Home Blog Pagina 1201

La guerra è finita! Le foto a colori e in bianco e nero della Liberazione

War is over!, pubblicato da Contrasto, è il libro in cui i curatori Gabriele D’Autilia ed Enrico Menduni mettono a confronto due diversi sguardi che raccontano la Liberazione in Italia: quello delle fotografie a colori dei Signal Corps dell’esercito americano e quello delle immagini in bianco e nero dei fotografi dell’Istituto Luce, molte delle quali inedite o precedentemente censurate.

La Liberazione dell’Italia durò due anni, dallo sbarco degli angloamericani in Sicilia nel luglio 1943 alla resa dei tedeschi nell’aprile 1945. Questo processo lungo e doloroso fu messo straordinariamente in scena dai due opposti sguardi fotografici dei fotografi dell’Istituto Luce e dei Signal Corps dell’esercito americano. Sguardi che restituiscono due Italie e due diverse guerre e si osservano reciprocamente in un volume con un ricco apparato critico.

Il libro accompagna la mostra in corso a Forma Meravigli (Milano) dal 11 febbraio al 10 aprile 2016

[huge_it_gallery id=”122″]

Lo scoop che ha fatto tremare la Chiesa

Poche ore prima di affrontare una tragedia che avrebbe cambiato il corso della storia contemporanea gli Stati Uniti dovettero fare i conti con un’altra drammatica realtà che minacciava il “sogno americano”. È il 10 settembre 2001 quando l’Università di Pennsylvania anticipa i risultati di una ricerca biennale sulla diffusione della pedofilia a livello nazionale. Lo studio rivela che un bambino su cento è vittima di crimini che vanno dalla prostituzione minorile alla pedopornografia ad altre forme di sfruttamento e violenza “sessuale”. Gli abusi sono consumati soprattutto in ambito familiare, nei luoghi di istruzione e in quelli di formazione sportiva. I più a rischio sono coloro che scappano di casa, spesso per sfuggire alle violenze, oppure chi è rimasto senza famiglia. In totale i ricercatori stimano almeno 300mila minori tra le vittime del mercato del “sesso” a pagamento. Femmine e maschi in egual misura. Si trattava di una scoperta senza precedenti che metteva a nudo le crepe di un modello sociale tutt’altro che esemplare ma l’America non ebbe tempo di interrogarsi. E l’attacco aereo di al-Qaeda alle Twin Tower di New York rimanderà di quattro mesi la presa di coscienza collettiva dell’esistenza di un cancro, profondamente radicato nella società Usa, che non aveva attecchito solo nelle case e negli istituti scolastici. All’inizio di gennaio del 2002 un’inchiesta del Boston Globe scoperchia infatti una botola su un pozzo che presto si rivelerà senza fondo: la pedofilia nel clero cattolico.
Candidato a sei premi Oscar e a tre Golden Globe, il film di Tom McCarthy Il caso Spotlight che dal 18 febbraio esce nelle sale italiane distribuito da Bim, ricostruisce la capillare indagine giornalistica realizzata a partire dai primi mesi del 2001 che ha preceduto la pubblicazione dello scoop comparso dopo le feste natalizie del 2002 in prima pagina su uno dei quotidiani più popolari di Boston. Spotlight è il nome del pool dei giornalisti d’inchiesta del Globe, interpretati tra gli altri da Michael Keaton e Mark Ruffalo, i quali, resistendo alle pressioni e alle intimidazioni costanti ricevute dalle istituzioni laiche e da quelle religiose della città americana più “europea” e cattolica, riuscirono a portare alla luce un sistema sommerso fondato da decenni su abusi, omertà, totale assenza di trasparenza e complicità con i pedofili.
Nel corso del 2002 il Boston Globe pubblicherà circa 600 articoli documentando un migliaio di casi di bambini vittime di abusi “sessuali” e psicologici, e le responsabilità di 70 preti pedofili tra cui spicca padre John Geoghan. Condannato a marzo 2002 per 10 stupri, costui era una sorta di serial killer la cui attività criminale era nota alle gerarchie ecclesiastiche di Boston. Le quali tuttavia si guardarono bene dal denunciarlo e, anzi, Geoghan fu sistematicamente protetto mediante trasferimenti in sei diverse parrocchie della diocesi ogni volta che i sospetti dei fedeli raggiungevano una soglia pericolosa. In questo modo, come è facilmente intuibile, fu inevitabile che si procurasse nuove vittime. Una responsabilità di cui si macchiò anche il Globe che fino al 2001 aveva di proposito ignorato alcune segnalazioni relative agli stessi casi di cui in seguito si è occupata la squadra di Spotlight, come la pellicola di McCarthy evidenzia con precisione.
La svolta arriva con il cambio di direzione. È il neo-direttore Marty Baron (Liev Schreiber) a dare il via alla clamorosa inchiesta, il giorno stesso del suo insediamento. Emerge così che tutto ruotava intorno al potente arcivescovo di Boston, Bernard Law, e che ogni decisione – laica o religiosa – era finalizzata a inibire qualsiasi voce che potesse gettare discredito sulla Chiesa locale. Papa Wojtyla era già molto malato e all’interno della Conferenza episcopale Usa nessuno in quegli anni più del carismatico Law, capo di una comunità di due milioni di fedeli, aveva la possibilità di diventare il primo pontefice americano della storia. Un pontefice di Boston. I giornalisti di Spotlight devono affrontare anche questa prospettiva trovando come unico alleato il diffidente avvocato Garabedian, legale delle vittime di Geoghan. Interpretato da Stanley Tucci, è lui a rendere l’idea della sfida in atto quando chiede al caparbio giornalista del Boston Globe (Ruffalo): «La Chiesa cattolica ragiona in termini di secoli, il suo giornale può resistere tutto questo tempo?».
Via via che i giornalisti parlano con Garabedian, intervistano adulti molestati da piccoli e cercano di accedere agli atti giudiziari secretati, diventa evidente che l’insabbiamento degli abusi è sistematico e che il fenomeno è molto più esteso di quanto si potesse immaginare.


