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Un lavoro purché sia

La distinzione tra lavoro autonomo, libero-professionale e dipendente in questi anni si è fatta sempre più tenue. Mentre grandi professionisti hanno clienti regolari e fidelizzati che garantiscono loro entrate prevedibili e continuative, oltre che elevate, molti lavoratori che un tempo sarebbero stati alle dipendenze, e che di fatto lavorano come se fossero alle dipendenze per quanto riguarda orari e rapporti di subordinazione, sono costretti a una condizione di prestatori d’opera individuali: impiegati dell’anagrafe o delle poste, post doc all’università, ricercatori in istituti di ricerca impiegati con contratti di lavoro a progetto periodicamente rinnovati; muratori, camerieri, baristi, braccianti, scaricatori nei mercati generali con Partita iva, o “somministrati”, o pagati con voucher. Non c’è occupazione che non veda, accanto a contratti di lavoro standard, rapporti di lavoro che, pensati per una nicchia o casi particolari, stanno diventando la norma in un mercato del lavoro sempre più selvaggio, ove la competizione è sempre meno sulle competenze e il prodotto, ma tra chi accetta le condizioni di lavoro meno vantaggiose. Una competizione che ormai non mette più solo gli operai polacchi o albanesi contro quelli italiani, ma è anche interna alla offerta di lavoro italiana, specie tra i giovani di entrambi i sessi e le donne di ogni età (queste ultime costituiscono il 50 per cento di tutti coloro che lavorano a voucher), ma anche tra chi ha perso il lavoro in età matura ed è ancora lontano da una pensione i cui criteri di accesso si spostano sempre più in avanti. Stante la scarsità di domanda di lavoro, i lunghi anni di crisi che hanno indebolito la capacità di tenuta e redistributiva delle economie famigliari, la fila di chi accetta un lavoro purchessia (alla faccia di chi li definisce schizzinosi) è sempre lunga. E i datori di lavoro ne approfittano. Anni fa la parola d’ordine lanciata ai giovani (e alle donne di ogni età) era di diventare imprenditori di se stessi. Oggi questa “imprenditività” sembra doversi concentrare, almeno per una buona parte, nell’affannosa ricerca di spezzoni di lavoro e nella accettazione della “creatività” contrattuale dei datori di lavoro. La società liquida non è solo quella dell’individuo diventato puro consumatore bulimico e senza comunità di cui parla Zygmunt Bauman. è anche quella dei lavoratori senza appartenenza e senza identità come tali, usa e getta.

left n. 18 vauro

Questo articolo lo trovi completo sul n. 18 di Left in edicola dal 30 aprile

 

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Ha ragione Verdini: che lui incontri il Pd è normalissimo (purtroppo)

14/10/2011 Roma, Camera dei Deputati, seduta sul voto di fiducia, nella foto Denis Verdini

Dice Denis Verdini: «È normale dialettica parlamentare». Minimizza, Verdini, l’incontro avuto con il Partito democratico, ed è ovvio che sia così. Minimizza lui e minimizzano ancora di più i democratici, i renziani e Matteo orfini. «Oggi con il Pd abbiamo soltanto concertato un metodo di consultazione per i provvedimenti all’esame di Camera e Senato», spiega ancora Verdini, uscendo dal vertice tra il gruppo del Pd e Ala, avvenuto a Montecitorio e non – come annunciato dall’Huffingtonpost, che ha anticipato la notizia, al Nazareno.

E se nella minoranza Pd monta un coro di proteste («L’incontro è una follia inspiegabile», ha tuonato Speranza), bisogna però dar ragione a Verdini, lo stupore questa volta è eccessivo. Perché sì, si può notare che l’ingresso di Ala in maggioranza è ancora una volta nascosto dietro efficaci artifici retorici («Abbiamo stabilito un metodo per andare avanti in questa legislatura», continua Verdini), ma oltre questo non ci sono particolari novità. Il ruolo di Verdini è lo stesso ormai da mesi. Anzi. Sappiamo che la replica dei bersaniani è che quelli era governi di emergenza mentre questo è un governo che Renzi stesso definisce politico, ma Ettore Rosato, il capogruppo alla Camera ricorda giustamente che con Verdini il Pd ha già fatto un governo, «quello di Enrico Letta».

Non è neanche una novità il fatto che Verdini abbia annunciato che al referendum costituzionale anche loro sono per il sì – avendo votato, come Renzi e come la minoranza dem, la riforma in aula – e quindi anche su quello si è cercato un modo di coordinarsi. Qualcosa di più rilevante potrebbe, questo sì, invece accadere la prossima settimana, quando i verdiniani annunceranno le loro scelte per le amministrative e – ad esempio – a Napoli è probabile che dichiarino il sostegno alla candidata del Pd Valente. E anche a Roma il gruppo di Verdini non ha ancora un candidato.

