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Bologna la rossa capitale dell’astensione?

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi in Regione per la firma dell'accordo sul 'Passante di mezzo' di Bologna, con il presidente della Giunta Stefano Bonaccini, il sindaco Virginio Merola, i vertici di società Autostrade, Bologna, 15 aprile 2016. ANSA/GIORGIO BENVENUTI

Tra i capoluoghi che vanno al voto il prossimo 5 giugno, insieme a Roma, Napoli e Milano, Bologna è la città che più può impattare sul risultato di questa tornata elettorale. Il risultato è apparentemente scontato e il sindaco uscente, Virginio Merola, nonostante un indice di gradimento non esaltante (49%, 88esimo su 101, rilevazione Sole 24 ore di gennaio 2016) sembra lanciato verso la riconferma, più per mancanza di veri competitor che per meriti particolari. A ulteriore riprova di un risultato dato per acquisito, la recente dichiarazione di Renzi, che – in visita a Bologna per inaugurare un progetto di allargamento della tangenziale dal sapore fortemente elettoralistico («Il progetto ancora non lo abbiamo», ha dichiarato Merola il giorno dopo, «visto che Autostrade ha tempo fino al 30 giugno per farlo, ne discuteremo meglio a luglio») – ha battezzato il candidato del Pd come sindaco «anche per i prossimi 5 anni».
L’endorsement del presidente del Consiglio non è stato particolarmente pubblicizzato visto il calo di popolarità di Renzi dovuto anche alla recente battaglia referendaria (a Bologna hanno votato più di 100mila persone, circa il 37%), ma è stato visto comunque come una conferma delle buone probabilità di successo. Insomma i giochi parrebbero già fatti.

Eppure da poco più di una settimana circola un sondaggio commissionato dalla trasmissione Piazza Pulita che disegna un quadro più complesso. Il Pd è dato al 42%, contro il 24% della Lega, il 22% del M5s e il 10% di Coalizione Civica. Il dato più impressionante è però quello della partecipazione al voto che prevede il 46% di astenuti e indecisi. Con tali cifre e un mese e mezzo di campagna elettorale davanti il risultato appare molto meno certo, tanto più che Forza Italia e il resto della destra non hanno ancora indicato un candidato sindaco e sono sempre più vicini al collegamento con Lucia Bergonzoni, candidata sindaco della Lega. Il ballottaggio con i leghisti non sembra più così inverosimile, tanto da spingere Merola a solleticare la pancia degli elettori più intolleranti: rispondendo a chi gli chiedeva della gestione dei flussi migratori il sindaco uscente ci è andato giù pesante: «I bolognesi non avranno alcun disturbo, bisogna però che i migranti abbiano pazienza e non vadano in giro a chiedere l’elemosina».
Con questi toni, in una città in cui i temi della sicurezza e del famigerato “degrado” han fatto breccia da tempo anche nell’elettorato più moderato, è facile comprendere che una larga fetta di cittadini, soprattutto di sinistra ma non solo, non si senta più rappresentata: si è rotto quell’equilibrio fragile che aveva consentito alla giunta Merola di barcamenarsi tra il nascente partito della Nazione ed una storia di solidarietà e uguaglianza decennale, già duramente incrinata dalla vittoria di Guazzaloca e dalla gestione securitaria di Cofferati. Gli sgomberi di alcune occupazioni abitative (ex Telecom) e del centro sociale Atlantide avvenute a opera del prefetto – e a quanto dichiarato “all’insaputa” dello stesso sindaco – hanno inasprito i conflitti sociali, aprendo una ferita profonda con una fetta di città. All’ombra delle due torri, insomma, si agitano fenomeni complessi che interrogano tutta la società italiana e non permettono più di considerare Bologna quell’isola felice, faro di cultura e innovazione, tolleranza e integrazione, che a lungo abbiamo imparato ad ammirare al punto da etichettarla come proverbiale esempio della socialdemocrazia all’italiana.

Bologna “la dotta” ha perso di recente anche il suo intellettuale più noto, l’alessandrino Umberto Eco, quasi a voler simboleggiare la fine di un’epoca. È di questi giorni la clamorosa notizia della bocciatura a scrutinio segreto del nuovo e giovane Rettore Ubertini (classe 1970) – per cui aveva votato a favore persino Romano Prodi che si è poi immediatamente dimesso in polemica – dall’assemblea dei soci della Fondazione Carisbo, la maggiore fondazione culturale bolognese.
Bologna “la grassa” ha, in barba alla sua celebre tradizione godereccia e culinaria, introdotto nelle mense scolastiche i menù vegani, facendo parlare gli esperti di “rischio anoressia”.

