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Metti una sera a cena nel deserto. La resistenza di profughi e migranti negli scatti di Gohar Dashti

Gohar Dashti, Stateless, 2014-2015. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine,

In esclusiva per l’Italia, le Officine dell’Immagine di Milano fino al 16 aprile, ospitano una personale di Gohar Dashti, fotografa e artista iraniana capace di sintetizzare in uno scatto, come le sue improbabili e affollate scalette d’aereo in mezzo a radure desolate, le situazioni drammatiche, a volte addirittura paradossali, che si trovano a vivere profughi e migranti. Oppure capace di raccontare la tragedia della guerra attraverso un disarmante  ritratto di ragazzi che cercano di costruirsi una casa nel deserto. Nata ad Ahvaz nel 1980, Gohar Dashti vive e lavora a Teheran e a Boston e con il suo lavoro fotografico ha raccontato i fermenti culturali e di rinnovamento che attraversano il tessuto sociale iraniano, con una propria cifra stilistica originale, in cui l’amarezza è sempre venata di ironia,  con una forte carica di denuncia, ma senza perdere la tenerezza.

Gohar Dashti, Iran, 2013,Courtesy l’artista
Gohar Dashti, Iran, 2013, Courtesy l’artista

«La raffinatezza del suo lessico, strettamente connesso a un’implicita connotazione autobiografica, si traduce in una simmetria creativa audace e incisiva, dove l’estetica dell’allegoria si scopre come costante elemento focale», scrive la curatrice Silvia Cirelli, artefice di questa mostra milanese intitolata provocatoriamente Limbo e che prende vita mentre il  Florida Museum of Photographic Art dedica una ampia retrospettiva a questa artista diventata un punto di riferimento  del pubblico più giovane in Medio Oriente e che ha riscosso molta attenzione con mostre al Victoria and Albert Museum di Londra e nei musei di Tokyo, Boston  e Washington.

Limbo prende spunto dalla serie Stateless (2014-2015) realizzata in un remoto paesaggio desertico nell’isola di Qeshm, territorio iraniano sul Golfo Persico. Paesaggi desertici e radure desolate fanno da sfondo a  ritratti malinconici di giovani che appaiono vulnerabili, senza mezzi, ma mai arresi, nemmeno nelle situazioni più difficili ed estreme, quando intorno a loro non ci sono più tracce di contesti urbani e abitabili.

Gohar Dashti, Stateless Courtesy l’artista e Officine
Gohar Dashti, Stateless Courtesy l’artista e Officine

«È questo silenzioso senso di abbandono e il dolore della separazione dalla propria terra, dalla propria cultura e storia  – sottolinea Cirelli – ciò che hanno ispirato Gohar Dashti nella realizzazione di queste serie poetiche, un progetto che assorbe la sofferenza della difficile condizione di profugo ed esiliato, restituendo l’identità di una memoria a chi purtroppo, a causa di guerre, malattie o soprusi, è stato costretto ad abbandonarla».

Gohar Dashti, Iran, Untitled – 2013 – 80x120 cm, archival digital pigment print. Edizione di 7. Courtesy l’artista e Officine dell’Immagine, Milano (2)

Nei trittici del progetto Me, she and the others (2009), anch’essi in mostra a Milano, Gohar Dashti si occupa in modo particolare della questione femminile e del ruolo della donna nella cultura iraniana  raccontando le donne al lavoro, nella propria abitazione e nelle strade, attraverso gli abiti e l’obbligo di indossare sempre il velo. Senza mai adottare uno sguardo giudicante, la fotografa iraniana cerca di cogliere il vissuto emotivo delle protagoniste e come cambia la loro immagine dentro e fuori casa, in un mondo musulmano che le  costringe a nascondersi in pubblico. «Attraversato da molte contraddizioni socio politiche,  l’Iran ha una millenaria e raffinata fisionomia politica, in cui convivono modernità e tradizione islamica, libertà creativa e di ricerca e dall’altro lato censura e conservatorismo – commenta Silvia Cirelli  -. Il conflitto è molto aspro e la vita privata e pubblica sono nettamente separate tanto da sembrare opposte».

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La rivolta dei piccoli comuni contro la fusione obbligatoria

village in provence

I numeri, i numeri. Conta solo questo. E così, in base ai numeri degli abitanti di un comune, adesso in Italia viene stabilito per legge “dove è bello vivere”, luoghi cioè dove “si realizzano economie di scala” e “ottimizzazione delle risorse”. Che importa se si cancella il Comune, se il sindaco da salutare (o criticare) per strada non c’è più, se chi ti governa diventa un anonimo tecnico, lontano decine e decine di km da dove vive il cittadino, magari anziano e impossibilitato ad avvicinarlo perché in campagna o in alta collina non è così semplice spostarsi.

