche lei è riuscita a “farsi luogo”.
Concorso esterno con la mafia, indagato il presidente del Pd campano
Un certo Stefano Graziano, presidente del Pd della Campania, è stato “pedinato in campagna elettorale mentre incontrava l’uomo del clan dei casalesi clan e intercettato mentre ringraziava dopo le elezioni”. Ora è indagato per “concorso esterno in associazione mafiosa”. Lo scrive stamani il Corriere della Sera. I 5 Stelle denunciano che questo Carneade era un consulente del governo. Palazzo Chigi risponde che il suo incarico non fu rinnovato. Verrebbe voglia di chiedere: nutrivate qualche sospetto e vi siete limitati a non rinnovargli l’incarico, lasciandolo al vertice del fu Pd, ora Partito di Renzi? Ma il problema vero è che la corruzione si sta banalizzando, non c’è affare, non c’è commessa pubblica, che non susciti appetiti e non veda comparire la figura del faccendiere o dell’intermediario, spesso mafioso. È l’effetto combinato della crisi che viviamo e del liberismo che della crisi pretende di essere la soluzione. Dice Roberto Scarpinato in un’intervista al Fatto: “Nella Prima Repubblica lo Stato aveva ancora la potestà monetaria e la corruzione si finanziava gonfiando progressivamente la spesa pubblica e l’inflazione. Ora invece, da quando siamo entrati nell’euro, viene finanziata tagliando i servizi dello Stato sociale. Sessanta o più miliardi di euro all’anno di corruzione, più almeno 120 miliardi di evasione fiscale sono un colpo al cuore del Welfare”. Non se ne esce se la lotta contro la corruzione non diventa la priorità dell’azione di governo. Oggi la priorità è un’altra: non disturbare il manovratore e permettere agli affaristi, buoni o cattivi che siano. di lavorare e lavorando di far crescere il PIL.
Ogni giorno ha il suo Giulio (Regeni) e l’italietta intanto balbetta
In psicologia l’empatia è «la capacità di porsi in maniera immediata nello stato d’animo o nella situazione di un’altra persona, con nessuna o scarsa partecipazione emotiva». Sapersi mettere nei panni degli altri, avrebbe detto mia nonna Jole che di psicologia non ci capiva un’acca ma riusciva a perdere il sonno per una malattia qualsiasi di qualche sua vicina di casa. Al di là dei tecnicismi certo tutti noi ci auguriamo di avere una classe dirigente che abbia l’intelligenza, il talento e la capacità di mettersi nei panni degli altri, magari di passaggio anche i nostri, visto che si ritrovano spesso a prendere decisioni che riscrivono la drammaturgia del nostro quotidiano.
Ecco, un Paese empatico, ad esempio dopo avere ricevuto Giulio Regeni a pezzetti, con le unghie a parte e un corpo che s’è fatto sindone, ti aspetteresti che abbia affilato gli occhi, i sensi, le arterie e il cuore per ascoltare ogni piccolo smottamento che arriva da quell’Egitto che s’è fatto tritacarne del giovane universitario. Ti aspetteresti almeno che si dicesse una di quelle patetiche frasi preconfezionate per ogni lutto: “perché non accada mai più” ad esempio, torna sempre buone per gli striscioni e le magliette. Ecco: se davvero la verità della morte di Regeni dovremo sperare di recuperarla per una disfunzione del bugiardo conato egiziano almeno, in nome di Giulio, ci sarebbe da appassionarsi ai misfatti di un Paese (l’Egitto) che si propone prepotentemente come il modello di uno stato mendace, incivile, violento e antidemocratico.
Si assiste, in questi ultimi giorni, all’impunito rifacimento dello stesso presepe feroce che si inghiottì Giulio: le strade del centro al Cairo pullulano di poliziotti, agenti in divisa e i ‘mukhabarat’ (gli uomini dei servizi segreti) e basta un alito di sospetto per essere arrestati, caricati su un mezzo militare ed essere trasportati nelle fitte maglie dei servizi di sicurezza. Ogni oppositore è, per Al Sisi, un “forza del male” che va estirpata in tutti i modi possibili e fa niente se tra gli arrestati ci finisce anche Ahmad Abdullah, attivista dei diritti umani e consulente della famiglia Regeni, uno di quelli che la morte di Giulio l’ha presa a cuore, empaticamente, appunto. E fa niente se gli agenti delle forze speciali (che sono, par di capire, la versione egiziana dei nostri mitologici “servizi deviati”) hanno circondato ieri la sede del sindacato dei giornalisti per “invitarli” a non partecipare ai sit-in contro il governo. E fa niente anche se Al Sisi ha deciso di denunciare l’agenzia di stampa Reuters accusata, guarda un po’, di avere diffuso notizie false quando ha scritto che Giulio Regeni era stato arrestato nel giorno della sua sparizione.