Bologna “la rossa” ha invece scoperto il daltonismo politico: il giallo a cinquestelle e il verde Lega sostituiscono progressivamente ciò che resta degli stanchi eredi del Pci. Sarebbe tutto qui se in fondo al tunnel non ci fosse una luce rosso-blu che vale la pena di raccontare. Rosso e blu sono i colori di Bologna, ovviamente, ma anche di “Coalizione Civica”, una lista civica, per l’appunto, nata da un appello lanciato da alcuni cittadini nel luglio 2015 e rivolto alle energie civili che hanno animato i movimenti per l’acqua e per la scuola, le lotte alle infiltrazioni mafiose, le mille forme di autorganizzazione e solidarietà tra cittadini per «dare a Bologna un’amministrazione dedita al bene comune».


 

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La Costituzione imposta che dividerà i cittadini

Il testo riformato della Costituzione della Repubblica italiana è stato approvato in seconda lettura da una Camera semivuota e con i soli voti della maggioranza. Le opposizioni hanno lasciato l’aula. Il testo è nato e si è imposto come espressione di parte e che soddisfa prima di tutto e solo una parte. È un esempio di come la politica ordinaria voglia costituzionalizzarsi; di come il potere di una parte voglia e riesca ad imporre le sue regole a tutti e su tutti. Dichiarando che chi si oppone non capisce o, se capisce, è conservatore. A questa visione manichea del prendere o lasciare – per cui hanno ragione solo coloro che vincono – si adatta bene lo stile maggioritarista di questo testo rivisto della Costituzione, un testo scritto con lo scopo dichiarato di dare alla maggioranza un potere straordinario – a questo serve la propaganda del “fare” e del “decidere”-, senza troppo preoccuparsi di equilibrarlo con poteri di garanzia e di controllo adatti a questo sbilanciamento esecutivista dell’ordinamento istituzionale. La legge di revisione della Carta appena approvata è come uno schiaffo al costituzionalismo liberaldemocratico che con fatica e alterne vicende si è fatto strada in questi due secoli e mezzo.

Dopo le Costituzioni “concesse” dell’Ottocento; dopo quelle conquistate e condivise del Novecento; una nuova categoria dovrà essere coniata per denotare questa revisione: quella di Costituzione imposta. La Costituzione della maggioranza è una Costituzione imposta – dividerà i cittadini come ha diviso il Parlamento e sarà a tutti gli effetti amata solo da chi ne gode i frutti, ovvero da chi governa (non importa chi). Questa revisione svela l’ipocrisia del governo rappresentativo, mostrando che, come scrivevano i critici della democrazia, esso non è che uno stratagemma astuto grazie al quale una minoranza comanda con il favore della maggioranza.
Ma chi difende la democrazia non può accettare questa concezione, non può concludere che, alla fin dei conti, tutti sono eguali e la differenza tra un governo democratico e un governo autoritario è solo una distinzione sofistica. Questa revisione e il modo con il quale è stata voluta e gestita fa un pessimo servizio alla democrazia – che in effetti disprezza grandemente facendone l’equivalente di un orpello retorico che serve solo a far perdere tempo a chi sta al governo. Il dirigismo (il mito scientista e buro-tecnicratico della governmentality di cui parlava Michel Foucault) è il mito che muove l’ideologia del “fare”. Visto che democrazia è una parola vuota, perché non mettere nero su bianco che chi governa deve avere una corsia preferenziale? L’ideologia sponsorizzata da questa revisione è un capitolo nel libro scritto dei critici della democrazia.
Per capirlo torniamo all’approvazione della riforma. Quell’importantissimo momento è passato senza quasi essere notato. Non ha avuto titoli cubitali e a tutta pagina. L’approvazione ha come chiuso un processo il cui esito era scritto – questo lo spirito che una stampa nazionale quasi tutta allineata con la maggioranza ha patrocinato, preparato e gestito. Tanta stanchezza dell’opinione si adatta poco al pomposo proclama con il quale Matteo Renzi presentò la proposta in Senato lo scorso ottobre – «aspettiamo questa riforma da settant’anni». Tanta stanchezza si spiega con il clima consensuale che circonda questa maggioranza risicata – segno della discrepanza tra opinione e numeri: questo spiega il senso della revisione imposta. Ha numeri risicati in Parlamento ma un’opinione quasi unanime orchestrata dai media nazionali. Chi governa? Governa l’opinione o governano i numeri?


