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Clinton e Sanders litigano (ma solo un po’) prima del New Hampshire

Democratic presidential candidate, Hillary Clinton and Democratic presidential candidate, Sen. Bernie Sanders, I-Vt. speak during a break at the NBC, YouTube Democratic presidential debate at the Gaillard Center, Sunday, Jan. 17, 2016, in Charleston, S.C. (AP Photo/Mic Smith)

La verità è che i dibattiti tra Sanders e Clinton non sono divertenti come quelli tra repubblicani. Non solo manca Donald Trump ad agitare le acque, ma tutto sommato, anche se l’incertezza della corsa ha prodotto un innalzamento dei toni, c’è rispetto reciproco. Le ultime frasi che i due si sono detti, a tre giorni dalle primarie in New Hampshire (che Sanders vincerà quasi certamente) sono: «La prima persona che chiamerei per discutere del futuro, in caso di vittoria della nomination, è il senatore Sanders»; «A volte in queste campagne i toni si alzano un pochino, ma io rispetto molto la Segretario di Stato e, anche nei nostri giorni peggiori, entrambi siamo cento volte meglio di qualsiasi candidato repubblicano». L’applauso più entusiasta del pubblico arriva qui.

Tre minuti di dibattito


Non che Hillary e Bernie siano d’accordo su tutto, no. Il senatore del Vermont accusa Clinton di essere troppo vicina ai poteri forti della finanza che sono una delle rovine del Paese e contribuiscono a mantenere alte le diseguaglianze: «Clinton rappresenta l’establishment, io mi sforzo di rappresentare la gente comune». Dal canto suo, l’ex senatrice di New York sostiene che il suo ex collega non abbia credenziali abbastanza solide in politica estera per tempi difficili come quelli che viviamo. E che accusarla di essere un pezzo dell’establishment del Paese, quando è la prima donna di sempre a correre per la presidenza, sia sbagliato. È un argomento. Come anche quello di Sanders sulla vicinanza a Wall Street. Questo è comunque il tasto sul quale Hillary è in difesa e si irrita: «Se il senatore vuole ricordare una volta in cui ho cambiato le mie posizioni perché pressata da Wall Street lo dica, oppure la smetta di insinuare». È il momento più duro del dibattito e Clinton riesce a rispondere non male. Hanno ragione entrambi. Ma per quanto i media raccontino lo scontro come duro – e su questo aspetto i toni si sono leggermente alzati – non siamo di fronte a una battaglia per colpi bassi.

Sanders è bravo rispondendo sul suo punto debole: «Io ero per parlare con l’Iran e mi si diceva fossi naive, non lo ero. E sull’Iraq, davanti alle stesse prove che anche Clinton vide, io votai no. La politica estera non solo esperienza ma capacità di giudizio».

Una campagna è così, qualche accusa bisogna pur lanciarla e le differenze tra i due ci sono, proprio sull’atteggiamento da tenere nei confronti di ricchezza e finanza nell’America in cui sono cresciute le diseguaglianze. Sanders qui attacca con facilità, ha proposte chiare e un pedigree immacolato. Clinton deve giocare sulla difensiva: «Evidentemente non ho spiegato abbastanza la mia posizione sulla riforma di Wall Street». Ma la gara vera è tra chi dei due può vestire con più orgoglio la maglietta con su scritto “progressista”. Clinton spiega: «Secondo la definizione di Sanders nemmeno Obama è progressista, io sono una progressista che produce risultati, e la radice della parola progressista è progresso».

Ma i due sono quasi d’accordo sulla necessità di una drastica riforma del sistema penale: troppi innocenti nei bracci della morte dice Clinton, Sanders ribadisce il suo no alla pena di morte: «Il governo non dovrebbe prendere parte a uccisioni». Anche sulla crisi delle acque a Flint, Michigan, dove per risparmiare soldi pubblici si è fatta bere acqua al piombo per mesi alla gente i due concordano, e si distinguono sulla riforma sanitaria nel senso che una vuole difendere Obamacare e l’altro vuole espanderne la portata per creare un sistema di sanità pubblica per tutti (che avrebbe molto senso, visti i folli costi amministrativi della sanità privata americana).