 

Questo articolo continua sul n. 7 di Left in edicola dal 13 febbraio

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

Giulio e la morte che ci faranno dimenticare

Giulio-Regeni-1

Niente che non sia già stato detto – ma ha bisogno di essere ripetuto – verrà scritto in queste pagine su una morte italiana nel Paese che Reporter sans frontiers colloca al secondo posto nel mondo per numero di giornalisti arrestati, corrispondenti che adesso si trovano dietro le sbarre del sistema Egitto, in carceri che esistono da molto più tempo del regime dell’ultimo golpista sul Nilo. Prima che ricorresse l’anniversario della rivoluzione di Tahrir, prima che Giulio morisse, 5mila case erano già state perquisite dalle divise: «È molto peggio dell’era Mubarak», lo ripetono tutti, ma Halem Henish è uno dei pochi che lo fa ad alta voce con in mano una lista di desaparecidos, scomparse che seguono ad arresti arbitrari, stupri della polizia ed ergastoli a dissidenti. Secondo lui e l’Ecfr, Egyptian commission rights and freedom, sono 340 i desaparecidos egiziani da ottobre a dicembre, 163 da aprile a giugno 2015.
Mentre si agita lo spauracchio della lotta al jihad e “antiterrorismo” è l’etichetta che si usa per reprimere i diritti civili, in Egitto si schiaccia, si annega e si ammazza la comunità sociale laica insieme a quella religiosa: più di 40mila arresti dal 2013, 1.700 condanne a morte (a volte eseguite, a volte solo emesse), giustizia sommaria per blogger, sindacalisti, attivisti perseguitati oggi da Al Sisi, ieri da Mubarak, poi dai Fratelli musulmani, adesso a loro volta arrestati. Secondo gli Usa, ci sono 62mila persone nelle 42 carceri egiziane. Secondo chi è rimasto fuori a urlare il nome di chi è dentro, molti di più.
In questi giorni a parlare di questo regime militare, alleato internazionale dell’Italia, è un lenzuolo bianco che contiene la salma di un dottorando di Cambridge. Orecchie tagliate, pugni, bruciature sul corpo, 31 fratture e una letale alla vertebra cervicale: quelli che hanno torturato Giulio volevano conoscere forse il nome delle sue fonti, di chi gli aveva passato le informazioni. Non l’ha protetto uno pseudonimo, un nom de plume di copertura. Se ne va dall’Egitto da martire dell’informazione, perché martoriato da un potere oppressivo dove basta un sorriso, una lingua straniera parlata troppo e troppo bene – o anche una parola sola – per diventare, sotto gli occhi vigili della paranoia militare, una spia, un sabotatore. Un informatore straniero. Nel migliore dei casi, un disturbatore.
In un fosso sotto il cavalcavia Hazem Hassan, lungo la strada che collega Alessandria al Cairo, Giulio è stato trovato per caso da uno di quei lavoratori senza diritti sindacali di cui scriveva. Un tassista con un guasto al motore. Raccontava di loro, dei venditori ambulanti, degli ultimi che nelle riunioni sindacali avanzavano rivendicazioni socialiste. Ne scriveva negli articoli pubblicati pre e post mortem, inviati a giornali che si affannano solo ora a sbatterlo in prima pagina. Tanto costa la verità d’inchiostro se finisci nelle mani delle squadracce del Cairo. Ed è dal governo Al Sisi, che ora dice di voler far luce sulla faccenda, che i primi depistaggi sull’indagine sono stati fatti trapelare. Le accuse sul coinvolgimento del governo vengono negate dal ministro dell’Interno egiziano, il generale Magdi Abdel Gheffar: «Il 25 gennaio Regeni non è stato arrestato da nessun apparato dello Stato, ci offende che vengano accusati i nostri servizi segreti».