Mia Photo Fair, quando la fotografia d’arte conquista Milano

Anche quest’anno, fino al 2 maggio, a Milano si terrà il Mia Photofair, la prima e più importante fiera italiana della fotografia d’arte, ideata e diretta da Fabio Castelli. Dopo il successo della quinta edizione, con il record di 22mila visitatori, viene riconfermata anche per la sesta la location di The Mall, nel quartiere di Porta Nuova – Varesine. La fiera ospita 80 gallerie provenienti da 13 diverse nazioni del mondo con 230 artisti esposti in 109 stand, e poi 16 editori specializzati e 16 artisti indipendenti. Fra questi Daniele Cametti Aspri con “Il Mio Diario Per Te” e “My American Dream”, Jacopo Di Cera con il progetto “Fino alla fine del mare” e Monica Silva con “Lux et Filum – una visione contemporanea di Caravaggio” nella quale il genio di Michelangelo Merisi viene rideclinato al tempo presente.

Immagine in evidenza: Daniele Cametti Aspri, Il Mio Diario Per Te

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Gallery a cura di Monica Di Brigida

Non solo Bronzi: apre tutto il Museo della Magna Grecia a Reggio Calabria

Apre i battenti il Museo Archeologico nazionale della Magna Grecia di Reggio Calabria, restaurato in tutte le sue sale (per un costo di 30 milioni di euro). Dal 30 aprile è possibile addentrarsi nella storia antica della Calabria e non solo, dalla preistoria all’età romana. Visitando l’intero percorso dell’esposizione permanente, inclusi i Bronzi di Riace. I quattro piani di Palazzo Piacentini custodiscono migliaia di reperti straordinari: bronzi, ceramiche decorate, gioielli, mai esposti e tenuti per decenni nei depositi. L’annuncio è stato dato da Carmelo Malacrino, che da sei mesi dirige il museo reggino. L’ archeologo Salvatore Settis auspicava da tempo la piena realizzazione del Museo della Magna Grecia. Ecco il suo punto di vista, in un’intervista pubblicata su Left in occasione dell’uscita del volume Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace .

Quando furono ritrovati, per caso, da un sub il 16 agosto 1972, a largo di Riace, in Calabria, la notizia della scoperta dei due Bronzi passò quaasi in sordina sui media locali. Lo ricostruisce il volume Sul buono e cattivo uso dei Bronzi di Riace, scritto dall’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis con altri e pubblicato da Donzelli. Ma quando furono esposti a Firenze nel 1980 suscitarono subito grande interesse. Tanto che la mostra fu prolungata e poi riproposta a Roma, su invito del presidente Sandro Pertini Ma all’epoca molti archeologi sottovalutarono il fenomeno, quasi derubricandolo a fatto di costume.

Professor Settis, quella calda risposta di pubblico nel 1980 conteneva invece un’intuizione sull’importanza dei Bronzi di Riace?

A mio avviso è il fatto più nuovo che emerge da questo libro. Ho provato a dirlo. E lo hanno scritto anche gli altri autori senza che ci fossimo messi d’accordo. In quella occasione, di fatto, la professione di archeologo fallì il suo bersaglio. Chi gestì la scoperta non ne intuì l’importanza. Li vollero trattare al pari di altri reperti senza comprenderne la straordinaria singolarità. Ma i Bronzi di Riace, come il libro racconta e documenta, hanno acquistato fama mondiale ed è in continua crescita. Fu un movimento popolare a chiedere il prolungamento di quella mostra senza pretese che a Firenze doveva durare solo tre settimane. E stata la folla a riconoscere – pur non avendo competenze professionali – l’assoluta unicità di questi pezzi. Credo che da tutto questo si debba ricavare una lezione: la cosiddetta cultura popolare, spesso trattata dall’alto in basso dagli intellettuali, contiene in sé germi di consapevolezza che andrebbero letti e sviluppati quando si fanno delle mostre, che non di rado in Italia risultano superficiali; non offrono molto perché sono fatte solo per attrarre persone che però escono senza sapere qualcosa di più.
La vicenda dei Bronzi di Riace può essere una cartina di tornasole dei beni culturali in Italia?
La commissione nominata dal ministro Dario Franceschini, che si è espressa perché i Bronzi non si muovessero da Reggio per andare all’Expo, mi pare sia stata un buon segno. Ora il segnale successivo che aspettiamo è l’apertura del museo di Reggio Calabria nella sua interezza perché possa essere un vero museo della Magna Grecia. È stata una grande delusione che sia rimasto chiuso per tanti anni, nonostante avesse avuto finanziamenti speciali per il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Addirittura i lavori erano stati affidati alla Protezione civile – cosa molto singolare – proprio con l’idea che così i lavori si sarebbero conclusi in tempo per quella ricorrenza. Sono passati ancora degli anni e il museo di Reggio è ancora chiuso, eccetto quelle due stanze.
Il neo direttore del museo Carmelo Malacrino prende posizione in questo volume…
È uno dei venti nuovi direttori di musei nominati con la nuova riforma Franceschini e ha manifestato intenzioni molto positive. Il testo che ha scritto per questo libro mi pare sia la sua più chiara dichiarazione programmatica. Ora va aiutato, spero lo facciano tutte le autorità, dallo Stato in giù. Per rendere possibile l’apertura completa del museo e per farlo funzionare, creando strategie di comunicazione che permettano di attrarre il pubblico che merita. Rendendo chiaro che lì non ci sono questi due Bronzi e poi il deserto. Ma anche altre opere sensazionali. Certamente i Bronzi rifulgeranno sempre come la cosa più importante, ma ci sono altre opere coeve che meritano.

