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Quando il carcere viene privatizzato. Il cattivo esempio brasiliano

Pulito, organizzato e altamente automatizzato. Telecamere e porte che si aprono da torri di controllo. La prima prigione privata del Brasile è molto diversa da un carcere pubblico. Inaugurata nel gennaio 2013, si trova a Ribeirão das Neves, regione metropolitana di Belo Horizonte, Minas Gerais. Di prigioni in “outsourcing” in Brasile ne esistono già molte, in almeno altre 22 località. Ma quella di Ribeirão das Neves è amministrata da privati in Ppp (partenariato pubblico-privato), e la gestione dei servizi esternalizzati include quelli relativi alla salute dei detenuti e alla loro alimentazione. Nel mondo le prigioni private sono circa 200, la metà negli Stati Uniti (a implementarle ci ha pensato Ronald Reagan, nel 1980, e adesso riguarda il 7% della popolazione carceraria Usa). In Europa, il modello è molto diffuso in Inghilterra grazie all’impronta di Margaret Thatcher.

La denuncia degli esperti

“Costi minori e maggiore efficienza”: è questo lo slogan del complesso penitenziario brasiliano. Ma cosa si intende per “efficienza”? Intorno a questa domanda discutono gli esperti brasiliani. Tra loro, Bruno Shimizu e Patrick Lemos Cacicedo (coordinatori del Nucleo della situazione carceraria del difensore civico di San Paolo), che contestano la legittimità stessa del modello. Per Bruno Shimizu, «dal punto di vista della Costituzione federale, la privatizzazione delle carceri è un bubbone» incostituzionale, dal momento in cui il potere punitivo dello Stato non può essere delegato. Per lo studioso si tratterebbe di un argomento prettamente politico: «Prima, e per lungo tempo, è stato demolito il sistema carcerario, come è stato fatto per tutto il periodo delle privatizzazione, in modo da avere gli argomenti per giustificare che questi servizi vengano consegnati all’iniziativa privata». Anche Laurindo Minhoto, professore di sociologia presso USP e autore del libro “La privatizzazione delle carceri e la criminalità”, dice lo Stato sta delegando la sua funzione più primitiva, il suo potere punitivo e monopolio della violenza. Lo stato, lo scarto, soprattutto saturi, prende la sua inefficienza e trasferisce la sua funzione più fondamentale per le aziende che possono rendere il servizio più “pratico”. E in questo modo è attraverso il profitto.

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Rischio incarcerazione di massa

Secondo gli esperti, il maggiore dei pericoli di questo modello è l’incarcerazione di massa. In un Paese come il Brasile – che, con più di 550.000 prigionieri, è quarto Paese con la più alta popolazione carceraria del mondo e che in venti anni, 1992-2012, ha visto aumentare il numero dei detenuti del 380% dati Depen. Negli Stati Uniti, spiega quello che è successo alla privatizzazione di questo settore è stata una lobby molto forte per l’introduzione di pene più severe e la repressione della polizia ancora più palese. Cioè, ha iniziato a tenere di più e il tempo trascorso in carcere è aumentato solo. Oggi, prigioni private negli Stati Uniti sono un business miliardario solo nel 2005 un fatturato di quasi 37 miliardi di dollari.

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Come si lucra sui detenuti?

In Brasile, un detenuto “costa” da 1.300,00 R$ a 1.700,00 R$ (real brasiliano) al mese. Al Neves, il consorzio di imprese riceve dallo Stato di 2.700 R$ al mese per ogni detenuto e ha una concessione di 27 anni, rinnovabile a 35. E, se Hamilton Mitre, manager della Prison Associates (Aap), il consorzio di aziende che ha vinto la gara, sottolinea che l’investimento iniziale per la costruzione del carcere (di R $ 280 milioni) il ritorno finanziario avviene solo dopo alcuni anni di funzionamento. E quindi più lento arriva anche il profitto. Non la pensano così gli esperti. Per loro il profitto si verifica principalmente attraverso i tagli alla spesa. Intanto, nell’istituto penitenziario di Neves i prigionieri hanno 3 minuti per la doccia, quelli che lavorano hanno 3 minuti e mezzo. E i detenuti hanno riferito che l’acqua all’interno delle celle viene tagliata per diverse ore al giorno.

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3 minuti per una doccia

Oltre all’assistenza medica, al Neves è privata anche quella legale. Anche su questo punto si incentra la denuncia degli esperti: si tratta di una funzione costituzionalmente riservata al pubblico, perché fornisce assistenza gratuita alle persone che non possono permettersi un avvocato affidabile. «Di fronte a una situazione di tortura e di violazione dei diritti, una persona dovrà chiedere a un avvocato pagato dall’impresa di assisterlo contro l’impresa». Patrick si spinge più avanti, fino a sostenere che è interesse del consorzio, non solo avere sempre più detenuti al giorno, ma di trattenere il più a lungo possibile quelli che sono già dentro. Una delle clausole contrattuali del partenariato stabilisce come una delle “obbligazioni di governo” è garantire «la richiesta minima del 90% della capacità del complesso penale, durante il contratto». Vale a dire: durante i 27 anni del contratto almeno il 90% dei posti vacanti dei 3.336 deve essere sempre occupato. Se il Brasile entro i 27 anni della concessione cambiasse una setie di leggi e smettesse di imprigionare le persone, dovrebbe comunque arrestare delle persone per rispettare la quota stabilita tra lo Stato e il suo partner privato?

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

L’ultima edicola? Così crisi, concentrazioni e tecnologie uccidono i giornalai

Edicole Roma 2015

Come è accaduto per i cinema e poi per le librerie, come sta avvenendo per le Poste che prevedono di cancellare quasi 500 sedi, un’altra realtà ramificata su tutto il territorio nazionale e che ancora oggi continua a rappresentare un presidio sociale, sta scomparendo da alcune zone e quartieri d’Italia in un loop di vuoto informativo e culturale. Tanto per dare l’idea, nella provincia di Messina hanno chiuso definitivamente le rivendite di alcuni Paesi: comprare un giornale è un miraggio in oltre venti Comuni dei Nebrodi. La stessa situazione si sta verificando nelle province di Foggia, Pistoia e Pisa.

Dopo otto anni di crisi economica il numero dei giornalai che mollano la spugna è impietoso. Le edicole attive in Italia sono circa 30mila. Dal 2001 a oggi hanno chiuso in 13mila, di cui quasi 7mila negli ultimi due anni.

Una crisi che dipende certamente dal calo delle vendite di quotidiani e periodici, dalla virata sul web, da una popolazione che si droga di Tv e legge sempre meno ma anche dalla mancanza di attenzione nel preservare un rete che nonostante tutto resta il principale canale di distribuzione per la carta stampata e un legame cruciale tra la piccola e media editoria con i territori.