 

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Resistenza ed etica del lavoro. La strage di Niccioleta

ascanio-celestini-resistenza 25 aprile

Lavoravano tutti, lavoravano tanto, lavoravano sempre i minatori della Maremma. Si chiamavano anche operai di miniera. Gente che se ne va sotto terra. Se ne va lì sotto a raccogliere argento e carbone, pirite e lignite.
All’inizio di agosto del 2012 vado a trovare Andrea Camilleri nella sua casa di Bagnolo di Santa Fiora in provincia di Grosseto. Ci sediamo sotto due castagni nel giardino. Si chiamava Angelo Mai il vecchio proprietario che gli ha venduto il terreno. Gliel’ha venduto e poi ci ha ripensato è andato a trovarlo con l’accetta e voleva portarsi via quei due grossi alberi. Diceva che gli aveva venduto la terra, ma non gli alberi che ci stavano sopra, ma Andrea riuscì a dissuaderlo e stanno ancora lì nel suo giardino a fare ombra. C’era anche un serpente in questo pezzo di terra alcuni anni fa. “Era un innocuo verdone” mi dice. Il nome col quale viene chiamato dipende dai posti. A Roma quel tipo di biscia l’ho sempre sentita chiamare “frustone”, in altri luoghi è chiamato “blacco” o “biacco”. “Alle sette del mattino attraversava qui e se ne andava” mi dice, “alle sette di sera riattraversava. Allora gli davamo il latte e lui beveva”. Lo chiamavano Don Gaetano a quel serpente e gli davano il latte come a un gattino.

Sotto ai castagni di Bagnolo salvati dall’ascia di Angelo Mai, però, Andrea Camilleri non mi vuole parlare della sua casa e di quando c’è venuto a stare per passare qualche settimana d’estate. Ma lui è uno straordinario narratore e prima di arrivare al centro della storia mi ci vuole accompagnare piano piano. E ancora per un po’ ci gira attorno. Mi racconta che in ogni paese c’è un cognome che lo caratterizza. Per esempio a Castel del Piano si chiamano tutti “Ginanneschi” dice “e tutti si chiamano Peppe di nome. Una volta venne uno a chiedere dei mietitori e partirono otto mietitori, otto Peppe Ginanneschi… racconto meraviglioso del sindaco di Castel del Piano, narratore meraviglioso. Otto Peppe Giganteschi e un asino che si chiamava Peppe”.

Così, piano piano, Andrea mi avvicina al suo racconto come quando fai un regalo a qualcuno e glielo porti in un pacco incartato e infiocchettato. Prima di capire cos’è devi togliere il fiocco e scartarlo. Il regalo di Andrea è una storia del paese di Niccioleta.

Ci stava la miniera a Niccioleta, ma non solo lì. C’erano miniere in molti paesi attorno. Le chiamano “colline metallifere” e coprono un territorio che interessa quattro province. Furono sfruttate soprattutto tra la fine dell’800 e la prima metà del ‘900 quando ai cognomi tutti uguali che riempivano questi paesi se ne aggiunsero altri che venivano dal Veneto e dalla Sicilia e dalla Sardegna. Venivano per lavorare Ernesto Balducci che era nato da quelle parti parla della “loro religione del lavoro e della famiglia, questa elementare religione del popolo che essi hanno vissuto fino a morirne”. E infatti è proprio di questo che Camilleri vuole parlarmi.
Stava finendo la guerra ai primi di giugno del 1944 da quelle parti e i tedeschi cominciavano ad andarsene, ma a Niccioleta i minatori temono che prima di partire facciano saltare in aria la miniera. Così prendono le poche armi che hanno, qualche pistola e qualche fucile da caccia e fanno i turni di guardia per difendere il proprio lavoro. Dura poco perché si accorgono che se davvero arrivassero i tedeschi sarebbero meglio armati e per gli operai di Niccioletà finirebbe male. E infatti i tedeschi arrivano, ma sono tedeschi solo il comandante e i sottufficiali. I militari erano tutti italiani con divise tedesche. Si tratta dei militari scappati dopo l’8 settembre che i tedeschi avevano arrestato e internato. A loro era stata data la possibilità di tornare in libertà vestendo la divisa repubblichina o tedesca. La maggior parte rifiuta, ma quelli che accettano sanno che verranno utilizzati per un lavoro di repressione nei confronti di partigiani e civili. Lo sanno e accettano. Proprio questo accadde a Niccioleta. Il 13 giugno vennero fucilate sei persone e il giorno successivo altre 77. (il racconto di Ascanio Celestini continua su Left in edicola. In questo intervento l’attore e regista racconta la genesi del libro Quanto vale un uomo, scritto con Andrea Camilleri, Marco Paolini e Marco Baliani per l’editore Skira)


 

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La “troppa democrazia” e l’arte di tendere la storia