Entrambi hanno argomenti sulla loro forza come candidati: «I democratici vincono quando molta gente va a votare, io porterei l’entusiasmo necessario» dice Sanders. «Io sono la candidata più esperta e solida per battere i repubblicani e vincere le elezioni», dice Clinton.

Una cosa appare però chiara, nonostante qualche scambio un po’ acido in quello che fino a oggi è stato il confronto più duro tra i due – che per la prima volta erano da soli, dopo il ritiro di Martin O’Malley – c’è meno luce tra i candidati democratici che tra Cruz, Rubio e Trump. A Clinton resta il problema dell’entusiasmo e a Sanders quello della credibilità per la presidenza. Il senatore socialista democratico avrebbe potuto azzannare di più quando a Clinton è stato chiesto “divulgherai i dati su quanti soldi hai guadagnato dando discorsi publbici?” e lei ha aggirato la domanda. In fondo, sembra di capire dal tentativo di entrambi di accostarsi a Obama, i due hanno chiara una cosa: occorre fare di tutto per non aiutare i repubblicani a tornare alla Casa Bianca. Per una volta, non capita spesso, i democratici sono più uniti dei repubblicani, che per quanto si facciano la guerra, poi marciano compatti contro l’avversario: entrambi rifiutano di rispondere su questioni personali che circolano sui media o in rete. Martedì si vota in New Hampshire, vincerà Sanders che avrà così una ragione in più di continuare una corsa che genera entusiasmo, per Clinton ogni risultato sopra il 40% è ottimo.

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E chissà che desolazione gli verrà a dio, a guardare quaggiù

Ecco, ci mancava il solone pediatra che spaccia l’opinione personale travestita da scienza. E tutti dietro in coro. Poi, appena si accende la miccia, basta tirarsi indietro che tanto poi le fiamme si faranno strada anche da sole. Così il dottor Giovanni Corsello, presidente della Società Italiana di pediatria, dopo avere lanciato il sasso parlando di presunte incertezze nello sviluppo di bambini adottati da coppie gay, in una nuova intervista dichiara mesto mesto di non aver voluto alzare un polverone ma semplicemente «portare un contributo positivo al dibattito». Genio: un po’ come bruciare uno stadio e scusandosi ammettendo di avere voluto rendere semplicemente la partita più avvincente.

Eppure nel grande circo del guazzabuglio sulla legge Cirinnà è stata riaperta la palestra delle bugie sparate a palle incatenate: non conta che ciò che dici sia vero, l’importante è che sia detto ad alta voce e ripetuto incessantemente, se possibile all’infinito. Così con la stessa tecnica per cui ci rimane in testa il motivetto di una marca di dentifrici o detersivo per pavimenti anche la storiella dei bambini che soffrono è entrata piano piano nelle orecchie di tutti. E “se lo dicono dappertutto ci sarà qualcosa di vero”, dicono gli ingenui. Per tarpare i diritti dei gay si è pensato bene, in questo animalesco dibattito (che rimarrà nella storia come uno dei periodi più pelosi della politica quando si fa bieca), di usare la carne fresca dei bambini. Non ci voleva Adinolfi per capire che i bimbi (insieme alle mamme e ai marò) sono la leva più funzionale per mistificare la discussione. I bambini stanno al Family Day come i gattini a Facebook: se serve una sporta di “mi piace” basta proiettare la possibilità che possano essere tristi, infelici e isolati. Il botto è assicurato.

La tecnica è semplice e si può applicare a tutte le situazioni: esci dal merito della questione, frolla un po’ di basso spavento e una fetta di indignazione, inverti le vittime e i carnefici, sminuzza i diritti in egoismi di qualcuno, riporta esperienze (false) così numerose da essere potabili e agita la coda della catastrofe imminente. Impastare bugie a forma di verità è un gioco di ingredienti e soprattutto di quantità: litri di bugie versate dappertutto fino alla sensazione di sdrucciolare. Funziona applicato ai “bambini dei gay” ma anche all’innocenza di Andreotti, al libero mercato o al rispetto della Costituzione: conta la sensazione. E basta.

