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«La mia vita dopo Guantanamo» (e perché va chiusa)

«In quei due anni e mezzo, che sono lunghi, spesso ci capitava di ridere tra noi. A volte siamo arrivati a scherzare delle facce che avevamo fatto mentre ci picchiavano. Non è certo una bella cosa da raccontare, a guardarla da fuori, ma quella nostra capacità di ridere, ci ha aiutato a non dare di matto come è capitato ad altri».

Ruhal Ahmed è stato fortunato, più di una volta. E anche molto sfortunato, una volta sola, la volta che basta. Ruhal porta una maglietta blu della Gap, un jeans stretto-stretto come vanno di moda oggi, i capelli cortissimi con una riga sottile rasata, che va dalla fronte a sopra l’orecchio sinistro, una barba corta e ben curata, che in qualche vecchia foto appare più lunga e senza baffi (si avete capito, la barba del devoto musulmano). A vedersi è un tipico giovane uomo asiatico un po’ coatto della provincia britannica. Bicipiti e pettorali gonfiati in palestra compresi. Ma Ruhal è anche uno dei Tipton three, i tre giovani britannici di origine asiatica finiti a Guantanamo per una serie di arci-sfortunati eventi generati dal fatto che, come spiega lui stesso,  «siamo stati parecchio ingenui e sprovveduti». La loro storia è quella raccontata in The Road to Guantanamo di Michael Winterbottom.

L’ex prigioniero numero 110 è alla Casetta rossa, uno spazio occupato di Roma per raccontare la sua storia assieme ad Amnesty International e sta parlando di sé e dei suoi tre amici ventenni, uno dei quali morirà nelle disavventure capitate durante il viaggio a causa di un missile sparato da un elicottero Apache. Partiti per il Pakistan per presenziare a un matrimonio combinato di un amico, un viaggio comune nella comunità asiatica britannica, i quattro «ragazzotti qualsiasi, nemmeno granché religiosi» si sono trovati a fare i conti con le conseguenze della lotta del bene contro il male messa in scena da Osama bin Laden e George W. Bush dopo l’11 settembre. Il matrimonio, infatti, era programmato nei primi giorni dell’ottobre 2001. «Il problema è che quando siamo partiti le conseguenze di quel che era capitato a New York non erano affatto chiare, la guerra e il terrorismo erano parole e che, una volta laggiù, abbiamo agito come una banda di adolescenti in cerca di cose strane e diverse da vedere».

E così, per farla molto breve, sono andati a fare una gita «e qualche canna» oltre confine, in Afghanistan, «che laggiù era come andare per noi oggi a Parigi o in Olanda», si sono trovati dalla parte sbagliata quando la frontiera è stata sigillata e sono cominciate a piovere bombe dal cielo, sono stati un po’ raggirati e un po’ non hanno capito che in una moschea dove si organizzava aiuto umanitario, in realtà si organizzavano partenze per il fronte di combattenti stranieri, sono stati ingannati e gli è stato fatto pagare un trasporto che invece di essere diretto di nuovo verso il confine, portava un gruppo di aspiranti martiri a Kunduz. Il tornante successivo è stata la consegna al generale Dostum, che a sua volta li passerà agli americani a Kandahar. Nel mezzo giorni di atroce prigionia nelle mani del signore della guerra uzbeko. «Quando ci passarono agli americani eravamo pesti, disidratati, avevamo la dissenteria, ma ci dicemmo “è fatta, si torna a casa”. Ci sbagliavamo di grosso». Dopo maltrattamenti in loco da parte dei militari americani al fronte – la guerra è appena cominciata e le Torri gemelle un ricordo vivido – il volo verso Cuba, legati e in una condizione di privazione sensoriale. «Una cosa che fa ridere di quel viaggio? Eravamo bendati e con le orecchie tappate e avevamo le mani legate. Avevamo fame, ci mettono un panino con burro d’arachidi sulle gambe e dopo un po’ si chiedono perché non lo mangiavamo. Poi una mela, poi dell’acqua…e continuano a domandarsi tra loro perché non mangiavamo. Avevo l’acquolina in bocca e non potevo dire: scioglietemi le mani o imboccatemi!» racconta ridendo e scuotendo la testa.

Poi due anni e mezzo a Guantanamo, le deprivazioni, l’heavy metal ascoltato a volume assordante per ore, le botte. E quella minaccia reiterata: «Nessuno sa che siete qui, non ve ne andate più e se non collaborate la pagheranno anche le vostre famiglie». «Siamo rimasti a Camp Bucca per tutto quel tempo senza imputazioni. Prima hanno provato a dire che comparivamo in un video in cui bin Laden faceva un suo sermone, ma io all’epoca dovevo firmare in commissariato per delle sciocchezze fatte e il mio amico andava al college e il giorno in cui il video era stato girato eravamo entrambi dove dovevamo essere. Il tentativo di trovarci un legame con al Qaeda cambiava sempre, l’unica cosa che non cambiava è il tentativo di farci confessare cose che non avevamo fatto con intimidazioni e violenze».

 

 

Leggi anche: Il piano Obama per chiudere Guantanamo e perché sarà difficile chiuderla

 

 

 

Ruhal è convinto che a lui e ai suoi amici sia andata meglio che ad altri, i mezzi più estremi e duri con loro non sono stati usati perché sono cittadini britannici: «Agli yemeniti, ai sauditi andava molto peggio». Come va peggio oggi: Obama ha annunciato per l’ennesima volta di voler chiudere la prigione. Il piano c’è, il quadro legale molto meno. E in molti corrono il rischio – come già capitato in questi anni – di finire carcerati, torturati o addirittura uccisi dai Paesi nei quali vengono rispediti. Nessuno sa che farsene degli yemeniti ancora a Cuba, nessuno li vuole e Washington sta facendo di tutto, come fa da anni, per convincere paesi piccoli e grandi, vicini e lontani, a prendersi qualcuno di questi esseri umani rimasti incastrati tra le vicende della storia recente. Anche in Italia finirà qualcuno. I residui di Guantanamo sono merce di scambio diplomatica, sono scambio di favori tra leader. Come i quattro uiguri finiti a doversi rifare una vita a Bermuda. «Gitmo va chiusa, è un simbolo ed è anche il luogo di prigionia di poche persone rimaste abbandonate laggiù, senza aver subito un processo, né una condanna, persone sottoposte a torture, dimenticate».