Ad incidere è senza dubbio il diverso peso specifico dei soggetti in campo: editori, distributori ed edicolanti. I giornalai, nella filiera, rappresentano l’ultimo anello della catena e in questi anni di crisi (con percentuali sulle vendite sempre più risicate e su quantitativi di merce venduta drasticamente ridotti, spese fisse sempre più alte e la richiesta da parte di alcuni distributori di far accendere delle fidejussioni per tutelarsi da chi molla da un giorno all’altro) si sono ritrovati a impugnare il coltello dalla parte della lama.

Il settore sconta poi il processo di ristrutturazione e concentrazione della rete di distribuzione avvenuto negli anni scorsi che ha prodotto una pluralità di monopoli di fatto nei quali un unico distributore locale fornisce i prodotti editoriali a una data zona e il singolo edicolante si trova «in una posizione di dipendenza economica non avendo la possibilità di reperire altrove le pubblicazione» spiega Amilcare Digiuni, responsabile organizzazione del sindacato dei giornalai Sinagi. Cosa che, in caso di disaccordo, può mettere il giornalaio nella posizione di «non contestare temendo ritorsioni».  

«Il lavoro dell’edicolante è un lavoro complesso e suscettibile di disguidi ed errori», racconta Digiuni, se però il distributore locale approfitta della sua posizione dominante può rendere la situazione legata alla crisi economica «intollerabile», conclude. La decisione da parte dei distributori di sospendere le consegne al singolo edicolante quando i conti “dare e avere” non tornano è sempre più diffusa in alcune aree. E che qualcosa non funzioni è lampante.

Fino agli anni Novanta il principio che regolava il sistema distributivo prevedeva che le copie giungessero ai punti vendita con il pagamento a vendita conclusa e dietro restituzione dell’invenduto. Successivamente è stata «pesantemente accresciuta la pratica degli anticipi», ha certificato l’Antitrust che nella stessa indagine scriveva: «per alcuni prodotti vi sarebbero rese che sfiorano il 90% e, malgrado la vendita sia così limitata, la fornitura resterebbe costante».

«Nel tempo – racconta Margherita un’edicolante romana – è cambiato modo di lavorare, prima si pagava giornalmente. Poi si è passati al conto settimanale. Questo sistema va bene solo se il distributore di turno mi viene incontro quando sto in difficoltà». Ma se non si trova una soluzione per risolvere il problema e le consegne vengono sospese si rischia di percorrere una strada senza via d’uscita. Margherita, con uno di questi distributori locali, è «intruppata contro un muro. Io sono sospesa dal 2010 e i principali giornali non li ricevo più. Vorrei risolvere, gli ho fatto una proposta: mi continui a fornire, mi fornisci di meno, mi fai pagare giornalmente che riesco meglio, e ti dò 100 euro in più a settimana che vanno per il vecchio debito in modo che l’esercizio rimane aperto. Ma tu devi continuare a scaricare i giornali sennò come faccio a rientrare?”. Ormai “siamo tanti in questa situazione. C’è una sofferenza? Dovresti aiutarmi a superarla, non dovresti mollarmi».

A rendere ancora più difficile la situazione è arrivata qualche mese fa un’intesa tra la Fieg e i principali distributori. Un accordo che parla dei giornalai ma sul quale loro non sono stati interpellati e contro cui gli edicolanti hanno protestato in un assordante silenzio. Un accordo che i giornalai vedono come fumo negli occhi: verranno individuate “unilateralmente” le rivendite con “redditività negativa”; partirà l’informatizzazione della rete ma, nonostante la legge lo preveda, l’operazione non è pensata per essere condivisa; i distributori potranno aprire e soprattutto gestire punti vendita in proprio. Il giudizio di netta critica è stato riassunto in un documento inviato al Dipartimento per l’editoria di Palazzo Chigi: gli editori e i distributori che l’hanno firmato, si legge, “trattano la filiera come fosse affare loro, da negoziare privatamente, una sorta di proprietà esclusiva”.

Sul tavolo ora c’è un progetto di legge di riforma dell’editoria che contiene anche un pacchetto di norme sui giornalai. Il testo, frutto del lavoro del dipartimento, è stato presentato inizialmente dal Pd, ed è stato modificato in commissione Cultura della Camera. L’approdo in Aula a Montecitorio ci sarà lunedì 22 febbraio.

Certo la riforma è ancora in prima lettura, dovrà passare anche all’esame del Senato e non si possono escludere passi indietro. Al momento però il Parlamento sembra aver raccolto in parte il grido di allarme lanciato dai sindacati degli edicolanti approvando alcune modifiche.

Resta la previsione della «liberalizzazione della vendita dei prodotti editoriali» che preoccupa i giornalai perché rischia di dare il colpo di grazia alla rete. La futura liberalizzazione viene resa però più soft tentando di riconfermare alcuni divieti. Ad esempio, si riafferma che sono nulli i patti derivanti da abuso di dipendenza economica e si fa espresso riferimento al «divieto di sospensioni arbitrarie delle consegne».

Verrà promosso un “regime di piena liberalizzazione degli orari di apertura dei punti vendita” ma anche consentita “la rimozione degli ostacoli che limitano la possibilità di ampliare l’assortimento e l’intermediazione di altri beni e servizi, con lo scopo di accrescere le fonti di ricavo potenziale” trasformando di fatto il mestiere del giornalaio.

E per quanto riguarda l’attesa informatizzazione della rete viene precisato che tale operazione dovrà avvenire “in maniera condivisa e unitaria”. Cosa peraltro già prevista dalla legge (che eroga un contributo d’imposta per realizzarla) ma evidentemente si è valutata la necessità di doverlo ribadire.

Infine, dal gennaio 2017, scatterà una norma che punta a rivoluzionare la parità di trattamento (che è l’obbligo per i giornalai di mettere in vendita tutte le pubblicazioni che vengono mandate in edicola da grandi e piccoli editori): rimarrebbe il vincolo di assicurare la parità di trattamento senza discriminazioni tra prodotti editoriali ma solo in occasione del loro primo lancio sul mercato. Una previsione che va incontro a quanto chiedono molti edicolanti che considerano la parità di trattamento una gabbia. Anche se Massimo, a 60 anni, dalla sua storica edicola di via Merulana a Roma, si accontenterebbe di poter discutere sulle quantità: «sono circa 4mila le testate presenti in edicola. Se so che qui comprano solo due settimane enigmistiche perché me ne scarichi trenta? Le edicole non sono magazzini», sottolinea aggiungendo invece di ritenere la parità di trattamento un principio sacrosanto «a tutela del pluralismo».