Per fare un esempio?
I cosiddetti Pinakes di Locri. Sono una serie di rilievi su terracotta di straordinaria qualità. Rappresentano scene del mito greco, con Persefone, Plutone e altre divinità, in uno stile straordinariamente sofisticato. Si tratta di uno dei più bei prodotti dell’arte della Magna Grecia. Anzi, direi dell’arte greca del V secolo a C., periodo a cui risalgono anche i Bronzi di Riace. Il museo di Reggio dunque può diventare il luogo del dialogo, del confronto fra l’arte della Magna Grecia e quella della Grecia. Perché non c’è dubbio che i Bronzi di Riace siano opera di un maestro greco. Insomma, ora bisogna aprire davvero tutto il palazzo di Reggio con le intere collezioni esposte per bene. Spero che accada nel giro di pochi mesi o di un anno. Visto che era stata annunciata l’apertura nel 2011.

In questo volume il direttore Malacrino scrive anche che un museo, per dirsi tale, deve fare lavoro scientifico, produrre conoscenza e poi fare una adeguata valorizzazione. Il dibattito politico non è molto chiaro su questo punto. Quanto è importante unire tutela e valorizzazione?
È un grande equivoco che tutela e valorizzazione possano seguire strade separate. Questo è avvenuto in Italia a livello di linguaggio giuridico per una malintesa spartizione della torta fra Stato e Regioni. Uso volutamente questa metafora sapendo quanto sia pesante. Nella temperie degli anni Ottanta e Novanta, quando si voleva dare alle Regioni la loro parte, qualcuno si inventò che lo Stato fa tutela e le Regioni fanno la valorizzazione. Ma in qualsiasi Paese al mondo – in Francia, come negli Stati Uniti o in Germania – è del tutto chiaro che la tutela e la valorizzazione fanno parte di un processo unico. Al Louvre o al Metropolitan Museum si metterebbero a ridere se qualcuno domandasse chi di voi fa la tutela e chi la valorizzazione. Tutti fanno l’una e l’altra. Sono basate su una piattaforma comune che è la conoscenza. E alla conoscenza si arriva con la ricerca. Leggere queste parole di Malacrino mi ha fatto un enorme piacere. Ritengo che chiunque fra questi venti nuovi direttori, o altri, abbia un minimo di buonsenso e di professionalità non possa che riconoscere nella ricerca il momento generativo, la radice di qualsiasi lavoro di valorizzazione. Come si faccia a valorizzare qualcosa che non si conosce, io proprio non lo so.

La riapertura delle sei domus a Pompei e quella del museo nazionale dell’Abruzzo a L’Aquila sono passi positivi. Intanto però lo Sblocca Italia promette ancora cemento mentre le soprintendenze sono indebolite e sottoposte alle prefetture. Come sta procedendo il ministro Dario Franceschini?
A me pare un percorso a zig zag. Alcune cose vanno bene. Il caso delle riaperture a Pompei è senz’altro positivo. La legge Madia, che sottopone le soprintendenze alle prefetture, è stata e resta un pessimo segno. Certo non è stato il ministro Franceschini a prendere l’iniziativa però l’ha subita. Fra l’altro nella legge di stabilità è stato introdotto all’ultimo momento un codicillo che dà al ministro la facoltà di accorpare le soprintendenze. Io spero che non la eserciti. Il rischio è che venga messo tutto insieme: l’archeologia, la storia dell’arte e quant’altro, seguendo il modello siciliano. La Sicilia è l’unica Regione che ha ottenuto l’autonomia sui beni culturali: le soprintendenze dipendono dagli assessori, non dal ministro. In Sicilia spesso soprintendenti e direttori di musei sono stati nominati a prescindere dalle loro competenze, per cui possiamo trovare un bibliotecario preposto a un’area archeologica o viceversa. Sarebbe un fatto davvero negativo se, oltre ad essere sottoposti ai prefetti, i soprintendenti non potessero più operare sulla base delle proprie competenze tecnico professionali. È poi del tutto negativo lo Sblocca Italia. O per meglio dire il Rottama Italia come recita il titolo di un libro a cui ho collaborato con molti altri (edito da Altreconomia ndr). Questo provvedimento fa del paesaggio carne di porco con una assoluta deregulation che, a mio avviso, è anti costituzionale.