E che ricordi ha del Pakistan e dell’Afghanistan prima della sua avventura? Con che occhi guarda un ventenne cresciuto a Tipton la vita in Pakistan? «In realtà conserviamo molte cose in famiglia: il cibo, la religione, alcuni costumi, la lingua. Per questo l’arrivo in Pakistan non fu uno choc culturale. Del resto ero già stato a trovare i parenti in Bangladesh, che la mia famiglia è originaria di là, anche se nessuno ci crede perché sono troppo chiaro di pelle». Ruhal adora andare in Bangladesh ancora oggi: «A fine anno vorrei andare, per qualche settimana faccio una vita da nababbo, tutti mi riveriscono e mi sento ricco. Poi torno a casa e mi sveglio».

La verità è che la casa di Ruhal nei sobborghi di Birmingham non è male e che lui, oggi se la cava benissimo: «Ho quattro figli, un’impresa di impianti del gas con mio fratello e dei dipendenti. Oggi se finissi una settimana in un posto come Guantanamo diventerei matto: all’epoca io e gli altri non avevamo responsabilità, non pensavamo a nulla ed eravamo un po’ faciloni. Questo ci ha salvato la vita, ci sono altri che sono impazziti, alcuni si sono uccisi. Quanto a me, quell’esperienza mi ha reso un uomo migliore: ho capito il valore dei diritti, imparato a dare il giusto peso alle cose e mi sono impegnato contro la tortura dopo essere tornato a casa e aver capito che senza la pressione internazionale e il lavoro di Amnesty ed altri, magari non sarei mai uscito o sarei rimasto li dentro più a lungo. Ho anche la mia causa contro il governo britannico, che mi ha abbandonato e poi mi ha dovuto chiedere scusa». Lui e i suoi amici si sono anche incontrati con una guardia di allora, uno con il quale chiacchieravano e parlavano di musica (qui il video dell’incontro), che essendo entrambi ragazzi d’Occidente, avevano gli stessi gusti. Quanto agli altri amici che hanno vissuto l’incubo Guantanamo con lui: «Continuiamo a vivere vicini e una sera a settimana usciamo insieme».

I diritti “naturali” e quelli degli esseri umani in carne e ossa

Temo che la notizia che scelgo, domani, non la troverete sulle prime pagine. Il tribunale per i minorenni di Roma ha concesso l’adozione di un bel maschietto ai due papà, che lo avevano avuto grazie all’inseminazione eterologa, cioè alla pratica, proibita in Italia, dell’utero in affitto.

Perchè mai? Perchè i due si amavano dal tempo dell’universita, perchè costituiscono una coppia stabile e il giudice li ha ritenuti affidabili. E perchè il bimbo non ha altri genitori che loro. Entrambi, senza fare differenze tra il papà che ha offerto il seme e l’altro che lo ama pur senza avere, per la metà che gli compete, lo stesso patrimonio genetico.

Cosa avrebbe dovuto fare d’altro, il giudice? Ordinare che si cercasse la donna che per 9 mesi aveva ospitato l’ovulo nel  ventre? A questo punto esigere accertamenti per determinare se l’ovulo fosse suo o di un’altra sconosciuta? Poi costringere poi la madre naturale – quale? – a trasferirsi a Roma, a riconoscere il figlio e ad accudirlo con amore, magari unendosi un matrimionio col padre “naturale”?

Ammesso che si potesse fare – e ovviamente non si sarebbe potuto – c’è da chiedersi quanti infelici in più avremmo fatto. Certo, ci sarebbe stata anche un’altra strada: semplicemente non acconsentire all’adozione. Far sì che quel bambino andasse all’asilo, poi a scuola, restando sempre il pulcino nero, il diverso, il non figlio.

Il giudice ha invece scelto di tutelare anzitutto il diritto del minore. Poi di non frustrare il desiderio di paternità dei padri. E lo ha fatto ignorando le polemiche che si sono scatenate intorno alla legge sulle unioni civili e la stepchild adoption. Ora la sentenza è inappellabile perchè sono scaduti i termini per il ricorso. E niente come questa notizia – dimostra la stanca ritualità e la strumentale vacuita del nostro dibattito politico.

Mesi a vociare sui modelli di famiglia, sul diritto naturale e quello divino, fino a cancellare le persone in carne ed ossa, i loro desideri e i loro diritti. In questo caso, il desiderio di paternità dei due papà, con cui si può consentire o no, ma il diritto (unalienabile) del bambino a non essere discriminato.

Cinque parole che non esistevano prima della nascita di Twitter

Dovendo scegliere una parola per descrivere la vita prima del trionfo di internet e dei social media, fra tutte sceglierei: “silenzio”. Non perché il mondo fosse effettivamente silenzioso 10 o 12 anni fa, ma perché mancava il brusio costante del vociare di sottofondo dei social, la maggior parte di noi non avevano attivato un piano internet sul proprio cellulare, che dopotutto non era ancora proprio uno smartphone, non esistevano WhatsApp, Telegram &Co. Non c’era messenger e amori, relazioni e amicizie non erano costantemente minacciate dai “visualizzato alle”.