© foto di Maila Iacovelli

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L’Europa sempre più divisa sui rifugiati. Oggi un vertice

Syrian refugees walk on a railway track toward a makeshift camp for asylum seekers in Roszke, southern Hungary, Thursday, Sept. 10, 2015. Leaders of the United Nations refugee agency warned Tuesday that Hungary faces a bigger wave of 42,000 asylum seekers in the next 10 days and will need international help to provide shelter on its border, where newcomers already are complaining bitterly about being left to sleep in frigid fields. (AP Photo/Muhammed Muheisen)

Ieri Angela Merkel avrebbe dovuto partecipare a un vertice dove c’era anche la Turchia. La strage ad Ankara lo ha fatto saltare. Ancora una volta la guerra sul terreno in Siria, la crisi turca e la crisi dei rifugiati si intrecciano, non potrebbe essere altrimenti.

Dal confine turco-siriano apprendiamo, lo riferiscono fonti giornalistiche e attivisti siriani, che un migliaio di uomini armati, molti jihadisti, sono entrati in Siria e sono diretti nella zona di battaglia di Aleppo. Ankara evidentemente ha scelto la strada di riaprire le frontiere agli jihadisti come risposta all’offensiva russa e siriana contro la città simbolo.

La stessa Turchia è quella che dovrebbe ri-accogliere i rifugiati bloccati in Grecia in cambio di miliardi di euro. Per adesso il piano pensato e voluto dalal Germania per allentare la tensione interna all’Unione non sembra proprio funzionare.

Proprio oggi un vertice europeo dovrebbe discutere della questione, dopo che lunedì scorso quattro Paesi dell’est europeo si sono incontrati a Praga per assumere una posizione comune che respinge ancora una volta il piano di redistribuzione dei rifugiati. I quattro Paesi vogliono sigillare le frontiere greche e lasciare la crisi umanitaria nelle mani degli ellenici e dei loro guai.

Da Bruxelles si intuisce che ci sono almeno una decina di Paesi, la civile Austria e la socialista Francia compresi, che si preparano a chiudere le frontiere ai rifugiati. Un guaio per Angela Merkel che si trova sempre più isolata a dover gestire la politica di relativa accoglienza promossa nei mesi scorsi e messa nero su bianco nel piano mai partito che prevede la redistribuzione di decine di migliaia di rifugiati anche in quei Paesi che al momento non ne accolgono (e che non hanno un vero problema migratorio). La fronda dell’Est – interessante: all’epoca dei PIGS che non facevano quadrare i bilanci Bruxelles picchiava più duro contro Irlanda, Portogallo, Spagna, Grecia e Italia, che dal canto loro non si permettevano di tenere vertici per conto loro – e le resistenze in diverse capitali europee importanti rendono la quadratura del cerchio molto difficile.

Il commissario europeo alla migrazione, il greco Yiannis Mouzalas, ha intanto respinto più volte le accuse rivolte ad Atene di non fare abbastanza per chiudere i confini di mare. «È una bugia – ha detto – abbiamo il miglior controllo possibile di una frontiera marina». Mouzalas ha anche aggiunto che, ora che le macchine per identificare le persone sono finalmente arrivate, il processo di registrazione dei richiedenti asilo procede spedito. «Eravamo al 10% pochi giorni fa, ora che le macchine sono finalmente arrivate siamo al 90%».

In Grecia sono arrivati più rifugiati nei primissimi giorni di febbraio che in tutto il mese dell’anno scorso. Circa 2mila al giorno. E tutto lascia prevedere che con la battaglia di Aleppo che infuria e la primavera, il flusso sia destinato a crescere. A Est c’è un blocco che chiede semplicemente di rispedirli a casa loro (o in Grecia e in Turchia). E a cercare di salvaguardare uno straccio di accoglienza, al momento, sembra esserci quasi solo Angela Merkel. Sempre più isolata.

Intanto a Calais stanno per distruggere La Giungla, il campo profughi improvvisato che accoglie migliaia di persone. Ci sono anche 400 tra ragazzi e bambini.

Io, Grillo e i suoi cigni neri

Grillo comico che ha diritto alla satira contro Grillo politico che non ne ha diritto. Perché il politico deve dare certezze. Questo il filo, almeno così sembra all’inizio. Teatro Brancaccio, Roma, una sera io, Santoro, Montesano e centinaia di altri. E loro, alcuni di loro, Taverna, Lombardi, Fico… in platea a vedere il leader. Una platea compatta, non giovanissima, che alla prima contestazione fischia. Un gay si alza, protesta, sono vent’anni che aspetto di avere dei diritti come voi. La platea risponde: prenditela col Pd. Questo è il pre. Questa, forse, è l’Italia adesso. Quella che ha allevato anche Grillo.

Poi lui. “Devo fare lo spettacolo” dice, grazie. Un ologramma per il Grillo politico, Grillo vero per il comico. Lui, che ripercorre la sua vita e i suoi cigni neri. Chiama così quei momenti in cui tutto cambia. I cigni neri. Li vuole raccontare, in una sorta di seduta di psicoterapia di gruppo. Disastro in matematica, ragioniere per caso, abbattuto da uno dei tanti professor Mulè della vita e da quel fatidico 3/4 x 2/3 a cui lui non seppe rispondere. Tornitore nell’officina del padre, venditore di jeans, cabarettista a tempo perso. Poi il cigno nero. Licenziato, fugge  a Milano e inizia a fare cabaret in un ristorante. Da lì fino alle dirette Rai. E poi, ancora, quel cigno nero. La boutade sui socialisti ladri in diretta e l’ira funesta di Craxi che lo fa cacciare dalla tv pubblica. Diventa la vittima nobile dei ladroni. Nasce il Grillo politico. E va in giro per il mondo. I suoi guru sono Renzo Piano, Gunter Pauli, Joseph Stiglitz. “La mia vita era questo”, dice. “Intelligenza e curiosità. Così si cambia il mondo, circondandoci di intelligenze”. L’incontro con l’imprenditore Gianroberto Casaleggio che gli dice “facciamo un blog” e la rete.

Idee sparse, forse troppo sparse. Centrali nucleari convertite in parchi divertimento, energia a idrogeno, funghi dal caffè, trasporto sostenibile, reddito universale per diritto di nascita, lavoro alle macchine, tassa sui consumi del 50%. Tante, troppe cose compongono il suo Piano B. Belle senza dubbio, ma senza le gambe. Già, le gambe… chissà cosa immaginava Grillo, forse immaginava di poter correre su quelle di un esercito di ricercatori, di architetti e scienziati per costruire il futuro che aveva letto e di cui aveva chiacchierato con i grandi. “La mia vita era così, ripete senza fiato, parlavo con Stiglitz, leggevo e conoscevo. Ero curioso. Ora? Ora sono alle prese con il “militante non simpatizzante” che mi dice: mi piace il piano ma non mi piaci tu”.

