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«L’etica nella ricerca conta» e per questo c’è chi chiede le dimissioni del presidente Cnr

I fatti sono noti. Massimo Inguscio, fisico e presidente da pochi mesi del Cnr,  durante un incontro a Catania ha parlato di una ricerca che in Italia deve andare avanti facendo sinergie, mettere insieme le forze, «senza pensare…a principi etici». «Guai a chi parla dell’etica superiore di tutti perché questo era Robespierre», ha detto tra l’altro. Non si trattava di una riunione tra amici ma dell’incontro intitolato “Il futuro della ricerca. Cnr e Università insieme per l’innovazione”, che si è svolto venerdì 8 aprile 2016, nell’aula magna del Palazzo Centrale dell’Università di Catania. Inguscio era stato invitato dal rettore Giacomo Pignataro. In particolare, le frasi choc riguardavano la collaborazione con l’Iit, l’Istituto italiano di tecnologia che è diventato il protagonista del progetto Human Technopole da realizzarsi a Milano nell’area ex Expo. Un progetto presentato in pompa magna dal presidente del Consiglio Matteo Renzi il 24 febbraio scorso («un progetto petaloso», aveva detto). L’Iit è una fondazione di diritto privato, ricordiamo, fondato dal ministro Tremonti nel 2003 con la legge n.326 con la quale il Ministero dell’Istruzione e il ministero dell’Economia e finanze creavano l’Istituto finanziandolo con 100 milioni per dieci anni. Negli anni ci sono state sull’Iit anche alcune interrogazioni parlamentari (Tocci, Bachelet) e adesso, dopo la presentazione del progetto Human Technopole, che sarà finanziato con 1 miliardo e mezzo di euro nei prossimi dieci anni, sono piovute notevoli critiche – tra gli altri, dalla  scienziata e senatrice a vita Elena Cattaneo e da Giovanni Bignami già presidente dell’Istituto nazionale di Astrofisica.

Inguscio, a proposito dell’Iit a Catania ha detto: «L’Istituto italiano di tecnologia … perché esiste, è una realtà che esiste, che usa i soldi. Li usa come come noi vorremmo usarli anche noi. Cioè non è che uno dice “Vade retro Satana”».
Una settimana dopo, intervistato da Silvia Bencivelli su la Repubblica, Inguscio si è detto «stupito e dispiaciuto» dopo aver visto il frammento di video e quelle frasi catturate da una televisione locale e poi riportate in rete (sul sito di Roars qui).

La cosa ovviamente ha fatto molto rumore.  Soprattutto in ambito accademico. E infatti alcuni docenti hanno scritto una lettera-appello (qui) per chiedere le dimissioni del presidente del Cnr. A firmare l’appello Roberta De Monticelli, Ruggero Pardi e Guido Poli, tutti dell’Università San Raffaele, e per Libertà e giustizia, il presidente Nadia Urbinati (Columbia University, New York), Tomaso Montanari, vicepresidente, (Università di Napoli), Gustavo Zagrebelsky, Università di Torino e Paul Ginsborg (Università di Firenze).
I promotori della lettera – che ha avuto molte altre adesioni (da Salvatore Settis a Stefano Rodotà, da Lorenza Carlassare a Remo Bodei) scrivono: «È una bella risposta a tutti quelli che invocano criteri di trasparenza ed equità nella gestione delle risorse pubbliche». Tra l’altro, oltre a Cattaneo e Bignami, hanno espresso critiche molti altri scienziati come quelli che hanno firmato un altro appello sul progetto Human Technopole (qui).

Non solo. Nella lettera si segnala anche che «Forse non tutti sanno che il neo presidente del Cnr presiede anche la Commissione per l’etica della ricerca». «Ma come è possibile rivestire questo ruolo – si chiedono – e, contemporaneamente, permettersi quei toni allusivi, opachi?».
Dopo aver analizzato altri aspetti delle dichiarazioni del presidente Cnr, si configura, scrivono, «un’incompatibilità assoluta con l’alto ruolo pubblico di Presidente del Cnr e quindi della Commissione per l’etica della ricerca. Chiediamo quindi le dimissioni del professor Inguscio da questa carica, augurandoci che questa richiesta sia condivisa da tutti i ricercatori e i cittadini a cui sta a cuore una vera politica pubblica degli investimenti in conoscenza e ricerca, al fine di promuovere un’autentica ascesa del nostro Paese agli standard di civiltà all’altezza delle altre nazioni libere ed avanzate, nonché del suo glorioso passato scientifico e culturale».