Oggi Twitter compie 10 anni, Facebook è un pochino più vecchio e ne conta 2 in più, MySpace ci ha provato, nato nel 2003 era il precursore di un’era che non ci aspettavamo, o per lo meno non ci aspettavamo così, ma che non è riuscito a vincere sulla concorrenza e che presto si è spopolato in favore della più rassicurante creatura di Zuckerberg dove postare era semplice, non potevi personalizzare il layout del tuo profilo, ma dopo tutto avere “troppa personalità” è impegnativo e non è da tutti, e soprattutto con MySpace richiedeva almeno qualche conoscenza html di base e un discreto gusto estetico.
In poco più di un decennio i social network hanno cambiato il nostro modo di vivere. E hanno imparato tutto su di noi, sulle nostre abitudini, su quello che ci piace. Ci hanno costretti a usare un linguaggio nuovo fatto di anglicismi e di termini rubati al marketing. Ecco un elenco di parole che prima del grande boom di Twitter & Co. non esistevano.

A sign displays the Twitter logo on the front of the New York Stock Exchange ahead of the company's IPO in New York, November 7, 2013. Twitter Inc could face volatile trade in its debut Thursday on the New York Stock Exchange, analysts said, but they remained enthusiastic after the money-losing social media company priced its IPO above the expected range. The microblogging network priced 70 million shares at $26 on Wednesday evening, above the targeted range of $23 to $25, which had been raised once before. The IPO values Twitter at $14.1 billion (8.8 billion pounds), with the potential to reach $14.4 billion if underwriters exercise an over-allotment option. REUTERS/Lucas Jackson (UNITED STATES - Tags: BUSINESS SCIENCE TECHNOLOGY) - RTX153RU

TT ovvero l’ossessione di essere in Trending Topic

La TT è la classifica dei 10 temi più discussi su Twitter. Essere in trending topic è il sogno di politici, adolescenti e giornalisti. E seguire l’agenda dettata dalla classifica TT è fondamentale per acquisire followers sul social da 140 caratteri.

Hashtag mania

L’Hashtag ( abbreviato in ht) è nato proprio su Twitter come strumento per definire l’argomento di discussione e la sua utilità è strettamente connessa alla definizione di una classifica TT. Presto quel cancelletto posto di fronte a una parola è diventato un vero e proprio feticcio tanto da generare una vera e propria hashtag mania con effetti più o meno svariati che hanno dato vita ad altrettanto svariate categorie umane di utenti. Per esempio ci sono i nerd qche uando parlano di un tema ht lo accompagnano con un gesto delle mani che vorrebbe riprodurre il cancelletto, gli analfabeti digitali che si sono lasciati coinvolgere ma che vivo quel # come un segno piuttosto oscuro e quindi lo usano sia all’inizio che alla fine della #parola# (che non si sa mai), oppure #attaccando#tutte#gli#hashtag#della#frase. Non mancano inoltre i creativi, quelli che gli ht li inventano #maingeneresonocosechevoiumaninonpotetecapire. Apprezziamo comunque lo sforzo. Non dimentichiamo inoltre che, come ogni feticcio che si rispetti, il # segno dimenticato della tastiera appena diventato un re dell’ortografia web è dilagato anche su maglioni e t-shirt, imperversando in programmi tv e addirittura nei titoli di qualche giornale o rivista. Che non si sa bene a cosa serva stampato da qualche parte, ma alla fine meglio metterlo perché va di moda.

Followers, quanto piaci?

In italiano seguaci, sono quelli che più o meno ricambiati, scelgono di seguirti su Twitter. Ne hai pochi? Beh non sei nessuno, ne hai tanti, tantissimi? Wow, allora sei…un influencer.

Influencer, quanto ci importa della tua opinione?

Una volta venivano definiti Opinion Leader. Sono i nuovi vip dell’era del digitale, persone comuni che con l’avvento del web 2.0 sono, più o meno misteriosamente, diventate personalità da seguire. E vista l’enorme quantità di followers che sono riusciti sono in grado, almeno sulla carta, di orientare le discussioni e di fare entrare un tema nell’ambitissima TT.

Social Media Manager, il lavoro che non c’era

I social ci hanno portato anche dei nuovi lavori, uno di questi è appunto il social media manager, amichevolmente detto dagli addetti ai lavori “social media coso”. La missione del sm manager è quella di monitorare e gestire i profili twitter e le pagine facebook dei propri clienti, sviluppare strategie social e cercare di scalare la classifica dei temi più discussi e in tendenza (in questo caso può assumere anche la definizione di Social media strategist).

«L’Unhcr non parteciperà ai rimpatri, non siamo parte dell’accordo Europa-Turchia». Parla la portavoce Carlotta Sami

epa05221091 Migrant seen walking along a fence line at the make-shift refugee camp at the Greek-Macedonian border, in Idomeni, Greece, 19 March 2016. Migration restrictions along the so-called Balkan route, the main path for migrants and refugees from the Middle East to the EU, has left thousands of migrants trapped in Greece. EPA/ORESTIS PANAGIOTOU

