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Tutti i guai del TAP, il gasdotto che dal Mar Caspio arriverà in Italia. In un web doc

“Walking the line”, “Sul filo del rasoio” è il webdoc che racconta la storia del controverso mega gasdotto che dal Mar Caspio dovrebbe portare il gas azero fino in Italia. Formalmente il suo scopo è quello di rendere l’Unione europea indipendente sul piano energetico da Ucraina e Russia, ma continuando a mantenerla legata allo sfruttamento delle fonti fossili. A tutto vantaggio delle grandi multinazionali del settore: dalla BP all’italiana Snam.

Il webdoc è prodotto e realizzato dal network europeo Counter Balance dall’italiana Re:Common e dall’inglese Platform.

I testi, le foto e i video del webdoc evidenziano i tanti dubbi delle Ong sui finanziamenti pubblici, segnatamente da Banca europea per gli investimenti e Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, in discussione per il progetto. Inoltre si racconta della la spinosa questione dei diritti umani in Azerbaigian, ma anche di quali sono le alternative concrete e già impiegate a un modello energetico ancora basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili.

Università, venti di rivolta: protestano i professori e gli studenti chiedono borse di studio

Sit in dei ricercatori in Piazza Montecitorio a Roma in presidio durate la discussione in aula della Legge di Stabilità, 18 dicembre 2015. ANSA/MAURIZIO BRAMBATTI

Dai professori universitari che si ribellano al metodo e ai tempi per la valutazione della qualità e ricerca dei propri lavori agli studenti che in nome del diritto allo studio lanciano una legge di iniziativa popolare. E nel mezzo, la ricerca italiana che fa una bella figura, sì, ma stando all’estero. Ecco, bastano queste poche notizie per comprendere come il mondo dell’università e della ricerca viva un momento travagliato, anzi travagliatissimo.

Lo si è visto anche con l’assemblea del’11 febbraio a Napoli, promossa dai docenti universitari e dai ricercatori che fanno parte della Rete per il diritto allo studio e alla ricerca. Il loro appello (qui), che vede tra i primi firmatari Piero Barcellona, Alessandro Arienzo, Armando Carravetta, Bruno Catalanotti, Bruno M.Olivieri, annovera tra i punti chiave, la richiesta di investimenti contro il deserto del sapere al Sud e le disuguaglianze tra gli atenei oltre che per favorire un nuovo welfare studentesco e l’aumento di personale, in modo da colmare il turn over. Il documento partito dalla Federico II di Napoli è stato poi sottoscritto da decine e decine di docenti italiani come, tra gli altri, Tomaso Montanari, Enzo Scandurra, Nadia Urbinati e dalla rete è nata anche la pagina facebook dei “docenti preoccupati”.

Il boicottaggio della Vqr
A Napoli è emersa in tutta la sua portata anche la protesta a macchia di leopardo che sta attraversando le università italiane, e cioè il boicottaggio della Vqr (Valutazione qualità e ricerca), cioè il “rifiuto”, da parte dei docenti, di fornire i dati che servono all’Anvur (Agenzia nazionale per la valutazione università e ricerca) per valutare oltre 100mila progetti che vedono protagonisti 50mila ricercatori. Quei dati sono preziosi perché è in base poi alla loro valutazione da parte della (ormai da tempo contestata) Anvur che verrà assegnata agli atenei una parte del Fondo di finanziamento ordinario (Ffo). Le motivazioni che stanno alla base della protesta e del boicottaggio sono diverse. Si va dall’input lanciato mesi fa da Carlo Vincenzo Ferraro, ordinario del Politecnico di Torino che in sostanza lega la protesta alla questione degli scatti bloccati, ad altre posizioni che riflettono critiche da un punto di vista più politico rispetto al sistema di valutazione e ai metodi adottati  dall’Anvur che, in passato, come documentato da Roars  hanno destato molti interrogativi.  La scadenza per la consegna dei dati è il 29 febbraio. Intanto,  lo stesso presidente della Conferenza dei rettori italiani, Gaetano Manfredi,  ha scritto una lettera (qui) al ministro Giannini chiedendo di spostare la scadenza Vqr dal 29 febbraio al 30 aprile. Adesso circa il 25 per cento dei docenti si rifiuta di immettere questi benedetti dati nei cervelloni del Miur. Vedremo se la richiesta di proroga sarà accettata.

Il ministro e la ricercatrice
Che poi la ricerca non navighi in buone acque, lo si è visto anche a proposito dei bandi Erc. E qui è significativo l’episodio che ha visto “duellare” a distanza il ministro Giannini e una ricercatrice. È accaduto che il ministro dell’Istruzione Stefania Giannini abbia annunciato su facebook “un’altra ottima notizia per la ricerca italiana”, cioè trenta borse Erc (European research council) che ci collocano, udite udite, “al terzo posto insieme alla Francia”. Ma ci ha pensato prima Marco Viola su Uninews (qui) e poi una delle vincitrici del bando Erc a rivelare la realtà delle cose. Ben diversa dalla versione triumphans presentata dal ministro Giannini. Di quei 30 vincitori di bandi europei infatti, solo 13 rimarranno in Italia a sviluppare il loro progetto, fa notare Marco Viola. E, tanto per rincarare la dose, nessuno degli altri vincitori europei ha scelto il nostro Paese per concretizzare il loro oggetto di studio. Si fa notare giustamente come i fondi pubblici siano sempre più scarsi (solo 92 milioni per la ricerca di base negli ultimi tre anni) e l’incertezza nella carriera.