Per leggere e firmare l’appello qui

Left #17 cosa ci abbiamo messo dentro

Numero difficile, perché quando tutti vincono – i rederendari con 15 milioni di voti, gli astensionisti che hanno impedito il quorum – non vince la verità. Chiara Saraceno ce lo racconta, il referendum No Triv, a modo suo. Nadia Urbinati spiega che, vi piaccia o no, questo era solo l’antipasto della madre di tutta le battaglie, il referendum costituzionale, nel quale Renzi si gioca il collo. E così facendo evita che se ne parli nel merito. Vecchia tecnica.
Insomma ci chiedono di seppellire la Costituzione nata dalla Resistenza. Talmente grossa che Vauro, in copertina, scrive “Non ci arRenziamo”. Ascanio Celestini, invece, racconta le sue conversazioni con Andrea Camilleri. E quando gli parlò di un paesino delle colline metallifere dove, ammazzati dai nazifascisti, finirono gli operai che difendevano le miniere. Oggi non ti ammazzano col plotone e i fucili puntati ma muori di lavoro, muori di mancate protezioni, muori perché il denaro è re e il lavoro sembra tornato solo una variabile dipendente.
Una goccia di sangue ci salverà? Può darsi, ci spiega Pietro Greco. Pare che nel sangue siano marcati i segni del tumore che arriva. Controllare, prevenire, curare. Ma quanto costa e quando? Poi, dai, Left è anche da leggere, parliamo di supereroi, prima e intorno a Lo chiamavano Jeeg robot, che ha vinto 7 premi al David di Donatello. Damasco com’è, cosa si dice in Egitto su the young italian man, il nostro Giulio Regeni, e Giulio Cavalli che indaga sull’eredità di Gianroberto Casaleggio: come cambieranno i 5 stelle?

Brasile, impeachment approda al Senato. E Dilma Rousseff vola a New York per denunciare il golpe

17/11/2015 - Brasília - DF - O governador do Espírito Santo, Paulo Hartung e o governador de Minas Gerais, Fernando Pimentel, durante entrevista coletiva com a presidente Dilma Rousseff, após reunião no Palácio do Planalto. Foto: Lula Marques/ Agência PT

«Lei non ha rubato nulla, ma sta per essere giudicata da una banda di ladri», ha scritto il New York Times il 15 aprile. Mentre al Senato si sta per insediare la commissione che dovrà decidere dell’impeachment della Presidenta (il 26 aprile), Dilma Rousseff vola a New York per assistere alla firma dell’accordo globale sui cambiamenti climatici insieme a decine di capi di Stato e di governo. E coglie l’occasione per denunciare i “golpisti” che vogliono destituire il suo governo.

scontri in Aula durante il voto sull'impeachment
scontri in Aula durante il voto sull’impeachment

L’iter è tracciato: dopo il via libera della Camera (che ha raggiunto i 342 voti necessari durate le votazioni della notte di domenica), la speciale Commissione (costituita da 21 membri e 21 supplenti, rappresentanti di tutti i partiti politici) avrà dodici giorni di tempo per decidere se accogliere o no la proposta delle opposizioni. In caso positivo, l’impeachment sarà votato dal Senato e Rousseff avrà 180 giorni di tempo per difendersi davanti ai giudici della Corta costituzionale. A quel punto, il Senato dovrà votare una seconda volta, dopo aver ascoltato la difesa della Presidenta e solo in caso di voto favorevole, a maggioranza dei due terzi degli 81 senatori, Dilma decadrebbe dall’incarico e, al suo posto, si insedierebbe ufficialmente il vicepresidente Michel Temer, che assumerebbe l’interim durante i 180 giorni di sospensione della presidente. Dilma Rousseff corre il rischio di essere destituita dalla presidenza del Brasile dopo che la Camera dei Deputati – domenica notte – ha dato il via libera per l’avvio del processo politico. Un’Aula – va detto – in cui il 50% dei deputati è imputato davanti alla giustizia. Come previsto dalla legge, l’impeachment passa adesso al Senato, dove proprio oggi si terrà il primo voto. L’opposizione accusa Dilma Rousseff di aver manipolato i conti pubblici. Un’accusa che, si difende la Presidenta, basta a mettere in discussione la legittimità dell’impeachment.

L’aria si fa sempre più pesa. Bastino due fatti, su tutti: il presidente della Camera, il deputato Eduardo Cunha. Egli è accusato di molti crimini ed è reo presso il Supremo Tribunale Federale: «Un gangster che giudica una donna decorosa alla quale nessuno ha osato attribuite alcun crimine», ha scritto Leonardo Boff. E domenica notte il deputato di ultradestra Bolsonaro ha dedicato il suo voto di impeachment contro Rousseff a Carlos Brilhante Ustra, il colonnello che durante la dittatura militare brasiliana ha guidato l’unità militare che torturava i dissidenti poi (e l’ex guerrigliera Dilma è stata tra le vittime di quel torturatore).