L’accordo tra Europa e Turchia per la riammissione dei rifugiati non funziona e non è granché. E per come è concepito cammina su un filo molto stretto tra diritto internazionale e violazione della convenzione di Ginevra. Il flusso di rifugiati che sbarcano a Lesbos e nelle isole al nord dell’Egeo non si è interrotto e, anzi, è aumentato per la consapevolezza che più passano i giorni è più sarà difficile per le persone che lasciano le coste turche, chiedere asilo in Europa.
Tra venerdì e oggi sono almeno 1600 le persone sbarcate tra Lesbos e Chios perché siriani, iracheni e afghani il loro Paese lo hanno già lasciato e non possono tornare indietro. E la Grecia, ma era cosa nota a tutti, ha spiegato che non è in grado di implementare l’accordo, deve adeguare le sue strutture, spostare personale e coordinare il lavoro di quei funzionari europei che a centinaia arriveranno nel Paese nei prossimi giorni. Non è una sorpresa per nessuno, la data in cui l’accordo è entrato in vigore (domenica scorsa) è figlia della fretta, della necessità di partire immediatamente ed evitare sbarchi in massa. Che però ci sono e ci saranno.
L’accordo presenta, lo abbiamo scritto in molte occasioni, inciampi legali e pratici di vario ordine e grado. Innanzitutto la Turchia, come ci spiega Carlotta Sami, portavoce di Unhcr per il Sud Europa (qui la posizione ufficiale dell’Agenzia che “prende atto dell’accordo”), ha una posizione ambigua per quanto riguarda il diritto d’asilo, avendo dato un permesso di protezione umanitaria ai siriani, che però non possono chiedere di vedersi riconosciuto lo status di rifugiato.
Alla portavoce dell’Agenzia Onu per i rifugiati nel sud Europa preme soprattutto un’altra questione: «Abbiamo letto molte cose in questi giorni sulla partecipazione dell’Unhcr all’accordo. È bene chiarire che non partecipiamo e non siamo parte di quell’accordo e che non prenderemo parte a nessun rimpatrio verso la Turchia». Non potrebbe essere altrimenti, l’agenzia esiste per garantire il diritto d’asilo e aiutare i rifugiati e le persone in fuga, non per rispedirle in un Paese terzo che non fornisce garanzie adeguate sulla loro destinazione finale.
«Il nostro ruolo oggi è quello di monitorare che sulle isole greche il diritto internazionale venga rispettato: fare in modo che tutti e ciascuno ricevano assistenza legale (ovvero che si spieghi loro come fare domanda di asilo e quali sono i requisiti necessari). Inoltre monitoreremo e cercheremo di individuare le persone vulnerabili che sulla carta vengono tutelate dall’accordo europeo-turco ma che oggi non hanno garanzia di tutela di protezione in Turchia».

Unhcr è anche uscita dalla gestione diretta dei servizi a Lesbos: «Prima trasportavamo le persone dalla zona degli sbarchi a nord dell’isola fino ai centri di accoglienza che però, come effetto dell’accordo, sono divenuti centri di detenzione. Rimaniamo attivi per le persone che hanno bisogno di interventi urgenti, a cominciare dall’ospedalizzazione».

L’accordo presenta almeno un problema ulteriore, oltre a quello dell’implementazione pratica, che costerà moltissimo e che necessità di personale spedito da diversi paesi europei sulle isole greche (Atene fino a qualche giorno fa rifiutava l’idea di avere delle guardie di frontiera europee sui propri confini). «Europa e Turchia hanno sottoscritto un testo che parla di rimpatrio che non nomina gli iracheni e gli afghani, in fuga da conflitti e/o persecuzioni personali anche loro», continua Sami. In questo caso non c’è nessuna garanzia che quelle persone non vengano rispedite a casa o in altri Paesi terzi, «L’Unhcr è pronta a collaborare con il governo di Ankara per lavorare all’adeguamento della legislazione in materia di asilo – che al momento non è prevista per i non europei – per l’accesso dei minori all’istruzione e degli adulti al lavoro». ma per adesso la legge turca non è in linea con le convenzioni internazionali.

E il piano di redistribuzione dei rifugiati già presenti in Europa? «Quello è un altro capitolo. Sembra di capire che dopo la firma dell’accordo ci sia stata un’accelerazione di quell’accordo intra-europeo che era rimasto quasi lettera morta. Per questo stiamo lavorando con il governo greco per creare dei siti di accoglienza per ospitare le 50mila persone che al momento sono in Grecia in attesa di essere ridislocate in altri Paesi europei. A Idomeni, che è la situazione più grave, partecipiamo alla fornitura di cibo e strutture igieniche».
E qui viene il punto: diversi Paesi europei hanno già spiegato che non hanno intenzione di accogliere nuovi rifugiati, l’Ungheria ha piazzato mezzi corazzati a “protezione” dei propri confini, una mossa che si giustifica solo con la voglia di parlare ai bassi istinti del popolo ungherese. L’implementazione di tutti gli accordi – per quanto limitati siano – è essenziale per garantire un minimo di diritti alle decine di migliaia in fuga che già si trovano in Europa. «In poche settimane il Canada ha accolto 25mila siriani, non serve uno sforzo sovrumano» ci spiega Sami. Il premier britannico Cameron ha invece spiegato che la Gran Bretagna non accoglierà più dei 20mila per i quali si è impegnata e non concederà nuovi visti di ingresso ai cittadini turchi.

Ora, è vero che in Canada c’è molto spazio, ma il tema è quello di una scelta politica: il nuovo governo canadese ha deciso che l’emergenza siriana aveva bisogno di una risposta urgente. Alcuni governi europei hanno invece deciso di utilizzare la crisi dei rifugiati come strumento di propaganda interna.

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La famiglia Clooney a colloquio con dei rifugiati siriani e lo spot Unhcr “5 anni fa ero in Siria e stavo bene”

Amal racconta la propria storia di profuga libanese in fuga dalla guerra e la madre che parla con loro spiega: «Ho detto ai miei figli che era meglio morire per un proiettile che decapitati e che non volevo avessero tanta paura». Il video è dell’International Rescue Commitee, diretto da David Milliband, ex ministro degli Esteri britannico (nel video)

British Psycho. Jonathan Coe torna con un potente noir sulle bugie di Blair e la crisi

johnatan coe

Il nuovo romanzo di Jonathan Coe racconta in un potente affresco in chiave noir l’assassinio delle speranze politiche della generazione che aveva creduto in Tony Blair.
L’autore ne parla il 21 marzo alla Feltrinelli Libri e Musica di Milano e il 22 marzo alla Scuola Holden di Torino