E il filo diventa quello. E io comincio a pensare che quell’”arca di disadattati”, così definisce ciò che ha creato, non gli piace tanto. La guarda, la sostiene, è il suo “uno vale uno”, ma non è quello che immaginava. Non immaginava Quarto né Pizzarotti, non immaginava di dover battagliare a brutto muso per difendere un’onestà tanto piccola. Lui immaginava Stiglitz e Pauli che cambiavano il mondo. Quarto no. Non lo avrebbe fatto per Quarto. E allora torna comico, fa ridere, prende in giro i romani e gli italiani e quella voglia di leader, quell’atavica voglia di fare niente. Mai. Di seguire, e urla “uno vale uno se siete informati” altrimenti non vale. Perché lui non sa dove sia “l’uscita di sicurezza”, sa solo che c’è. L’ha ascoltata da Pauli, da Stiglitz, da Piano. Il comico, o ciò che resta, viene divorato dal politico, deluso, quasi delirante che suda e provoca la platea fino alla follia. Senza più cigni neri a disposizione. Chiama i suoi, Lombardi, Fico…tutti  in fila a fare la comunione. Li costringe a ingoiare un grillo caramellato, “il grillo è in voi e con il vostro spirito”. Ingoiano a fatica i suoi, “io posso andare” gli dice.

Vuole andare Grillo, qualcosa non gli è riuscito. Sul palco il Grillo comico si unisce al politico e si eleva. Diventa l’Elevato, un ologramma in tunica bianca che sale in cielo. “Diventiamo come una religione”, e saluta. “Ora 2 vale 1”. Il Grillo vero rimane giù, in platea. Vuole essere mandato a fanculo. Lo chiede, e la platea esegue. “Vaffanculo” gli urla.

Il medico dell’isola. La Lampedusa di Pietro, protagonista di Fuocoammare di Gianfranco Rosi

Impossibile non provare simpatia per Pietro Bartolo. Questo signore dal volto un po’ rude, naso aquilino e una gran massa di capelli è il dottore dell’isola. Lampedusa, naturalmente. Ed è proprio lui, Pietro, il “supertestimone”, quello che ha visto passare sotto i suoi occhi tutti – ma proprio tutti – i migranti arrivati sull’isola. Sbarcati con le proprie gambe o, purtroppo, corpi senza vita nelle stive dei barconi. Pietro è uno dei protagonisti del docufilm Fuocoammare di Gianfranco Rosi in concorso al festival di Berlino e da oggi, 18 febbraio, nei cinema italiani. Lo abbiamo visto anche nella conferenza stampa a Berlino sorridente accanto al regista e a Samuele, il bambino che gioca a calcio nel campetto vicino al cimitero dei barconi naufragati. Racconta il regista del Leone d’oro a Venezia con Sacro Gra che dopo aver sentito la storia di Pietro e aver visto nel computer del medico «immagini strazianti fino alle lacrime», in quel preciso momento ha deciso che quello era il film che doveva fare.

Io il dottor Pietro Bartolo l’ho conosciuto e adesso vi racconto chi è, con molti più particolari rispetto al reportage che scrissi nel settembre 2013.

Lampedusa 2013, un agosto tranquillo: solo pochi sbarchi di giovanissimi eritrei e somali, nulla faceva presagire la tragedia imminente. Qualche settimana dopo, infatti, all’alba del 3 ottobre, cambia tutto: un naufragio, 368 morti a poche centinaia di metri dall’Isola di conigli. Lampedusa si ritrova proiettata nell’Europa dei “buoni” sentimenti e assiste alle processioni di leader di fronte alle bare allineate. Ma in realtà qualcosa cambia solo con l’operazione Mare Nostrum, durata però troppo poco per lasciare solo Frontex e i muri che sorgono sulle nuove rotte dei migranti.

In quell’agosto dunque vado al Poliambulatorio, un edificio basso appena fuori il paese.
Per telefono Pietro era stato subito disponibile, gentilissimo. Mi accoglie nella sua stanza mentre sta parlando con la pediatra che, con un grande sorriso, gli racconta: «Quei bambini stanno benissimo, non sembra nemmeno che abbiano passato due giorni sul gommone. Si vede che hanno voglia di vivere, di farcela».
Il dottor Bartolo sorride all’altro capo del tavolo. Quei bambini fanno parte dell’ultimo gruppo di immigrati appena sbarcato nell’isola. Gli ultimi di un fiume umano iniziato nel 1991. Ma è un fiume anche lui nel raccontare le sue storie, tante ne ha viste in oltre vent’anni. «Quella prima volta io c’ero. Io e tre carabinieri» racconta il medico. Una barchetta di legno con tre tunisini attraccò al porto vecchio, quello dei pescatori, dove c’è una spiaggetta con bellissime palme. «La cosa destò scalpore, la gente gridava “arrivano li turchi”, perché, sa, qua è rimasta ancora questo modo di dire antico», continua sorridendo il dottor Bartolo. Ma i tre forse avevano ancora più paura degli abitanti dell’isola, visto che si rifugiarono in un albergo in costruzione. Li ritrovarono la mattina i muratori e loro scapparono per le campagne brulle dell’isola, tra i cespugli di timo e i fichi d’india.