Dopo Paesaggio Costituzione, cemento e Costituzione incompiuta, sta per uscire un nuovo libro sulla Costituzione per Einaudi?
Si tratta di una raccolta di articoli scritti sul tema della Costituzione negli ultimi cinque anni. Anna Fava ha selezionato miei interventi che non riguardano solo paesaggio e beni culturali, ma anche, per esempio, l’articolo 81 sul pareggio di bilancio. Il governo Monti lo modificò senza che nessuno in Parlamento fiatasse. Penso che quella sia stata la prova generale per la modifica costituzionale che stiamo subendo adesso. Spero che il libro possa costituire un promemoria per i lettori che avranno la pazienza di leggerlo: vista la sveltezza con cui si muove il nostro presidente del Consiglio rischiamo tutti di dimenticare attraverso quali tappe e con quali modalità improprie questa riforma costituzionale sta procedendo.

Colpisce la voragine che si è venuta creando fra l’articolo 9 della Carta e il modo in cui i governi Berlusconi, e non solo, hanno trattato le opere d’arte svuotandole di significato, facendone dei feticci, al più un brand. Una gestione neo liberista dell’arte ha causato tutto questo?
Per rispondere bisognerebbe cominciare con il dire che cosa è un’opera d’arte. Io credo che gli affreschi di Giotto, o per esempio la Commedia di Dante, siano strumenti per pensare. Penso che siano delle costruzioni molto complesse di persone molto intelligenti che hanno cercato di offrire agli altri esseri umani testi (in senso lato) sui quali riflettere riguardo alle cose che vedono, ma anche sulla vita e sul mondo. Questa è la vocazione iniziale dell’arte, dovrebbe essere in primo luogo una riflessione sulla cittadinanza e su se stessi. Il processo di estetizzazione dell’arte, cioè il processo per cui gli affreschi di Giotto o il Partenone o i Bronzi di Riace sono soltanto una cosa bella davanti alla quale genuflettersi senza pensare è un modo per anestetizzare la potenzialità rivoluzionaria dell’arte. L’arte serve se si allontana dalla quotidianità ma non per proiettarci in un’estasi come se dovessimo avere le stimmate da un momento all’altro o un qualche contatto con il divino. Ci fa interrogare sul perché Dante ha scritto quei versi, perché Giotto ha fatto quegli affreschi, come mai c’è il Partenone, con quale intenzione è stato fatto, perché hanno investito tutti quei soldi e quella intelligenza. Se pensiamo a tutto questo con grande serietà, cioè storicamente, ne ricaviamo anche una lezione per il tempo presente. La neutralizzazione attraverso l’estetizzazione crea una bellezza generica che non serve a nulla ed è questa la “reificazione” sulla base della quale poi si possono costruire dei discorsi che depotenziano l’arte, dandole un significato di una fuga dal presente, anziché di richiamo all’intelligenza, alla responsabilità individuale e alla responsabilità collettiva.

Come valuta questa strana idea che hanno i politici italiani di usare le opere come star da mandare in tour, per il G8, per l’Expo, eccetera? A cosa serve?
Serve solo a chi non pensa e vuole che anche gli altri non pensino. Portare i Bronzi all’olimpiade o al G8 è un’idea particolarmente originale? Non mi pare. Portare i Bronzi di Riace all’Expo come un simbolo dell’Italia quando non sono neanche opere italiane, che senso avrebbe? Non furono neanche fatte dai greci dell’Italia meridionale, ma in Grecia. Finirono a Riace per puro caso, perché probabilmente quel giorno ci fu una nave in tempesta che li dovette buttare fuori bordo per poter salvare la vita dei marinai. Portarli all’Expo sarebbe stata la solita rincorsa alle icone anziché fare ricerca per una vera comprensione e conoscenza. Certo è vero che bisogna rivolgersi alla bellezza. E nei Bronzi ce n’è molta. Ma non c’è bellezza senza storia. @simonamaggiorel

Quel pirla di Matteo Messina Denaro

Pensavo questa mattina, uno di quei pensieri che di solito viene al mattino presto quando ancora barcolli tra i giornali e il caffè che Matteo Messina Denaro è il più anacronistico boss latitante che si sia mai visto in giro. Un pirla, come direbbero a Milano, oppure “un coglione” come l’avrebbe detto Berlusconi, sicuramente uno poco adeguato a stare al passo con i tempi.