È una favola nera, con toni quasi da horror, il nuovo romanzo di Jonathan Coe, costruito come un grande affresco di storia inglese a partire dall’invasione dell’Iraq del 2003, per arrivare alla crisi finanziaria del 2008 e oltre. In http://www.feltrinellieditore.it/opera/opera/numero-undici/ (Feltrinelli) con il piglio del miglior giallo inglese e suspense alla Psyco di Hitchcock, Coe racconta l’assassinio delle speranze politiche di una generazione di sinistra delusa dalle politiche neoliberiste di leader laburisti come Tony Blair. I contorni storici del romanzo sono precisi, così come il racconto del declassamento della middle class e della miseria nera con cui si trovano a combattere disoccupati, bibliotecari finiti sulla strada per la chiusura dei presidi di quartiere e artisti costretti a riciclarsi nei reality show. L’ironia corrosiva è quella del miglior Jonathan Coe, ma – ecco la novità – la narrazione vira al fantastico, con accenti da realismo magico e perfino da letteratura gotica, con case nel bosco che sembrano quelle dei fratelli Grimm, sentieri che non portano da nessuna parte e improvvisi voli di uccelli rapaci. C’è molto Dickens in Numero 11, ma anche lo slancio socialista e utopico di H.G.Wells. Ma, soprattutto, c’è lo sguardo nuovo, ingenuo, irrazionale e generoso di due bambine, Rachel ed Alison, le protagoniste, che vediamo crescere di pagina in pagina, in mezzo a vecchie conoscenze che abbiamo incontrato nei romanzi precedenti dello scrittore inglese.

Un romanzo cult come La famiglia Winshaw ha compiuto vent’anni. E in Numero 11 ritroviamo alcuni personaggi di allora. Jonathan Coe, qual è il filo rosso che lega questi due romanzi?

Non ho mai pensato di scrivere un sequel. Ma sempre di più, avendo scritto ormai molti romanzi, non li vedo come singoli lavori, piuttosto li sento come capitoli di una narrazione in continua evoluzione e sviluppo. La famiglia Winshaw resta per me una metafora sul potere che le elite economiche e di governo esercitano su tutti noi. Quando mi sono reso conto che in Numero 11 riemergeva quel tema mi sarebbe suonato strano non far riferimento alla famiglia Winshaw. Contento, però, che molti dei protagonisti fossero morti alla fine di quel romanzo. Significava una cosa ovvia: che non potevo scrivere un’altra storia che avesse quei protagonisti. Potevo solo prendere dei personaggi minori, il che si è rivelato per me molto più interessante.

«C’è un momento in cui una generazione ha perso la sua innocenza politica. Noi la perdemmo con la morte di David Kelly» dice Laura, in Numero 11. «Una persona perbene era morta ed erano state le bugie costruite intorno a determinarla». Il suicidio dello scienziato Kelly mise in luce le responsabilità di Tony Blair nella costruzione di fittizie motivazioni per attaccare l’Iraq. Per questo è un punto chiave del romanzo?

È il punto di partenza, ma non è al centro della narrazione. Da molti punti di vista Numero 11 è il più paranoico dei miei romanzi nel senso che mostra persone le cui vite sono regolate da forze misteriose e sinistre che non riescono a capire. Mi sono sentito così dalla crisi del 2008 quando diventò chiaro che i nostri risparmi non erano al sicuro nelle mani di chi, invece, avrebbe dovuto occuparsene. La morte di David Kelly crea una certa atmosfera, volevo indirettamente rendere l’idea che la vita politica oggi è piena di misteri che sono chiari a chi ricopre posti chiave del potere, ma che rimangono oscuri, inesplicabili, per la maggioranza di noi, per l’opinione pubblica in generale.

In un’intervista lei ha detto che l’elezione di Jeremy Corbyn è stata una sorpresa che segna una discontinuità nel Labour party. Il tatcherismo ha avuto un seguito con Blair e Milliband?

Le classi dirigenti, in particolare le elite finanziarie, sono ormai così potenti che nessuno nel Regno Unito osa attaccarli. Certamente Tony Blair non faceva mistero dell’ammirazione che nutriva per le istituzioni finanziarie né su quanto la politica dipendesse da esse. E anche oggi che per la prima volta in più di trent’anni abbiamo un Labour party con una agenda di sinistra non apologetica verso i poteri forti, il portavoce del partito sui temi finanziari è ancora costretto ad andare in televisione per spiegare quanto lui ammira gli imprenditori della Gran Bretagna e i “creatori di ricchezza”. Mi sembra un’ironia della sorte che una delle principali conquiste della signora Thatcher, che per molti versi era una populista democratica, sia stato il controllo della vita pubblica britannica attraverso le banche.

La commedia può essere un anestetico in momenti politici così drammatici come quello che oggi, lei ha scritto. Qual è lo strumento narrativo più incisivo ed efficace?

Qui in Gran Bretagna siamo molto orgogliosi della nostra tradizione di satira politica. Pensiamo che sia un modo per costringere i politici a rendere conto del loro operato e al tempo stesso per far in modo che non si prendano troppo sul serio. Certo, fa piacere ridere di quello che combinano, di tanto in tanto. Ma penso anche che in anni recenti siamo arrivati a sovrastimare il potere della commedia. La commedia è un modo per riconciliarci con la situazione in cui ci troviamo a vivere, non è un modo per cambiarla. La satira più potente, a mio avviso, è quella che sfida e interroga le nostre convinzioni, invece di confermarle. La satira dovrebbe farti sentire a disagio. Perciò in questo romanzo, invece di scrivere sempre in chiave di commedia, sono ricorso a modi narrativi dell’horror, per creare questa sensazione di disagio e qualche volta addirittura di disgusto nel lettore.

Per finire una domanda su Londra che è stata al centro del suo intervento a Libri Come a Roma. Come è cambiata durante il doppio mandato del conservatore Boris Johnson?

