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Ecco cosa avreste visto se Google Street View fosse esistito nel 1911

Queste fotografie panoramiche, scattate nel 1911 per un sondaggio di Fifth Avenue, ritraggono la famosa strada di New York nei suoi primi anni “di vita”. All’epoca la grande arteria dello shopping non era ancora diventata il tempio dello shopping di lusso nella grande mela. Nelle foto, oltre a una serie di abitazioni private e piccole imprese, si possono vedere alcuni punti di riferimento della città il Flatiron Building , la New York Public Library, dal cui archivio sono state prese le foto, e il Metropolitan Museum of Art.

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La Fifth Avenue si trova sull’isola di Manhattan e si estende da Washington Square Park fino alla 143esima strada ad Harlem, dividendo le strade del primo borough tra est e ovest.
Originariamente la strada era per lo più una zona residenziale di alta classe, successivamente, dopo l’apertura dell’Astoria Hotel, cominciò progressivamente a trasformarsi in una zona commerciale. Un altro passo decisivo per la transizione fu l’apertura dei grandi magazzini B.Altman & Company.
Se all’epoca ci fosse stato Google Street View ecco più o meno quello che avreste potuto vedere:

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Tutte le immagini appartengono alla WELLS & CO./NEW YORK PUBLIC LIBRARY

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Zuckerberg è il quarto più ricco del mondo. Metà dei primi dieci vengono dalle tecnologiche

Ieri, grazie alla crescita del valore delle azioni di Facebook Inc., Mark Zuckerberg è diventato la quarta persona più ricca del pianeta. Il 31enne padrone e fondatore del social network ha una fortuna pari a $ 50.000.000.000 di dollari. Secondo il Bloomberg billionaire index, con la crescita delle azioni, Zuckenberg supera il padrone di America Movil, Carlos Slim, e del padrone di Amazon, Jeff Bezos. Bloomberg miliardari Index, una classifica giornaliera di 400 persone più ricche del mondo.

Facebook non ha, per adesso, conosciuto una flessione con il resto dei listini ed è cresciuta del 9,5 per cento nel 2016. Facebook è quarta al mondo anche come impresa dopo Alphabet Inc. (la padrona di Google), Apple Inc. e Microsoft Corp. Metà delle dieci persone più ricche al mondo vengono da imprese tecnologiche, anche se nel 2015 le fortune di molti tra questi sono diminuite: Bezos era primo, ma ha perso circa 10 miliardi. Tra i dieci più ricchi solo i boss di Google Brin e Page hanno guadagnato. Non che chi ha perso soldi sia finito nei guai, le fortune personali sono gigantesche comunque.

Chi va male tra le tecnologiche è Yahoo, che dopo aver perso 4,3 miliardi di dollari ha annunciato ieri il taglio di 9mila posti di lavoro.

Sulla scena del crimine. Un inedito viaggio nella fotografia forense

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Sulla scena del crimine. Immagini scioccanti e inaccettabili, quando palesemente concorrono a fare di un anarchico un criminale; scioccanti e decisive quando documentano l’uccisione in massa di curdi nell’1988 a lungo negata dagli iracheni. Sono due esempi, sgnificativi, fra i molti che potremmo fare. Fra questi due opposti poli, l’uso strumentale della fotografia per incastrare qualcuno solo perché è un dissidente,  e quello dell’uso dell’obiettivo come potente strumento di verità e di giustizia, si muove la nuova iniziativa proposta da Camera, il centro italiano per la fotografia che ha aperto a Torino lo scorso ottobre sotto la guida di Lorenza Bravetta, giovane direttrice ma che dal 2011 al 2014 è già stata responsabile di Magnum photos per l’Europa continentale. Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni, fino a primo maggio propone un viaggio lungo un secolo nella fotografia forense, dai primi scatti usati in tribunale fino alle foto satellitari che permettono agli attivisti dei diritti umani di denunciare l’uccisione di civili colpiti dai droni. È la violenza, visibile e invisibile, il filo che percorre la serie di fotografie selezionate dalla curatrice Diane Dufour. Il percorso espositivo allestito da Marco Palmieri squaderna undici casi, fra cui quello di Alphonse Bertillon che documenta la schedatura di fronte e di profilo nei primissimi anni del Novecento che di fatto fissò il protocollo scientifico per la rappresentazione delle scene del crimine. Di grande interesse storico è anche la parte della mostra dedicata al criminologo e titolare della prima cattedra di scienze forensi all’Università di Losanna, Rodolphe Archibald Reiss, al quale il Museo della Fotografia di Charleroi ha dedicato un paio di anni fa una una mostra dal titolo Le Théâtre du Crime.  Personaggio singolare Reiss: aveva accumulato nel suo studio una vasta collezione di fotografie in bianco e nero in cui appare  particolarmente inquientante la lucida ricerca di inquadrature estetizzanti nel raccontare atti criminali. Per quanto riguarda invece la fotografia di guerra a Torino sono in mostra reperti storici come le prime fotografie aeree utilizzate nel primo conflitto mondiale e le prove fotografiche utilizzate nel processo di Norimberga e poi per parlare di un conflitto ancora oggi purtroppo in corso immagini che  testimoniano la distruzione delle abitazioni in Palestina da parte dell’esercito israeliano.
.Sulla scena del crimine. La prova dell’immagine dalla Sindone ai droni.  La mostra è accompagnata da un catalogo edito da Images à Charge. La construction de la preuve par l’image, disponibile in inglese o in francese, e co-prodotto da Le Bal e Xavier Barral Éditions. Fino al primo maggio 2016. @simonamaggiorel
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 gallery a cura di Monica Di Brigida
 in apertura: Messinscena dimostrativa del sistema di fotografia metrica di Bertillon, con un corpo a simulare il cadavere e l’apparecchiatura in posizione. Materiale didattico per corsi e conferenze. Rodolphe A. Reiss, 1925. Collezione dell’Institut de police scientifique dell’Università di Losanna.
© R. A. REISS, coll. IPSC