Così siamo finiti ad ammaestrare sensazionalismi pur avendo perso il tatto delle situazioni: discutiamo di qualcosa qualsiasi ritenendoci portatori delle esperienze degli altri senza preoccuparsi che ne esistano in giro qualcuno degli “altri” che ci siamo (o ci hanno) martellato in testa. Avete sentito in questi giorni qualche studio scientifico a supporto delle tesi in discussione? Nessuno. Ci hanno convinto che l’opinione certificata dalla professione debba bastare: un pediatra diventa “alcuni pediatri”, una madre diventa “molte madri”, un prete diventa “la Chiesa”, un luogo comune diventa un “sentire diffuso”. E continuiamo così, di seguito, a parlare di niente.

In Parlamento ci sono già i numeri perché passi la legge sulle unioni civili. Ci sono i voti, semplicemente. E banalmente serve solo che il teatrino della minoranza (chiassosa ma minoranza, retrograda minoranza rispetto al resto del mondo) possa fingere di fare rumore per dare l’idea di combattere. Alfano e i suoi servono fingendo di non esser servi, i soliti bigotti (pediatri, dentisti, preti, insegnanti o personaggetti che siano) si ritagliano lo spazio per posizionarsi e tutti gli altri si sorbiscono quest’aria malsana di veleno sparso. Spara una bugia ma sparala forte. Combatti quel poco che basta per far comparire una coccarda appesa al petto. Altro che antipolitica: siamo nell’era dell’affettività stuprata dall’esibizionismo. E ce la vorrebbero insegnare, pensa te, l’affettività.

Buon venerdì. Anche al prossimo che oggi si inventerà un cazzata qualsiasi per poter dire “io c’ero”, io “ho combattuto”. E chissà che desolazione gli verrà a dio, a guardare quaggiù tra frati impagliati, preti che augurano la morte e obiettori per acquiescenza.

Il video del #FriendsDay di Matteo Renzi

matteo renzi amici

Per Facebook è la giornata degli amici e così abbiamo immaginato che post avrebbe potuto pubblicare sulla sua bacheca il premier Matteo Renzi, ecco il risultato in un video che il social di Zuckerberg ci ha impedito di pubblicare:

E Marino su “Affittopoli” punzecchia Giachetti e Morassut

Rome's Commissioner Francesco Paolo Tronca (C) applaudes the illumination of Sant'Angelo Bridge with French national colours blue, white and red as commemoration of the Rome-Paris friendship's 60th anniversary in Rome, Italy, 30 january 2016. ANSA/GIUSEPPE LAMI

Non dice ancora quale sarà il suo destino: «Non c’è nessuna scadenza, non c’è nessuna rivelazione da fare, nessuna candidatura», dice Ignazio Marino a RepubblicaTv, «in questo momento sto riflettendo su quello che abbiamo fatto in questi ventotto mesi di governo». Non dice se si candida alle prossime amministrative Marino, ma continua ad accusare il Pd, partito di cui ha però rinnovato la tessera: «La pulizia e la trasparenza a molti non piace», ha detto, «penso che questo sia l’elemento per cui sono stato allontanato».

Nel giorno in cui esplode la polemica su affittopoli Marino evita anche di esprimere preferenze sui due candidati che si sono per ora fatti avanti nelle primarie dem, Roberto Giachetti – incoronato da Renzi e i suoi – e Roberto Morassut, deputato, già assessore all’urbanistica ai tempi di Veltroni. Per loro Marino ha però una doppia stoccata: «Io non conosco i loro programmi», ha detto fingendo di smarcarsi dalla domanda su un’eventuale preferenza, «quando ci faranno conoscere le loro idee le potremo commentare».

L’ex sindaco però poi aggiunge: «So però che su un tema come affittopoli negli anni 90 con la giunta Rutelli e negli anni 2000 con quelle di Veltroni avevano avuto la possibilità di fare le operazioni di trasparenza che abbiamo fatto noi». E, si intende, non le hanno fatte.