Vivo a Londra da trent’anni e non sarei qui se non l’amassi. È una città fantastica che anticipa le tendenze piuttosto che inseguirle. Purtroppo oggi il costo della vita in centro continua ad aumentare e questo fa sì che le persone comuni – persone che non guadagnano ingenti somme di denaro – siano costrette a trasferirsi altrove. Insegnanti, medici, addetti alla pulizie che permettono alla città di funzionare, sono costretti ad andare a vivere nelle più remote periferie, affrontando viaggi di oltre due ore per arrivare al lavoro, mentre il centro di Londra è preda di investitori che vedono le case solo come una fonte di guadagno, non ci vivono e non sono interessati a farlo e tanto meno a contribuire alla vita della città. Alcune parti di Londra oggi sembrano spaventosamente vuote, come in una città fantasma, perché i proprietari non ci abitano. Il problema come accennavo è la speculazione. Boris Johnson è un tipo buffo ma non credo che veda qualcosa di sbagliato in questa situazione. Come molti politici di destra considera la città un terreno di conquista per sé e per i suoi, per i ricchi e per chi ha già molti privilegi. @simonamaggiorel

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Questo articolo continua sul n. 12 di Left in edicola dal 19 marzo

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Università, Gianfranco Viesti: “La fuga della politica”

Università in crisi, docenti e studenti che fanno sentire la propria voce. Oggi, 21 marzo, è la “primavera dell’università”, una giornata indetta dalla Crui (Conferenza dei rettori italiani) per “riaffermare il ruolo della ricerca e dell’alta formazione universitaria”. Ma si potrebbe anche definire “primavera di lotta”. Fino a oggi infatti sono stati giorni “caldi”, con il rifiuto da parte di molti docenti di consegnare i dati della Vqr (Valutazione qualità e ricerca) in segno di protesta sia per il blocco degli scatti, ma soprattutto per lo stato di salute dell’università italiana, alle prese con il blocco del turn over e metodi di valutazione che penalizzano gli atenei più deboli e premiano quelli più forti. Oltre che in perenne difficoltà per i tagli alla ricerca. Allo stesso tempo gli studenti protestano per il diritto allo studio negato e lanciano una legge di iniziativa popolare.

Insomma,  si fa strada uno scenario di università di serie A e di serie B. Con il Sud e le isole fanalini di coda.
Left nel numero in edicola ha dedicato un ampio sfoglio a questo tema raccontando il caso dell’Università di Cagliari a rischio chiusura e analizzando una ricerca che rappresenta la più documentata fotografia della formazione universitaria dal 2008 (anno della legge Gelmini) al 2015. Si tratta di Università in declino una raccolta di saggi uscita per Donzelli editore. Curato da Gianfranco Viesti è il frutto di una ricerca della fondazione Res e analizza con approfondimenti tutti gli atenei da Nord a Sud.
Ne abbiamo parlato con il curatore sul giornale in edicola.

Per le università italiane serve un’indagine parlamentare, dopo di che si prendano le decisioni più opportune». Gianfranco Viesti, curatore di Università in declino (Donzelli), il sistema universitario lo conosce benissimo. Ed è altrettanto consapevole che nella comunicazione circolano ancora tanti luoghi comuni. I buoni e i cattivi, i “troppi” atenei («non è vero, siamo in linea con gli altri Paesi europei»), i primi della classe da premiare e gli ultimi da penalizzare con i tagli. E soprattutto, nella ricerca (che il 21 sarà presentata all’università di Cagliari e l’11 aprile ai Lincei a Roma) ha constatato «la fuga della politica», ovvero la rinuncia a governare processi complessi ma fondamentali per un Paese.

Ci ritroveremo università di serie A e altre di serie B?
Mah… la cosa che mi dispiace di più è che nessuno abbia mai esplicitato l’obiettivo della politica fin qui seguita. Almeno in Gran Bretagna sono stati più chiari: puntavano alla totale privatizzazione del sistema e lo hanno reso noto. Da noi no.
Tra dieci anni che fine faranno le università del Sud?
Le università meridionali complessivamente sono buone università, stanno nella media europea. Certo, ci sono aspetti che devono far riflettere. Il primo è che i grandi atenei del Nord hanno una qualità diffusa in tutte le materie scientifiche e questo non si ritrova al Sud. Il secondo aspetto è che sono un po’ diversi tra loro come risultati, anche a parità di contesto economico, e da qui emerge l’importanza del reclutamento. Nessuno può negare che in Italia e soprattutto al Sud ci siano stati casi di reclutamento nepotistico. Le debolezze quindi sono anche figlie di colpe gravi. Ciò detto, il sistema va potenziato. Nell’interesse nazionale, perché un Paese è forte se ha basi culturali e scientifiche diffuse in tutto il territorio.
Che cosa bisognerebbe fare per potenziare il sistema?
Intervenire sulla qualità, creando corsi comuni, ma anche differenziando il sistema. La difesa dell’esistente non è una buona politica. Il problema è che con le scelte fin qui fatte il sistema è diventato più “piccolo” e non migliore. Per esempio la quota premiale che era al 20% questo governo l’ha alzata al 30%, cosa che non c’è da nessuna parte al mondo. I finanziamenti vengono dati con criteri che cambiano ogni anno e dunque così è molto difficile migliorare. E poiché le differenze negli atenei sono maggiori che fra atenei, così penalizziamo i gruppi migliori degli atenei più deboli che invece sono quelli da sostenere di più. Io lo chiamo effetto “a palla di neve”. Chi ha meno docenti ha meno corsi, ma chi ha meno corsi ha meno studenti, chi ha meno studenti ha meno soldi, ma chi ha meno soldi ha meno docenti e tutto continua… a palla di neve. Ma questa, ripeto, è una scelta politica molto forte. Per questo l’idea dell’indagine parlamentare serve soprattutto per capire dove andare nei prossimi sette anni.