Per ottimizzare le risorse è stata presentata alla Camera l’11 novembre scorso la proposta di legge con primo firmatario Emanuele Lodolini (Pd), e come secondo Davide Zoggia. Si tratta di una modifica del testo unico del dl 18 agosto 2000 n.267. Con il ddl Lodolini (qui) si stabilisce che il limite minimo perché possa esistere un comune è di 5000 abitanti. Tutte quelle amministrazioni che non rientrano in questo limite devono fondersi con altre. Punto e basta. E se non lo fanno, le Regioni devono obbligarli, e se queste a sua volta “disobbediscono” avranno la decurtazione del 50 % dei trasferimenti statali in loro favore. Insomma, o ti fondi, o ti taglio i fondi.

Mentre il ddl Lodolini va avanti, la proposta di legge presentata da Ermete Realacci sempre del Pd per la valorizzazione dei piccoli comuni sotto i 5mila comuni giace alla Camera da almeno due anni.

Intanto, la proposta Lodolini sta provocando una vera e propria rivolta dal basso. La logica del governo Renzi è questa: ottimizzazione delle risorse. E può essere giusta, dicono i sindaci ribelli, ma la realtà va vista in tutte le sue sfaccettature.

I piccoli comuni non ci stanno. Lo slogan è: sì alle unioni, a razionalizzare i servizi, sì alle convenzioni, ma le fusioni, le cancellazioni dei consigli comunali, no grazie. E’ già partita una petizione su Change.org, mentre una pagina facebook raccoglie tutte le voci contrarie di sindaci e consigli comunali. La protesta è partita a macchia di leopardo, ma interessa sulla carta il 70 per cento dei comuni italiani, che sono 8006. La media italiana è di 7500 abitanti per comune e dal fronte della protesta si fa notare come in Europa la situazione sia ancora più frammentata: in Francia esistono 36mila comuni con 1700 abitanti di media, in Spagna poco più di 8mila con 5mila abitanti e in Germania 11mila con 7mila abitanti di media.
In Toscana il movimento di protesta è particolarmente vivace. Tredici sindaci della Provincia di Siena hanno firmato un manifesto per “aiutare i piccoli comuni a vivere, non a morire”. Sono i comuni di Cetona, Radicofani, Chiusdino, Chianciano Terme, Casole d’Elsa, Castiglione d’Orcia, Monteriggioni, Piancastagnaio, Pienza, Radicondoli, San Casciano dei Bagni, San Gimignano e Trequanda. Sono tutti primi cittadini del Pd, eccetto tre che sono stati eletti nelle liste civiche. Si sono mossi anche comuni più grandi, come San Gimignano perché l’orientamento della Toscana, come è emerso da un convegno recente a Montecatini è quello di arrivare a una media di abitanti per comune tra i 10mila e i 20mila abitanti. Inoltre, preoccupa anche il fatto che maggiori punteggi nei bandi regionali per le opere pubbliche avrebbero i comuni risultato di fusioni rispetto agli altri.

12622440_1558627421125858_2243938759519781037_o (1) 2In Toscana il casus belli è stato il referendum che si è tenuto a Cutigliano e Abetone: pur con risultati contrapposti (un comune ha votato sì e l’altro no), a gennaio il consiglio regionale ha approvato la fusione dei due comuni. E l’intenzione della Regione è quella di tagliare ancora, visto che a fine legislatura, ha detto il presidente del consiglio regionale Giani, si arriverà da 278 a 250 comuni. La Regione spinge per le fusioni anche grazie a incentivi per i comuni che si fondono.
Ma cosa c’è di sbagliato nella fusione?
“Sia ben chiaro io non sono contro le aggregazioni quando vanno a migliorare i servizi, non sono contro le unioni, o contro le convenzioni”, afferma uno dei tredici sindaci che hanno firmato il manifesto in difesa dei piccoli comuni. Emiliano Bravi è un quarantenne, sindaco dal 2009 e consigliere comunale dal 2004, “una certa esperienza di amministrazione ce l’ho”, dice. E’ sindaco di Radicondoli, un paese al confine tra la provincia di Siena e quella di Pisa, la sede di un importante festival di teatro, il luogo dove viveva Luciano Berio. Insomma, un paradiso in mezzo a boschi e colline incontaminate. “Quello che non ci meritiamo è la scomparsa della rappresentanza politica di una comunità. Viene imposta dall’alto una norma basata sui numeri degli abitanti. Ma chi è sotto i 5mila abitanti o vive in zone rurali non ha diritto ad avere un rapresentante?”, si chiede il sindaco Bravi. “Se l’aggregazione serve migliorare la qualità della vita, ben venga, ma deve partire dal basso e con la volontà della comunità”, sottolinea ancora una volta. Radicondoli ha circa mille abitanti, un’estensione di 150 chilometri quadrati, un bilancio con 10 milioni di avanzo, spiega il sindaco e nemmeno mille abitanti. “Non guardiamo solo ai numeri, guardiamo ad altro. Mi rammarico che il mio partito, il Pd, sottovaluti l’esistenza di questi territori”, continua Emiliano Bravi. Che sottolinea come sia importante la presenza di rappresentanti nei territori, proprio per evitare la disgregazione e l’abbandono. Ma la fusione potrebbe essere un modo per risparmiare risorse? “Io prendo 900 euro netti al mese e mi sono messo in aspettativa, un assessore ne prende 50, un consigliere comunale zero. I risparmi si fanno sull’ottimizzazione dei servizi”. Invece così si rischia di perdere la partecipazione democratica. “Lo sa? Quando manca l’acqua, o c’è un problema tecnico, qui chiamano il sindaco. La gente va a votare, alle ultime elezioni ha votato l’84% della popolazione. E nel sindaco si vede l’ultimo baluardo. Se cancellano anche questo…”.