Referendum e Costituzione, Costituzione e Resistenza. Resistenza e democrazia. E, persino, vita e Resistenza. Volevamo mettere insieme tutto questo. Per il 17 aprile scorso, per il 25 prossimo e per l’ottobre che verrà. Settimana difficile questa, al solito. Ma per quelle facili non è tempo. Perché resistere oggi non vuol dire difendere la libertà, ci racconta Ascanio Celestini, ma il lavoro. Persino dalla morte. Quella fisica. Come a Taranto. Lavorare e morire insieme. Come un tempo a Niccioleta. Lo leggerete. La Resistenza del Terzo millennio vuol dire riuscire a “tenersi” un lavoro anche se fa morire te e i tuoi cari. Vuol dire resistere “in vita”. Come non sono riusciti a fare quei 400 in mare. E vuol dire anche resistere, come scrive Nadia Urbinati, a quelli che impegnati “a fare” ti chiedono di non rompere troppo le scatole. Di non chiedere troppo, di non volere troppo. Semmai la vita, quella fisica. Per il resto c’è tempo. E ci pensano loro, perché loro “fanno”: «Ciascuno faccia il proprio lavoro, noi “facciamo” e governiamo e voi “fate” i vostri interessi e lavorate; è sufficiente che voi designiate con il voto ogni cinque anni una classe di politici, ed è desiderabile che rompiate poco le scatole tra un’elezione e l’altra e per questo, che il vostro vociare venga ben filtrato e tenuto in sordina. Noi penseremo al vostro bene, noi sbloccheremo il Paese – voi fidatevi e lasciateci governare», così leggerete su Left di questa settimana. “Si prega di non pensare”, sembra ci dicano i nostri governanti.

Resistenza, vita e lavoro nello scritto di Celestini. Resistenza rifiuto e amore per la “troppa democrazia” in quello della Urbinati. Per Left è impossibile “non pensare”. Siamo come i partigiani di Santa Libera che si ribellarono a Togliatti, di cui scrive Raffaele Lupoli. Utopici e irragionevoli, non riusciamo a non pensare. Qualche giorno fa qualcuno ci scriveva irridendo la parola “democrazia”, che valore ha la democrazia dunque? Ecco, per noi ne ha uno grande. Immenso. Non è tempo per scherzare. Con la democrazia. Non è tempo per non capire che solo lei è garante di uguaglianza e libertà, ed è garante di vita per una Sinistra che è venuta e troverà anche rappresentanza politica. Perché, come scrive sempre la Urbinati, questo governo con questa riforma costituzionale sembra voglia portare «a compimento l’idea della Trilaterale che nel 1975 lanciò il progetto di domare i movimenti di critica e di contestazione, accusati di destabilizzare i governi con le loro richieste di giustizia sociale e le lotte per i diritti civili. Come scriveva Samuel Huntington nel documento della Trilaterale che si intitolava La crisi della democrazia (“crisi” perché vi erano troppo attivismo dei cittadini e troppe richieste della società) i cittadini vogliono sapere troppo, anche ciò che è prudente che solo i governi sappiano. La troppa democrazia è stato il costante problema dei conservatori a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale – e la lotta per cambiare le democrazie parlamentari è parte di questo progetto». La “troppa democrazia” è stato il costante problema dei conservatori. Anche dei nostri “giovani” conservatori di potere (e non di democrazia), perché nel disprezzo del «ciaone» di Carbone non c’è “troppa democrazia”. Nella definizione di «referendum bufala» di Renzi non c’è “troppa democrazia”. Come anche nell’invito all’astensionismo di Napolitano non c’è “troppa democrazia”. Mentre nello scritto che ci ha inviato nella notte Chiara Saraceno, chiedendoci se ci interessasse pubblicarlo, sì, c’è troppa democrazia. «Non mi indigno quindi per il fallimento del referendum ad opera dei non votanti. Mi indigno che Renzi (con il sostegno, ahimé, di Napolitano) abbia dichiarato stupido, vittima di una bufala, chi è andato a votare nel merito e populista chi lo ha incoraggiato a farlo. Non è un messaggio destinato a rafforzare la fiducia dei cittadini verso la politica e le istituzioni e a incoraggiare la cittadinanza attiva».

Si impone, arrivati a questo punto, un nostro “ciaone”, ideale e gentile, alla ganga governante, dobbiamo fare davvero troppe cose in questi mesi. E ve le dobbiamo raccontare tutte. Resistere, per Left, vorrà dire esercitare «l’arte di tendere la Storia», come ci racconta Pino Tripodi a pagina 25. Perché il tempo per noi è prezioso. Non è denaro.

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La rete degli scrittori si mobilita per il poeta Zeichen. Forza Valentino!

Il mondo della cultura si mobilita per Valentino Zeichen. Il poeta è stato ricoverato in ospedale dopo essere stato colpito da ictus. Il timore era anche di non poter rientrare nella casa dove vive da anni in maniera precaria. Ripubblichiamo qui l’intervista dal titolo Una questione di sensibilità che ci aveva concesso in occasione dell‘uscita del suo primo romanzo La sumera,(Fazi) in un primo momento selezionato per il Premio Strega.