Il presidente del Consiglio ha annunciato 2,5 miliardi per la ricerca e il ministro Giannini ha lanciato il piano di reclutamento degli 861 ricercatori. Che ne pensa?
Per il momento ho l’impressione che sia una razionalizzazione di risorse che già ci sono, aspettiamo il piano della ricerca, fatto tra l’altro dal governo Letta e fermo da più di due anni. Sul piano di reclutamento dei ricercatori la mia opinione è negativa. Si è deciso ancora una volta di assegnarli (729, ndr) in base alla valutazione della qualità e ricerca (Vqr), ma non la prossima, bensì quella vecchia! Quando si usa questo criterio si sa già dove vanno a finire i soldi, non c’è concorrenza. E poi c’è la ciliegina sulla torta: il resto dei ricercatori (132) sono stati dati due per ateneo. Sembrerebbe una decisione democratica ma non è equa, le dimensioni sono diverse, per alcuni significa avere l’8% in più di risorse umane, per altri, i più grandi, l’1%. Di fronte a queste decisioni sono perplesso: non vedo mutare l’indirizzo per cui c’è un principe sovrano che decide a sua assoluta discrezione, un atteggiamento rispetto al quale la politica – che dovrebbe mediare gli interessi di tutti – non è capace di incidere.

 

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Chissà che ne direbbe il Piccolo Principe, dei carri armati sui bambini

epa05220507 BTR armoured personnel carriers of the Hungarian Army patrol the area along the temporary border fence on the Hungarian-Serbian border near Roszke, 180 kms southeast of Budapest, Hungary, 19 March 2016. Migration restrictions along the so-called Balkan route, the main path for migrants and refugees from the Middle East to the EU, has left thousands of migrants stranded in Greece. EPA/SANDOR UJVARI HUNGARY OUT

In Ungheria hanno pensato al filo spinato. Un muro, di filo spinato, per pescare i rifugiati senza rifugio che scappano dalla guerra cercando la strada per l’Europa. Come salmoni, mentre risalgono la corrente per uscire dal gorgo di una morte quasi certa, rimangono impigliati nella rete che pesca i fragili. Chissà come ci si sente a pescare facile, solo i più deboli e stanchi con i figli sulle spalle o una vecchia madre trascinata per mano.

I muri, i fili spinati, i manganelli sui denti, le famiglie come cenci che caracollano appese alla corda sopra al fiume di Idomeni: questa Europa è una via crucis sparpagliata in giro ma non c’è nemmeno l’odore del dolore o dell’incenso. Al massimo gocciola la contrizione misurata in salsa istituzionale; quella che usano i prefetti ogni 25 aprile prima di dare il via al prosecco e alle patatine.

Mi chiedo, ad esempio, cosa ne direbbe il Piccolo Principe dei carri armati che sono arrivati a vigilare sul filo spinato ungherese. Se non troverebbe anche lui così tragicamente ridicolo quest’adulto che ha bisogno di un cingolato per spaventare un bambino già spaventato dal fiatone del padre; mi chiedo se davvero non ci starebbe un pianeta in più per il prepotente che arma i missili per disfarsi dei moscerini.

«Da milioni di anni i fiori mettono le spine. Da milioni di anni le pecore mangiano ugualmente i fiori. E non è forse una cosa seria cercare di capire perché i fiori si danno tanta pena per mettere spine che non servono a niente?»  dice il Piccolo principe. Qui dopo le spine ci hanno messo i cannoni. Non hanno imparato niente. Cacciano le volpi, piantano baobab per difendere giardini troppo piccoli e bevono per dimenticare di aver bevuto.

Però quasi tutti fingono di averlo letto, di averlo amato. Il Piccolo Principe.

 

Barack e Castro

U.S. President Barack Obama and Cuban President Raul Castro meet at the United Nations General Assembly in New York September 29, 2015. REUTERS/Kevin Lamarque - RTS29J4

Mentre scrivo Barack Hussein Obama sta per atterrare, con moglie e figlie, nell’isola di Cuba. Non farà gesti clamorosi: l’embargo, un crimine contro l’isola, può essere tolto solo dal congresso, non chiuderà il lager di Guantanamo, né esorterà i dissidenti a liberarsi della gerontocrazia castrista. Eppure questo viaggio è già storia.
Correva il 1953, moriva Stalin e la guerra di Corea finiva con una non pace e la divisione del paese lungo il 38esimo parallelo. Charlie Chaplin, vittima del maccartismo e accusato di essere una spia comunista, lasciava per sempre gli Stati Uniti. In Iran la Cia rovesciava Mossadeq, primo ministro nominato all’unanimità dal parlamento, ma che aveva osato cacciare lo Scia e nazionalizzare il petrolio britannico.
A Cuba, invece, un gruppo di disordinati ribelli assaliva la caserma Moncada, contro il ritorno, com colpo di stato, del generale Fulgencio Batista. Dispersi, uccisi, arrestati. Ma un giovane avvocato, Fidel Castro, che aveva partecipato all’assalto, si difenderà da solo in tribunale, “La Historia me absolverà” e presto diventata popolarissimo
Liberato ed esiliato in Messico tornerà a Cuba, combatterà nella Sierra Maestra fino a entrare in trionfo a l’Avana, insieme a Ernesto Guevara, il Che, il primo gennaio del 1959.
Storia dei vostri nonni: va bene. Però a Obama, è toccato il compito di chiuderla quella storia. L’ha fatto riaprendo il dialogo con l’Iran, lo fa oggi calpestando il suolo cubano. Se gli Ayatollah hanno vinto nel 1979,la loro rivoluzione contro lo Scia, se Cuba ha resistito all’assalto della Baia dei Porci e poi al blocco navale e all’embargo, ci sarà pure una ragione. Oggi Washington non può considerare Cuba come “il giardino di casa” dove mandare mafiosi e puttanieri danarosi. Meglio il dialogo, meglio provare a vincere la guerra invadendo i mercati dell’isola con prodotti americani, meglio mandare soldi e architetti che ristrutturino quella bella architettura coloniale.
Fidel Castro – ma come si fa, con un uomo così, a distinguere verità e leggenda- lo avrebbe previsto nel 1973: “Gli Stati Uniti dialogheranno con noi quando avranno un presidente nero e quando ci sarà un Papa latinoamericano”. È successo, un Papa argentino ha tracciato la strada un Presidente nero l’ha percorsa.