Marino sostiene infatti il fatto che lo stesso Tronca nel denunciare l’affittopoli del centro storico romano si basi su un lavoro cominciato dalla sua amministrazione («Diedi indicazioni prima al vicesindaco Nieri e poi all’assessore Cattoi per realizzare una mappatura del patrimonio immobiliare. Infatti ciò che il commissario del governo Renzi ha portato alla ribalta è ciò abbiamo messo a marzo 2015 sul sito del Comune. Inoltre, in piazza Giovanni da Verazzano, nella “Casa della città”, si può sapere a chi è affittato l’edificio e come è gestito», ha detto il sindaco). E invece se Morassut era assessore con Veltroni, Giachetti – ecco la stoccata di Marino – era a capo della segreteria di Rutelli. E in quegli anni, anzi, si sono fatte le famose cartolarizzazioni, con molti affittuari fortunati che hanno potuto comprare a costi molto più bassi di quelli di mercato.

Gioca anche tu con Donald Trump (che a perdere in Iowa proprio non ci sta)

Un’agenzia di comunicazione svedese ha messo su il sito trumpdonald.com, un giochino come un altro con il quale potete suonare una tromba nelle orecchie del miliardario newyorchese e far volare il suo enorme riporto di qua e di la. È una delle migliaia ispirate dalla campagna elettorale negli Stati Uniti. Ogni quattro anni, da quando nel 2008 la politica ha fatto la sua irruzione prepotente in rete con la campagna Obama, sostenitori e detrattori dei candidati giocano a costruire pagine fittizie, montano video e producono Gif a favore o contro i candidati.
Qui potete suonare una tromba nelle orecchie del miliardario newyorchese e far volare il suo enorme riporto di qua e di la.
Quanto a Donald quello vero, @realDonaldTrump come si chiama su Twitter, dopo aver accettato umilmente la sconfitta in Iowa, ha deciso di di tornare all’attacco. Nono solo bombardando il vincitore Ted Cruz di attacchi sulla sua qualità di politico, ma prendendolo di mira per quella che definisce la truffa ai danni degli elettori dell’Iowa. Secondo Trump, la campagna del senatore del Texas che ha vinto nei caucus dell’Iowa ha inviato messaggi e informazioni false e fuorvianti agli elettori. Ha quasi ragione. La campagna Cruz ha fatto due cose: twittare dei messaggi secondo i quali Ben Carson, l’afroamericano religioso arrivato quarto in Iowa, era partito per la Florida e avrebbe fatto un importante annuncio in serata – un modo di dire che stava per ritirarsi dalla corsa – e che quindi tutti i suoi sostenitori potevano votare per Cruz – la cosa più simile a Cruz dal punto di vista dell’elettorato evangelico. Due informazioni più o meno false e un’insinuazione, che forse hanno penalizzato Carson; la campagna Cruz avrebbe anche mandato a molti elettri la lettera qui sotto, un falso, che dice «Siamo la commissione elettorale e tu hai un profilo che non va per niente bene perché hai votato poco» (cfr il tweet di Trump qui sotto).


Lettere di questo tipo, che non dicono nulla di chiaro, perché altrimenti sarebbero un reato penale, provengono da organizzazioni che non esistono ma che suonano come fossero istituzioni ufficiali e tendono a incoraggiare o scoraggiare la gente ad andare a votare, spaventando e millantando multe o colpevolizzando il cittadino. È un gioco che funziona con la parte più ignorante e marginale dell’elettorato. Evidentemente lo staff di Cruz, che ha fatto un enorme lavoro sui BigData, ha individuato un numero di persone ideologicamente affini a lui e, incrociando i dati, ha scoperto che queste tendono a non partecipare ai caucus. Sono queste le persone che hanno ricevuto una lettera. Si tratta di tecniche pessime che, come molte altre, vengono usate dalle campagne. E Cruz sembra essere stato colto sul fatto. Tra l’altro, su The O’Reilly Factor, trasmissione di punta di Fox News, sia il conduttore che Karl Rove, lo stratega di George W. Bush, hanno più o meno dato ragione a Trump.

Altrettanto interessante è che Trump abbia deciso di alzare il polverone, dopo un giorno di umiltà ha ripreso il suo stile: toni alti e forti e attacchi agli avversari. Con Cruz preso di mira per primo, perché vero avversario in quella parte dell’elettorato repubblicano destinata a votare per lui. Funzionerà o sembrerà la mossa di uno che non ci sta a perdere?