L’Italia, tanto per ricordare alcune cifre, per l’università spende 7 miliardi, la Germania 27, è ultima in Europa per numero di laureati e dal 2003 ha perso 83mila iscritti. Ma tornando alla notizia dei bandi Erc, oltre all’attento fact-checking di Viola, ci ha pensato anche una vincitrice, Roberta D’Alessandro a smorzare l’entusiasmo di Giannini. “Cara Ministra la prego di non vantarsi dei miei risultati”, ha detto. Roberta è una linguista laureata a L’Aquila e sempre a Marco Viola in una lunga e appassionata intervista racconta quello che è il vero dramma per un ricercatore: non essere riconosciuto dal proprio Paese. Dopo aver deciso di fare un dottorato all’estero (“ma non sono scappata”, precisa Roberta) e aver girato per molti Paesi stranieri, ha provato a rientrare ma non ci è riuscita. La linguista spiega che non si sente di far parte della ricerca italiana, ma a pieno titolo di quella dell’Olanda dove ha scelto di vivere e lavorare. Così continuerà a studiare e ad approfondire il suo progetto, che riguarda il rapporto tra l’italiano nel contatto con altre lingue e grammatiche – in particolare dei migranti abruzzesi e molisani – dove? In Olanda, naturalmente.

Le borse di studio non ci sono
L’ultimo tassello del puzzle sempre più frastagliato della formazione universitaria è quello che riguarda il diritto allo studio che viene sempre più cancellato, favorendo il sorgere di una università classista, per ricchi. Le cifre e i dati contenuti nell’ultimo Rapporto sulla condizione studentesca 2015 parlano chiaro. Esiste una disparità tra le regioni che il fondo statale non riesce a colmare e inoltre per il 42% sono le stesse tasse pagate dagli studenti che contribuiscono al fondo per le borse di studio. E non solo. Ogni anno 40mila studenti, soprattutto del Sud, pur risultando idonei rispetto al certificato Isee, non rientrano nelle assegnazioni degli assegni di studio. In Italia a beneficiare delle borse di studio è il 10 % degli studenti, una cifra ben inferiore a quella della Spagna (19%) o della Francia (27%). Nonostante le promesse del governo, non è accaduto nulla. E per questo motivo, come dice Alberto Campailla, portavoce di Link-Cordinamento universitario, “Noi studenti abbiamo deciso di mettere in campo una nostra proposta nazionale di legge sul diritto allo studio per costruire una Nuova università, col fine di raggiungere la piena gratuità dell’istruzione. Questa legge contiene alcuni obiettivi che riteniamo irrinunciabili a partire da l’innalzamento della soglia per l’accesso al beneficio, una ampia no tax area, l’impegno statale di garantire un finanziamento adeguato per erogare la borsa a tutti gli idonei, fino al reddito di formazione, strumento diffuso in tutta Europa di emancipazione dei soggetti in formazione”. Una legge di iniziativa popolare dunque che parte dal basso, e la cui raccolta firme potrebbe accompagnarsi a quella del referendum contro la Buona scuola. Se ne parlerà il 27 febbraio in una assemblea alla casa dello Studente Cesare De Lollis a Roma.
@dona_Coccoli)

Giorgio Manacorda, l’ultimo dei romantici. Nel segno di Nietzsche e Novalis

Poeta, romanziere e pittore, Giorgio Manacorda sta vivendo una nuova stagione creativa dopo aver insegnato per tanti anni letteratura tedesca all’università ed aver scritto molto come critico letterario. Con il suo romanzo d’esordio, Il corridoio di legno, nel 2012 è stato finalista al Premio Strega. Sempre per Voland sono usciti poi  i noir Delitto a Villa Ada e Cargo giapponese e più di recente Terrarium caratterizzato da una prosa fortemente poetica. Del resto la poesia è stata la prima e più longeva passione di Manacorda come testimonia il suo impegno per l’annanuario Castelvecchi e le sue numerose raccolte di versi a cui di recente si è aggiunto il volume Viaggio al centro della terra pubblicato da Elliot. E che presto potrebbe avere un seguito. “Piano piano sto scrivendo un altro libro di poesie. Ma anche un nuovo romanzo. Visto che mi alzo tutte le mattine, finché posso scrivo. Poi – accenna sorridendo –  comincia la vita”.

il-corridoio-di-legno-9788862432757Il critico Matteo Marchesini ha scritto che lei è un vero romantico. Si riconosce in questa definizione?

E’ una tesi di Matteo, non so bene cosa voglia dire, forse che sono diventato sempre meno razionalista. Penso sempre meno che il mondo sia spiegabile con gli strumenti della ragione, mettiamola così. Penso sempre più ch, in realtà, solo i poeti hanno capito qualcosa. Ma forse non è varo neanche questo. Al fondo gli esseri umani non sono razionali. Agiamo spinti da pulsioni, dalle emozioni , dal sentire, dal vissuto. Mente e corpo non sono scissi come invece vuole certa cultura occidentale. Da Cartesio in poi prevale il detto Cogito ergo sum. Dove il cogito è il pensiero razionale e la scissione è un cardine. Ma se dio è il prodotto della natura,  se tutto è immanente,  come già accennava Spinoza, crolla qualsiasi visione metafisica. Per paradosso poi la religione, una volta costruita, è diventata razionale, per cui anche questo fuori dal mondo lo diventa.

Più che a Spinoza, per questa critica alla religione, in ambito filosofico antico, dovremmo rivolgerci a Giordano Bruno.

Anche a Bruno, certamente. Il modello razionalistico, scientista, è diventato il modello del mondo occidentale da Galilei in poi. Come funzioni il resto del mondo poi è un altro discorso. Ma  possiamo dire che questo modello in Occidente è in crisi. Non dimentichiamo Nietzsche e Novalis… Forse dicendo che sono romantico Matteo Marchesini pensa a questo. Anche se io non ho mai pensato di esserlo. Per la verità non ho mai pensato di essere nulla di particolare. Ma per uno  che viene da una famiglia come la mia, da una cultura comunista, forse non è scontato. Mio padre (Gastone Manacorda, storico della Fondazione Gramsci ndr)  era un marxista crociano. Era stato educato nell’idea che il mondo è razionale. Io ci ho messo un po’ di anni ma poi…

terrariumRomanziere, pittore, poeta, critico. Come nasce l’esigenza di usare strumenti espressivi differenti?