Paul Strand: la fotografia come strumento di comprensione del mondo

E.437-1988 Photograph Martine Franck 1972

Non importa quale sia l’obiettivo utilizzato, non importa quale sia la velocità della pellicola, non importa come si sviluppa, non importa come si stampa, non si può dire di più di quanto si può vedere.

Paul Strand

Una grande retrospettiva del lavoro del fotografo americano, Paul Strand (1890-1976) il fotografo che agli inizi del ‘900 si battè perchè la fotografia fosse riconosciuta come arte, la prima in Gran Bretagna dopo la sua morte.
Si tratta di una mostra itinerante organizzata dal Philadelphia Museum of Art, che conserva la più grande collezione al mondo di opere dell’artista, a cui si aggiungono le opere della collezione presente al V&A Museum di Londra.

Fotografo e cineasta americano, divenuto figura di riferimento per la «straight photography», allievo di Stieglitz, eccezionale cronista del Novecento e maestro del realismo in bianco e nero, con le sue rivoluzionarie sperimentazioni Paul Strand è stato uno dei più grandi e influenti fotografi del XX° secolo.

La mostra punta l’attenzione sui principali progetti realizzati da Strand tra gli anni ’10 e gli anni ’70, mostrandoci la molteplicità delle sue pratiche, approcci, soggetti e tecnologie: dai primi sforzi per affrancare la fotografia dal pittorialismo e affermarne la posizione come forma d’arte, ai suoi lavori come film-making, ai libri fotografici del dopoguerra, mettendo in evidenza il suo costante sforzo di usare la fotografia come strumento di comprensione del mondo.

Paul Strand: Photography and Film for the 20th Century
Victoria and Albert Museum, Londra
19 marzo – 3 luglio 2016

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Immagine in evidenza: Paul Strand Photographing the Orgeval Garden Photograph Martine Franck, 1974 © Martine Franck/Magnum Photos

(gallery a cura di Monica Di Brigida)

A Roma la prima tappa del movimento di Varoufakis

La crescita dell’estrema destra alle ultime elezioni regionali tedesche pone la Germania in una situazione già vissuta da Italia, Spagna, Grecia e Portogallo. Come la crisi economica e finanziaria per i Paesi del Sud, oggi è la Germania a patire gli effetti dell’incapacità di questa Europa di affrontare con umanità ed efficacia la cosiddetta crisi dei rifugiati. Cosiddetta, perché non esiste un problema oggettivo, per un continente ricco e popolato da cinquecento milioni di persone, nel dare accoglienza degna a qualche milione di individui in fuga dalla guerra. Così come non avrebbe dovuto esistere problema oggettivo, per il più grande mercato mondiale, nell’affrontare una crisi del debito senza imporre povertà e bancarotta ai suoi Stati più deboli.
È concreto invece il rischio di essere divenuti oramai incapaci di rispondere alle grandi sfide del ventunesimo secolo. Sfide – le migrazioni, l’ineguaglianza economica, i cambiamenti climatici – troppo grandi per i singoli Stati, ma a cui un’Europa paralizzata dai veti incrociati e delegittimata da una tragica mancanza di democrazia è sempre meno capace di rispondere. E questo è il vicolo cieco in cui ci troviamo oggi, con la politica nazionale ridotta a piccolo cabotaggio e la politica europea ridotta a rissa fra capetti di Stato. Affrontiamo le ondate di una Storia tornata a battere la tempesta in barchette di carta pilotate da timonieri sbronzi. Ma come i marinai greci sappiamo che tristezza e rassegnazione sono i primi nemici da combattere. E che bisogna recuperare l’orizzonte per uscire dalla burrasca.
L’orizzonte è ricostruire l’Europa come grande spazio di democrazia, capace di farsi luogo di lotta fra visioni politiche alternative, di affrontare di petto, sulla base di una rinnovata legittimità, le sfide dei tempi straordinari che stiamo attraversando. Da anni i movimenti più vari – da Blockupy ai federalisti di ogni fede – lottano contro l’Europa dello status quo e per una democrazia transnazionale. Oggi la proposta del Manifesto DiEM25 da parte di Yanis Varoufakis porta una nuova e necessaria spinta verso questa semplice quanto folle ambizione: democratizzare l’Europa. E lo fa chiedendo a ciascuno di alzare il livello del gioco.
Questi anni di crisi ci hanno mostrato tutta l’incapacità della sinistra di organizzarsi a livello transnazionale. I partiti nazionali si sono nascosti dietro sigle impronunciabili, – chi si ricorda cosa significa Gue/Ngl, l’acronimo del gruppo della sinistra al Parlamento europeo? – accrocchi in cui ciascun partito continua a muoversi obbedendo a logiche esclusivamente nazionali e in cui, tutti insieme, confermano la loro tragica impotenza. E in un simile vicolo cieco – ma qui si aprirebbe un altro capitolo – si trova il sindacato europeo.
È ora di voltare pagina. E di iniziare a immaginare una forza politica multilivello capace di pensare e agire, organizzarsi e mobilitare su scala continentale.
L’Italia è stata, storicamente, fra i laboratori politici più fertili d’Europa. Ma è oggi anche il Paese meno presente nei processi di costruzione e innovazione di una sinistra europea all’altezza di questa sfida. È ora che questo cambi. Se sul palco, al lancio di DiEM25 a Berlino il 9 febbraio scorso, non erano presenti italiani, ora, su invito di European Alternatives, è Roma la prima tappa del nuovo movimento. Che sia solo l’inizio.

*Lorenzo Marsili è fondatore e presidente di European Alternatives

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