«Ho iniziato a leggere con assiduità in riformatorio: c’era una biblioteca prevalentemente di libri d’autore» racconta il poeta Valentino Zeichen. «Costituiva un potenziale conoscitivo disinnescato, dato che la maggior parte degli internati erano analfabeti». Fu così che «avventurandomi per caso lungo certi scaffali feci degli incontri affascinanti, Salgari, Tolstoj, Dostoevskij, Swift. Leggevo intuitivamente e cominciai a fare nessi fra i libri».
Così si presentava Zeichen nel 1975 nel volume .Il pubblico della poesia curato da Berardinelli e Cordelli per Castelvecchi. Nato nel ‘38 a Fiume e approdato a Roma nel ‘50, scappando da una famiglia che era quasi peggio del riformatorio, Zeichen da allora vive in estreme ristrettezze nella Capitale, scrivendo soprattutto poesie,«Penso che il poeta sia un servizio pubblico, che debba essere accessibile a tutti», dice di sé. Respingendo però l’idea di chiedere un aiuto. «La legge Bacchelli equivale/ a un premio Nobel della miseria/anche se salva tanti finti artisti dalla miseria», annota in Aforismi d’autunno. La misura breve, aforistica alla Karl Kraus, l’espressione ironica , fulminante, una scrittura icastica e leggera sono da sempre la cifra letteraria di Zeichen. Che dopo molte raccolte di poesie ora, in età matura, esordisce nel romanzo con La sumera, edito da Fazi. Il 19 marzo Zeichen ha parlato con Aurelio Picca e Renato Minore a Libri Come di questo libro che celebra la bellezza di una Roma dove gli dei sono atei. E quella delle ragazze incontrate nei pomeriggi d’estate nei musei. («In fondo alla scalinata si rese conto che quel volto apparteneva all’arte dello scolpire e non del dipingere»).

Sempre disponibile al dialogo e all’incontro Zeichen ci accoglie dicendo.«Abbiamo tutto il tempo, il mio è a perdere, scorre».

Perché un romanzo dopo una vita da poeta?

A pranzi o alle cene ho ascoltato molte conversazioni in vita mia. Fondamentale per scrivere romanzi è un vero ascolto. È importante capire, sentire il senso del ritmo delle battute, capire quando una conversazione crolla e perché. Gli scrittori anglosassoni sono bravi nei dialoghi, proprio perché stanno attenti a quello che gli altri dicono. La risposta è veloce, a tempo. In passato ho scritto radiodrammi, ho una certa praticaccia.

È in parte autobiografico questo ritratto di Roma anni Ottanta?

Forse sì e poi c’è la Roma di allora, certi scenari, problemi climatici, di clima culturale.

Si diverte a prendere in giro i manierismi delle avanguardie, il teatro catacombale, in antri bui con sedie scomode, per dirla alla Ennio Flaiano.
C’è una certa teatralità tipica di quegli anni, una teatralità soprattutto gestuale, non dialogica. Ma soprattutto c’è l’arte. Sì l’ossessione dell’arte. Uno mette nei romanzi o nelle pièce ciò che conosce meglio.

Una passione che innerva anche il linguaggio?

Come no? Lo nutre. La felicità dei romanzi sta in quello che uno ama e sente. D’un tratto mi sono reso conto che oggi tutti sono molto ragionevoli, molto abili nel ragionamento, accade socialmente, ma io dico la sensibilità dove è finita? È morta? Le persone non sono più sensibili? Neanche la parola viene più usata. “Sensibilità “sembra una parola assolutamente scomparsa, quasi fosse psicotica, qualcosa di malato da rifiutare.

Mancano di fantasia le trovate di artistar come Hirst con il suo teschio di diamanti ?

Mi viene da ridere quando penso a Damiem Hirst. Gli ho dedicato il testo teatrale Apocalisse dell’arte, che ho scritto per Le Edizioni della Cometa. Lei sa che al museo della scienza di Vienna c’è il varano di Comodo? In quel testo ho immaginato che Hirst si presenti all’ingresso con i documenti per trasportarlo al Kunsthistorisches Museum che sta davanti a quello della scienza. Così, con un trasloco, crede di aver risolto la faccenda e di aver cambiato di segno quel meraviglioso oggetto imbalsamato.

Hirst lo ha fatto con lo squalo in formaldeide!

Esatto! Si potrebbe fare, ho immaginato io, anche con il varano. Sarebbe una cosa pazzesca. Una lezione sull’assurdità dell’arte da Duchamp in poi.

Portando l’orinatoio al museo ci ha fregato?

Beh, certo, Duchamp ha fatto un bello scherzo a tutta l’arte successiva a lui. Portando qualunque cosa, qualsiasi oggetto, nello spazio museale, lo distruggono. Non c’è più l’aura dell’arte, ma solo la diffamazione di essa. La sensazione è questa…. come vede io rincorro sempre la sensibilità, la mia disperazione è un po’ questa. La morte della sensibilità, che non c’è più.

Oltre alla sensibilità ciò che conta per il poeta è la fantasia, che lei sembra distinguere dall’immaginazione, parlando di Shakespeare. È così?