Sull’isola, di migranti in cerca di salvezza dalla fame e dalle guerre ne erano arrivati, fino a quell’estate 2013, circa 200mila. Il dottor Bartolo detiene un record speciale, li ha visitati quasi tutti. E quando ne parla lo fa con affetto. Del resto uno di loro, lo ha adottato: è Omar, giovane tunisino, sbarcato a Lampedusa nell’anno della grande fuga dopo le rivolte nel Nordafrica, il 2011. «L’ho fatto studiare da mediatore culturale», dice Pietro.
Il 2011. Un anno terribile, quello. In tutto a Lampedusa ci furono – dati della Capitaneria – 51.922 sbarchi di cui 29.124 di tunisini. Il 14 marzo a Lampedusa c’erano oltre 7mila immigrati, tutti giovani sui trent’anni. Un migliaio in più rispetto agli abitanti. Fu l’epoca della “collina della vergogna”. Perché visto che il centro di prima accoglienza era stracolmo (è il 2011 in cui viene incendiata un’ala), i migranti trovarono rifugio, in massa, nell’area della stazione marittima a ridosso dei pontili. Le immagini televisive di tutti quei ragazzi accampati alla buona sotto i teloni di plastica non si possono cancellare. Sono i giorni dell’incapacità colpevole di un governo di centrodestra che rimase con le mani in mano, lasciando che a soccorrere i migranti fossero gli stessi abitanti di Lampedusa.
Ma che gente splendida quella dell’isola. Se n’è accorto anche Gianfranco Rosi che ne ha raccontato nel suo film la grande solidarietà. Varie volte è stata lanciata la proposta di candidare i lampedusani al premio Nobel. Il sindaco Giusy Nicolini, eletta nel 2012, surclassando i vecchi e ambigui poteri isolani, lo ha ripetuto tante volte: «Lampedusa è l’avamposto dell’Europa». Poi non se n’è fatto nulla, ma in quell’agosto 2013 bastava passeggiare per la centrale Via Roma, la sera, tra i tavoli dei ristoranti, le orchestrine scatenate e lo struscio di residenti, turisti e lampedusani di ritorno, per accorgersi della naturalezza con cui tutti trattavano quei gruppetti di ragazzini eritrei e somali che in tuta e maglietta si aggiravano alla ricerca di un bancomat o si fermavano avidi davanti alle magliette dell’isola, quelle inconfondibili, con la tartaruga.

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Il dottor Bartolo di storie ne ha tante da raccontare. «È gente disperata, che affronta qualsiasi cosa pur di andare via da quella terra che è la loro patria. Io non mi commuovo facilmente ma qualche tempo fa mi è successo. C’era un ragazzo di 17 anni con la frattura al ginocchio consolidata malamente, che gli aveva procurato un’anchilosi dell’articolazione destra, non poteva camminare. Quando sono arrivati con la motovedetta l’abbiamo preso di peso per trasportarlo poi con una sedia a rotelle. A quel punto si è sentito un grido ed è arrivato un ragazzo – che poi era il fratello – che se lo è caricato sulle spalle. Allora ho capito. Dalla Somalia fino alla Libia attraverso il deserto e poi in mare era stato portato sulle spalle dal fratello!». Il dottore lo racconta in modo tale che sembra di essere lì, sul molo, a vedere quella scena. Non c’è un filo di retorica nelle sue parole. È un medico, racconta i fatti, ma lo fa con una grande umanità. Come quando parla dell’odissea che molti di quei ragazzi avevano passato in Libia, rapinati e sequestrati, oppure del dramma vissuto da alcune ragazze, violentate. Poi il medico ridiventa medico e spiega le patologie riscontrate nei migranti che arrivano, sempre disorientati, sotto stress: disidratazione, ipotermia. Spesso hanno ustioni ma non da fuoco, bensì da contatto con sostanze chimiche, perché a bordo hanno taniche di benzina.

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«Appena arrivano scatta il protocollo di intervento che abbiamo messo a punto con il Ministero della Salute e la Regione, io stesso faccio parte del tavolo tecnico». Si può parlare di un “modello Lampedusa” creato in collaborazione con i Carabinieri, la Guardia di finanza e la Capitaneria di porto e partito proprio dal 2011. «Una volta arrivati li visitiamo subito, quelli che stanno male li portiamo subito al pronto soccorso, se hanno bisogno di cure speciali li trasportiamo in terra ferma, abbiamo delle convenzioni con gli ospedali della Sicilia per cui non ci sono problemi di liste di attesa», continua il medico. Rispetto al 2011, quando i migranti erano quasi tutti giovani uomini, negli anni successivi arrivano sempre più donne e bambini. Donne anche incinte. «Qualche tempo fa è nata una bellissima bambina. La madre era in un barcone con più di 800 persone, erano tutti anchilosati, non finivano mai di uscire. Quando ecco questa donna incinta, le si erano rotte le acque, è stato un parto difficile» dice. Qualche volta i più giovani hanno delle crisi, crisi dissociative, depressione, hanno bisogno del sostegno psicologico, magari anche di un Tso. Poi ci sono le scene che il dottor Bartolo non dimentica e che racconta. Con una voce diversa, molto diversa.
Stranamente, non ho preso appunti. Ma ricordo tutto. È il racconto del barcone che approda all’isola con la stiva piena di corpi di ragazzi, morti da giorni. Tentavano di uscire da là sotto, non ce l’hanno fatta. Accade anche questo a Lampedusa, l’ultimo lembo d’Europa a Sud. Molto più generosa di tutto il resto del Vecchio continente che incombe con il suo tutto il suo carico di pregiudizi. Vecchio, appunto.

@dona_Coccoli

La verità su Giulio Regeni? Alla prossima fiction

Giulio Regeni è morto di sete. Di quella sete di diritti e notizie, mettendoci dentro le mani piuttosto che dedicandosene come se fosse un safari da turista disincantato. E avere sete nei Paesi in cui è obbligatorio dichiararsi sazi è peccato mortale. Letteralmente mortale. Eppure le parole della madre durante il funerale di Giulio, uno dei nostri soliti funerali dove non ci sono colpevoli e alla fine sembrano colpevoli solo i morti, avrebbero dovuto farci venire l’acquolina in bocca, svegliarci fastidiosi come unghie sulla lavagna, spingerci a masticarci il cranio per recuperare anche l’ultima scheggia più piccola delle unghie che Giulio ha perso in giro, ritrovare i suoi capelli, riportarsi a casa anche le orme delle macchie di sangue, se possibile.

Ci vorrebbe un decreto che impedisca di commemorare qualcuno finché non c’è almeno una storia potabile da raccontare. Qualcosa come una sospensione del cordoglio per non disperdere nemmeno un centimetro di energie che servono per la verità, bisognerebbe vietare per legge la corsa al pianto saltando a piè pari la giustizia. Piangiamolo, ricordiamolo, onoriamolo, raccontiamolo e poi vedremo, non ci accontenteremo, andremo fino in fondo: i parenti dei morti ammazzati rimangono appesi al tempo di mezzo che sta tra lo Stato che piange e lo Stato che indagherà. Sospesi. Sotto vuoto. Attoniti.

L’ultima unghia strappata a Giulio è l’enorme bugia di chi ha sperato che una confusa narrazione di ipotetici servizi segreti potesse impantanarne la storia tra quelle cose losche che inorridiscono molto meno. L’ultima sigaretta spenta addosso è quest’Egitto che crede davvero di poterci perculare con quella risata prepotente di chi sta piazzando un pacco all’ennesimo rimbambito. L’ultima tortura è questa indagine strabica che indaga il morto. Al contrario. Ancora una volta. Ancora su un altro morto.