Sono i casi della vita, mai avrei pensato di dipingere anche perché non so disegnare. Ho solo provato, tanto per provare, e per quattro o cinque non ho mai smesso. Mi sembrava di avere la febbre. Non ho fatto altro che dipingere. Poi un amico ha visto i quadri, così ho cominciato a fare mostre. La prossima si aprirà il 3 marzo. Però ora le cose sono un po’cambiate, per tutta una serie di questioni personali, non ho più lo studio. Però se la sua domanda è “perché questo suo eclettismo?” parliamo di Goethe… con le debite proporzioni. Anche lui faceva di tutto!

Ciò che conta è la ricerca, di volta in volta, gli strumenti espressivi possono cambiare?

Se usiamo la parola ricerca siamo già in un ambito avanguardistico, che si è ficcato in un grande equivoco. Limitando la domanda a me, la cosa è molto semplice, mi alzo, mi gira e scrivo una poesia. Il fatto curioso è che mi succede anche quando scrivo un romanzo. Quando comincio non so cosa scriverò il giorno dopo. Arrivo al punto che se mi metto a prefigurare cosa scriverò, smetto di scrivere. Non mi interessa nemmeno più. Capisco che sembri assurdo ma per me funziona anche per la saggistica cosiddetta scientifica. Se ciò significa che sono romantico, forse lo sono…

VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA_Layout 1Per tanti anni ha curato uno strumento fondamentale per chi fa informazione culturale come l’annuario di poesia. Cosa ha causato la fine di quella esperienza?
Sono contentissimo che mi dica che era uno strumento importante, così uno ha la sensazione di aver fatto una cosa utile. Personalmente ho smesso di lavorarci per un senso di crescente irritazione per la situazione della poesia italiana contemporanea. Mi sembrava ci fosse una grande stagnazione e che fosse scomparsa completamente la critica. E per me qualunque attività artistica necessita della critica. Volevo evitare che fosse un rondò, sarebbe stato un balletto molto spiacevole. Per questo nell’ annuario non si pubblicavano poesie. Era un annuario critico. L’ho fatto quasi da solo  poi con qualche giovane critico. Era diventato una specie di palestra e poi sono rimasti in due, i più bravi, Paolo Febbraro e Matteo Marchesini. Dopo una decina di numeri ho smesso di fare l’editoriale e l’ho passato a Paolo, anche perché quello che avevo da dire lo avevo già detto. Ho fatto un passo indietro e alcuni libri e antologie, Per la poesia e La poesia è la forma della mente. Poi narrativa sui poeti. Nel frattempo anche i più giovani, forse, si sono accorti di non avere più nulla da dire. Ma sono intervenute anche vicende esterne. L’annuario di poesia era noto come l’annuario Castelvecchi, quando Alberto uscii dalla casa editrice dovevamo pagarcelo da soli. Come succede in questi casi si cerca un altro editore, non ti ci trovi e dunque abbiamo davvero detto basta, fine del discorso. Forse se fosse rimasto Alberto Castelvecchi sarebbe andato avanti, chissà.

Ma il suo impegno editoriale con la poesia non è terminato, dopo la pubblicazione di Viaggio al centro della terra, con Elliot, l’avventura ricomincia?

Con Castelvecchi pubblicherò un libro dal titolo La poesia. Dopo quello di Croce nessuno ha mai più avuto il coraggio di scrivere un libro intitolato così. L’ho lasciato lì per anni, finalmente mi sono deciso. L’amico Alfonso Berardinelli mi disse una volta perché non raccogli i tuoi saggi? L’ho fatto con quelli sugli autori tedeschi non me la sono sentita per i lavori sulla poesia, forse perché mi davano la sensazione di un discorso in corso, riflessioni che si erano accumulate nel tempo. Ma a poco a poco ho cominciato a pensare a questo libro, mi sono imbarcato in quest’impresa un po’ assurda, perché qui provo a dire cosa è la poesia, senza alcuna pretesa scientifica…. Forse sono proprio un romantico come dice Marchesini! Nel frattempo Elliot mi ha proposto di dirigere la sua collana di poesia. Una cosa per me davvero bella perché non sarà una delle solite collane che pubblicano tre titoli l’anno senza far capire con quale logica, perché quello o l’altro. Sarà l’unica di poesia con uno che si piglia la responsabilità di pubblicare dieci titoli l’anno, quasi un libro un mese. Cosa davvero insolita. Che non ha eguali in Italia, a parte  lo specchio di Mondadori.  Ci prenderemo la briga di fare delle scelte, pubblicando autori italiani, stranieri, qualche repeschiage.

Un’ anticipazione?

Tra maggio e giugno usciranno i primi due titoli: di un poeta cileno, Santiago Elordi, e di un poetessa tedesca, Susanne Stephan. @simonamaggiorel

Su Left in edicola Giorgio Manacorda parla del Viaggio in Italia di Goethe


 

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Giannini, i fondi per la ricerca e il ritorno a casa con un po’ di speranza intorno

La ministra Stefania Giannini, tutta presa dall’obbligo istituzionale di fomentare ottimismo, è riuscita nella temibile impresa di riconnettere in un sol colpo la “casta” di governo al resto del popolo, tutto con un banale post su Facebook: mentre il ministro ha pensato bene di esultare social-mente per l’alto numero di ricercatori italiani premiati con una borsa di ricerca dell’European Resarch Council (ERC) ha rimbalzato in tutto il Paese la risposta piccata di Roberta d’Alessandro, una delle ricercatrici premiate, che ha chiarito di avere dovuto andarsene dall’Italia per ottenere quel riconoscimento.

«Ministra, la prego di non vantarsi dei miei risultati» ha risposto la ricercatrice «Abbia almeno il garbo di non unire, al danno, la beffa, e di non appropriarsi di risultati che italiani non sono. Proprio come noi. Vada a chiedere alla vincitrice del concorso per linguistica informatica al Politecnico di Milano (con dottorato in estetica, mentre io lavoravo in Microsoft), quante grant ha ottenuto. Vada a chiedere alle due vincitrici del concorso in linguistica inglese, senza dottorato, alla Statale di Milano, quanti fondi hanno ottenuto. Vada a chiedere alla vincitrice del concorso di linguistica inglese, specializzata in tedesco, che vinceva il concorso all’Aquila (mentre io lo vincevo a Cambridge, la settimana dopo) quanti fondi ha ottenuto. Sono i fondi di queste persone che le permetto di contare, non i miei». E bum! La ministra incassa e giù il sipario.