Io dico che vanno a braccetto. Esiste un’immaginazione concettuale e c’è una fantasia che apre al possibile. È ciò che non si trova nella tassonomia delle scienze. Invece la fantasia contamina il reale, è l’imprevedibile…

Al fondo cosa la colpisce di più in Shakespeare?

Come è possibile che con un inglese di quattrocento anni fa possa produrre quel ventaglio di sentimenti, di conflitti e anche di grandi riflessioni? Questo è veramente il meraviglioso. Evidentemente l’inglese oggi è una lingua funzionale piena di neologismi adatti a questo scopo. Però lui, con una lingua seicentesca, in formazione, riesce a dire un mondo. Ecco la meraviglia, che commuove.

Tra i poeti italiani del Novecento ?

Amo i versi di Montale. Ma trovo anche che una poesia come “La pioggia nel pineto “di D’annunzio sia inimitabile, perché è costruita con un ritmo particolare… è costruita con l’acqua…

Invece non ama molto Pasolini, mi par di capire. Non mi interessa molto, le sue problematiche non mi interessano. Era un moralista?

Sì, forse, nel senso che avrebbe voluto privare del progresso futuro i giovani. Dopo l’Unità d’Italia aspiravamo a diventare un paese moderno, sviluppato. Con questa sua visione antimoderna, per una sorta di ingenuità bucolica, negava il valore di quello che tutti desideravano, pretendeva che non lo desiderassero. Ma non puoi continuare a zappare se c’è il trattore, non puoi pretendere che la gente usi la vanga o l’aratro tirato da un cavallo, da una bestia da soma, se sono state inventate le macchine.

Dunque questo suo vivere ai margini, questa sua vita un po’ bohémien, senza agi, non è dettata anche da un rifiuto della modernità?

Assolutamente no! Io sono modernissimo. Sono per la tecnica.

Una volta si è definito un ribelle, cosa significa per lei questa parola?

Forse un ribelle individualmente. Significa avere una propria opinione. Avere punti di vista diversi da quello che è il pensiero corrente. Per esempio non mi sono mai occupato d politica, non ho mai sposato un partito. Sono un impolitico come diceva Thomas Mann, non perdo tempo in giochi di ingegneria sociale, come ha fatto invece la gran parte dei miei coetanei, che hanno perso la testa intorno a questo problema, che forse non spettava loro.

La poesia come ricerca di un senso più profondo è una forma di ribellione al linguaggio razionale e ordinario?

Sì la poesia può far capire degli aspetti della vita. Ma anche della società. In questo senso io sono un poeta ironico, con un certo humour. Questo mi viene abbastanza riconosciuto dalla critica. In questo c’entra anche il fatto che ho una vita particolare, sono profugo, fiumano, vivo a Roma, le sono fedele perché mi ha accolto. In un certo senso me la sono cavata, ho fatto diversi lavori, sono uno che non parte da situazioni di privilegio. Anzi.

Adesso come vive la candidatura a un premio ufficiale come lo Strega?

Come vivo questa cosa? Ad essere del tutto franco, qualunque sia l’esito… con una buona dose di indifferenza.

Latina, il successo dello sciopero dei braccianti indiani

Dei braccianti indiani della provincia di Latina si è parlato molto in questi giorni a causa del primo sciopero di questi lavoratori. Left ne parla da mesi, abbiamo pubblicato inchieste, video e piccoli articoli per denunciarne lo sfruttamento, il lavoro a 3,5 euro l’ora e le condizioni di lavoro precarie. Sciopero e manifestazione sono stati un successo, anche dal punto di vista dell’attenzione dei media. E per questo ci fa piacere riprendere anche il video della manifestazione.

Da Alba Dorata a Forza Nuova, i neonazisti d’Europa fanno rete. E Bruxelles li finanzia con 600mila euro

Manchester City, UK. White Pride Neonazi

Dentro ci sono i negazionisti e i sostenitori della supremazia bianca. Alliance for peace and freedom è il coordinamento paneuropeo che riunisce le formazioni di matrice e ispirazione neofascista e antisemita. Sono dieci i membri dell’allenza, tra cui gli italiani di Forza Nuova e i greci di Alba Dorata. A capo, il forzanovista italiano Roberto Fiore. Il Parlamento europeo ha deciso di finanziare le casse della loro fondazione con 600mila euro, per l’anno 2016. Un finanziamento che l’Europarlamento eroga ogni anno a partiti e fondazioni che hanno un raggio d’azione europeo. Così ripartiti: 197.625 euro andranno ai tedeschi dell’Europa Terra Nostra, (Afp), che si vanno a sommare a un altro finanziamento, quello per i partiti europei, da 400mila euro. Totale, appunto, quasi 600mila euro.