 

Questo editoriale lo trovi sul n. 7 di Left in edicola dal 13 febbraio 

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

La nuova Milano da arancione a Nazione

II commissario unico di Expo, Giuseppe Sala, durante la conferenza stampa al termine della riunione operativa in via Rovello su Expo 2015, 01 luglio 2014 a Milano. ANSA/STEFANO PORTA

Dura la vita a Milano con poco sole – vuole lo stereotipo – e tanti manager, che però non sono più solo un cliché della città che vuole esser “city”. Esistono veramente, i manager, e sono ovunque, o almeno sono in politica da vincitori indiscussi. Tre su tre, infatti, sono per il momento i candidati alle prossime amministrative che una volta avremmo chiamato tecnici se solo Mario Monti non avesse rovinato il marchio. Il primo, e ormai il più noto, ovviamente è Giuseppe Sala, bocconiano doc, laureato a 25 anni, nel 1983, e subito entrato in Pirelli dove ha lavorato fino a diventarne amministratore delegato. Poi è passato per Tim chiamato da Marco Tronchetti Provera, ed è da direttore generale della rete fissa che si dimette e incassa una signora buonuscita: 5,6 milioni. Siamo nel 2006, Sala lavora in finanza per due anni, poi arriva la chiamata di Letizia Moratti, e i rapporti con la politica si stringono. Prima con la destra, che l’ha voluto appunto city manager di Milano, poi con Enrico Letta, con la nomina a Expo, e poi ancora con Matteo Renzi con la candidatura alle primarie e l’altra nomina che arrotonda lo stipendio in Cassa depositi prestiti – incarico che Sala ha detto non lascerà.
Il secondo è Stefano Parisi, ex direttore generale di Confindustria e Ad di Fastweb. Non ha mai nascosto la simpatia per Berlusconi, Parisi, ma ora deve valutare bene se dire di sì alla richieste dell’anziano leader perché la candidatura di Sala ara il suo stesso campo, proprio lo stesso, a riprova di quanto sia ormai realizzato il modello del partito della Nazione. Sala che pesta i piedi a Parisi – anche lui city manager nominato però dal sindaco Albertini – nella città che doveva essere il fortino della brevissima stagione arancione. Il terzo, più indietro, è Corrado Passera che è partito con la sua campagna elettorale da mesi. Prima di fare il ministro nel governo Monti, quando ancora si atteggiava da tecnico e non aveva fondato un suo movimento politico, lui è stato uomo McKinsey e poi capo di Banca Intesa. Pure lui bocconiano il debutto nel mondo del lavoro è in Olivetti, poi segue De Benedetti in Cir e nel gruppo Espresso, infine Ciampi, per il governo Prodi, lo nomina a capo delle Poste. Alla sinistra, ingrato, ora Passera accolla ogni responsabilità: «Hai paura che ti rubino in casa? Basta con la sinistra», è uno dei suoi manifesti. Tre manager indistinguibili, non fosse dunque per la scelta dello slogan, e neanche una sfumatura di arancio, anche se Sala ora sa di dover recuperare lì i consensi che gli servono e dice, «sono in continuità con Pisapia», esaltandone però il più neutro «pragmatismo».
E così ci pare azzeccata la lettura che dà Claudio Cerasa. «Quello che stiamo osservando già da un po’ nelle grandi città», sostiene il direttore del Foglio, «non è altro che un grande iceberg, le cui mille punte emergono ormai con continuità nella politica italiana. Tu chiamala se vuoi pacificazione, tu chiamala se vuoi contaminazione, tu chiamalo se vuoi Partito della nazione». Milano è dunque una punta di iceberg, così come lo è la Sicilia di Faraone o la Calabria di Ncd. Una punta è stata poi l’elezione di Brugnaro, «il più renziano in città», sindaco di Venezia, questa volta formalmente sostenuto dal centrodestra.
Ma la sinistra? A Roma come a Milano stenta. Solo Napoli è un’eccezione, tenuta insieme da Luigi de Magistris che non ha fatto, a differenza di Pisapia, quello che si è dimostrato esser un favore a Renzi. A Milano Sel era con un piede dentro e uno fuori dalle primarie, e con quello dentro è pure riuscita a sostenere tre diversi candidati, Sala compreso. Ora deve sfilarsi – Possibile propone una lista unitaria, civica – e trovare un candidato. Ed è proprio Civati – uno dei papabili – a riportaci alla casella di partenza, alla vittoria di Sala e alle condizioni che l’hanno favorita, con la doppia candidatura di Balzani e Majorino. Dice Civati: «Pisapia ha fatto una serie di mosse che nessuno ha capito. O forse», e la mente corre al vertice tra l’ex sindaco, Balzani e Matteo Renzi, poche giorni prima che la stessa Balzani confermasse la candidatura, «ha agito ben consapevolmente».