Cosa ci insegna questa mirabile “figura di tolla”? Beh, c’è un momento che è sacro nella quotidianità di ogni lavoratore italiano: la sera quando si torna a casa. Siamo un popolo che si sveglia, si trascina spesso a elemosinare dignità spremendo un lavoro senza nemmeno la forma di un lavoro, ci arrabattiamo talvolta tra quotidianità talmente contrite da usurarci la testa e il cuore, caracolliamo in un Paese che ci fa scontare ogni diritto con il sudore poi quando rientriamo da questa battaglia giornaliera, tutto il giorno tutti i giorni in bilico tra l’Italia che raccontano e quella che incontriamo per strada, ecco almeno in quel momento lì, c’è voglia di tornare a casa non ancora sbriciolati del tutto ma almeno con un po’ di speranza intorno. Ci impegniamo a non sbriciolarci del tutto per portare un pezzo di noi a casa e godercelo al riparo.

Io ricordo molto bene il tozzo di mio padre o di mio nonno che tornavano dopo le sgroppate da operai turnisti, stanchi ma mica sfatti con una bella speranza affilata buone per grattarci qualche momento di serenità. E quel momento lì, il ritorno a se stessi, è il momento privato della giornata di ognuno. Non è difficile sentire come si sia ammosciata la speranza, di questi tempi: e per questo sarebbe bene (sarebbe ottimo) che almeno quel tempo non venga stropicciato dalla narrazione marchettara dell’ottimismo. L’ha capito a sue spese la ministra ma ora lo sanno tutti: quando ci si impegna a tornare a casa con almeno un po’ di speranza intorno smettete di gonfiare le trombe della propaganda. Altrimenti succede che qualcuno, con tutta l’energia che ha accumulato tutte le volte che non è tornato, risponda. Ed è un tonfo. Cara ministra.

Buon lunedì. Buona settimana, senza sformarsi.

Che impatto può avere la morte del giudice Scalia sulle presidenziali Usa

La morte di Antonin Scalia, il giudice conservatore della Corte Suprema, italoamericano, cattolico, 9 figli e 36 nipoti, cambia molto la campagna elettorale americana e l’ultimo anno di presidenza Obama.

E non a caso tutti i candidati repubblicani e chiunque abbia voce in capitolo nel partito – ad esempio il leader del Senato Mitch McConnell o il capo della commissione Giustizia del Senato, il repubblicano dell’Iowa Charles Grassley – si sono precipitati a dire che nell’anno elettorale giudici alla Corte Suprema il presidente non ne dovrebbe nominare. Sono stati così rapidi a parlare della successione che quasi non hanno celebrato quello che per decenni è stato un loro campione, il paladino dei valori ultra-conservatori all’interno della massima espressione giuridica degli Stati Uniti.

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Chi era Scalia

Nato a Trenon, capitale del New Jersey oggi città semi vuota e in piena decadenza, nominato nel 1986 da Reagan (primo italo-americano ad entrare alla corte), Scalia aveva una concezione conservatrice della società e, coerentemente, propendeva per un’interpretazione letterale del testo costituzionale americano. Aveva uno stile in sintonia con le sue posizioni: ruvido e sarcastico, non esattamente in linea con lo stile della Corte – nemmeno il suo collega ultraconservatore afroamericano Clarence Thomas ha toni moderati. Sui diritti, le minoranze, l’invadenza (dal suo punto di vista) dello Stato federale nei diritti dei singoli Stati e dei cittadini, Scalia era sempre testardamente coerente con la sua impostazione ideologica, cosa che il Chief of justice, il capo della Corte, John Roberts, ha mostrato di non essere, schierandosi con l’ala sinistra della corte nella sentenza che ha dato il via libera definitivo alla riforma sanitaria Obama.

L’ultima battuta eccessiva di Scalia venne dopo la sentenza che ha di fatto legalizzato il matrimonio tra persone dello stesso sesso in tutti gli Stati Uniti d’America, all’epoca accusò i giudici che avevano votato il parere del giudice Kennedy (il centrista, quello che spesso è l’ago della bilancia), di essersi schierati in una guerra di religione e profetizzato disastri nella società americana sul fronte «dell’incesto, della bigamia, della masturbazione e dell’oscenità». Una sala educazione cattolica nel New Jersey degli anni ’40 lo guidava in questi pareri, sebbene fosse un giurista di primo calibro. Curiosità: anche il giudice Alito è nato a Trenton, mentre le due donne liberal nominate da Obama sono di New York, così come la giudice Ginsburg.

Perché è importante la nomina di un nuovo giudice?

La Corte odierna è composta da 9 giudici, 4 conservatori, 4 liberal e 1 moderato che spesso contribuisce a formare le maggioranze quando la Corte si divide per linee ideologiche. Non sempre è così, ma sui temi dei diritti civili o economici, spesso è successo che le divisioni fossero 5 a 4, con Kennedy che determinava la maggioranza. Ora, se Obama decidesse di nominare un giudice liberal, questi avrebbero una tendenziale maggioranza, con l’aggiunta possibile di Kennedy, che, appunto, si schiera di volta in volta. In una nomina liberal non ci sarebbe nulla di strano: l’attuale maggioranza è figlia delle nomine di Reagan e Bush, mentre i liberal presenti nella Corte sono al loro posto grazie a Clinton e Obama. Ma non è nemmeno vero il contrario: il giudice liberal Stevens (in pensione) venne nominato dal repubblicano Ford.

Cosa succede adesso e che impatto sulla campagna elettorale?