Intanto, in Brasile e non solo, si urla al golpe contro Dilma. E sono tanti gli artisti e le organizzazioni sindacali e politiche che si schierano in difesa dell’ex guerrigliera e del vecchio presidente Luiz Inacio Lula da Silva. Proprio ieri sera, fuori dal teatro in cui si svolgeva il live di Gilberto Gil e Caetao Veloso sono apparse le scritte contro il golpe. E Caetano Veloso non ha esitato a paragonare l’attuale scenario politico con il golpe del 1964. Un colpo di Stato, quello brasiliano, che pose fine al governo di João Goulart, detto “Jango”, per instaurare una dittatura, all’indomani delle marce per la religione, la famiglia, Dio e contro la corruzione. Quelle che piombarono il Brasile in 21 anni di dittatura.

E alla fine Berlusconi ripone il fido Bertolaso

Il candidato sindaco di Roma Guido Bertolaso (S) con SIlvio Berlusconi durante la conferenza stampa a Roma, 23 marzo 2016. ANSA/FABIO CAMPANA

«Farà quello che gli verrà chiesto». In Forza Italia scommettono sul fatto che Guido Bertolaso obbedirà, un po’ reticente, scocciato per la fatica e l’esposizione che gli è stata imposta da Silvio Berlusconi, su una candidatura nata già per esser ritirata e che pure lo ha portato ad incollare il suo grosso faccione sui cartelloni della città e lo ha spinto a girare per i centri anziani e per i mercati. Quando mercoledì gli è arrivata la convocazione a palazzo Grazioli per l’ennesima riunione, Bertolaso aveva appena finito di immergersi nel mercato di via Sannio ed era da poco arrivato a un incontro nella roccaforte dei Parioli.

Ha mollato i generoni dei Parioli, Bertolaso, per sentirsi dire, sondaggi alla mano, che tocca ricompattare il centrodestra. E così sarà, si scommette mentre è in corso l’ufficio di presidenza di Forza Italia. E tra le due spinte interne al partito di Berlusconi – sempre meno partito e sempre meno Berlusconi -, una che vorrebbe convergere su Marchini e un’altra che vorrebbe andare su Meloni, pare proprio vincerà la seconda, per la gioia di Francesco Storace che così si ritira anche lui, «in favore di Giorgia».

È nel giorno del Natale di Roma che Bertolaso partecipa dunque come ai vecchi tempi de L’Aquila all’ufficio di presidenza di Forza Italia, che non di new town ma della sua candidatura deve però discutere. Arrivando a una decisione dopo settimane di tira e molla e una serie di riunioni a palazzo Grazioli, l’ultima – appunto – terminata dopo mezzanotte, quando Francesco Totti aveva già finito da un pezzo di festeggiare i due gol last minute al Torino.

Fino all’ultimo, in realtà, resta in campo anche l’ipotesi di sostenere Marchini, che un po’ ci spera, e infatti mentre è in corso la presidenza diffonde una nota di miele farcita, indirizzata a Berlusconi e Bertolaso: «Guido Bertolaso ha dimostrato nella sua vita di essere un uomo che ha risolto molti problemi. Di lui ho grande rispetto. In tutta questa vicenda Berlusconi eBertolaso hanno dimostrato che anche in politica esiste la correttezza, una cosa che fa onore a entrambi». A spingere però l’opzione Meloni (nonostante il sempre difficile rapporto con la Lega di Salvini, che è già sulla leader di Fratelli d’Italia) è il valore politico che potrebbe assumere un suo arrivo al ballottaggio, magari contro i 5 stelle, al posto di Giachetti. È difficile, ma sarebbe uno sgambetto a Renzi per cui vale la pena maltrattare un po’ il caro Guido.

Il Canada legalizzerà la marijuana. All’Assemblea Onu cambia il discorso ma non le politiche

Il governo del neopremier canadese Justin Trudeau ha annunciato che il prossimo anno introdurrà una legge che renderà legale la vendita di marijuana. L’annuncio viene a un giorno dalla chiusura dell’Assemblea speciale dell’Onu sulle droghe (Ungass2016). Il Canada non è l’Uruguay, ma la decima potenza economica mondiale e un vicino degli Usa, dove pue le cose stanno cambiando uno Stato alla volta. La ministra della Salute Jane Philpott che ha fatto l’annuncio si è detta comunque impegnata a tenere la marijuana «fuori dalla portata dei bambini e i profitti lontani dalle mani dei criminali». La legge è ancora in fase di scrittura e la marijuana nel frattempo rimane illegale – l’uso medico è già consentito.