Roberto Fiore, leader di Forza Nuova e presidente di Afp
Roberto Fiore, leader di Forza Nuova e presidente di Afp

Chi sono i membri di Afb
Presidente è l’italiano Roberto Fiore, (una sua breve biografia, potete leggerla cliccando qui). Segretario generale è lo svedese Stefan Jacobsson, leader dell’ex partito neonazista svedese e convinto militante e sostenitore della supremazia bianca. Poi, dell’Afp fanno parte anche il belga Hervé Van Laethem (più volte condannato dalla giustizia belga per razzismo e fiero sostenitore della libertà di espressione per il negazionismo); i tre membri del partito neonazista greco, Alba Dorata che siedono al Parlamento europeo e i membri del Partito Nazionaldemocratico di Germania, anch’esso neonazista (al punto che 5 governatori della Repubblica Federale hanno presentato alla Corte costituzionale tedesca la richiesta di metterlo fuori legge).

 

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militanti di Alba Dorata

Un finanziamento fuorilegge
Chi riceve un finanziamento – partito o fondazione che sia – deve rispettare i principi di «libertà, democrazia, rispetto dei diritti umani, libertà fondamentali e stato di diritto». Così è previsto dalla normativa sui finanziamenti Ue ai partiti europei. Poi, nel 2014, Bruxelles ha approvato nuove regole sui criteri per finanziare partiti politici e fondazioni, che entreranno in vigore da gennaio 2017, aggiungendo un «prerequisito» – così recita il testo – che è il «rispetto per i valori europei» sanciti dall’articolo 2 dei Trattati».
Ha tenuto conto di questo il Bureau, il massimo organo decisionale amministrativo del Parlamento, composto dal presidente Martin Schulz, 14 vice presidenti (tra i quali gli italiani Antonio Tajani e David Sassoli) e cinque questori?

Il Parlamento europeo, difende il suo operato, sostenendo che sul sito internet di Afp «non c’è nulla che sia contro l’Europa, la libertà o la democrazia». E aggiungono: «Non possiamo metterci a valutare le dichiarazioni dei singoli componenti di un partito». Ma gli eurodeputati hanno una possibilità per bloccare la decisione: un quarto di loro, in rappresentanza di almeno tre gruppi parlamentari, può chiedere che l’erogazione venga sottoposta a un controllo di applicabilità in casi come questo. Adesso, a chiedere una verifica delle procedure sono David Sassoli (che pure è membro del Bureau e ha votato a favore dello stanziamento). E altri due italiani che annunciano battahlia contro quella che hanno definito una «vergogna»: Sergio Cofferati e Curzio Maltese. Persino il popolare Manfred Weber (Ppe) – che non ha esitato a descrivere i membri dell’Afp «i peggiori radicali della destra e neo-fascisti» – e il liberale Frederik Federley – che ha definito il finanziamento in questione «totalmente inaccettabile».

Glifosato, l’erbicida “sospetto” in alimenti e bevande

In Francia è bandito,  in Italia – neanche a dirlo – è oggetto di scontro politico, con il M5s che attacca il Pd per aver avallato, con il suo voto al Parlamento Ue, la possibilità di usarlo ancora per 7 anni (invece dei 15 richiesti: la possibilità di usarlo in Europa scade a fine anno). Il glifosato, noto come Roundup prima che scadesse il brevetto di Monsanto, è un erbicida usato massicciamente da decenni in agricoltura contro le piante infestanti.

Il più utilizzato (è presente in 750 formulati) per la sua efficacia e uno di quelli, tanti, delle cui ricadute ambientali e sanitarie si sospetta di più. Inquinante per l’acqua e dannoso per gli ecosistemi, per lo Iarc è sospettato di essere cancerogeno, mentre il giudizio dell’Efsa, l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare, è meno netto. Forse sì contro forse no.

Oggi a Roma il mensile Il Test Salvagente presenta il numero in uscita con i risultati delle analisi condotte su circa 50 alimenti e su 26 campioni di acqua di rubinetto di tutta Italia. Obiettivo: misurare la presenza di glofosato negli alimenti a base di cereali che arrivano sulle nostre tavole e nell’acqua che beviamo.

Uno dei relatori all’incontro, Mariagrazia Mammuccini, portavoce della coalizione StopGlifosato – che riunisce una quarantina di realtà dell’agricoltura e dell’ambientalismo – critica aspramente l’atteggiamento dell’Europa, che ha votato per prolungare l’uso dell’erbicida. “O ci sono prove certe che il glifosato non ha conseguenze sulla salute o, invece, i dubbi ci sono e allora è indispensabile rispettare il principio di precauzione e vietare del tutto l’erbicida, perlomeno fino a quando non sarà conclusa una valutazione scientifica indipendente sulla sostanza”.