Siria, perché la battaglia di Aleppo è un momento chiave della guerra

FILE - In this Tuesday, Oct. 2, 2012 file photo, smoke rises over Saif Al Dawla district, in Aleppo, Syria. Aleppo was one of the last cities in Syria to join the uprising against President Bashar Assad’s government which began in 2011. (AP Photo/Manu Brabo, File)

C’è stato un tempo in cui Aleppo era il cuore della Siria. Oggi la città simbolo del Paese è semi-distrutta e dentro ed attorno ad essa si combatte una battaglia feroce e senza esclusione di colpi. La stessa battaglia che rende complicato rilanciare e ravvivare l’iniziativa diplomatica Onu. Ieri John Kerry e Sergei Lavrov si sono detti d’accordo sulla necessità di aumentare la distribuzione di aiuti e di aprire corridoi umanitari. Oggi a Monaco si incontrano americani, russi, iraniani, sauditi e altri per cercare di trovare una qualche forma di accordo sula strada da prendere per arrivare a un cessate-il-fuoco propedeutico a una vera trattativa sul futuro della Siria. Mosca avrebbe proposto uno stop all’offensiva a partire dal 1 marzo, mentre da Damasco la linea è: ci fermeremo dopo aver preso Aleppo.
Andiamo con ordine: nei giorni scorsi le truppe di Assad, con il sostegno indispensabile dell’aviazione russa hanno occupato alcuni villaggi attorno alla città, rendendo complicato il transito da e per la Turchia. La città rimane occupata per metà dalle truppe siriane e per l’altra metà da gruppi ribelli diversi tra loro – al Nusra, Isis, ma anche i gruppi sostenuti dagli Stati Uniti, alcuni cooperano tra loro, altri quasi si combattono, nessuno agisce di concerto. Da qualche settimana l’intensità della battaglia è aumentata e questo ha determinato – ecco un altro fronte siriano aperto – una nuova ondata di profughi in fuga verso la Turchia. In quanto città simbolo occupata dai ribelli, Aleppo è diventata in qualche modo un passaggio chiave della guerra siriana. Lo sforzo di Assad per riprenderla è quello di chi vuole segnare un punto e mandare un segnale al Paese e alle potenze straniere: siamo in piedi e stiamo riguadagnando terreno.
Nel frattempo in città mancano acqua ed elettricità da mesi, una centrale elettrica è nelle mani dell’Isis ma la rete è operata dal governo. Le due entità, ovviamente, non si parlano. Delle migliaia di cristiani residenti in città prima della guerra ne sono rimasti pochi e così un centro multiconfessionale importante dove sciiti e sunniti e cristiani di varia ascendenza convivevano oggi non è più quel che era.
Ma Aleppo, appunto, è diventata un simbolo e in quanto tale è lo specchio dell’impasse totale nel quale si trova lo sforzo diplomatico Onu. Se l’ultimo incontro di Ginevra si è risolto in un disastro prodotto dal ritiro delle forze di opposizione che protestavano per il fatto che aerei russi continuavano a bombardare proprio mentre si negoziava, il nuovo appuntamento in Germania non presenta novità rilevanti. «È chiaro a tutti che la Russia non vuole nessun negoziato ma la vittoria di Assad» ha detto un diplomatico Onu alla Reuters, mentre un consigliere di Assad ha spiegato che le truppe siriane non si fermeranno fino a quando non avranno ripreso Aleppo. Un diplomatico occidentale ha commentato: «Il cessate il fuoco sarà facile, tra un po’ gli oppositori saranno tutti morti». L’uscita di scena di Assad, in questo scenario, non è prevista.
Chi è nei guai è John Kerry, che per quella lavora, per quanto non traumatica ma negoziata. Il Segretario di Stato era convinto del fatto che i suoi sforzi e il suo antico rapporto personale con i russi avrebbe funzionato da grimaldello e che, in fondo, sarebbe interesse di Mosca trovare una soluzione onorevole per Assad che mettesse fine alla guerra. Evidentemente Putin ha un’altra idea, anche dettata dall’idea di far dimenticare l’Ucraina e mostrare al Paese e al mondo che la Russia pesa ed ha i muscoli. Operazione per ora riuscita.
Non solo, gli americani litigano con la Turchia, furiosa per il sostegno militare di Washington ai curdi dell’YPG, stretti alleati del Pkk turco che Ankara combatte nel sud est del Paese. L’YPG, tra l’altro, sta dando di fatto una mano all’esercito siriano ad Aleppo, in un gioco che rende le cose più complicate che mai.
E altre idee hanno l’Iran – schierato con Mosca e Assad – e l’Arabia Saudita, che ha annunciato l’invio forze speciali di terra in Siria per combattere l’Isis. Che poi l’annuncio sia condito da parole contro Teheran e la sua influenza in Yemen, ci dice come, per Riad, Daesh sia almeno in parte uno specchietto per allodole per entrare nel Paese. In teoria l’invio di uomini sarebbe legato allo sforzo della coalizione guidata dagli Usa contro l’Isis, ma soldati sauditi in Siria complicherebbero ulteriormente la situazione.
Altra complicazione è l’atteggiamento turco. Se da un lato il presidente Erdogan ha parlato di minaccia alla Turchia per la presenza di truppe siriane ai confini e il premier Davutoglu ha detto che Aleppo va difesa, da Ankara smentiscono la volontà di muovere truppe. Certo è che la situazione è un insieme di tasselli in cui ogni scelta genera ripercussioni possibili.