A proposito: in una strada in mezzo al deserto, all’ingresso del Cairo, il 24 aprile hanno scaricato il corpo martoriato di Khaled Abdel Rahman. Anche lui, come Giulio, ha il corpo tramortito dalle torture e dalle scosse elettriche ma dopo la terapia intensiva si pensa che si possa salvare. Un Giulio che non è morto per un pelo, insomma. E mentre si contano circa 340 sparizioni solo nel 2015 (sono i dati della Commissione Egiziana per i Diritti e le Libertà), decine di Giulio Regeni accadono quotidianamente in questo 2016. L’italietta, intanto, balbetta timida dopo avere richiamato l’ambasciatore al Cairo (e davvero la notizia non sembra avere destabilizzato nessuno) e non sembra nemmeno indignarsi troppo per gli altri Regeni: hanno cognomi con troppe consonanti e sono mediaticamente poco interessanti. Così l’empatia non si accende e chi se ne fotte: basta il pensiero, si vede, per arrivare alla verità. Ecco, per oggi l’augurio è di riuscire ad essere empatici, ad esempio.
Buon mercoledì.
Malek Adly è scomparso nelle fauci di Al Sisi.
Poco importa quale sia adesso l’origine dell’onda della repressione. Scrivi il mio nome. Io faccio il mio lavoro. Io non ho paura. Il mio nome è Malek Adly. Ne aveva da fare e non ne aveva di tempo l’avvocato che forniva assistenza legale contro le violazioni dei diritti umani in terra egiziana, ma ne trovò per concedere un’intervista a Left nei giorni che seguirono l’omicidio Regeni. L’uomo che non aveva paura e non voleva nascondere il suo nome è stato arrestato ed è scomparso nelle fauci di Al Sisi.
Poco importa quale sia l’origine dell’onda di repressione che colpisce il Cairo o se gli epicentri delle ondate di oppressione di ogni libertà individuale e collettiva siano più d’uno: i poteri non di uno ma più mukabarat, servizi segreti del Nilo, di Al Sisi e dei suoi fedeli o di altri uomini neri, le cui ombre si fanno sempre più lunghe e sempre più grigie sopra e sotto le piramidi. Anche Basma Mustafa, la prima giornalista ad intervistare i parenti degli “assassini” di Regeni – serviti morti alla richiesta di verità italiana dalla procura di Giza dopo uno scontro a fuoco con la polizia – ha intorno i polsi due manette strette. Insieme a lei tanti altri giornalisti, i giovani del Movimento 6aprile, i socialdemocratici, l’attivista Sanaa Seif e Ahmed Abdallah, della Commissione egiziana per i diritti e libertà che tiene conto, uno dopo l’altro, in una lista unica tutti i desaparecidos della dittatura egiziana. Su quei fogli c’era anche il nome di Giulio Regeni.
Sono oltre cento gli arresti di manifestanti in città dove poliziotti, agenti, soldati hanno manganellato e soffocato con i lacrimogeni e i proiettili di gomma una piazza vuota che sta tornando Tahrir lungo altre rive ed altre strade, che sa essere Tahrir anche quando Tahrir è blindata, che sa essere Tahrir dall’Alto al Basso Egitto. Bastava avere un cellulare e riprendere la scena per registrare quello che stava succedendo per finire prelevati dalle divise non solo nella Capitale ma in ogni città d’Egitto dove sempre più popolo torna popolo. Servono camion e blindati per tutelare un consenso ormai sempre più difficile da fingere al rais che ha concesso due isole – Tiran e Sanafir- alla petromonarchia dell’Arabia Saudita accendendo un’altra miccia nella polveriera del suo Paese. Ad Al Sisi e al suo sistema, più aumenta la paura di perdere il controllo, più diminuisce la paura di mostrare il regime pubblicamente per quel che è.
Se l’universo europeo dovesse dimenticare, il cosmo arabo continuerà a ricordare. Vite lontane e morti parallele. Medesime. Se l’italiano Giulio è un egiziano per gli egiziani perché ne ha condiviso il destino e la sorte, la fine dell’attivista di Alessandria Khaled Abdel Rahman sta diventando sempre più europea. Scaricato come carne morta dopo essere stato torturato in mezzo alle dune del deserto, dopo le scariche elettriche sui genitali, Khaled è il simbolo di quello che potrebbe essere successo a centinaia di scomparsi di cui non si ha più notizia o contatto. Di cui forse non è stato ritrovato ancora il cadavere.
Poco importa quale sia adesso l’origine dell’onda della repressione. L’unica cosa certa che si sa delle ondate di terrore sono le rive e le vittime che bagnano e al Cairo oggi sono i nuovi Giulio. L’arresto Regeni è datato 25 gennaio, quello di Malek e degli altri è datato 25 aprile. Dove non è un anniversario vuoto da celebrare per la volgare passerella politica in un Paese in coma, è ancora giorno di lotta per la Liberazione.