Io non so voi ma io volo via di rabbia quando tutto avviene dietro al palco mentre in scena si stiracchia la solita storia “ben altra” buona per la messinscena. Mi verrebbe voglia di alzarmi dalla platea e strappare le quinte per vederli, mostrarli a tutti, guardarli negli occhi quegli unti e potenti che concordano una possibile rappresentazione. Questione di sete. Appunto.

E allora forse sarebbe il caso, in questi giorni tutti tiepidi di eroi finiti in fiction, in prima serata, in pasto alle famiglie, sarebbe bello promettersi che un fiction su Giulio non gli permettiamo di scriverla. Proviamo a pretendere, se non una diretta, almeno una differita minima. Poi all’epopea ci pensiamo, dai. E custodiamo la sete.

Buon giovedì.

 

Le unioni ora sono a rischio. Sicuri sia colpa dei 5 stelle?

Pare sia colpa dei 5 stelle, che non hanno votato il “canguro”, la proposta con cui il Pd avrebbe voluto far saltare molti emendamenti, se la strada della legge Cirinnà sulle unioni civili è ora in salita. Dice il renziano Marcucci: «Il M5S si assume una pesantissima responsabilità e qui non finisce, perché quando il gioco si fa duro i duri cominciano a giocare». Gli fa eco Debora Serracchiani: «Il M5S tradisce il suo popolo e tutta l’Italia».

Si potrebbe però notare che sul piatto non c’erano più i 5mila emendamenti inizialmente presentati dalla Lega Nord, e che avrebbero forse giustificato un taglio radicale, ma solo 500. E che i 5 stelle poi – che hanno subito più volte gli effetti del “canguro”, a cominciare dal dibattito sulla riforma costituzionale – si sono poi storicamente opposti alla compressione del dibattito parlamentare. Non sono stati così incoerenti, dunque, anche se Renzi (dice Maria Teresa Meli sul Corriere) è al solito «furioso».
I retroscena riportano una frase di Casaleggio – comunque pronunciata da molti senatori 5 stelle – che un suo senso pare averlo: «L’abbiamo combattuto quando l’hanno usato per le riforme, saremmo incoerenti». Il senatore Airola a Repubblica dice di più: «Quando dall’altra parte c’erano 5mila emendamenti si poteva ragionare su un nostro appoggio, anche indiretto, al canguro. Ma con 500 no. Cinquecento emendamenti sono due giornate di lavori d’aula».

Dunque, sì, il risultato delle ultime ore di dibattito a palazzo Madama è che Roberto Formigoni si è rianimato. Ma siamo sicuri che la colpa sia dei 5 stelle? Cosa ne è della fronda interna al Pd, guidata dai senatori cattodem ma rafforzata dall’impegno di ex comunisti come Giorgio Napolitano?

Insomma. Monica Cirinnà, incassato il brutto colpo del canguro e poi il rinvio della legge al 24 febbraio, è giustamente delusa. Dice «ho sbagliato a fidarmi dei 5 stelle» e «se la legge diventerà una schifezza sono pronta a togliere la firma e a lasciare la politica». Ma non è dai 5 stelle, dovrebbe riconoscere Cirinnà, che arriva la spinta più forte contro l’adozione del figlio del partner. Con lo spettro della gestazione per altri (che affronteremo nel prossimo numero di Left, in edicola da sabato, anche con un’intervista a Carlo Flamigni), sono gli alfaniani e proprio i dem a chiedere modifiche alla Cirinnà che potrebbe sì diventare «una schifezza».

Il Jobs Act e la bolla occupazionale

L’Osservatorio sul Precariato dell’INPS ha fornito i dati di sintesi circa la dinamica del mercato del lavoro nell’anno 2015. Queste comunicazioni consentono di stilare il primo bilancio degli effetti del Jobs Act. Un bilancio degli effetti della decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato e dell’abrogazione dell’Articolo 18 che ha, di fatto, sancito la libertà di licenziare per le imprese italiane.

I dati forniti dall’INPS parlano di 606.000 nuovi rapporti di lavoro di cui 186.048 a tempo indeterminato. A questi ultimi vanno aggiunti 492.729 contratti a termine e 85.352 contratti di apprendistato trasformati in altrettanti contratti a tempo indeterminato. In un quadro generale di incremento dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato,  la cui attivazione garantisce l’accesso alla decontribuzione introdotta dal governo a dicembre 2014, le trasformazioni sembrano aver fatto, sin qui, la parte del leone. Queste sono aumentate del 50% rispetto al 2014: le imprese hanno dunque approfittato dell’incentivo fiscale fornito loro dal governo.

Il 61% (24,1% se si escludono le trasformazioni) dei rapporti di lavoro attivati nel 2015 ha beneficiato delle misure di decontribuzione previste dalla legge 190 del 2014.  Nel mese di dicembre questa quota si è impennata, raggiungendo l’82,2% del totale tra trasformazioni e nuove assunzioni. L’ultima finanziaria in vigore da gennaio a dimezzato le contribuzioni e le imprese si sono affrettate a usare gli sgraivi 2015 (fino a dicembre le imprese ottenevano uno sconto di 8060 euro per ogni nuovo contratto a tempo indeterminato). A stimolare in modo decisivo l’ondata di assunzioni e trasformazioni non sembrano dunque essere state delle valutazioni legate all’andamento dell’economia reale.

Quel che i dati mostrano, quindi, è una dinamica positiva del mercato del lavoro che, dal punto di vista di chi scrive, trova due spiegazioni principali. Da un lato, la timida crescita del Pil italiano che, beneficiando principalmente di fattori esterni, ha favorito l’occupazione. Dall’altro, il massiccio investimento di risorse pubbliche nella decontribuzione che, come già argomentato, ha incentivato le assunzioni e, in particolar modo, le trasformazioni di altre tipologie contrattuali nei nuovi contratti a tempo indeterminato ‘a tutele crescenti’. Quest’ultimo elemento è di particolare rilevanza. A fronte di un investimento stimato in 3,1 miliardi di euro nel periodo 2015-2017 (stime Adapt), infatti, ad avere un ruolo preponderante sono state le trasformazioni e l’assunzione con contratti a tempo indeterminato a tempo ridotto. Fra le assunzioni a tempo indeterminato, la quota di quella tempo parziale – orizzontale, verticale e misto – si attesta al 41,7%.

La fotografia fatta dall’INPS non segnala un reale consolidamento, una stabilizzazione dell’occupazione in Italia. Emerge, piuttosto, la volontà delle imprese di alleggerire i costi utilizzando gli incentivi attualmente disponibili. E’ lecito temere, da questo punto di vista, che una volta terminata la possibilità di accedere agli sgravi molti rapporti di lavoro non verranno mantenuti in essere.