Laurent Fabius ha lasciato il posto di ministro degli esteri francese perché nominato da Hollande ad altra posizione e, accomiatandosi, l’ex premier socialista ha attaccato gli Usa: «Gli americani mandano segnali contraddittori, non sono abbastanza decisi nella volontà di agire e hanno un atteggiamento ondivago. I russi e gli iraniani se ne sono accorti». L’idea francese è che agli Usa della Siria non interessi e che lo sforzo sia solo volto a colpire Daesh. Non hanno tutti i torti. Ma è altrettanto vero che l’atteggiamento russo è stato, come spesso accade, diverso sul terreno e nelle stanze della diplomazia.
Nessuno crede molto all’appuntamento di oggi, tutti in Consiglio di sicurezza Onu premono perché Mosca la smetta di bombardare, ma Putin vuole smettere solo dopo aver regalato ad Assad Aleppo e messo il regime di Damasco in una posizione di forza nelle trattative. I ribelli si rifiutano di parlare se i raid aerei non smetteranno. Intanto al confine turco bivaccano migliaia di rifugiati in fuga dalle bombe, a Madaya il cibo torna a scarseggiare e le organizzazioni umanitarie attive in Siria avvertono che le centinaia di migliaia di persone intrappolate ad Aleppo sono a rischio carestia. Mai così tante erano state così a rischio in questa guerra siriana. Un rapporto pubblicato oggi stima in 400mila i morti della guerra, l’11% della popolazione. Quasi due milioni i feriti, mentre il 45% della popolazione ha lasciato la propria città o villaggio.

Quant’è chic essere contro su Sanremo. Grazie Ezio Bosso

Nei giorni di Sanremo l’impegno principale degli intellettuali contemporanei, quelli aderenti allo spirito dell’aperitivo, è di schivare Sanremo. Li riconosci perché fingono di non sapere nulla, nulla mica solo del Sanremo di quest’anno ma nulla nel senso più ampio: nei giorni di Sanremo c’è gente che nega di avere mai sentito nominare Ramazzotti, la Pausini o addirittura Garibaldi. Il vero gioco degli “impegnati” sta nell’imparare ad estraniarsi dal resto del mondo, assumere un mezzo accento francese e indossare tutto lo snobismo medio borghese. «Bella ieri la canzone di…» e subito l’alternativo appuntito comincia con un «Sanremo? Non lo guardo! Non mi piace! Ma che schifo!».

Eppure, sarà che sono fessacchiotto di carpaccio di cuore, non si può non ricordare quanto Sanremo sia il viaggio nelle corde recondite della fanciullezza davanti alla televisione, quando il Festival era un alito di stupore spolverato sul resto della famiglia inchiodata davanti al televisore e ritrovarselo oggi in fondo significa anche essere catapultati di nuovo lì. Ma Sanremo, no, è off, generazionalmente passato.

Pensavo stasera che siamo pieni di intellettuali che si costruiscono con l’odio contro qualcosa o qualcuno: patetici fomentatori diventati leader di partito contro i terroni e gli immigrati, puttanieri certificati saliti alla gloria per la potabile propensione all’impunità, intellettuali contro i gay, intellettuali contro i comunisti, intellettuali contro gli intellettuali, forbiti arrabbiati perché troppo forbiti contro i pochi forbiti, portatori insani di pregiudizi convinti di avere i pregiudizi più eleganti che si siano visti in giro. Tutti contro.

In fondo anche questa mia rubrica di buongiorno per Left è scivolata troppo spesso (troppo spesso per l’ecologia umorale di una narrazione intellettualmente onesta) nella polemica, nello sdegno sottovuoto e nel gne gne. Bene. Ieri sera, mi confesso, durante una cena con amici passata a sfogliare le candidature delle prossime amministrative alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo. Nessuno si è preso la briga di confessare di avere cambiato canale sul telecomando. Eppure.

Eppure, alla fine ci siamo ritrovati a guardare Sanremo e io che mi sono consumato a studiare da bambino il pianoforte quando ho ascoltato Ezio Bosso, io che mi sono cancellato le righe dei polpastrelli a strofinare tasti, a vedere lui che trovava la forza di rimettersi in piedi pur di suonare salendo gli scalini che lo portano al suo cielo, io mi sono commosso. Forse mi è sceso in testa lo zucchero a velo che inchiodava i miei zii, i miei nonni e i miei genitori. E mi sono commosso a pensare quanto sia forte l’emozione quando diventa popolare se si impara a viverla senza agorafobia. E mi sono detto, pensa cosa sarebbe scriverlo, mi sono detto.