Il primo ministro Justin Trudeau aveva promesso la legalizzazione durante la sua campagna vittoriosa dello scorso anno e la legalizzazione, qui come altrove, è anche vista come uno strumento per alleggerire il peso della lotta alla droga sul sistema penale e penitenziario: Obama si sta impegnando per ridurre le pene comminate ai consumatori che non si sono macchiati di reati violenti.

La guerra alla droga è stata un disastro dal punto di vista degli effetti sui sistemi penali, ha generato e rafforzato alcuni grandi cartelli della droga – il caso della violenza dei narcos in Messico è clamoroso – e non ha ridotto in nessun modo il consumo di sostanze stupefacenti nel mondo. È da questo dato che in questi giorni si sarebbe dovuti partire alla sessione speciale dell’Assemblea Onu. In parte è stato così e in parte no.


 

Leggi anche: i numeri della guerra alla droga

Mille-miliarditanto-è-costata-la-war-on-drugs-agli-Usa


Se da un lato c’è una coalizione di Paesi, tra quelli che con più foga hanno combattuto la guerra che in questi anni ha cambiato le leggi nazionali e chiede di adotare un nuovo approccio a livello planetario – una gamma di latinoamericani, a partire da Colombia, Messico e Guatemala dove la guerra ha fatto morti, generato conflitti politici e poi, un po’ meno convinti, gli Stati Uniti- dall’altra c’è la coalizione di quelli che non vogliono cambiare nulla e continuano a pensare che il carcere, la rieducazione coatta e persino la pena di morte siano le strade giuste per far smettere la gente di drogarsi. Tra i membri di questa coalizione probizionista ci sono i governi russo, cinese e iraniano. Come spesso accade nelle assemblee Onu, il piccolo paradosso, non determinante è che la sessione ha come presidente e vice un egiziano, un iraniano, un afghano.
Quel che è certo è che la fase del consenso globale dei governi sulla necessità di combattere una guerra contro la droga è finita nonostante non si sia trovato accordo sul cambiare la strategia globale. Il comunicato finale è insomma una delusione. A New York i canadesi, i colombiani e i boliviani hanno chiesto di cambiare i trattati che regolano l’argomento – che sono tre – in maniera sostanziale, non è successo nulla. Vedremo se almeno nelle dichiarazioni finali verrà inserito fatto riferimento a non usare la pena di morte come deterrente come avviene in alcuni Paesi: il rapporto Amnesty 2016 sulla pena di morte ci ricorda infatti che qui e la, ad esempio in Iran, che ha un problema serio, come il vicino Afghanistan, con la coltivazione dell’oppio, le persone mandate a morte per consumo e spaccio siano ancora molte. Anche per queste ragioni Paesi come l’Uruguay, uno dei primi legalizzatori della marijuana a scopo ricreativo, ha parlato di «risultato deludente».

Alla Ungass è anche arrivata una lettera appello firmata tra gli altri da diversi senatori americani (ce n’è uno famoso, Bernie Sanders), il miliardario e finanziere Warren Buffet, Sting, ma anche l’ex presidente messicano di centrodestra Zedillo si chiedeva di cambiare. Non è andata così, i processi sono lenti, ma è importante che l’inutile consenso sulla guerra alla droga sia andato in pezzi. Gli stessi Stati Uniti, un tempo campioni della tolleranza zero e determinanti nello scrivere i trattati proibizionisti in vigore, oggi sono ritenuti violatori dei trattati internazionali a causa delle leggi permissive adottate in alcuni Stati come Colorado, Oregoe e Washington.

Il sito di Non me la spacci giusta, la campagna italiana per la legalizzazione

Roma ieri ha toccato il fondo. Ma non se n’è accorto (quasi) nessuno. Candidati inclusi.

Italian Public Prosecutor PM Luca Tescaroli in the courtroom of the courthouse during the second hearing of Mafia Capitale trial in Rome, Italy, 17 November 2015. A motley crew of left- and right-wing politicians, former neo-fascist terrorists, businessmen and public sector managers appeared on the dock in Rome, as a trial on alleged Mafia-type corruption opened 05 November 2015. Since December, more than 80 people have been arrested or placed under house arrest as a result of so-called Mafia Capitale (Mafia capital) investigations. Criminal proceedings started against 46 of them. ANSA/ MASSIMO PERCOSSI

C’è qualcosa di peggio della mafia che si fa politica e penetra in un tessuto amministrativo come è successo a Roma,  ben raccontato in questi giorni  dal processo ‘Mafia Capitale’? C’è qualcosa di peggio del superficiale ping pong tra le forze politiche in campo per le prossime elezioni amministrative che giocano a rimpallarsi amicizie mafiose come se stessero giocando a “mio papà è più grosso del tuo” nel cortile di un asilo? Potrebbe andare peggio rispetto ad una campagna elettorale che ha i toni di una telenovela in cui l’essere candidato sindaco è solo la scusa per la conta interna e un po’ di spudorato esibizionismo? Sì, può andare peggio. Ed è successo ieri.