L’inchiesta de Test Salvagente utilizza la definizione “roulette russa”, per evidenziare quanto sia “difficile trovare prodotti senza tracce del pesticida”. Pasta, farina, fette biscottate e corn flakes: le analisi condotte in due laboratori qualificati hanno individuato 12 casi di alimenti contenenti tracce dell’erbicida e due campioni d’acqua “positivi”.

Ora, spiega Riccardo Quintili, direttore del Test Salvagente, «il pallino è nelle mani della Commissione europea» che entro giugno deve decidere sul rinnovo dell’autorizzazione a usare il pesticida. E la speranza è che il principio di precauzione non si venda al miglior offerente.

Il partito dei vigliacchetti dal grilletto facile

Ieri sono accaduti due fatti slegati ma molto più vicini di quel che possa sembrare, uno di quei segnali che arrivano e vanno presi perché sono un messaggio in bottiglia. Pur mancando la bottiglia. Uno di quei giorni in cui la vita ti dà il privilegio di leggere l’introduzione e uno dei capitoli finali per farti un’idea di come leggere il libro del domani.

È successo ieri che alla Camera si è discusso della legge sulla “legittima difesa”. In breve, la politica ha pensato che fosse il caso di determinare con piglio e giudizio cosa è lecito e cosa non lo è in un Paese che per legittima difesa ogni tanto sembra essere pronto a bruciare gli altri, basta che non siano dei nostri. Perché l’Italia, soffocata dal razzismo e dalla paura, sta sviluppando un nuovo patetico modello di solidarietà applicabile solo a quelli che riteniamo degni di essere nostri sodali per razza o per pensiero: e la solidarietà tra sodali è il seme marcio di una comunità mafiosa, massonica, chiusa, frigida e sterile. Si è alzato un gran polverone ieri quando il mancato accordo ha costretto la Camera a rinviare il testo in commissione. Chi si è arrabbiato? NCD e ovviamente la Lega che, abituata a drenare voti nella psicotica comunità degli aspiranti pistoleri, non ha trovato niente di meglio che esporre una maglietta che diceva “la difesa è sempre legittima”. Un aforisma da bacio perugina che preso alla lettera dovrebbe sdoganare il diritto di spedire Salvini in Libia a bordo di un barcone. Una cosa così. “La difesa è sempre legittima” è una frase che potrebbe fare il paio con “le donne sono tutte sceme”, “gli uomini hanno sempre ragione” oppure “i dipendenti pubblici sono tutti stronzi”: un integralismo che spaventa anche senza avere bisogno del velo.

Proprio ieri, giusto ieri, nella periferia romana, zona Lunghezza, un uomo ha deciso di sparare quattro colpi alla moglie in un bar della zona. Quattro colpi ben assestati se è vero che la donna è morta praticamente quasi subito. Lui, l’eroe con la pistola in mano, ha tentato di scappare prendendo un bus: un fuggitivo da fumetto. Salire su un bus a Roma significa arrivare consapevolmente dopo il pedibus della casa di riposo. E sembra che l’autista, tra l’altro, non l’abbia nemmeno fatto salire: se fosse una barzelletta sarebbe da scompisciarsi dal ridere, peccato che c’è il morto. Il distinto signore, tra l’altro, compare in un’intervista della trasmissione Piazza Pulita (nomen omen) di La7 in cui dichiarava di essere pronto a qualsiasi cosa pur di proteggere la propria famiglia “dagli stranieri” e, mentre recitava cotanta fesseria, mostrava fiero i tatuaggi inneggianti al fascismo. E di sicuro quell’intervista avrà scaldato il cuore di molti di quelli che vorrebbero una legittima difesa che sia un diritto “allo sparo libero” se non fosse che per i vigliacchi dal grilletto facile si diventa stranieri anche al primo disaccordo: una malata e feticcia idea di razza che finisce per comprendere solo se stessi rinsecchiti in una buia solitudine.

Così ieri i vigliacchetti dal grilletto facile, questa nuova schiera di codardi coraggiosi capaci di esser forti solo con i fragili, hanno avuto la doppia smerdata in un giorno solo: i rappresentanti in Parlamento a piantare la solita gazzarra per lucrare un pugno di voti e uno di loro che ha deciso all’improvviso che la moglie fosse “rom” perché non d’accordo con lui. Un gran giorno, certo, uno di quei giorni in cui unire i puntini e arrivare alle più giuste conclusioni.

Buon venerdì.

Baltimora, una anno dopo la morte di Freddie Gray, com’era e com’è

FILE - In this Dec. 16, 2015 file photo, Jazmin Holloway sits below a mural depicting Freddie Gray at the intersection of his arrest in Baltimore following a hung jury and a mistrial in the trial of police officer William Porter. Gray's death a week after he was injured in a police transport van became a focal point in the national debate over police treatment of African-Americans. When the smoke cleared, Baltimore looked much the same, but change has been gradually cropping up. (AP Photo/Patrick Semansky, File)

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