Mi spiego. In un Paese che coltiva elementi di spicco della criminalità organizzata travestiti da politici (penso a Giulio Andreotti, Totò Cuffaro, Marcello Dell’Utri, Nicola Cosentino, solo per dire i primi esempi che mi vengono in mente) lui, il Messina Denaro, è forse l’ultimo scemo rimasto mafioso senza vitalizio e un onorevole da sfoggiare con gli amici in vecchiaia giocando a carte dentro un bar. Gli deve essere sfuggito il passaggio in cui i suoi predecessori (che sono solo in parte quei minus habens di Riina e Provenzano poichè ci manca sostanzialmente di conoscere i “cervelli” di quel periodo) hanno capito che convenisse infiltrare la politica nella mafia piuttosto che il contrario.

Sei un mafioso da niente se oggi non riesci almeno a farti eleggere consigliere regionale: abbiamo la criminalità organizzata più specializzata in Piani di Governo del Territorio (PGT) meglio di tanti politicanti, abbiamo le mafie con la più alta consapevolezza dell’uso delle preferenze rispetto agli elettori onesti: le mafie, qui, hanno finito per vincere anche nei meccanismi legali e democratici, per dire. E questo è un problema. O forse questo è IL problema poiché alla fine la disaffezione alla politica (storicamente mai stata così diffusa) finisce per essere il perfetto favoreggiamento, il concorso esterno inconsapevole. E intanto loro proliferano felici e contenti.

Ed è per questo che credo (come ho scritto ieri) che piuttosto che perdersi nella gara di chi ha la gomorra più lunga forse sarebbe il caso di capire che la “legge quadro” migliore contro le mafie sia proprio la Costituzione, sia l’esercizio più pieno della politica nelle sue forme, sia l’allenamento continuo dello sclerotizzato muscolo della curiosità.

Pensavo, tra le altre cose, che siamo finiti a parlare più di antimafia che di mafia, e anche questo è curioso. Come se domani per sconfiggere l’influenza ci azzannassimo tutti sulla migliore miscela di Tachipirina, una cosa così. Mentre coliamo di febbre.

Ecco: Matteo Messina Denaro è l’unico che ancora crede nella “separazione delle carriere”: politico o mafioso. Come il Cardinale o il prete di campagna. E intanto viene doppiato dal più misero consigliere provinciale. Perché, in effetti, la mafia non si sconfigge né con i libri né con i convegni, benché sia cosa piena di poesia: fa più argine un buon dirigente di un ufficio tecnico comunale che qualsiasi capolavoro artistico. Che poi è quello che si cercava di far capire in questi giorni, mi pare.

Buon venerdì.

Rebibbia. L’informazione dietro le sbarre

20061114 - ROMA - CRO - INDULTO: DAP, DA CARCERI USCITI IN QUASI 29.000 LETTERA SOTTOSEGRETARIO MELCHIORRE A COMMISSIONE SENATO Un' immagine di archivio del carcere di Rebibbia a Roma. Dal carcere per l'indulto sarebbero usciti in 24.543. Ai quali vanno aggiunti quelli che hanno ottenuto la liberta' per aver ottenuto misure alternative alla detenzione che sono 4.964. Per un totale quindi di 29.507. E' quanto si legge in una lettera che il sottosegretario al ministero di Grazia e Giustizia Daniela Melchiorre ha inviato oggi alla commissione Giustizia del Senato. ALESSANDRO DI MEO - ANSA ARCHIVIO DEF

Rebibbia, Roma. Il sole è ancora alto e il polline spadroneggia nell’aria. Cancello dopo cancello, arriviamo dentro l’istituto penitenziario. Il teatro della struttura è stato allestito per un convegno, nei corridoi incrociamo qualche detenuto, non scambiamo alcuna parola, non si può, ma i sorrisi quelli sì, si sprecano, tra le smorfie di curiosità e sorpresa nel vederci. Non facciamo nessuna foto, abbiamo lasciato il telefono all’ingresso, insieme agli altri oggetti personali. Tutto ciò che abbiamo sono un pass, un quaderno e una penna. Entriamo, nelle ultime file troviamo Marco, Federico, Luigi, Nicolò e gli altri delegati in rappresentanza della redazione del Giornale Radio di Rebibbia. Sono stati loro a “convocarci” qui, per questo incontro dal titolo “Libertà di parola. Il diritto delle persone detenute ad esprimere il proprio pensiero e ad essere informate”.