Ieri Roma ha imboccato una di quelle strade che porta perdutamente all’istituzionalizzazione della mafia quando si fa più credibile dello Stato per di più in un’aula di giustizia: è successo (per chi fosse stato troppo distratto) che un testimone chiave del processo Mafia Capitale, l’imprenditore Filippo Maria Macchi, ha ufficialmente indossato il vestito dell’omertoso come si legge nei libri dello sperduto sud di qualche decennio fa. Arrivato in aula accompagnato dai carabinieri (dopo aver finto un lutto mai avvenuto di un famigliare per giustificarsi delle assenze precedenti) non ha risposto alle domande del magistrato fingendo di non ricordare di essere stato vittima d’usura da parte del ‘cecato’ Massimo Carminati, accusato di essere una delle menti della mafia romana. Un prestito di 30 mila euro ad un tasso del 400% che lo “sbadato” Macchi ha dichiarato di non avere ricevuto e poi di non avere mai restituito. E quando il pm ha fatto ascoltare la registrazione della telefonata in cui Macchi diceva al maresciallo dei carabinieri di avere paura di Carminati e soci che “anche se in galera prima o poi comunque escono e non dimenticano” lui, l’imprenditore spaventato e omertoso, si è lamentato dell’intercettazione. Giuro. Dell’intercettazione, mica delle parole dette. Succede a tutti i livelli, di questi tempi.

Così a Roma si è consumata una dinamica gravissima: un cittadino ha dichiarato sentirsi più al sicuro facendosi amico Carminati piuttosto che affidarsi allo Stato. È successo in pratica, ieri, che un presunto mafioso abbia vinto in autorevolezza dentro un tribunale. Meglio sfidare la legge piuttosto che la mafia, deve avere pensato il testimone. E non serve molto altro per capire quanto il segnale desti un allarme che dovrebbe essere tra le priorità della campagna elettorale. E invece no. Niente. Spunta solo un comunicato stampa di Pippo Civati di Possibile (che al momento non appoggia nessun candidato in campo, per dire) che giustamente si chiede «in questo momento di campagna elettorale e di strumentalizzazione sul tema della sicurezza cosa direbbero Prefettura, Questura e candidati sindaci di un uomo che continua a temere Carminati (pur in galera) piuttosto che affidarsi alla protezione dello Stato?». Già, la sicurezza. Quella che ieri Salvini indicava tra i senza tetto vicino alla stazione e la Meloni è andata a scufrugliare a Tor Sapienza. La sicurezza, appunto. Mentre Giachetti si scandalizza per il praticantato della Raggi. Pensa te che sbadati, i candidati.

Presto una donna nera afro-americana ed ex schiava sui 20 dollari

Una donna sul biglietto da venti dollari. La campagna virale per stampare e onorare, finalmente, una donna protagonista della storia americana ha avuto successo. Con un aspetto in più, la donna sul biglietto da 20 (e non da 10 come si era detto in anticipo) sarà Harriet Tubman e la sorpresa è doppia, perché Tubman è una afroamericana ex schiava e campionessa dei diritti civili dei neri quando questi erano davvero molto lontani. L’annuncio verrà fatto in settimana dal Segretario al Tesoro Jack Lew. Tubman prenderà il posto di Andrew Jackson e non quello di Alexander Hamilton. E naturalmente ci sarà chi protesterà.