 

Questo articolo lo trovi sul n. 7 di Left in edicola dal 13 febbraio

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/lucasappino” target=”” ][/social_link]  @lucasappino

La settimanaLeft: la politica del fare o gufare nell’era Renzi

Il direttore di Left Corradino Mineo racconta i fatti della settimana, gli approfondimenti, le idee e le storie che trovate sul numero di Left in edicola ogni sabato. Questa settimana in copertina l’amletico dilemma renziano: fare o gufare su cui il premier-sindaco d’Italia schiaccia la politica e la declassa a mera amministrazione.

di G. Furlan e C. Mineo

riprese e montaggio di William Santero

Da Milano alla Calabria un solo grido: guai ai gufi

mtteo renzi gufi

L’uomo del fare ha vinto. A Milano contro due assessori di Pisapia che si sono fatti lo sgambetto l’un l’altro. In Senato con Verdini in maggioranza che garantisce una navigazione pacifica. Ha vinto pure su Grillo il quale, folgorato sulla via della politica, ha deciso di lasciare libertà di coscienza ai suoi cari portavoce. Sulle unioni civili; no, non proprio sulle unioni, solo sulla stepchild adoption. Resta che alla fine anche Grillo ha detto di fare quello che Renzi aveva già detto di fare. A costo di far dubitare qualche senatore, in cerca ancora dell’antica diversità.
Certo, ci sono la Merkel e Juncker che non ne vogliono sapere di farsi “spianare” né “asfaltare”. E c’è Mattarella che va in Calabria per dire che la lotta alla ’ndrangheta deve essere la priorità del governo, che la fa chiudendo un patto in Calabria con Ncd. Poi va in America per consigliare prudenza a Obama: la missione in Libia non sarà un pranzo di gala. Magari lo dirà pure alla Pinotti. E certo ci sono ancora appetiti da controllare ed effusioni da raffreddare. Come quella di Cuffaro che quasi quasi voleva entrare nel Pd. Non capendo che lui no, ma tanti trasfughi di destra, meno noti, in Sicilia già sì.
Le ultime parlano di grandi manovre nel mondo dell’editoria. Manovre imprenditoriali – cose serie – non faccende della politica. Che vai a pensare! Però quegli Agnelli che si vedono spesso con i De Benedetti, e il direttore della Stampa che fa il direttore di Repubblica, ed Elkann che non gli piace l’aria di Milano e vuol trasmigrare dal Corriere più a sud, lungo l’asse Roma-Torino.
Poi c’è la Rai, lasciata lì a friggere. Il prode Anzaldi scopre che Campo Dall’Orto e Maggioni sono peggio di Gubitosi, il Pd a precisare che non è proprio così, che i dirigenti Rai fanno i dirigenti Rai e il Pd fa il Pd. Peccato che la politica – spiega Freccero – compia continue invasioni di campo. Peggio, cercando a tutti i costi l’audience, induce la Rai a guardare all’indietro, verso un pubblico generalista e disinformato, ormai residuale, da involgarire e titillare con sentimenti da basso ventre. E dietro la Rai, sempre Berlusconi, che non sembra contare più molto in politica ma gli affari li sa fare e non vuole una guerra con Sky. Meglio una pace. Renziana.
Insomma, mentre le borse cadono e le banche scricchiolano, chi ha soldi in Cina li porta in America. Fed e Bce, poi, fanno politiche monetarie diverse, tanto che persino i governatori delle banche centrali di Francia e Germania ora vorrebbero un ministro del Tesoro europeo. L’Italia intanto si unisce. Lascia le chiacchiere su democrazia, sviluppo o politica industriale agli illusi – si chiamano gufi – e sceglie la gestione: manager contro manager a Milano. Scarica l’eventuale responsabilità delle “disunioni” civili sui senatori morituri, che questa volta – solo questa eh – voteranno secondo coscienza. Che dio ce la mandi buona.
Tutto questo non è disordine, ha un senso. Se i mercati decidono tutto, se è populista chi (da Sanders a Corbyn, da Iglesias a Tsipras) non condivide i dettami del grande capitale, che altro resta da fare se non “fare”, cioè cercare di resistere, mettere insieme le forze che ci sono, pensare positivo e sperare, come sempre, nell’italico stellone? Certo, se ci fosse una sinistra! Ma, se c’è, per ora non si manifesta. Forse ha paura di gufare. Di dire chiaramente, come farebbe il saggio gufo, che un diverso governo forse è possibile e che se al referendum il rottamatore fosse rottamato non cadrebbe poi il mondo.