Due altre notizie brevi:

  • Rand Paul e Rick Santorum si sono ritirati dalle primarie. Entrambi hanno una base di destra, benché diversa. Nel 2012 in New Hampshire, dove si vota martedì prossimo, Ron Paul, padre di Rand e campione dell’ala libertaria della società americana, arrivò secondo nello Stato. A chi giova il ritiro di Rand? Trump e Cruz sono i primi indiziati.
  • Stanotte Hillary Clinton e Bernie Sanders si confrontano in New Hampshire. In un incontro Tv con domande dei telespettatori, andato in onda ieri, i due hanno fatto a gara a definirsi come progressisti.

Dove va l’Europa dei muri se Schengen va in pezzi

Una volta Metternich disse dell’Italia: «È una questione geografica». Ebbene, lo stesso si potrebbe dire dell’Europa, alla luce degli ultimi muri e delle frontiere chiuse ai migranti. È questo il filo della cover di Left in uscita il 6 febbraio, aperta da un quadro storico-politico del direttore Corradino Mineo. Da una parte, i nodi dell’oggi che il premier Renzi si trova costretto a sciogliere, nella fragilità del suo governo, tra l’inflessibilità tedesca e la crisi degli Stati nazionali, dall’altra, il peso dell’eredità di uomini come Altiero Spinelli, ma anche più vicini a noi, di Francois Mitterand e Helmuth Kohl che volevano costruire una casa comune europea. Left racconta poi con focus specifici i conflitti e le crisi: Londra e la tentazione del Brexit, la sfida di Budapest e l’Est europeo che si chiude sempre di più, quelle infinite sei miglia tra Turchia e Grecia, ormai rotta di tragedie umane e la trappola per profughi che sta diventando la Grecia, una volta abolito il trattato di Schengen. Infine un intervento di Zygmunt Bauman che sostiene la necessità di «rimettere al centro la dignità umana, combattendo l’ignoranza».
C’è un grande problema da risolvere a Sud. È l’Ilva di Taranto per la cui acquisizione stanno scadendo i termini. Left fa il punto raccontando cosa si muove dietro le cordate di imprenditori interessati al tempio dell’acciaio italiano. «No, no. Le primarie no. Ne ho fatte abbastanza»: uno scrittore, Tito Faraci, parla della Milano che domenica voterà il candidato per il centrosinistra. Che cosa significa produttività? Lo spiega Marco Craviolatti: l’Italia è in ritardo rispetto agli altri Paesi europei: da noi si spreme il lavoratore ma non si pensa all’innovazione. E tanto per capire come si muovono le imprese, un focus sull’Ericsson dove si fa il gioco dei tre contratti…
Un anno dopo l’attacco di Boko Haram Left compie un viaggio tra le strade e la gente di Diffa, la città del Niger funestata dai “terroristi neri”. Intanto l’Italia si appresta a prender parte all’intervento militare in Libia ma sono troppe le incognite tra l’avanzata dell’Isis e la debolezza degli interlocutori locali. Le primarie democratiche negli Usa si fanno incandescenti e Left racconta le potenzialità di Bernie Sanders e le debolezze di Hillary Clinton. Come stanno gli Stati Uniit? Un ritratto d’artista è quello fatto da Quentin Tarantino, con il film The Hateful eight, in cui il re del pulp, tra razzismo e spargimenti di sangue, racconta l’America di oggi. E ancora: il fumetto attraverso le voci di cinque disegnatrici, mentre per la scienza la ricerca della materia oscura con il satellite cinese Wukong. Infine, per gli spettacoli, l’incontro con due cantanti: il baritono Leo Nucci e l’ultimo fenomeno del pop italiano, Calcutta.