Harriet Tubman è forse la più nota di tutti gli Underground Railroad, una rete che liberava schiavi e li aiutava a passare il confine. Durante un arco di dieciTubman_inlineanni ha fatto 19 viaggi a Sud e aiutato a passare oltre 300 schiavi. E, come una volta con orgoglio ha fatto notare, in tutti i suoi viaggi che «non ha mai perso un solo passeggero».
Tubman nacque schiava nella contea di Dorchester in Maryland intorno al 1820. All’età di cinque o sei anni, iniziò a lavorare come serva. Sette anni dopo fu mandata a lavorare nei campi. Mentre era ancora adolescente, ha subito un incidente che l’avrebbe segnata. Sempre pronto a battersi per qualcun altro, Tubman ha bloccato una porta per proteggere un’altra mano da un sorvegliante del campo. Il sorvegliante raccolse un peso e lo gettò contro la donna colpendola in testa. Tubman non si è mai pienamente ripresa dal colpo, per dei periodi cadeva in un sonno profondo.
Nel 1849, nel timore di essere venduta, Tubman decise di scappare con l’aiuto da una donna bianca e seguendo la stella polare dove riuscì ad arrivare a Philadelphia. L’anno successivo tornò in Maryland e scortò sua sorella e i due figli alla libertà. Poi di nuovo verso Sud per salvare il fratello e altri due uomini. Nel 1856 la taglia sulla donna era di 40mila dollari.
Tubman aveva fatto il viaggio 19 volte nel 1860, tra cui uno particolarmente impegnativo in cui ha salvato i suoi genitori. Di lei Frederick Douglass disse «Eccetto John Brown non conosco nessuno che abbia volontariamente incontrato più pericoli e disagi per servire il nostro popolo».
Durante la guerra civile lavorò per l’Unione come cuoca, infermiera e anche come spia. Dopo la guerra si stabilì a Auburn, New York, dove avrebbe trascorso il resto della sua lunga vita. Morì nel 1913.

«Il caso Regeni è un complotto»: I parlamentari verdiniani che scagionano l’Egitto

A signpost against the current government in Egypt during demonstration for Giulio Regeni in Rome. The piazza Santi Apostoli demonstrate to demand justice for the death of Giulio Regeni and other victims of the Al Sisi government in Egypt. Rome, Italy, on February 13, 2016. Photo by Andrea Ronchini/Pacific Press/ABACAPRESS.COM

Prima i rapporti con l’Egitto, poi i diritti umani. Il senso dell’intervista concessa da due parlamentari italiani, uno verdiniano, l’altro di Forza Italia, alla televisione egiziana El Balad è questo. Lucio Barani (noto in questa legislatura per un gesto elegante rivolto alla grillina Barbara Lezzi) e Francesco Amoruso (ex Alleanza Nazionale poi Forza Italia), entrambi parte della maggioranza di governo in Senato, ci sono andati fino in Egitto a spiegarlo che no, siamo sicuri che con la morte di Giulio Regeni, le autorità egiziane non c’entrano.
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Parlando alla Tv i due hanno detto, come leggiamo sul sito di El Balad, che c’è un complotto internazionale di forze economiche che mirano a addossare la colpa della morte di Giulio agli apparati di sicurezza egiziani per prendere il posto dell’Italia (e dell’Eni) nei rapporti economici con il Cairo. Ma attenzione, dicono i senatori, rovinare i rapporti tra l’Egitto e l’Italia è «impossibile».
Citare qualche altro passaggio vale la pena:

«Capiamo il rifiuto dell’Egitto di fornire milioni di tabulati telefonici agli inquirenti italiani…giorni fa a Ginevra hanno quasi ucciso due italiani, ma non c’è stato tutto questo trambusto. Una prova che ci sono tentativi di provocare l’incidente…Osserviamo che c’è chi vuole rovinare le relazioni culturali, politiche e sociali e in particolare quelle economiche con l’Egitto … quanto successo a Regini è una tragedia, ma quel che succede oggi ha obiettivi politici ed economici, noi ci rendiamo perfettamente conto che il governo egiziano e il presidente Sisi non sono coinvolti in questo caso».

«Tutti noi stiamo cercando la verità, abbiamo bisogno di capire questi elementi mutevoli e aggressive contro il governo e gli alleati con le forze economiche di altri paesi egiziana, non sto dicendo che diversi paesi, ma le forze economiche che vogliono prendere il vantaggio di accordi economici e sostituire i legami economici Italia con l’Egitto».

Un’intervista incredibile e inqualificabile. Ma non solo, c’è un altro elemento importante: a fare le domande, l’ospite televisivo dei due parlamentari non è un presentatore o un giornalista, ma Mohamed Abul Enein, imprenditore della ceramica, finanziatore di grandi opere e sodale da sempre del deposto presidente Mubarak. Uno i cui operai non godono di diritti e, di quando in quando scioperano (ma i giornalisti non si possono avvicinare alle fabbriche per raccontarlo). Se leggete un legame tra le ricerche di Giulio Regeni, fate bene. Non è detto che sia un collegamento diretto, noi, a differenza dei parlamentari verdiniani, non facciamo gli inquirenti. Ma è il clima che si respira in Egitto: un grande imprenditore invita due parlamentari italiani, li porta in Tv e gli fa spiegare che no, Giulio Regeni non lo ha ucciso il governo egiziano, ma qualche malvivente.