Sembra dunque di essere di fronte a una ‘bolla occupazionale’, un movimento verso la creazione o la trasformazione di rapporti di lavoro drogato dall’incentivo pubblico. Una bolla che, al momento della sua esplosione, rischia però di riportare alla luce tutte le debolezze strutturali del mercato del lavoro nostrano. Da questo punto di vista, un’attenta disamina della ripartizione dei nuovi rapporti di lavoro mostra come le nuove assunzioni, distinte per qualifica professionale, interessino al 70,1% figure scarsamente qualificate, nel 25% impiegati o figure mediamente qualificate, seguiti da apprendisti, quadri e dirigenti. In termini di età, le assunzioni a tempo indeterminato con esonero hanno riguardato, per il 24%, la fascia di lavoratori dai 40 ai 49 anni e, per meno del 15% dei casi, la fascia 25-29, quella in cui il cosiddetto fenomeno dei NEET (persone che non lavorano, non cercano un lavoro e non studiano) risulterebbe essere più forte.

C’è poi il divario Nord-Sud, che emerge plasticamente osservando la distribuzione per regione delle trasformazioni. Il 24% di queste ultime si concentrano in Lombardia, l’11% in Veneto ed Emilia Romagna ed appena lo 0,9% in Calabria, lo 0,48% in Basilicata e lo 0,2% in Molise. La fragilità italiana è riscontrabile guardando alla dinamica occupazionale per settore produttivo. Il 34,7% dei nuovi rapporti di lavoro a tempo indeterminato è registrato nel commercio, la riparazione di autoveicoli e nei servizi di alloggio e ristorazione, il 19,5% nel manifatturiero a bassa intensità tecnologica, il 13,8% nelle costruzioni. Con il restante 30% distribuito tra servizi pubblici, attività professionali ed altri servizi.

L’ultimo dato meritevole di attenzione riguarda i voucher. Questa nuova forma di lavoro precario, caratterizzato da assenza di garanzie sulla stabilità e di tutele previdenziali, ha visto un aumento senza precedenti nel 2015 (dal 2014 al 2015 l’incremento è stato del 66,1%, con picchi del 94% in Sicilia e dell’80,1% in Puglia).

Uno sguardo attento, dunque, non sembra giustificare l’entusiasmo di coloro che, alla luce di saldi occupazionali positivi nel breve, trascurano i fattori che destano preoccupazione per il medio lungo periodo. La debole dinamica dell’occupazione giovanile e femminile, il divario Nord-Sud, la concentrazione dei rapporti di lavoro in servizi a basso contenuto tecnologico non sembrano essere stati intaccati dalle riforme del governo Renzi. La ‘bolla occupazionale’ generata, nel 2015, dal massiccio trasferimento di risorse alle imprese non ha contribuito a invertire le tendenze strutturali che inchiodano l’Italia agli ultimi posti in Europa in termini di produttività, innovazione tecnologica ed occupazione giovanile. 

Dove l’amore è illegale. Storie di ordinaria discriminazione nei paesi dove essere gay è una condanna

Where love is illegal, dove l’amore è illegale, è il nome di un progetto lanciato sul web da un gruppo di persone che lavorano a sostegno dei diritti umani per denunciare discriminazioni e persecuzioni sulla base di preferenze sessuali e identità di genere. «Crediamo che le storie abbiano il potere di unire le persone, di aprire la mente, trasformare le opinioni e cambiare le politiche» spiegano dallo staff di whereloveisillegal.com. Il progetto nasce a partire dal lavoro di Robin Hammond, fotografo e attivista per i diritti umani. Per un decennio Robin ha viaggiato attraverso l’Africa sub-Sahariana per raccontare storie che avevano a che fare con lo sviluppo sociale e civile di quei paesi, spesso afflitti da depressione economica e da regimi dittatoriali intolleranti e violenti.

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Anno dopo anno Robin è rimasto sempre più scioccato di fronte all’intolleranza che in alcuni paesi si sviluppava contro le varie comunità Lgbt. Nel 2014 mentre sta lavorando in Nigeria a un reportage per il National Geographic si imbatte nella storia di cinque ragazzi arrestati e trascinati di fronte a un tribunale perchè omosessuali. Pochi giorni dopo Robin si ritrova seduto faccia a faccia con quei giovani che lo guardano con gli occhi colmi di terrore perché non hanno più una casa, sono costretti a nascondersi e non sanno che ne sarà di loro. Torna a trovarli più volte, scatta loro delle foto, raccoglie le loro testimonianze. Con quelle immagini partecipa al “Getty Grant for Good”, un fondo per progetti a scopo benefico che gli permette di realizzare Where Love Is Illegal. Robin conosce altri attivisti, fra i quali Harold Smith Franzen, comincia a viaggiare in tutto il mondo dall’Uganda al Cameroon, passando per il Sud Africa, per spostarsi poi in Malesia, Russia, Libano raccogliere storie e conoscere nuove persone che vogliono aiutarlo in questo progetto. Nel giro di due anni Where Love Is Illegal diventa una piattaforma per sensibilizzare il grande pubblico sulle violazioni dei diritti umani nei confronti delle persone omosessuali e per raccogliere finanziamenti per tutte quelle associazioni locali che lottano per la difesa dei diritti civili. Diventa anche una sorta di diario globale in cui raccogliere singole storie personali che si intrecciano da un capo all’altro del mondo con un unico fil rouge: l’amore (e il diritto di amare) negato, ferito, calpestato solo perché considerato diverso.
Ecco alcune delle storie raccontate su whereloveisillegal.com

Sud Africa

Olwetu & Ntombozuko

 

«Ecco queste puttane che cercano di rubarci le nostre ragazze» questo è quello che un gruppo di uomini urla prima di attacare Ntombozuko. Ntombozuko è sopravvissuta due volte a questo genere di attacchi omofobici, la seconda volta è stato accoltellato e ancora porta i segni di quella bestiale aggressione. «È stato il giorno peggiore della mia vita, anche oggi ho paura quando cammino per strada».

Uganda

Rihana & Kim

 

 

«Siamo stati portati in prigione, abbiamo avuto una vita difficile, siamo stati picchiati e costretti ai lavori forzati»

 

Raymond

 


«Chi è sospettato di essere gay e viene arrestato dalla polizia viene frustato con una cinghia di cuoio. Miiro & Imran sono stati trascinati fuori dalla loro casa e picchiati in strada. Raymond è stato pestato a sangue fuori da un bar e lo stesso è successo ad Apollo e a molti dei loro amici»

Siria

La storia di M.