E l’ho scritto. Buon giovedì.

Ve la ricordate la Maddalena?

Ve la ricordate “La Maddalena”? O meglio, il resort a 5 stelle costruito dalla Mita – proprietà di Emma Marcegaglia – per ospitare il G8 del 2009, e mai utilizzato?
Ecco: l’ex Arsenale, come un’anima in pena (e in lenta decomposizione), giace ancora sull’isolotto sardo in attesa di un’assegnazione qualsiasi. Finora rimasta sul groppone della Regione Sardegna, verrà ora riconsegnata al suo legittimo proprietario – e responsabile: il Consiglio dei Ministri. Precisamente, al Dipartimento della Protezione civile, che del colosso nulla aveva più voluto sapere.
A deciderlo, una sentenza del Tribunale di Cagliari, che chiude un contenzioso che va avanti da anni. Adesso, bisognerà però che sia nuovamente la politica a decidere il destino del della struttura, simbolo dello spreco di denaro pubblico in Italia.

Come scrive amareggiato l’architetto Stefano Boeri:

Nei giorni dopo lo spostamento del G8 a l’Aquila, visitando nell’ex Arsenale di La Maddalena un cantiere finito in tempi miracolosi e pensando ai soldi pubblici spesi per realizzare le opere, mi sono chiesto quali fossero le ragioni vere di una scelta così assurda. Uno spreco ingiustificabile di risorse.
A Maddalena non c’era ostentazione di lusso che potesse offendere un Paese colpito dalla calamità del terremoto. E a l’Aquila non c’era necessità di un piedistallo planetario che distraesse dalle tragedie della vita quotidiana

La struttura in vetro e cemento, ormai erosa da salsedine, maestrale e mancata manutenzione, solo di Imu è pesata fino a oggi sul bilancio della Regione ben 500mila euro l’anno, come scrive la Nuova Sardegna. Senza contare i milioni spesi all’epoca, quando l’allora presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, affiancato dall’allora capo della Protezione civile Guido Bertolaso, aveva deciso – a lavori avviati da mesi – di spostare il G8 a L’Aquila, appena colpita dal terremoto. Quasi mezzo miliardo di euro (480milioni), più della metà finita non si sa bene in quali rivoli. L’indagine per corruzione che ne scaturì vide imputata la famosa “Cricca della Ferratella” – di cui facevano parte fra gli altri, assieme a Bertolaso, il costruttore romano Diego Anemone e l’ex presidente del Consiglio superiore dei lavori pubblici, Angelo Balducci (poi condannati) – per mancata bonifica e sottrazione di fondi.
Archiviazione invece per l’ex Commissario straordinario, nonostante avesse “la responsabilità del coordinamento di tutte le attività legate alla attuazione di opere strutturali e infrastrutturali”.

Tuttavia, l’abbandono dovuto allo spostamento del summit – costato solo di penale da pagare alla Mita Resort, 40 milioni di euro di risarcimento – è una pratica che tutt’ora chiede di essere risolta. E, da ieri, la responsabilità sarà ufficialmente e legalmente del governo. Sul tavolo del quale, ci sarebbe già la proposta di rilanciare il rottame di lusso – con i relativi costi di risanamento e ristrutturazione – come sede del prossimo summit dei potenti: «la discussione con il governo Renzi, va avanti in modo proficuo, a cominciare dall’ipotesi, che noi apprezziamo molto – esulta il presidente della Regione Sardegna, Francesco Pigliaru – , che il prossimo G7 si tenga proprio a La Maddalena, per rimediare in breve tempo ai danni subiti da quel territorio nel recente passato».

 

«Il reggae entri nel patrimonio dell’Unesco». In Jamaica nasce il comitato per fare richiesta

«Dobbiamo proteggere la storia del reggae come patrimonio immateriale e dobbiamo farlo prima che lo faccia qualcun altro al posto nostro». Parola di Janice Lindsay, direttrice della Divisione Industria culturale e creativa del ministero della Gioventù e della Cultura. Come? La Jamaica ha intenzione di iscrivere il reggae nella lista del patrimonio culturale immateriale dell’Unesco e, a tal proposito, è stata già avviata la formazione di un comitato che preparerà la proposta con l’obiettivo di presentarla all’Unesco a marzo 2017. dove può figurare come bene jamaicano. L’annuncio è stato dato a Kingston durante l’evento Grounation del Jamaica Music Museum (JaMM), il 7 febbraio.

 

La funzionaria ha evidenziato l’importanza che una tale designazione può avere per le future generazioni, dal momento in cui loro «non ce lo perdoneranno se dovranno leggere o ascoltare brani di opere musicali del nostro Paese perché il resto è stato perduto con il passare del tempo». Inoltre, Lindsay ha garantito che l’iscrizione come patrimonio culturale immateriale dell’Unesco sarà il sigillo di una certezza, per mettere nero su bianco qual è «l’origine e il tratto distintivo di un jamaicano».