Questo editoriale lo trovi sul n. 7 di Left in edicola dal 13 febbraio 

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

I giorni d’oro di Obama

Otto anni fa, ieri, Barack Obama lanciava ufficialmente la sua campagna elettorale da Springfield Illinois. Da quel giorno in poi si metteva in moto una macchina perfetta fatta di partecipazione, alleanze, strategia elettorale che portò alla vittoria faticosa su Hillary Clinton e al trionfo democratico contro il repubblicano John McCain. Qui sotto le foto di dei primi mesi di campagna, dall’annuncio a Springfield passando per le primarie in Iowa e New Hampshire. Fino alla South Carolina.
[huge_it_gallery id=”123″]

Varoufakis, Ada Colau e Ken Loach convocano la sinistra anti austerity a Madrid. Left ci sarà

varoufakis piano b contro austerity

«L’attuale Unione europea è governata de facto da una tecnocrazia al servizio degli interessi di una minoranza piccola ma potente di poteri economici e finanziari. La società è già a lavoro per un cambiamento radicale delle politiche dell’Ue. Ci sono già molte proposte contro l’austerità», sottoscrivono centinaia di attivisti, politici e intellettuali nell’“Appello contro la austerità e per un’Europa democratica”.
All’indomani della presentazione del nuovo movimento fondato da Yanis Varoufakis, il cammino anti austerity prosegue. E questa volta (dopo Parigi in gennaio e il lancio di Diem25 il 9 febbraio a Berlino di cui abbiamo parlato qui), la conferenza si terrà a Madrid.

trobada-colau-varoufakis_araima20151015_0147_6

La chiamata arriva da nomi importanti dell’antiausterità europea: l’ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis e l’ex presidente del Parlamento greco Zoe Konstantopoulou, il sindaco di Barcellona Ada Colau, il filosofo Noam Chomsky, Teresa Rodríguez, il regista inglese Ken Loach, il portavoce del Comitato per l’Abolizione del Debito del Terzo Mondo (Cadtm) Eric Toussaint, Miguel Urbán, gli eurodeputati di Podemos e Izquierda Unida Lola Sánchez, Miguel Urbán, Marina Albiol e Javier Couso, gli economisti Juan Torres e Costas Lapavitsas. Ci sarà anche l’italiana Eleonora Forenza, del gruppo Gue/Ngl eletta nelle fila de L’Altra Europa con Tsipras.