New York, la rivincita di Clinton e Trump

epa05267915 US Democratic presidential candidate Hillary Clinton (C) addresses her supporters during a primary night event at a hotel in New York, New York, USA, 19 April 2016. According to media reports, Clinton is the projected winner of the New York State presidential primary. EPA/JUSTIN LANE

La sorprendente corsa di Bernie Sanders è quasi giunta al capolinea. E quella di Hillary Clinton è ancora tutta in salita, anche se, come ha detto dopo aver vinto, riferendosi a New York, «Nessun posto è come casa». Quanto al partito repubblicano che sta cercando in tutti i modi di intralciare il cammino di Donald Trump, beh, il gradasso miliardario newyorchese, si è preso una rivincita.

La corsa democratica

L’ex segretario di Stato e l’imprenditore del mattone avevano bisogno di una vittoria convincente, l’una, e di un trionfo l’altro e New York gli ha regalato quel che serviva. Hillary ottiene una vittoria convincente in termini di risultato (57,9% a 42,1%), interrompe la serie di Bernie e, quel che conta di più, fa un passo in avanti nella conta dei delegati. A ogni Stato che passa la matematica le sorride. Sanders aveva promesso una vittoria, aveva riempito molte piazze con folle di giovani, ottenuto sostegni di personaggi cari a New York City, ma non è riuscito a smentire i sondaggi, come aveva fatto in Michigan. Tra l’altro in una primaria che ha visto una partecipazione piuttosto alta (quasi un milione e ottocentomila persone hanno votato). Hillary stravince tra gli afroamericani, tra chi ha meno reddito, si prende la metà di chi si definisce liberal (una sorpresa, sono le persone più di sinistra) e di chi dice di essere preoccupato per il lavoro e l’economia. Sanders vince di misura tra i bianchi e tra coloro che ritengono che le diseguaglianze siano il più grande dei problemi. E, come sempre, tra i giovani under 29.

Interessante da notare: Hillary ha vinto New York City con un ampio margine. Sanders ha vinto qui e la in altre contee dello Stato, quelle più bianche e un po’ conservatrici. Ancora una volta, insomma, Bernie ha mostrato di avere un potenziale di catturare un voto che in questi anni è distante dai democratici, un voto che potrebbe anche, in minima parte, scegliere Donald Trump – ma mai Ted Cruz. Clinton resta fortissima tra le minoranze.

Nel discorso di ringraziamento ai sostenitori Sanders ha detto: «Tre milioni di indipendenti non hanno potuto votare, non è giusto». È vero che se gli indipendenti avessero potuto partecipare al voto, Bernie avrebbe avuto più chance, ma è altrettanto vero che le regole non sono cambiate, si è sempre fatto così e che registrare le persone come democratiche è un lavoro che le campagne devono fare quando le regole lo impongono (negli Usa ci si registra al voto dichiarando la propria appartenenza a un partito o come indipendenti, ogni sttao ha regole diverse per quanto riguarda le primarie, a volte possono votare tutti, a volte solo i registrati per il partito per il quale si vota). Insomma, per la prima volta Sanders se la prende con le regole come se fossero sate volute da Clinton o dai poteri forti contro di lui, è il primo segnale di un comportamento da sconfitto. Bernie continuerà a vincere Stati, ma la settimana prossima è destinato a perdere in almeno tre o quattro. Certo è che alla convention lui e i suoi alleati si faranno sentire, condizionando l’agenda del partito.

Clinton resta la persona da battere, anche per la sfida vera, ma ha un disperato bisogno di un colpo di scena, qualcosa che ne migliori l’immagine, un’idea di campagna nuova. Hillary ha la fortuna di avere contro Trump o Cruz (a meno di enormi colpi di scena alla convention), ma se contro avesse un candidato moderato e capace, con le idee e il modo di presentarle avuto fino a oggi, sarebbe molto dura per lei vincere. La sua forza è essere donna ed esperta, la sua debolezza quella di essere vista come cinica, affamata di potere e troppo vicina ai poteri forti. Nessuno si sente in sintonia con lei, mentre la forza di Sanders è stata proprio quella di generare simpatia, di essere visto come uno che sente i tuoi bisogni e vuole battersi per te. Quando la corsa è cominciata il vantaggio di Clinton su Bernie era immenso, oggi è di due-quattro punti a livello nazionale: segno di una campagna sbagliata e di un candidato che al momento è debole. Deve trovare una strada. Intanto la settimana prossima si avvicinerà talmente al numero di delegati necesario per ottenere la nomination che avrà modo di pensare, senza avere più l’ansia di essere raggiunta da Sanders.