Il presidente Obama ha già detto di avere pieno diritto a nominare un giudice. Ne ha già nominati due, donne e piuttosto liberal, a sostituire altri giudici liberal o moderati. Il presidente in carica ha spostato l’asse della Corte ma, per ora, non ne ha completamente stravolto la composizione. Ora potrebbe. Per questo i repubblicani faranno di tutto per impedirlo nella speranza di vedere uno di loro alla Casa Bianca tra un anno. Tra l’altro, è noto che la giudice liberal Ginsburg sia pronta o quasi a lasciare, probabilmente dopo l’elezione del prossimo presidente. Obama ha quindi la possibilità, anche se dovesse vincere un repubblicano, di mantenere l’equilibrio della Corte Suprema almeno come è adesso. Quando Ginsburg lascerà, anche ci fosse un presidente repubblicano che nomina un conservatore, le cose resterebbero uguali. Se poi vincesse un democratico, gli equilibri cambierebbero. Il problema di Obama è che il Senato deve vagliare e approvare la nomina di un giudice. Se il presidente dovesse sceglierne uno, si aprirebbe una battaglia furiosa in Senato sulla sua conferma. Nell’anno della campagna elettorale, lo scontro alimenterebbe lo scontro e la distanza tra i due partiti. Ted Cruz, che è il più a destra dei candidati repubblicani rimasti, fa campagna sui temi etico religiosi ed ha difeso diversi casi alla Corte Suprema. In più è in Senato. Ha mille motivi per fare di tutto perché lo scontro con Obama sull’eventuale nomina sia una guerra totale. I democratici possono usare la crociata anti nomina – e quella di un appartenente alle minoranze – per ricordare agli elettori non entusiasti, quanto sia importante andare a votare per difendere i propri diritti anche nell’Alta corte.

I repubblicani sostengono che nell’anno elettorale non si nominano giudici. Falso. Taft, Wilson, Hoover, Roosevelt, Reagan hanno nominato giudici negli anni elettorali. Ma i rapporti tra presidenti e Congresso erano migliori e la distanza tra i due partiti infinitamente minore.

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Quanto è importante la maggioranza alla Corte Suprema?

Molto. In uno Stato federale costruito su un equilibrio di poteri accurato come gli Stati Uniti, l’alta corte ha spesso l’ultima parola su enormi questioni che riguardano le vite di tutti: i diritti civili, l’aborto per citare esempi storici, Obamacare, il matrimonio tra persone dello stesso sesso, di recente, così come (in negativo) il finanziamento anonimo e illimitato alla politica, sono parte della vita americana perché su questi la Corte ha sentenziato. Per fare un esempio concreto e futuro: i due candidati democratici alla presidenza hanno promesso che faranno qualcosa contro l’influenza del denaro nella politica. Con loro diverse campagne nazionali. Sul tema, alla fine, sarà la Corte Suprema che deciderà – dovendo ascoltare argomenti diversi da quelli di chi ha cercato di fermare l’avvento dei SuperPac, i comitati politici indipendenti senza limiti di spesa in politica, durante il caso Citizens United contro la Commissione elettorale federale, nel quale votò a favore del finanziamento alla politica.

Chi nominerà Obama?

Probabilmente un altro membro di minoranza, circolano vari nomi: la procuratore generale della California, Kamala Harris, che però corre per il Senato e nel caso dovrebbe rinunciare (ha un avvenire in politica), l’afroamericano Paul Watford, giovane e appena passato per l’approvazione del Senato (che approva tutti i giudici federali) e che quindi sarebbe strano bocciare adesso. Altra candidatura forte è Sri Srinivasan, asiatico americano, ha lavorato per l’ex giudice della Corte, la repubblicana Sandra Connor, ed è stato confermato all’unanimità come giudice federale tre anni fa. L’audizione del nominato, qualora ce ne dovesse essere uno, sarà di fuoco. Una nomina renderebbe il mandato Obama più importante di quanto non lo sia, spostando per anni gli equilibri della Corte.

Zika, il vaccino dall’India. Battuta Big Pharma

A medical researcher works on results of tests for various diseases, including Zika, at the Gorgas Memorial laboratory Panama City, Friday, Feb. 5, 2016. Panamanian authorities announced Monday that 50 cases of the Zika virus infection have been detected in Panama's sparsely populated Guna Yala indigenous area along the Caribbean coast where they are conducting an aggressive campaign to contain the spread of the virus. (AP Photo/Arnulfo Franco)

Non è senza un malcelato compiacimento che The Economic Times, il supplemento economico di The Times of India, ha annunciato la creazione del primo vaccino contro il virus Zika, definendolo un paradosso: l’agente infettivo che sta contagiando persone in 39 diversi Paesi di tutti i continenti e per questo ha messo in allarme la World health organization (Who), l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di sanità, non ha ancora messo piede in India, ma l’India è il primo Paese al mondo ad avere messo a punto un mezzo – anzi, due – per combatterlo.
La soddisfazione del giornale di New Delhi deriva non solo dal valore intrinseco della performance che potrebbe evitare una nuova emergenza sanitaria globale, ma anche, probabilmente, dal fatto che, ancora una volta, le aziende farmaceutiche indiane hanno battuto Big Pharma, le grandi industrie del farmaco occidentali. L’impresa questa volta sarebbe riuscita, ma il condizionale è d’obbligo, perché il vaccino deve essere ancora testato sull’uomo, alla Bharat biotech international limited, una delle tante aziende biomediche indiane.
La realizzazione del primo vaccino contro Zika cade nel momento giusto: l’India, infatti, celebra i trent’anni dalla nascita del Dbt (Department for biotechnology), la struttura interna al ministero della Scienza e della Tecnologia creata nel 1986 da Rajiv Gandhi per promuovere la ricerca e l’industria biomedica e biotecnologica del paese. È sull’onda di questa politica, consolidata negli ultimi anni, che il biologo Krishna Ella ha lasciato la sua posizione a Madison (Stati Uniti), presso l’University of Wisconsin, per tornare in India e fondare la Bharat biotech international limited. Ella è un esempio del fatto che la ricerca scientifica e lo sviluppo delle biotecnologie hanno avuto successo. Tanto da indurre lui a tornare in patria e The Economic Times a reiterare il suo compiacimento e a scrivere: «così la terra degli incantatori di serpenti, degli elefanti e del “ritmo Hindu di crescita” è diventata un hub dell’innovazione».
Non sarà dipeso tutto dal Dbt e da una lucida politica di governo, ma è certo che in questi trent’anni l’India è diventato il maggior produttore al mondo di farmaci generici e si è ritagliata il 20 per cento del mercato mondiale di queste formule non griffate che minacciano il pluridecennale oligopolio di Big Pharma. Molti analisti, infatti, pensano che il mercato dei generici sarà presto superiore a quello dei farmaci “di marca”. Già ora in India, che rappresenta ormai il terzo mercato mondiale per volume di farmaci, i generici coprono tra il 70 e l’80 per cento della domanda. Se qualcuno avesse dubbi sulla leadership indiana nel campo dei farmaci generici (che poi vogliono dire, semplicemente, venduti a basso prezzo) e sugli effetti positivi che hanno sulla salute delle persone meno abbienti, basti pensare che la Medicines patent pool, un’organizzazione sostenuta dalle Nazioni Unite, ha firmato sei licenze con altrettante imprese indiane per la produzione e la vendita del Tenofovir alafenamide (Taf), un farmaco generico contro l’Aids, a 112 Paesi in via di sviluppo a costi, appunto, decisamente più bassi di quelli praticati dalle grandi aziende occidentali e dunque accessibili ai poveri contagiati dal virus Hiv.