#WeNeedAPlanB. «Vogliamo generare uno spazio di confluenza tra tutte le persone, i movimenti e le organizzazioni che si oppongono al modello attuale dell’Unione Europea e arrivare a un’agenda comune con obiettivi, progetti e azioni, con il fine ultimo di rompere con il regime di austerità dell’Unione Europea e democratizzare radicalmente le Istituzioni Europee, mettendole al servizio dei cittadini», scrivono i firmatari. L’appuntamento è a Madrid, il 19, 20 e 21 febbraio. Left ci sarà, per raccontare come si costruisce un’altra Europa.

Onde gravitazionali, l’universo canta e Einstein aveva ragione

(Ripubblichiamo l’articolo di Pietro Greco pubblicato su Left del 23 gennaio, precedente all’annuncio dell’effettiva scoperta delle onde)

Sono bastati due tweet a Lawrence Krauss, docente di fisica teorica presso l’Arizona State University di Tempe e autore di best seller divulgativi, come La Fisica di Star Trek, per riaccendere i riflettori degli scienziati e dei media di tutto il mondo sulla relatività generale di Albert Einstein, mentre i festeggiamenti per il centenario di quella che molti considerano la più bella teoria fisica di ogni tempo non si erano ancora spenti.

Il primo, postato lo scorso 25 settembre diceva: «Voci sul rilevamento di onde gravitazionali presso l’interferometro LIGO. Affascinanti, se vere».  Il secondo, postato lo scorso 11 gennaio: «Le voci su LIGO da me precedentemente diffuse sono state confermate da fonti indipendenti. Stai sintonizzato! Le onde gravitazionali potrebbero essere state effettivamente scoperte. Eccitante!».

Diciamolo subito, Lawrence Krauss ha ragione. Se le onde gravitazionali fossero state davvero scoperte sarebbe un evento scientifico più che mai eccitante. Proprio come la scoperta, nel luglio 2012, del bosone di Higgs al CERN di Ginevra. Si proporrebbe una nuova pietra miliare nella storia della fisica. Per cui, stiamo sintonizzati!

Non per molto. Il rovello sarà sciolto al massimo a fine febbraio, quando il Laser Interferometer Gravitational-Wave Observatory (LIGO) renderà pubbliche le analisi dei dati che ha a disposizione. E ci dirà se Lawrence Krauss ha avuto ragione ad annunciare una scoperta considerata la più attesa dalle riviste scientifiche Nature e Science per il 2016 o se, invece, ha preso un granchio che gli costerà la reputazione. In ogni caso l’effetto sarà clamoroso.

Le onde gravitazionali sono increspature dello spaziotempo – piccole onde, appunto, in un mare altrimenti pressoché piatto – prodotte in maniera significativa dallo scontro tra grandi masse, come quelle di due stelle a neutroni o, ancor più, come quelle dei due buchi neri coinvolti,  si dice,  nel caso in oggetto.

L’esistenza delle onde gravitazionali è stata annunciata da Albert Einstein all’indomani della pubblicazione, nel maggio 1916, della relatività generale che, per l’appunto, spiega come e perché la massa curva lo spaziotempo. Eppure queste onde, previste dalla teoria, dopo decenni di ricerche non sono state ancora rilevate. Ora siamo a un punto di svolta. O saranno  rilevate o …

Ma partiamo dall’inizio, perché la storia è avvincente. E la dice lunga su come funziona effettivamente la scienza. Partiamo da quando la ricerca, negli anni 60 del secolo scorso, è davvero iniziata. Un ruolo di primo piano lo ha avuto l’italiano Edoardo Amaldi, il “ragazzo di via Panisperna” che, subito dopo la guerra, si è preso l’onore di rilanciare la fisica nel nostro paese distrutta dalle leggi razziali fasciste e dalla partecipazione al secondo conflitto mondiale.

Amaldi pensava che la comunità dei fisici italiani dovesse contribuire in maniera importante alle ricerche del Cern di Ginevra, il più grande laboratorio di fisica al mondo voluto dallo stesso Amaldi per restituire all’Europa la leadership in materia, ma che dovesse impegnarsi in maniera autonoma su ricerche meno impegnative sul piano economico ma altrettanto di punta sul piano scientifico. Una di queste poteva essere la ricerca delle onde gravitazionali di Einstein mediante delle apposite antenne, tecnologicamente avanzate ma non molto costose.