Si parla di carcere e informazione, del diritto dei detenuti a esprimersi e a essere informati. Da sei anni, insieme ad Antigone, una trentina di detenuti lavora a una trasmissione radiofonica, con un giornale radio settimanale che irrompe tra le note per raccontare la “vita detentiva”. Marco prende la parola, rappresenta l’intera redazione coordinata da Giorgio Poidomani. «Quando sono tornato a Rebibbia, quattro anni fa, ho scoperto questa radio e ne ho subito preso parte», racconta Marco che ha indosso un cartello con su scritto: “Io sono Giulio”, Giulio Regeni ovviamente. «Nonostante la Costituzione», riprende, «la maggioranza dei rei o degli inquisiti sono ancora oggi considerati dei reietti». Per questo il giornale radio raccoglie le esperienze di vita dei 1.700 uomini che scontano una pena tra queste quattro mura. «Lo facciamo per dare voce a quei ragazzi che sono chiusi in quelle celle».

Federico ci saluta, ha una copia di Left in mano e ce la mostra sorridendo. All’interno di un carcere è possibile fruire di carta stampata, ma a pagamento «e non tutti se lo possono permettere», sottolinea ancora Marco che nel farlo prende in mano una copia del Messaggero in “formato cortesia”, quello pensato ad hoc per gli istituti penitenziari. Cioè un formato ridotto. «Questo è l’unico quotidiano distribuito qui, vedete? Ha solo tre pagine. Niente sport, niente cultura… Di tanto in tanto arriva anche l’Avvenire che, si sa, è un giornale espressamente cattolico».

Come può vivere o, addirittura reinserirsi un detenuto che non abbia la chiara idea di cosa accade lì fuori? Se lo chiedono in tanti, se lo chiedono soprattutto gli stessi detenuti. «Il sistema dell’informazione è cambiato, non è più come negli anni 80 e 90, oggi le notizie le trovi sul web», analizza il rappresentante della redazione. «L’informazione su internet è più libera, più vasta, più aggiornata e, soprattutto, gratuita. Ci pensate agli stranieri che così potrebbero informarsi sui loro Paesi d’origine e abbattere ogni barriera linguistica?», chiede e si chiede Marco.

Da sei anni, questi detenuti, provano a farla loro l’informazione, in entrata e in uscita. Marco mostra la pila di giornali che acquista ogni giorno. Leggono, Marco e i suoi colleghi, si informano. E informano gli altri detenuti senza censura, per il momento, sottolinea soddisfatto il redattore. «Anche se – ammette – c’è sempre un certo grado di autocensura, usiamo le parole meno forti… ci poniamo il problema». E lo ammette davanti alla platea intera, inclusi i vertici della Penitenziaria.

Diritto a essere informati e diritto a esprimersi, diritti politici, religiosi, diritti che vanno mantenuti anche quando si è in uno stato di restrizione di libertà. Sono tanti gli argomenti in discussione, troppi, per discuterli tutti oggi. Serve un’informazione costante, corretta. Che non faccia sensazionalismo, che non si fermi – anche morbosamente – al racconto delle storie dei singoli. Ma che sia specchio della realtà, il più possibile. Anche quando questa realtà è complessa, come dentro un carcere. Poco prima di terminare la relazione, Marco riporta le parole del suo compagno Federico: «È l’opinione pubblica che deve cambiare l’idea che si è fatta sui detenuti».