 

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Spagna, un governo chiamato desiderio

Spain's Socialist Party leader Pedro Sanchez, right, and Podemos Party leader Pablo Iglesias arrive for their meeting at the Spanish parliament in Madrid, Friday, Feb. 5, 2016. The meeting between Sanchez and Iglesias is a part of the negotiation rounds to try to form a government after elections. (AP Photo/Francisco Seco)

Un Monti iberico? «Sarebbe una disgrazia». Josep Ramoneda non ha dubbi, in questa fase di profonda impasse trema per le sorti della sua Spagna: «Se Sánchez non riesce a formare un governo rischiamo le trovate più fantasiose e pericolose».
Si è votato lo scorso 20 dicembre, da allora il Paese non ha un governo: la gente come sta vivendo l’instabilità politica? Si tratta di un precedente storico?
I cittadini esigono che i politici risolvano il Sudoku consegnatogli dopo le elezioni: hanno giustamente ridato al Parlamento quella centralità, legittima, che spetta alle nostre democrazie, mentre in questi anni eravamo abituati a un sistema che prevedeva solo due candidati a governare il Paese, una maggioranza assoluta e l’egemonia dell’esecutivo rispetto agli altri poteri dello Stato. I due partiti principali, Psoe e Pp, avevano adottato una concezione patrimoniale del potere e ciò ha portato a un diffuso malessere, la decisione improvvisa di Podemos e di altre organizzazioni di dare rilevanza ai movimenti sociali, e di rappresentarli nelle istituzioni, ha completato l’opera.
Siamo all’inizio di una “seconda Transizione Democratica”?
Ritengo il termine esagerato, però è evidente che bisogna riformare a fondo il sistema per evitare che si ripetano assalti al potere dettati dal settarismo e dall’arroganza. Come il Pp, che ha governato e saccheggiato le istituzioni a colpi di maggioranza assoluta, senza interloquire con gli altri partiti e imponendo ai cittadini sacrifici e il regime di austerità espansiva. Il punto più basso è stato raggiunto con l’indipendentismo catalano, che durante il mandato di Rajoy è cresciuto dal 20 al 48% ricevendo sentenze dei tribunali come unica risposta politica. In atto c’è una reazione cittadina che richiede un cambio generazionale: Pp e Psoe tutelano principalmente gli over 50 – i quali costituiscono la riserva elettorale che permette loro di mantenere il potere – trascurando i giovani che preferiscono i nuovi partiti, come Podemos.


 

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Un’America sotto psicofarmaci