 Alla fine degli anni 60 Amaldi, per verificare cosa fare, allestì un gruppo di ricerca con Guido Pizzella. Ebbene il 3 settembre 1970, Amaldi e Pizzella decisero di avviare definitivamente l’impresa. Detto, fatto. Ma non ebbero senza successo. O, almeno, non ebbero un successo definitivo. Perché il 23 febbraio 1987 l’antenna criogenica – la tecnologia realizzata da Amaldi e Pizzella – captò un segnale in occasione dell’esplosione di una grande stella, la Supernova 1987A, in buona sintonia con la rilevazione, sul Monte Bianco in Italia e al rilevatore di Kamiokande in Giappone, dei neutrini emessi nel corso dell’immane cataclisma. Dopo quell’evento, il gruppo di Amaldi e Pizzella ha trovato altri segnali compatibili con le onde gravitazionali. Purtroppo la serie di rilevazioni non è considerata definitiva dalla comunità dei fisici, anche se il ruolo degli italiani è riconosciuto, visto che le riunioni degli scienziati di tutto il mondo che si occupano dell’argomento  che si tengono ogni due anni vengono chiamate Edoardo Amaldi International Conferences on Gravitational Waves.

Negli ultimi anni  è cambiata la tecnologia della ricerca. Si sono messi a punto nuovi e grandi rivelatori, gli interferometri: fasci di luce laser sparati tra specchi a chilometri di distanza e che possono subire, appunto, un’interferenza tipica a causa di eventuali increspature dello spaziotempo. I principali interferometri sono due. Uno è l’americano LIGO, costituito da due grandi interferometri con braccia di 4 chilometri.  L’altro è l’italo/francese Virgo, realizzato nei pressi di Cascina in Toscana. I due esperimenti collaborano strettamente tra loro. Tanto che si può parlare di un unico grande esperimento LIGO/Virgo. Lawrence Krauss si è un po’ dimenticato della parte europea dell’impresa.  

Quelle gravitazionali, come tutte le onde, sono caratterizzate da una certa frequenza. La frequenza prevista delle onde gravitazionali è quella delle onde radio. Ci si attende, dunque, per la gioia di Pitagora, di Keplero e di tutti i teorici della “musica cosmica” di sentire un chip. Ogni fenomeno gravitazionale dovrebbe “cantare” in modo diverso. E il vantaggio degli interferometri è che possono, in teoria, captare un chip dei più svariati fenomeni cosmici. È possibile, per esempio, seguire i segnali di due buchi neri massicci che si avvicinano disegnando traiettorie a spirale ed emettendo cinguettii a frequenza crescente prima del titanico impatto finale. Dovrebbe essere questo il caso di cui ha cinguettato, è il caso di dirlo, Krauss.

I fisici di LIGO (e di Virgo), decisamente seccati dai tweet del fisico teorico che nulla ha a che fare con l’esperimento, al momento non parlano. Dicono di attendere al massimo la fine di febbraio per un rapporto sull’analisi degli ultimi dati. Ed è questo che conviene fare anche a noi per capire: a) se il chip davvero c’è stato; b) se la fonte del cinguettio è davvero cosmica.

La prudenza è d’obbligo. Il chip sentito potrebbe trattarsi di un mero errore. Come ammonisce il fatto, avvenuto il 17 marzo 2014, che l’esperimento Bicep2 condotto in Antartide da ricercatori della Harvard University aveva rilevato il “chip” dell’”inflazione cosmica”, il più catastrofico degli eventi avvenuto pochissimi istanti dopo la nascita dell’universo. Il segnale era un falso allarme.

La prudenza è d’obbligo, però, anche se LIGO/Virgo  avesse davvero sentito un chip. Potrebbe, intatti trattarsi non di un errore ma di un sapiente artefatto. Prodotto apposta dagli stessi fisici (un piccolo gruppo che opera all’insaputa dei colleghi) che con una blind injection hanno generato un Big Dog, un grande cane. In pratica: l’immissione nel sistema di un flusso di dati che simulano in maniera molto realistica le onde gravitazionali. Non sarebbe una novità. Nel 2010, per esempio, LIGO e Virgo captarono un chip che dovrebbe essere tipico di un incontro tra una stella di neutroni e un buco nero nella costellazione del Big Dog. Era, invece, una blind injection: una simulazione. La stessa cosa era avvenuta nel 2077.