Cosa trovate nel numero #18 di Left

vauro senesi vignette

«Se otto ore vi sembran poche, provate voi a lavorare». Il primo maggio racconta le lotte per ridurre l’orario e per aumentare i diritti. Dopo la Lunga Recessione, con l’incubo della Stagnazione Secolare, ora che il lavoro si svaluta e diventa liquido, spesso viene pagato con i voucher, “a marchetta”? Ne scrivono Maurizio Franzini e Mario Pianta, ne parla Chiara Saraceno, Tiziana Barillà intervista commesse e cassiere che si ribellano alle discriminazioni, sociali e sessiste. Luca Barbarossa racconta il suo antico cantar per strada fino al concerto in piazza San Giovanni. Abbiamo poi scelto di pubblicare il documento di 56 costituzionalisti che criticano, nel merito, la riforma del Senato firmata da Renzi e Boschi. Qualcuno gli risponderà? Il testo è a pagina 22. In India le università sono l’ultimo baluardo contro l’estremismo indù: Matteo Miavaldi, pagina 42. E poi Mafia Capitale, la cronaca del processo, pagina 28. Con Sepùlveda, intervistato da Simona Maggiorelli, torniamo al tema della copertina, la resistenza contro ogni sopruso, contro il vento della restaurazione capitalista che soffia in Sud America e che ha per epicentro il Brasile, del “golpe bianco” ai danni di Dilma Rousseff, pagina 45. Ma non l’aveva messa sotto accusa la Camera, e a larghissima maggioranza? Sì, ma il New York Times, che non è proprio l’house organ del chavismo, ha definito “una banda di ladri” quelli che la accusano di corruzione e che vogliono sostituirla. Pane, lavoro e pace: si parla a Napoli della Carta di Science for Peace, un gruppo di scienziati contro la guerra. E Vauro, naturalmente: siamo lavoratori, non provate a sfotterci!

Che senso ha la piroetta di Berlusconi che ora appoggia Marchini

ANSA/ETTORE FERRARI

Dopo l’ennesimo vertice notturno Silvio Berlusconi prende di peso la sua litigiosa Forza Italia e la sposta su Alfio Marchini, candidato fino a ieri orgogliosamente «libero dai partiti» e che adesso è però contento di essere il candidato del partito di Silvio. Berlusconi dovrebbe aver così chiuso l’infinito tira e molla sulle candidature al comune di Roma nel centrodestra. E non si preoccupa affatto di esserci riuscito imponendo una vera e propria piroetta. Delle dichiarazioni con cui i forzisti dicevano che Bertolaso era «l’unico» candidato credibile, è evidentemente convinto, presto non si ricorderà più nessuno.

E se Bertolaso aveva sempre detto di essere nella piena disponibilità dell’amico Silvio, Berlusconi ha le sue buone ragioni per puntare su Marchini. Sono ragioni soprattutto di ordine interno, perché una candidatura dal profilo più moderato, come quella di Marchini, soddisfa un pezzo importante del partito, altrimenti tentato dal seguire un percorso simile a quello di Angelino Alfano o meglio a quelli di Denis Verdini, che si prepara a formalizzare lui sì un accordo con Renzi ed è convinto di allargare presto il suo gruppo. Antonio Tajani, ad esempio, ha più volte smentito ogni possibile scissione, ma un sostegno a Giorgia Meloni avrebbe indispettito non poco uno come lui che vuole mantenere – come nota polemico, da Fratelli d’Italia, Guido Crosetto – una certa posizione nel Partito popolare europeo. E lì Salvini è visto malissimo.

Il punto lo spiega bene Antonio Polito sul Corriere della Sera. «Non si può escludere che Salvini abbia ragione quando accusa Berlusconi di essersi mosso nella battaglia di Roma spinto da motivi “aziendali”, perché Mediaset avrebbe bisogno della benevolenza di Renzi», dice il giornalista, aprendo così alla teoria dell’accordo tra il premier e il leader di Forza Italia, teorizzata dal leghista: «Non sarebbe del resto la prima volta che l’ex Cavaliere confonde il bene delle sue aziende con il bene del Paese». «Ma su un punto Salvini ha certamente torto», continua Polito, «c’era eccome una buona, anzi un’ottima ragione politica perché Berlusconi rifiutasse la candidatura di Giorgia Meloni. E la ragione è che un centrodestra guidato dalla destra non può esistere, e infatti non è mai esistito né in Italia né in Europa».

Giorgia Meloni ha così gioco facile a dipingersi ora come unico candidato di centrodestra (anche se Marchini non ha certo un profilo così di sinistra, a cominciare dalla posizione sui campi rom, passando per le privatizzazioni), e può fare facile ironia: «Siamo contenti per la semplificazione del quadro», dice, «e ora ci aspettiamo un’ulteriore semplificazione con la diretta e aperta convergenza di Alfio Marchini e di Forza Italia sul candidato del Pd e di Renzi, Roberto Giachetti». Ha gioco facile, Meloni, ma è un po’ riduttivo, dunque, dire che Berlusconi lo fa solo per ricercare un rinnovato accordo con Renzi. C’è anche quello, è probabile, ma molto ha contato il braccio di ferro interno a Forza Italia, perso dall’area più di destra, dove però neanche tutti sosteneva Meloni. Non lo faceva, ad esempio, Renata Polverini, contenta così di rimanere – salvo sorprese – l’unica donna di destra ad aver governato qualcosa in città.