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L’isola jamaicana, con i suoi nemmeno 3 milioni di abitanti, lunga 240 km e larga 80, è popolata principalmente da discendenti di ex schiavi africani. Dopo secoli di colonialismo – spagnolo prima e britannico poi – ha raggiunto l’indipendenza dal Regno Unito nel 1962. Due anni prima, nel 1960, per identificare un particolare stile di ballo e di musica – che affondava le s radici nel R&B di New Orleans – nell’isola si diffuse il termine di “rozzo”: ragged, appunto. Ma questa non è la sola tesi sull’origine del nome e del reggae. Per alcuni deriva da “regga”, lingua dell’antica civiltà africana dei Bantu. Per altri è una storpiatura di “streggae”, che nello slang delle strade di Kingston era l’appellativo per le prostitute. Poi, c’è la versione di Bob Marley: reggae è una parola dalle origini spagnole e significa «la musica del Re».

Marley Wailers

Il reggae abbatte le frontiere dell’isola e si espande in tutto il mondo negli anni Settanta. Con The Wailers, innanzitutto. Ovvero: Bob Marley, Junior Brathwaite, Peter Tosh e Bunny Livingston. Finché Marley decide di proseguire da solo, portando con sé la cultura rastafari. Il resto è Storia.

 

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Cirinnà al voto. Ma se anche Renzi sventola lo spettro dell’utero in affitto tutto si complica

C’è l’incognita emendamenti, del canguro del Pd contro l’ostruzionismo della solita Lega. C’è l’incognita soprattutto dei voti segreti che renderanno mosso il mare del Senato quando ci si avvicinerà al voto sull’articolo 5, quello della stepchild adoption, e dei relativi emendamenti.
La legge sulle unioni civili è però al voto del Senato, e questo è già un piccolo traguardo puntualmente sbandierato dal Pd, che è comunque convinto di portare a casa la legge. Anche dal palco dell’Ariston è arrivato l’ennesimo segnale di sostegno, e così i dem sono sicuri che già la prossima settimana si possa arrivare al voto finale, passando così la palla alla Camera.

Le ultime ore di dibattito però, al netto dei nastri colorati, hanno invece rafforzato le posizioni di chi si oppone alla stepchild con l’argomento della gestazione per altri, chiamato «utero in affitto». È stato lo stesso Renzi, infatti, pur difendendo l’adozione del figlio del partner e quindi ancora negandone lo stralcio dalla legge, a dirsi contrario: «Pensare che si possa comprare o vendere considerando la maternità o la paternità un diritto da soddisfare pagando», ha scritto nell’enews, «mi sembra ingiusto». Per destre e cattolici democratici l’assist è perfetto.

E così, se Anna Finocchiaro e Luigi Zanda hanno presentato una mozione che raccoglie la posizione del premier – con la fantasiosa richiesta di lavorare affinché la maternità surrogata diventi un «reato universale» – crescono le quotazioni di alcuni emendamenti, tra cui quello del Pd Dalla Zuana, che vorrebbe estendere le pene già previste dalla legge 40 a chi va all’estero a fare la pratica che in Italia resta comunque vietata, ora e dopo la Cirinnà.

Essere illustratori a New York. Olimpia Zagnoli ed Emiliano Ponzi in mostra

In mostra all’Istituto italiano di cultura di New York, fino all’11 marzo Una Storia Americana ovvero una selezione degli ultimi lavori di Emiliano Ponzi e Olimpia Zagnoli, due degli illustratori italiani più conosciuti negli Stati Uniti e nel mondo. Le tavole dei due artisti sono comparse sui maggiori magazine e giornali europei e americani, deliziando i lettori dalle pagine di Los Angeles Times, MTA Transit, New York Magazine, Washington Post, New York Times, o con le copertine del New Yorker, della sua versione parigina The Parisianer, di Newsweek e dei famosissimi Penguin Books.

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Emiliano Ponzi per The Economist

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La cover di Olimpia Zagnoli per The Parisianer

Zagnoli e Ponzi si caratterizzano per uno stile riconoscibile e molto diverso l’uno dell’altro: se la prima infatti punta su simmetrie, linee curve, astrattismi e colori decisi, l’altro preferisce dare vita a immagini romantiche, caratterizzate da colori tenui, allo stesso tempo urbani e malinconici. Dei suoi lavori Nicholas Blechman, art director del The New York Times Book Review ha detto: «Queste illustrazioni sanno come essere universali senza essere generiche». Qui sotto una gallery delle opere in mostra a New York e alcune fra le copertine e opere più belle realizzate dagli autori.