Corruzione e torture, tornano le Pussy Riot e non hanno cambiato idea su Putin

«Guido la guerra contro la corruzione, anzi, per essere precisi, guido la corruzione». L’ultimo video delle Pussy Riot, più famose per le loro performance a sorpresa e per i loro metodi situazionisti anti-Putin che per le loro canzoni, è online. Stavolta le ragazze russe se la prendono con il procuratore capo russo Yuri Chaika, che le ha incriminate nel 2012 dopo il concerto nella cattedrale del Cristo Salvatore a Mosca. Due delle tre Pussy Riot passarono più di un anno in carcere, per poi essere liberate con l’amnistia in occasione delle Olimpiadi invernali di Sochi. Chaika è stato accusato di corruzione e suo figlio viene collegato alla proprietà di ville di lusso in Svizzera e Grecia, assieme alla moglie del vice-procuratore capo. Le accuse vengono da Alexey Navalny, oppositore che denuncia la corruzione del Paese (l’intervista video di The Guardian, in inglese, qui sotto). Nel video si rappresentano in maniera sarcastica i trattamenti nei confronti dei prigionieri.

«Siate umili, imparare ad obbedire, non curatevi delle cose materiali…figliolo non preoccuparti delle cose materiali, sii fedele a Putin…se vuoi passarla liscia anche se commetti un omicidio, sii sempre fedele al capo» è un passaggio del testo.

Qui sotto un video del Guardian sulla corruzione in Russia

I bombardamenti e la guerra in Siria visti dall’alto

siria guerra civile droni

Il reporter russo Alexander Pushin insieme ad alcuni colleghi ha creato il sito russiaworks.ru sul quale racconta la guerra in Siria attraverso una serie di riprese effettuate con un drone aereo. Pushin ha iniziato a realizzare i video all’inizio di quest’anno, probabilmente spinto anche dal sempre maggiore coinvolgimento della Russia nella guerra civile siriana che dura ormai da cinque anni. In tutto il Paese i morti sono ormai più di 250mila dei quali 66mila civili, le persone che hanno dovuto lascire le loro case sono oltre 11 milioni, più della metà dell’intera popolazione, 12,2 milioni è invece il numero di coloro che necessitano con estrema urgenza di aiuti umanitari.
Ecco quindi come è la situazione vista dall’alto:

Bombe su una città ormai fantasma vicino a Damasco

Scontri armati a Daraya

Battaglia a Damasco

Ed ecco un video che mostra come lavora il team di Pushin per filmare la guerra siriana:

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Acido fenico, santità e silicone. È arrivato Padre Pio!

L'arrivo della salma di San Pio a San Lorenzo fuori le Mura ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Forze speciali, materassi ammortizzanti (dovesse rovinarsi) e teche antiproiettile (arrivasse il pazzo), così Padre Pio è arrivato a Roma. E per sette giorni (fino all’11 febbraio) ogni giorno, saranno impegnati almeno 800 tra poliziotti, carabinieri e finanzieri per garantire la giusta tranquillità al suo soggiorno nella capitale (quasi fosse vivo!). L’ha voluto Francesco il frate di Pietrelcina, per scuotere questo Giubileo troppo sottotono. Deve aver pensato a quei trecentomila fedeli che nel 2002 avevano affollato piazza San Pietro per la canonizzazione. E allora ha organizzato il tour, sette giorni di passione tra processioni, messe e ostensione del  corpo di uno dei “santi” più discussi dei nostri tempi e meno “misericordiosi” che io ricordi di aver studiato. Ancora oggi alter Christus per i suoi i devoti, falso messia per la nomenklatura di allora, il cappuccino di Petralcina da vivo fu al centro di grandi polemiche e da morto di avventure persino incredibili, se non fossero vere.

Già perché il suo corpo, da vivo, fu protagonista di uno dei gialli più cult della Chiesa cattolica, quello dell’origine delle sue stigmate. “Isterismo” per padre Agostino Gemelli (la sua diagnosi del 1920: «È un bluff… padre Pio ha tutte le caratteristiche somatiche dell’isterico e dello psicopatico… Quindi, le ferite che ha sul corpo… fasulle… frutto di un’azione patologica morbosa… Un ammalato che si procura le lesioni da sé… si tratta di piaghe, con carattere distruttivo dei tessuti… tipico della patologia isterica»); truffa, come testimoniano alcuni documenti studiati da Sergio Luzzatto (indimenticabile il suo libro, Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, 2007), biglietti autografi in cui il frate chiedeva ad una sua devota (e farmacista) di procurargli in gran segreto flaconi di acido fenico (che causa bruciature alla pelle) e, soprattutto, di veratrina, una sostanza fortemente caustica. Cioè di farmaci che, applicati su mani e piedi, avrebbero potuto lacerare i tessuti.