Le reazioni dei candidati

La corsa repubblicana

Per ottenere molti delegati Trump doveva vincere con più del 50% per ottenere una maggioranza dei delegati in palio. Ha preso il 60% e il suo avversario Ted Cruz è arrivato terzo con il 14,5%. Trump si prende 95 delegati, Kasich 3 e Cruz 0.

Nelle ultime settimane la campagna del miliardario newyorchese ha moderato leggermente i toni, licenziato un paio di figure controverse e assuno professionisti del mestiere e i risultati si sono visti. Certo, New York è casa per Trump e qui ci sono repubblicani che non vogliono tasse ma che non hanno l’ossessione di vietare l’aborto o vietare il matrimonio alle persone dello stesso sesso. I “valori di New York” contro i quali Ted Cruz si è scagliato in passato sono vivi e vegeti, anche per le persone di destra. In un discorso della vittoria pacato, Trump ha detto: «Abbiamo 300 delegati più di Cruz, è bello vincere delegati con i voti, nessuno dovrebbe ottenere delegati con i voti, serve tornare al sistema si vota e chi vince ha vinto».

La polemica con il partito repubblicano, che si prepara a tentare di eliminarlo in una convention nelal quale trump non abbia il 50% più uno dei delegati è chiara, ma pacata. Trump non urla ma spiega: sto vincendo io (e la settimana prossima vincerà ancora, si vota in Stati simili a New York in termini di elettorato repubblicano) e fareste meglio ad allinearvi invece che continuare questo gioco al massacro. Vedremo se i repubblicani decideranno di dare l’immagine di partito diviso o si accoderanno. Cruz ha detto, facendo già campagna in Pennsylvania, «è l’anno degi outsider», mentre il moderato Kasich torna a ripetere l’argomento più serio che ha: «A novembre sono la fugira più adatta a vincere contro i democratici». Peccato per lui che la base del partito repubblicano non la pensi come lui.

Il peggior Presidente nella storia della Repubblica

L'ex presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, durante le celebrazioni per la Festa della Donna al Quirinale, Roma, 08 marzo 2016. ANSA / ETTORE FERRARI

Ha cercato di intralciare in tutti i modi l’indagine del processo sulla trattativa Stato-Mafia. Non ne ha contestato il merito o messo in dubbio la consistenza: no, ha rilasciato una testimonianza che rasenta l’omertà ed è riuscito a non dire mai una parola una su Di Matteo. Mica parole di vicinanza, no, una a caso: stronzo, poveretto, mitomane, falso, eccentrico, autoreferenziale. Niente.

Ha fatto da garante a quei pasticci di governi voluti dall’Europa in un Paese come il nostro dove ormai il muscolo del voto sta diventando un vecchio tendine sclerotizzato. È amico di tutti e di nessuno: crede per questo di essere un mediatore invece rischia di passare per un insulso.

Era il «comunista perfetto» per Henry Kissinger quando il PCI nel 1978 scelse lui come primo membro del Comitato Centrale a compiere un viaggio ufficiale negli Usa. Fu il primo passo verso un silenzioso asservimento di una parte della sinistra italiana alle privatizzazioni e alcuni poteri ottenendo in cambio un legittimazione politica. Napolitano ha avuto una lunga carriera da “stringitore di patti”. Con chi sarà la storia a dircelo.

Ma venendo a tempi più recenti Napolitano è quel Presidente della Repubblica (ex) che è riuscito ad invitare i cittadini all’astensione infilandosi in un referendum in cui nessuno aveva richiesto il suo parere. Napolitano è così, come i pacchetti degli anni passati, quelli che gli chiedi quanto costa la paccottiglia che ti stanno vendendo e loro ti spiegano quanto in realtà ti costerebbe lasciartela sfuggire. Oppure il gioco delle tre carte. Quel tipo di gente lì.

Ora, ieri, Napolitano ci ha detto che è ora di mettere un limite alle intercettazioni. Un limite che in realtà già c’è, a dire la verità, ma che risulta inadatto a chi al telefono parla con mafiosi, minorenni, conviventi servi delle cricche, colleghi ministri con il tono di due comari, oppure petrolieri abituati ad oliare le persone oltre che gli ingranaggi. Del resto la sua telefonata Giorgio Napolitano (quella che Di Matteo avrebbe voluto utilizzare come prova) se l’è ingoiata come fanno i ragazzetti scoperti dalla professoressa. Ed è riuscito a far intendere che proprio le intercettazioni abbiano ucciso il suo segretario D’Ambrosio. Come Salvini con i negri, ecco: l’ex presidente con le intercettazioni. Tirate voi le somme.

Buon mercoledì.