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Illustrazione di Emiliano Ponzi

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Emiliano Ponzi ritratto da Olimpia Zagnoli

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Illustrazione di Olimpia Zagnoli

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Olimpia Zagnoli ritratta da Emiliano Ponzi

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Illustrazione di Olimpia Zagnoli

Dalla mostra Una storia americana anche un libro catalogo edito da Corraini che ospita delle interviste e molte delle tavole con cui i due artisti indagano il loro rapporto con la Grande Mela. Sotto qualcuna delle pagine del volume:

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emiliano ponzi una storia americana

 

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Ma quali terroristi, con Natakallam i rifugiati siriani danno lezioni di arabo agli studenti occidentali

natakallam rifugiati siriani insegnanti

Si chiama NaTakallam e significa: “Parliamo”. NaTakallam è una piattaforma online dove chiunque può iscriversi e imparare l’arabo conversando via skype con uno dei profughi siriani che sono fuggiti dalla guerra civile nel vicinissimo Libano. Il meccanismo è piuttosto semplice ci si iscrive su natakallam.com e si entra in contatto con un rifugiato che ci farà da insegnante di arabo via skype. Lo scopo della piattaforma da un lato è quello di dare agli studenti la possibilità di esercitarsi e migliorare la loro conoscenza della lingua dialogonado gli uni con gli altri, dall’altro quello di fruire anche di un’esperienza culturale unica che ha l’indubbio vantaggio di aprire la mente, permettere di capire meglio quello che sta accadendo nel mondo e soprattutto di offrire un lavoro part-time a molti ragazzi sfollati dalle loro case che hanno difficoltà a trovare lavoro in Libano. L’idea che ha dato vita a NaTakallam è venuta alla giovane newyorkese di origini libanesi Aline Sara. Aline, 30 anni e un master in International Affairs alla Columbia University, si accorge che spesso non ha nessuno con cui conversare per mantenere un buon livello di conoscenza della lingua araba, una lingua che «non si impara facilmente sui libri» e poi «ci sono decine di dialetti diversi – continua Aline -, molto lontani dalla lingua scritta “ufficiale”. Per me l’unica opportunità di fare pratica era affidarmi a un tutor privato. Ma è molto costoso e a volte non è nemmeno facile trovarne uno». E così cercando una soluzione a questo problema Aline finisce per pensare qualcosa di molto più grande e ambizioso: una piattaforma che permetta non solo di imparare l’arabo ma anche ai rifugiati siriani di Beirut di reinventarsi come insegnanti per stranieri. Nel 2015 Aline coinvolge nella realizzazione del progetto due suoi colleghi universitari e realizza natakallam.com. La piattaforma si appoggia a una ong locale, attraverso la quale seleziona degli insegnanti qualificati, tutti parlano un inglese fluente, ma soprattutto sono persone che «hanno un gran bisogno sia di avere dei soldi sia di potersi sentire di nuovo utili. In genere infatti sono ragazzi e ragazze altamente qualificati, sono dottori, avvocati, ricercatori e professori, ma, per lo status giuridico che hanno nel Paese che li ospita, non sono autorizzati ad avere un lavoro a tempo pieno» spiega Aline. Le lezioni richiamano studenti da tutto il mondo, anche diversi italiani, e sono organizzate per pacchetti di ore in modo da andare incontro alle esigenze di chi vuole imparare in modo flessibile. In genere però Natakallam è più adatto per chi è già a un buon livello (in genere ragazzi fra i 20 e i 30 anni) e infatti le conversazioni si svolgono quasi esclusivamente in arabo. Le difficoltà incontrate dalla piattaforma sono state per lo più di natura tecnica, la connessione internet a cui hanno accesso i profughi siriani in Libano non è sempre delle migliori, ma in genere gli studenti si dimostrano comprensivi e soprattutto, spiega sempre Aline, tra insegnanti e allievi «si insatura presto un forte rapporto umano. Se ci fossero più iniziative come queste ci sarebbero meno incomprensioni culturali nei confronti del tanto discusso mondo arabo». E forse ci abitueremmo a pensare con più facilità a un arabo come a un insegnante piuttosto che come a un terrorista.

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Sanders e Trump: la rivolta vince in New Hampshire. Le primarie saranno lunghe

«Nove mesi fa non avevamo organizzazione né soldi e inseguivamo la più potente macchina politica in America. Stanotte abbiamo vinto grazie all’energia di cui il partito democratico ha bisogno e grazie a una partecipazione record. Questo è quel che succederà in tutto il Paese». Questa è la promessa fatta da Bernie Sanders dal palco dopo aver preso il 60% dei voti dei democratici del New Hampshire.

Gli anti Washington hanno vinto in New Hampshire. Non è una sorpresa: i sondaggi davano in vantaggio Donald Trump e Bernie Sanders da mesi e l”umore degli elettori raccontato dai cronisti era quello di una popolazione stanca di come vanno le cose a Washington. La vera sorpresa della serata è il secondo posto di John Kasich, ne parliamo tra un momento.

Prima segnaliamo che Bernie Sanders ha vinto molto, anche se è quanto previsto dai sondaggi, ma è lo stesso un trionfo: mesi fa il senatore socialista democratico del Vermont era dietro di molti punti, negli ultimi giorni il team Hillary ha lavorato molto per stargli dietro invece di lasciar andare lo Stato e, allo stesso tempo, ha diffuso spin, come si dice, su come una sconfitta di Clinton fosse molto probabile. Oggi possono dire “ve lo avevamo detto, non c’è nessuna sorpresa”.