Ilaria Cucchi a Renzi e al ministro Orlando: «#StopTortura approviamo una legge entro quest’anno»

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Nazioni Unite e Consiglio d’Europa hanno sancito che la tortura è un crimine contro l’umanità, eppure, nonostante l’Italia abbia più volte assunto internazionalmente l’impegno di darsi una legge in merito, ad oggi nel nostro Paese il Parlamento non ha ancora approvato in via definitiva il testo che introduce il reato di tortura.
Abbiamo cinquemila norme penali che puniscono e proibiscono comportamenti di ogni tipo, ma non su questo il nostro codice penale cade nel mutismo più assoluto. Negli ultimi anni sia le Nazioni Unite durante la Revisione Periodica Universale sia la Corte europea dei diritti umani, a partire da quanto successo a Genova durante il G8 con l’irruzione nella scuola Diaz, ci hanno chiesto di colmare tale mancanza. In questi giorni sul sito change.org Ilaria Cucchi, sorella di Stefano, brutalmente ucciso mentre era in carcere, ha pubblicato una petizione indirizzata al ministro della giustizia Andrea Orlando, al presidente del Consiglio Matteo Renzi e al Parlamento perché si approvi entro l’anno una legge contro il reato di tortura.

«Mi chiamo Ilaria, ho 42 anni e 2 figli. Vivo a Roma e di Roma è tutta la mia famiglia. È qui che sono cresciuta: non da sola, ma insieme a mio fratello Stefano, quello “famoso”. Stefano Cucchi, “famoso” perché morto tra sofferenze disumane quando era nelle mani dello Stato e, soprattutto, per mano dello Stato.
Mio malgrado, sono molte le persone che mi conoscono in questo Paese. Sanno come sono fatta. Sanno – perché da sette anni ormai non mi stanco di ripeterlo – che sono in ottima forma fisica e che sono viva. Al contrario di mio fratello, che pesava quanto me ma che vivo non è più.
Nell’ottobre del 2009 non sono stata picchiata. Non mi hanno pestato, non mi hanno rotto a calci la schiena, non ho avuto per questo bisogno di cure mediche. Non mi hanno torturato. Sono viva. Sono viva e combatto con una giustizia che ha dimenticato i diritti umani.
Sono viva e da allora mi batto per non smettere di credere. Ecco perché chiedo che Parlamento e Governo approvino finalmente, ed entro quest’anno, il reato di tortura in Italia. Stiamo chiedendo all’Egitto verità per Giulio Regeni. Dobbiamo farlo. Ma ricordiamoci che lo facciamo dall’alto del fatto di essere l’unico Paese d’Europa a non avere una legge contro le brutalità di Stato. La Corte di Strasburgo ha già condannato l’Italia per gli orrori del G8 di Genova nel 2001. E ci ha imposto l’introduzione nel nostro codice penale del reato di tortura. Che aspettiamo?»

In meno di 24 ore la petizione ha raggiunto più di 90 mila sostenitori e punta in a raggiungimento di altre 150.000 firme. Ma soprattutto a una legge entro il 2016. Come scrive Ilaria Cucchi: «Penso a Giulio Regeni, Giuseppe Uva, Federico Aldrovandi, Riccardo Magherini. Tutte queste storie, tutte le persone dietro a queste storie ci testimoniano, con la loro morte che è una morte di Stato, che uno Stato di diritto senza diritto è una banda di predoni.»

Siria, un ospedale distrutto ad Aleppo. La tregua è quasi finita

Un ospedale sostenuto dai mezzi di Medici Senza Frontiere ad Aleppo è stato bombardato e distrutto ieri sera. All’interno dell’edificio sono morte almeno 14 persone tra pazienti e staff sono rimaste uccise. Tra le vittime un bambino e 3 medici di cui uno degli ultimi pediatri rimasti ad Aleppo. «L’ospedale era noto a livello locale e chiunque sapeva dove fosse Al Quds….ci aspettiamo che il bilancio sia destinato a salire».

Il bombardamento su Aleppo è solo l’ultimo episodio di un’intensificazione delle operazioni di guerra e di violazioni della fragile tregua siriana. I morti e gli attacchi aumentano tanto è vero che l’inviato speciale Onu Staffan De Mistura, dopo aver relazionato al COnsiglio di sicurezza ha esortato gli Stati Uniti e la Russia a intervenire «al più alto livello possibil» per salvare i colloqui di pace di Ginevra.
Parlando dopo il briefing al Consiglio, il diplomatico italo-svedese ha detto che la tregua parziale è «regge a stento e potrebbe collassare in ogni momento, nelle ultime 48 ore un siriano è morto ogni 25 minuti». Secondo il Syrian Observatory for Human Rights nell’ultima settimana ci sono stati almeno 100 morti provocati da attacchi di truppe governative e ribelli.