Dopo decenni in cui la vita media negli Usa si era andata progressivamente allungando si registra un’inversione di tendenza. È un fatto che, in particolare, riguarda gli adulti maschi, bianchi di mezza età e poveri. A denunciarlo è il premio Nobel 2015 Angus Deaton. Tra le cause principali non ci sono solo le patologie legate allo stile di vita malsano dell’America, a cominciare dal junk food con la conseguente obesità, diabete e malattie cardiocircolatorie. Dai risultati delle ricerche dell’economista di Princeton e dai rilevamenti dei Centers for Disease Control and Prevention – riportati dal New York Times e da altre testate – un numero crescente di adulti americani oggi muore intorno ai cinquant’anni perché si suicida assumendo pain-killers, potenti analgesici, metamfetamine, massicce dosi di psicofarmaci più alcool. Accade soprattutto nell’America profonda, fra bianchi che hanno perso il lavoro, che «si sentono minacciati dall’emancipazione delle donne e dagli immigrati». Fra questi cinquantenni, disperati e furibondi, si trovano molti elettori Trump, ha scritto su D di Repubblica Federico Rampini commentando i dati sullo stato di salute degli americani. Ma la spiegazione del fenomeno in termini economici e sociologi non basta. Ci aiutano a far chiarezza alcuni libri sulla psichiatria americana degli ultimi cinquant’anni pubblicati da L’Asino d’oro. In particolare a tre titoli: Le pillole della felicità dello storico della scienza David Herzberg, La perdita della tristezza di Allan V. Horowitz e Jerome C. Wakefield e Mad in America del noto giornalista d’inchiesta Robert Whitaker. Insieme concorrono a tracciare un quadro documentato e molto articolato dei danni provocati dalla psichiatria americana “organicista” che ha fatto del Dsm (ora arrivato alla quinta edizione) la propria Bibbia. Pur provenendo da esperienze professionali diverse e occupandosi di ambiti psichiatrici differenti, tutti e quattro gli autori citati arrivano grosso modo alla medesima conclusione: il problema della cultura americana è la negazione della malattia mentale e il riduzionismo biologico della psichiatria basata sull’idea (priva di fondamento scientifico) che esista una causa genetica ed organica delle patologie mentali. Da qui gli eccessi di prescrizione e una assoluta fede nel potere della chimica. «Come se bastasse l’introduzione di una sostanza nell’organismo per trasformare magicamente un individuo gravemente disturbato», scrive Herzerb, registrando il fallimento di interventi farmacologici che non si occupano dell’alterazione del pensiero rafforzando nel paziente l’idea dell’incurabilità e bloccando ogni sua ricerca sul ruolo dei rapporti umani. In particolare David Herzerb ha studiato il fenomeno che ha avuto inizio nell’America degli anni 50, quando furono immessi sul mercato ansiolitici come il Miltown e il Valium, «farmaci blockbuster» che creavano problemi di dipendenza. Poi sarebbero arrivati gli inibitori selettivi del reuptake della serotonina come il Prozac, negli anni Ottanta spacciato come panacea da campagne pubblicitarie rivolte soprattutto alle donne. Con lo slogan «By by blue», il Prozac veniva presentato come la pillola del successo, funzionale al modello yuppie, ultra competitivo, diventando in poco tempo «un bene di consumo». Ne Le pillole della felicità Herzberg analizza le campagne pubblicitarie che vedevano “protagoniste” donne bianche del ceto medio, sempre sorridenti. Erano loro il principale obiettivo di mercato e consumavano psicofarmaci in misura doppia rispetto agli uomini, con l’illusione così di diventare mamme, manager, mogli modello…Così come le casalinghe americane venti o trent’anni prima erano state tra le principali consumatrici di ansiolitici «per tollerare la frustrazione della vita domestica». A rivelare l’estensione del problema contribuirono allora anche personaggi in vista come Betty Ford, moglie del presidente degli Stati Uniti, che rivelò pubblicamente la propria dipendenza da ansiolitici.
Un capitolo a parte, e importantissimo, riguarda i grossi danni che la somministrazione di psicofarmaci ha prodotto e produce sui bambini e adolescenti; fenomeno che ha subito un rapido e costante incremento. Negli Stati Uniti sono almeno tre milioni i bambini in trattamento per problemi legati a un supposto «deficit di attenzione» . Patologia individuata dalla psichiatria americana quando fu immesso sul mercato il Ritalin. In questo caso fu il suicidio di Kurt Cobain dei Nirvana ad accendere i riflettori sul fatto che lunghe storie di dipendenza dalle droghe, come la sua, potevano aver radici nell’infanzia quando- su prescrizione – aveva assunto Ritalin e altri psicofarmaci. Di fatto solo nel 2005 l’ Agenzia Europea dei Medicinali ha evidenziato una correlazione fra l’uso di antidepressivi nei bambini e negli adolescenti e l’aumento di comportamenti a rischio suicidario obbligando le cause farmaceutiche a scriverlo nei bugiardini.

La Zanzara, sesso, giornalismo e i moralisti di 50 anni fa. La storia di un’inchiesta esplosiva

«Gli imputati si alzino. Do lettura ai capi di imputazione». Tribunale di Milano, 30 marzo 1966, ore 9,40. Il presidente Luigi Bianchi d’Espinosa comincia a leggere «i capi di imputazione» che vedono coinvolti il preside del liceo Parini Daniele Mattalia, lo studente Marco De Poli in qualità di “direttore” e gli altri studenti, Claudia Beltrami Ceppi e Marco Sassano. Il “reato”: aver pubblicato sul giornale dell’associazione studentesca La Zanzara il 14 febbraio 1966, «un periodico destinato ai fanciulli e agli adolescenti» una inchiesta dal titolo “Cosa pensano le ragazze d’oggi” dal contenuto che «offende il sentimento morale dei fanciulli e degli adolescenti», costituendo «un incitamento alla corruzione», prosegue Bianchi D’Espinosa.

 

Ma cosa mai hanno scritto gli studenti del Parini? Intanto va detto che il liceo di via Goito era una delle migliori scuole della città, frequentata dal fior fiore della borghesia milanese, dai Rizzoli, ai Bassetti. È il 1966, e i ragazzi vanno a scuola in giacca e cravatta, tanto per intenderci. Le ragazze non sono da meno, al Parini non si vedono certo le minigonne di Mary Quant, bensì gonne scozzesi, camicette e scarpe basse. Ma – e qui l’inchiesta dei tre audaci giornalisti, è davvero sconvolgente – quelle giovanissime ragazze della buona borghesia milanese, avevano un pensiero e un atteggiamento nei confronti della famiglia e dei rapporti tra uomini e donne decisamente moderno.

Vediamo cosa emerge dall’inchiesta della Zanzara (tutti i dettagli qui).
Ricordiamoci, per capire il contesto, che nel 1966 si votava a 21 anni, la riforma del diritto di famiglia era ancora in alto mare – arriva solo nel 1975 – mentre il delitto d’onore doveva essere cancellato solo nel 1981.

La famiglia
Le ragazze milanesi rispetto ai genitori non accettano più «un atteggiamento di tipo autoritaristico, ma si chiede loro amicizia e una maggiore comprensione dei propri problemi». Una di loro dice: «Io posso accettare un consiglio da mio padre solo se è motivato e non perché dice che è il padre e basta!». Come si vede, una notevole consapevolezza della propria libertà.

L’educazione sessuale
È quella che manca a scuola, dicono le intervistate. Peccato che manchi ancora oggi, 50 anni dopo. «Non vogliamo più un controllo dello Stato e della società sui problemi del singolo e vogliamo che ognuno sia libero di fare ciò che vuole, a patto che ciò non leda la libertà altrui. Per cui assoluta libertà sessuale e modifica totale della mentalità». E per ottenere questo, dicono le ragazze, occorre l’educazione sessuale nelle scuole. Stesso concetto che sta alla base di chi, oggi, propone l’educazione affettiva e sessuale nelle scuole (ma le varie proposte di legge sono rimaste lettera morta).