Questi stress test sono ben fatti e vengono rivelati solo dopo tre mesi, per verificare come funzione il sistema. Così funziona la scienza: anche con inganni programmati per mettersi al riparo da errori reali. Siamo anche in questo caso in presenza di un Big Dog? Krauss sostiene di no, perché questa volta il chip sarebbe avvenuto durante una fase cosiddetta ingegneristica, quando la funzionalità dell’interferometro viene  verificata e non si producono blind injection.

Ma la verità è che bisogna saperne di più, da ogni punto di vista. Per questo, lo scorso 3 dicembre, è stato lanciato un satellite artificiale nello spazio, il LISA Pathfinder, con un esperimento, chiamato LISA, molto più sensibile di quelli basati a terra. Con LIGO/Virgo, LISA chiuderà presumibilmente la partita. Se sentirà i chip avremo finalmente conferma che Albert Einstein aveva, ancora una volta ragione. Ma se non sentirà nulla, i fisici saranno ancora più eccitati: perché avranno la dimostrazione che il tedesco aveva torto e che bisogna andare “oltre la relatività generale”.

Dalla Chiesa, Pivetti poi ancora in ginocchio da Bertolaso. La brutta fine del centrodestra romano

Italian minister for youth Giorgia Meloni delivers a speech during the first congress of Italian Prime Minister Silvio Berlusconi's new party "Il Popolo della Liberta'' (People of Freedoms-PDL) on March 28, 2009 in Rome. Berlusconi, 72, kicked off a long-expected party congress consolidating right-wing forces under his increasingly dominant leadership and was to preside over the merger of his 15-year-old Forza Italia party with the older National Alliance into the People of Freedoms (PDL) party -- the banner under which the media tycoon won elections nearly a year ago. AFP PHOTO / ANDREAS SOLARO (Photo credit should read ANDREAS SOLARO/AFP/Getty Images)

Pare che Giorgia Meloni abbia fatto arrabbiare Silvio Berlusconi che le avrebbe detto una cosa tipo: «Cara Giorgia o ti candidi tu, e capisci che il fatto che tu sia incinta è pure un vantaggio, oppure basta con questi veti». Perché è stata Giorgia Meloni, che con Fratelli d’Italia si considera primo partito della coalizione di centrodestra (a dispetto dei sondaggi e pure dei risultati storici), a dire no all’accordo con Alfio Marchini, che avrebbe semplificato il lavoro di Silvio.

Che invece ora si trova in alto mare. Spingono ancora verso Marchini figure di peso nella destra romana come Antonio Tajani e Maurizio Gasparri. Ma Meloni insiste: «Il nostro candidato è Rampelli», dice chiedendo le primarie. Rampelli però è debole, lo sa benissimo Meloni, e poi le primarie – chieste pure da Storace – Berlusconi non ha alcuna intenzione di farle. E così è nato, sempre col patrocinio Meloni, il nome di Rita Dalla Chiesa, che non era affatto goliardico, ma una cosa a metà tra la strategia e un tentativo disperato. Lì si è opposto Salvini, per una volta interessato alla decenza.

E proprio dalle parti di Salvini è invece stato fatto girare il nome di Irene Pivetti, o almeno così ha detto l’interessata. «La proposta mi è arrivata», ha detto a Un giorno da Pecora l’ex leghista, ex castigata presidente della Camera, poi volto della tv più trash e infine imprenditrice nell’export verso la Cina: «Se ci fosse una visione coerente la prenderei in considerazione».

Dalla Chiesa e Pivetti sono però pedine di una partita a scacchi, il cui esito potrebbe essere un ritorno alla casella del via. Niente Marchini, pare, ma un sì a Bertolaso, che si era detto disponibile e poi si è tirato fuori per motivi familiari (una nipote malata).
Berlusconi sta cercando di convincerlo e tornare, magari – visto il magro risultato che si profila – promettendo un ruolo per dopo. Berlusconi ha ottenuto il sì di Meloni, e sa che Forza Italia si può compattare tanto su Marchini (chiamato da tutti «l’ingegnere») quanto sull’ex capo della protezione civile (chiamato da tutti «il dottore» – che i titoli piacciono molto, ai generoni romani). Ma gli è toccato fare da mediatore. Il tutto nel tentativo di trovare un nome che possa anche solo sperare nel ballottaggio, per ora molto lontano, con 5 stelle e Pd favoriti per la partita a due.