«Cosa c’è di speciale nel Paradiso? Le persone lì non ti giudicano». M. in Siria era un medico. È stato rapito dalle milizie di Jabhat al-Nusra, un gruppo affiliato a al-Queda, perché è gay. «All’inizio mi hanno minacciato, volevano tagliarmi la testa, mi hanno piazzato un coltello sotto la gola e mi hanno detto: sei pronto a morire?». M. è stato rilasciato dopo che la sua famiglia ha pagato un riscatto. Più tardi, quando Daesh ha preso il controllo della zona, anche le milizie del sedicente Stato Islamico, sono venute a cercarlo, affermando che per la loro legge doveva essere condannato alla pena di morte per la sua omossessualità. M. è riuscito a scappare nel vicino Libano, dove oggi vive da rifugiato.

 

Venezuela

La storia di Alex

 

«Ogni giorno era carico di tensione, paura e tristezza ma facevo del mio meglio perché quella spirale depressiva non si impossessasse di me, soprattutto cercando di essere di sostegno per altri che avevano avuto i miei stessi problemi e cercando di focalizzare l’attenzione su cose positive» a parlare è Alex, una ragazza lesbica originaria di Caracas in Venezuela. Quando i suoi genitori scoprirono la sua sessualità, la spedirono in un centro di “riabilitazione” per curare l’omosessualità in Virginia e successivamente in un altro centro nello Utah. «Ho trascorso molti anni della mia vita in quel tipo di centri di riabilitazione. E lì ho perso molte cose: il senso di protezione che dovrebbe darti un genitore, il senso della mia intimità e della mia privacy, la mia capacità di relazionarmi con le persone, l’innocenza che mi era rimasta e la fiducia negli altri. Quei posti mi hanno fatto dubitare di me stessa, della mia sanità mentale, hanno messo in discussione la mia stabilità emotiva. Non mi hanno “aggiustata”, mi hanno ridotta in pezzi».

Iraq

Khalid

 

Russia

D&O

 

«Tienimi la mano, questa è la mia ricompensa per il tuo coraggio». D. e O. sono una coppia di ragazze russe, sono state aggredite per strada solo perché passeggiavano mano nella mano.

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Convogli umanitari nelle città assediate in Siria. Le prospettive di cessate il fuoco sono sempre meno

FILE - In this Thursday, Feb. 11, 2016, file photo, a child navigates through rubble and barbed wire in Aleppo, Syria. Syrian government troops who have besieged dozens of rebel-held communities over the past three years are moving toward their biggest target yet–opposition-controlled neighborhoods of the city of Aleppo, where some 300,000 civilians risk being trapped. (Alexander Kots/Komsomolskaya Pravda via AP, File)

L’Onu ha annunciato che diversi convogli umanitari sono in viaggio per le città assediate e ridotte allo stremo della Siria. Sono sette quelle verso cui i camion carichi di beni di prima necessità sono diretti. Sarà un test della volontà delle parti belligeranti di aderire all’accordo trovato a Monaco la scorsa settimana, ha detto Steffan De Mistura, l’inviato delle Nazioni Unite per la Siria.
Dove vanno i convogli, chi controlla quale territorio in Siria?

A rimanere isolate e bombardate saranno, in teoria, le aree sotto il controllo dell’Isis e di altre forze islamiste. Sull’ampiezza dello spettro delle forze da combattere anche durante un cessate il fuoco, ci sono ovviamente valutazioni diverse. Assad ha detto che anche durante una pausa dei combattimenti, non ci si può aspettare che tutte le parti in causa smettano di sparare. E in effetti l’esercito siriano e gli aerei russi non hanno smesso di bombardare Aleppo e i suoi dintorni, il centro della guerra siriana in questa fase.

In teoria le leggi internazionali prevedono che le città in cui la situazione umanitaria è grave debbano poter essere raggiunte, i civili evacuati, derrate alimentari fatte entrare. Ma in decine di città e villaggi sotto assedio della Siria di questi giorni – 18 circondate e un centinaio difficili da raggiungere, per una popolazione coinvolata di 4 milioni di persone almeno – non è così. Le forze armate siriane fanno la parte del leone in queste operazioni di assedio.

La Turchia, che non gioca un ruolo secondario in questa crisi e da giorni minaccia di inviare truppe di terra, sostiene che Assad e gli alleati russi stiano usando una tecnica usata in Cecenia: cingere d’assedio, svuotare di civili e poi, più o meno radere al suolo. Modello Grozny, lo chiamano. Nemmeno le bombe sugli ospedali sembrano casuali: l’ambasciatore siriano all’Onu ha parlato di Medici Senza Frontiere come di «una branca dei servizi segreti francesi». E se sono servizi segreti, si possono bombardare.

Il fronte diplomatico resta ingarbugliato come sempre: gli americani premono da giorni su Mosca perché fermi i suoi aerei e si cominci a negoziare qualcosa di simile a una transizione. I russi sono convinti che la transizione si impone alle forze ribelli non Isis solo mettendole spalle al muro una volta per tutte. La battaglia per circondare Aleppo è questo.

Dal canto suo, la Turchia è furiosa con gli americani per aver sostenuto i curdi dell’YPG, che hanno incluso anche qualche non curdo tra le loro forze e in questi giorni approfittano delle bombe russe per ampliare la loro zona di influenza. Ankara è anche furibonda con i russi, che a loro volta non perdonano l’abbattimento di un loro aereo militare da parte turca. Il governo di Ankara e i Sauditi chiedono un maggiore impegno degli alleati, anche sul terreno. Obama preferisce non muoversi, ma su Washington piovono critiche da ogni fronte: troppo debole con i russi, dicono i repubblicani; troppo amico dei curdi, dicono i turchi; incapace di capire che il brutale regime di Assad è una garanzia per la sicurezza di tutti e chi se ne frega dei diritti umani, dicono a Mosca.

La partita la stano vincendo i russi, che consentendo all’esercito siriano di guadagnare terreno, faranno in modo di imporre una qualche forma di transizione negoziata. «È quel che hanno fatto in Ucraina, circondando alcune zone del Donbass: la paura di un’escalation delle potenze occidentali ha portato agli accordi di Minsk II, molto favorevoli a Mosca», ha scritto Kadri Liik del Ecfr.  Sempre che convincano anche Assad a cedere qualcosa: oggi il regime di Damasco sente che il vento è girato e ritiene di potersi riprendere la maggior parte del Paese senza concessioni.

Intanto, sul fronte della guerra contro Daesh e il Califfato, tutto si è fatto più calmo. L’opposizione siriana è troppo impegnata a difendersi dagli attacchi di Assad. E l’esercito di Damasco troppo impegnato a riprendersi Aleppo.