Vero. Ma basterà a far dimenticare a Clinton il fantasma del 2008? Quanta spinta riceverà la rivoluzione promessa da Bernie Sanders dopo questa vittoria? Quanti nuovi volontari partiranno per la South Carolina e che capacità avrà il senatore anti Wall Street di dialogare e intercettare il voto delle minoranze cruciale per vincere in South Carolina e Nevada? Vedremo presto, dietro a Sanders sul palco ieri notte c’erano più neri della media con una certezza: Sanders non è una meteora e la sua corsa cambia il partito democratico, lo ancora a sinistra, costringendo Hillary a rilanciare la sua idea di riforma delle banche (meno aggressiva, ma certo un cambiamento) e a corteggiare le minoranze con proposte su welfare e immigrazione. Grazie a Sanders i democratici dialogano con i giovani liberal e con tutti quei movimenti e campagne che da mesi animano la società americana. Per i democratici è una forza, se sapranno usarla. Tanto più che, come dimostrano i dati sull’affluenza alle urne, Sanders porta gente a votare. Dovesse perdere dovranno usarlo in campagna elettorale. E lui ha già detto di essere pronto: «Qualsiasi cosa succeda dobbiamo impedire che i repubblicani tornino alla casa Bianca» ha scandito.

Il campo repubblicano è messo molto peggio. Diviso come non mai, con un frontrunner, Donald Trump, che ha preso più voti di quanto i sondaggi gli assegnassero (35%) e senza che dietro nessuno riesca davvero a impensierirlo. Il secondo posto di Kasich, moderato e presentabile governatore dell’Ohio, è un segnale di questo. La campagna per le primarie sta sgretolando una campagna dopo l’altra. L’ultima vittima, che certo andrà avanti, è Marco Rubio. Uscito dall’Iowa con il vento in poppa, il candidato che studia ogni mossa, diligente, conservatore e moderto quanto basta, non è piaciuto alla gente del New Hampshire. Quarto con il 10,6%, dietro Kasich, Cruz e Bush (che anche lui non si sente troppo bene).


I numeri: spaventosi per Clinton e per il partito repubblicano

La coalizioni sono essenziali per vincere le elezioni. Sanders ne ha costruita una credibile in New Hampshire. I giovani lo scelgono nell’83% e sono un sonoro 19% degli elettori (un segnale di grande motivazione in uno Stato anziano). Gli indipendenti scelgono Bernie al 72% e, questo è un segnale di forza enorme, le donne stanno con Bernie nel 55% dei casi, 4 a 1 tra le under 30, 2 a 1 per Hillary tra le over 65. Unica nota positiva per Hillary: chi vota Sanders sarebbe abbastanza soddisfatto anche di una presidenza Clinton.

Nel partito repubblicano la voglia è quella di cambiamento radicale: tutti sono insoddisfatti di come vanno le cose a Washington e il loro partito non gli piace. Un elettorato arrabbiato e scontento: 6 elettori su dieci vogliono un candidato fuori dall’establishment e metà hanno deciso all’ultimo momento (Kasich si è mangiato così Rubio). Il 29% degli elettori repubblicani si dichiara molto conservatore, nel 2010 erano il 21%.

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Chi sceglierà l’establishment per fermare Trump? Il problema è che il New Hampshire non ha ristretto il numero di contendenti come si sperava, anzi, il secondo posto di Kasich rimette in gioco anche lui. Almeno per qualche tempo. La speranza era quella di un risultato decente di Rubio, così non è andata e Kasich nei prossimi Stati è sotto al 10%. Non è l’anti Trump. Al momento l’unico altro repubblicano che può davvero sorridere sembra Ted Cruz, che per il partito è quasi peggio del miliardario newyorchese: questo non era il suo Stato, non ci ha investito, è arrivato terzo. In South Carolina, dove la religione pesa, arriverà almeno secondo. A meno che il partito non trovi una formula magica per fare in modo che un candidato presentabile scali i sondaggi. Sono mesi che ci provano, non ci sono riusciti. Il New Hampshire ha complicato le cose. Nel suo discorso Trump ringrazia i candidati, l’RNC, la macchina organizzativa del partito e il suo capo Rience Priebus. Insomma, prova a rendersi accettabile. Tra lui e Cruz, è innegabilmente più forte lui.

Il Granite State per alcuni è una marcia funebre: Chris Christie, Jeb Bush, Carly Fiorina e Ben Carson dovrebbero togliersi di torno. Se non lo faranno è solo per orgoglio personale. Ora si passa alla South Caroina e al Nevada, ogni volta è una corsa nuova, fatta di condizioni economiche, composizione demografica e sociale diversa. Quel che sembra di capire, però, è che gli americani, di sinistra e di destra, sono a caccia di cambiamento radicale. Come già nel 2008 e al midterm del 2010. E che se le cose non cambieranno nella dinamica della campagna, avremo Bloomberg terzo candidato indipendente. Chi saprà convincere di essere allo stesso tempo un agente di trasformazione e in grado di deliver, produrre risultati, vince le elezioni. Speriamo non sia Donald Trump.