Ma anche da morto. Perché quando i frati di San Giovanni Rotondo, nella notte tra il 2 e il 3 marzo del 2008 riaprirono la bara per ostendere il loro eroe,  il suo corpo si era corrotto. E i corpi dei santi, si sa, non si corrompono, sono santi. Anzi profumano. Di fiori o di frutti. Violette, fragole, ma certo non maleodorano e non diventano neri. Sono le regole base per diventare santo. E invece lui era nero, troppo nero. E i cappuccini dovettero correre ai ripari, perché così non potevano mostrarlo. “Lo mascheriamo”, hanno pensato. Poi hanno trovato un’azienda inglese specializzata in trucchi che gli ha fatto il “miracolo”. Ha realizzato una maschera di silicone che è stata sovrapposta perfettamente a quel volto troppo nero, che avrebbe potuto impressionare i fedeli “più sensibili”. Che non avrebbero capito quella corruzione così “umana”. Troppo simile ai loro morti. E così il tronco, quello lo coprirono con un saio e i piedi, con delle calze. Ma le mani, anche quelle erano nere, quasi non si riconoscevano. Allora presero i mezziguanti che padre Pio portava sempre, “per proteggere” le famose stigmate. Così oggi questo potete vedere, dieci pezzi di dita nere e una maschera di silicone. Del resto già nel ’60 Giovanni XXIII lo aveva definito «un idolo di stoppa». Di cui oggi, evidentemente, Francesco non può fare a meno. È la Chiesa, bellezza!

 

Provate il gusto di andare controcorrente

Sembra difficile ma è semplice e alla fine quasi curativo: andare controcorrente mica per forza ma per il gusto di credere in qualcosa credendoci davvero. Succede, ad esempio, che su questioni di etica, di lavoro o di politica l’enfasi si accenda contro qualcuno o sull’affiliazione fideistica: o stai con Renzi o sei contro Renzi, o sei con Grillo o sei un anti grillino oppure sei gay o contro i gay. Le vie intermedie spariscono. Puff. E le due correnti opposte segnano il passo decidendo i sentieri da seguire.

Così succede che la politica si trasformi nella mammella stitica di qualche biberon pronto ad ingrassare “l’influencer” di questo o quel partito. Guardate quello che è successo ieri: Luttazzi e Scanzi si sono sfanculati fingendo di parlare di Benigni mentre osteggiavano Grillo. E tutti dietro ad annusare la scia di bava lasciata dalla sfida. Tanti clic. Tanta felicità.

Provate il gusto di andare controcorrente. Ma mica nella corrente contraria che risulta perfetta e alla moda, no: proprio nella corrente contro tutte le correnti. Dentro quel cunicolo scomodo ma altamente soddisfacente che vi porta a elaborare idee personali, senza l’obbligo di congruenza con l’esistente, senza l’ossessione di stare comunque in una corrente di pensiero numerosa.

Martellarsi un pensiero personale, senza l’ansia di avere un #hashtag che possa diventare pop, con la bella dignità della propria storia, liberi dalla conformazione del sentire comune oppure semplicemente per affermare quello che pensate. Insomma: c’è uno spazio in mezzo ai post o agli articoli che vanno per la maggiore, tra quelli più condivisi su Facebook, che è l’ambiente dei pensieri personali ed è un buon esercizio di autonomia.

Ecco, prendiamoci un impegno per il 2016: proviamo ad avere opinioni personali. Dico farsele da noi. E poi, solo poi, confrontarle con gli altri. Elaborare un pensiero, esercitare un giudizio: cose così. Oliare i meccanismi cerebrali per funzionare in costruzione oltre che in ascolto; provare ad avere un’idea senza averla prima letta o ascoltata. Fa male all’inizio. Ma poi è un sollievo.

Buon giovedì. Beh. Sì.