Il sesso, la società e il problema morale e religioso.
Condanna senza mezzi termini dei film erotici, prudenza sul controllo delle nascite nel matrimonio e per quanto riguarda i rapporti prematrimoniali, qui, in effetti le ragazze si dividono. Ci sono quelle che «pongono dei limiti», altre invece che sostengono che «nell’amore nessuno dovrebbe agire secondo limiti e regole già prima codificati, ma solo secondo la propria coscienza e la propria volontà». Altre invece dicono che «all’uomo che si ama si può dare tutto ma solo nel matrimonio». Ma è il problema della verginità legata all’influenza della Chiesa che appassiona le giovani studentesse del Parini. Qualche risposta: «La religione in campo sessuale è portatrice di complessi di colpa», oppure, «Quando esiste l’amore non possono o non devono esistere limiti e freni religiosi» e ancora: «La posizione della Chiesa mi ha creato molti conflitti fin quando non me ne sono allontanata».

La Zanzara sotto attacco
Da queste risposte si spiega la reazione veemente di don Luigi Giussani capo di Gioventù studentesca che scrisse un furioso comunicato. Proprio lui, il Giussani futuro fondatore di Comunione e Liberazione si scagliò contro la Zanzara. E naturalmente a ruota, lo seguirono i giornali. Troppo ghiotta l’occasione per i giornali dell’Italietta puritana. Come racconta Sassano Il Corriere Lombardo titolò: “Scandalo al Parini”. I fatti precipitarono. I ragazzi vennero chiamati in Questura per dare spiegazioni. Sassano racconta: «Eravamo ragazzini, ci presentammo in giacca e cravatta, ci puntarono una luce negli occhi». Ai maschi venne imposta anche una visita medica, «dicevano che dovevano stabilire se stavamo bene, se eravamo in grado di intendere e volere…. Ci dissero di spogliarci e cominciarono a farci strane domande, ci chiedevano per esempio se i nostri genitori convivevano». I ragazzi si arrabbiano per questo trattamento e se ne vanno. Ma pensano bene di affidarsi a un pool dei migliori avvocati di Milano tra cui troviamo Crespi, Smuraglia e Pisapia il padre di Giuliano.

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Scoppia il pandemonio, tra i reati che vengono contestati agli studenti c’è anche quello di stampa clandestina, ma La Zanzara era un giornale scolastico, con un passato tra l’altro glorioso visto che dietro c’era l’omonima associazione nata nel 1945 alla fine della guerra. La Zanzara nacque allora con la carta donata dai partigiani e da un gruppo di studenti che era lontanissimo dalle goliardate, ma che, anzi, mostrava un impegno legato proprio alla ricostruzione del Paese.

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Gli studenti assolti, ma i moralisti no
Il processo ebbe un effetto boomerang e si ritorse contro chi l’aveva voluto. Si mobilitarono anche politici come Pietro Nenni, a favore dei ragazzi, L’Espresso il 10 aprile pubblicò le trascrizioni delle udienze, e la giustizia italiana venne mostrata al mondo in tutta la sua realtà. Allora davvero antistorica. Il caso Zanzara finì su Le Monde, sul New York Times, su Le Figaro e sul Times. Nei cinque giorni di udienza parteciparono, racconta ancora Sossano, 240 giornalisti accreditati. Alla fine il processo di Milano ebbe un seguito a Genova ma anche stavolta i ragazzi vennero assolti.
In seguito il giornale riprese le pubblicazioni, con una redazione, ricordiamo, ricca di futuri giornalisti. Tra di loro, oltre a Marco Sassano e Marco De Poli, c’erano Vittorio Zucconi, Massimo Nava, Salvatore e Alberto Veca. E quel grande giornalista che fu Walter Tobagi ucciso dai terroristi nel 1980.

Giannini: Una nuova Rai ottimista e di governo? Grazie, no

ANSA/ALESSANDRO DI MEO

«La Rai mi può licenziare. Il Pd proprio no». In un momento in cui anche il servizio pubblico subisce il decisionismo del premier, Massimo Giannini, per 10 anni vicedirettore di Repubblica e oggi alla conduzione di Ballarò, ha fissato un suo piccolo personale paletto. Da quello siamo partiti.

Che clima c’è in Rai in questi giorni?

Con i vertici ho sempre avuto un rapporto eccellente di assoluto rispetto e autonomia. Con Gubitosi come con Campo dall’Orto, così con Vianello: in nessun modo Andrea ha limitato la mia indipendenza, e lo ringrazio. Dall’azienda non ho mai avuto pressioni, e tutt’ora il clima è positivo. Per la natura della nuova governance inaugurata dal nuovo amministratore delegato, è però normale che i dirigenti debbano cambiare e con loro altre cose. Il mio contratto scadrà a giugno, cosa accadrà poi non lo so, ma sono sereno.

Non teme l’influenza del Pd sulla Rai, dunque. E quella del governo?

Adesso si sente molto più il peso del governo che dei partiti, è così. Ma è la stessa riforma che è stata così concepita: da una situazione nella quale tutti i partiti avevano voce in capitolo, passiamo a un’azienda che è voce del governo e della maggioranza. È evidente che c’è il rischio dell’unico player.  Tutto è così nelle mani delle persone chiamate a gestire la Rai: e anche a costo di apparire un marziano idealista, ti dico che se i singoli sono in grado di dire di no anche a un potere che ti ha scelto, questo Paese si può ancora salvare.

Sta quindi alla nuova figura dell’Ad?

Un capo azienda forte che si sappia mantenere autonomo dalla politica, sulla carta, sarebbe anche positivo. Ma poi le scelte andranno misurate nel concreto. Bisogna vedere che scelte faranno queste nuove dirigenze, dall’Ad in giù.

Non solo la Rai, sta cambiando. Anche per i giornali è un momento di grandi manovre.

Per parlare della carta stampata bisogna prima accordarsi sul fatto che siamo davanti a un declining business, per altro non reversibile: i giornali stanno subendo, tra le altre, l’erosione del web. In Italia ci sono troppi quotidiani rispetto al bacino di lettura che si va profilando. Non so cosa stia accadendo frai grossi gruppi, siccome di quello parleremo, ma è abbastanza logico che si stia pensando di fare delle concentrazioni anche in questi settori.


 

Questo articolo continua sul n. 7 di Left in edicola dal 13 febbraio

 

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