Quei 109mila posti di lavoro in più in un anno non fanno stare allegri. Ecco perché

Le cifre fornite dall’Istat sono chiare: nel mese di dicembre 2015, rispetto a novembre c’è stato un calo di occupati (-21mila). Ma i media ieri hanno messo in evidenza anche un dato positivo: la disoccupazione è diminuita in un anno dell’8,1 per cento. In soldoni significa che hanno trovato lavoro 109mila persone in più rispetto all’anno scorso. Un numero tale da far ballare di gioia? Mica tanto, sostiene Dario Guarascio, ricercatore del Sant’Anna di Pisa che insieme alla collega Valeria Cirillo e a Marta Fana dell’ Institut des hautes etudes politiques de Paris ha scritto uno studio sugli effetti della riforma del Jobs act in Italia (di cui ha già parlato Left)  .

«Ad ogni rilevazione c’è sempre un po’ di isterismo ma non è colpa degli osservatori, bensì è prodotto dal governo che è ansioso di trovare dati che in realtà non possono essere molto diversi da quelli del mese precedente», dice l’economista. Ma visto che questi dati sono particolarmente importanti, poiché rappresentano una sorta di bilancio del 2015, Left ha chiesto a Guarascio di analizzarli. Intanto ricordiamo le cifre fornite dall’Istat: il numero di inattivi rimane sostanzialmente invariato (36,2%), il tasso di occupazione è del 56% mentre quello della disoccupazione giovanile (37,9%) è in effetti è calato rispetto a qualche anno fa. Il tasso di disoccupazione generale si attesta sull’11,4%. In Europa la media è del 10,4% quella della Germania del 6,2%.

Che cosa significano queste cifre? «Si tratta di 109mila posti di lavoro in più a fronte di un miliardo e 886mila euro stanziati dal governo per gli sgravi fiscali e associati ad essi l’abrogazione dell’articolo 18 con il Jobs act. Di questi la prevalenza sono lavoratori a termine. Rispetto ai lavoratori a tempo indeterminato la performance è stata piuttosto debole rispetto a quanto ci si aspettava anche sulla base del Jobs act», risponde Guarascio. È vero, c’è stata una fiammata di occupazioni nel mese di novembre, «ma questo è da ricondurre al fatto che è stata annunciato e poi effettivamente praticato, il dimezzamento degli sgravi contributivi per nuove assunzioni o trasformazioni di contratti a tempo indeterminato». Quindi, aggiunge l’economista «è realistico pensare che le imprese che hanno operato le assunzioni lo hanno fatto nell’intenzione di volersi garantire l’intero ammontare dell’incentivo, garantito nel 2015, cioè 8060 euro per ciascun lavoratore». Nel 2016 infatti gli sgravi sarebbero stati inferiori.

Quale conclusione? «Farei due riflessioni: una, che l’impatto che stiamo vivendo, seppur misero, rispetto agli annunci iniziali del ministro Poletti ci fa capire che questo è un effetto di brevissimo periodo e non di tipo strutturale. Cioè, non si vede la volontà delle imprese – continua Guarascio – di incrementare la loro base occupazionale con prospettive legate alla produzione, ma per ridurre gli oneri contributivi e quindi i costi. Facile pensare dunque che quando questi sgravi non ci saranno più la volontà di occupare queste persone in più potrebbe decadere». Tra un paio di anni, ma forse già quest’anno, vedremo il risultato finale della politica degli incentivi.

«Questi 109mila posti che corrispondono a +0,5 % su un anno, non permettono davvero di stare allegri. Se teniamo presente tutto il contesto: gli interventi di elargizioni alle imprese, il piccolo miglioramento della congiuntura e un trend positivo del Pil a livello europeo, e poi il Quantitative easing della Bce che comunque degli effetti macroeconomici anche in un contesto debole come quello italiano ce l’ha», sottolinea Guarascio. Invece quello che emerge di grave è l’assenza di politiche a livello di struttura dell’economia. E al tempo stesso, come dimostrato dallo studio dei tre ricercatori, il fatto che il Jobs act non abbia portato ad un aumento del lavoro giovanile. Confermato questo, anche dai dati Istat che rilevano un aumento degli occupati nelle fasce più anziane. E la diminuzione della disoccupazione può essere anche un effetto secondario di politiche istituzionali. «Il lieve miglioramento del tasso di disoccupazione può essere fatto risalire all’effetto di misure come la Garanzia giovani, fatta per stimolare l’occupazione giovanile ma che in realtà mette in campo procedure di carattere amministrativo-istituzionale che portano i giovani a iscriversi a delle agenzie che dal punto di vista statistico producono una sparizione di una piccola parte di inattivi e un apparente riduzione del tasso di disoccupazione quando poi in realtà questa non c’è», dice Guarascio. Il quale è stato convocato da un parlamentare del Pd, dopo aver letto studio dei tre ricercatori. Che anche nel Pd venga meno la fede nel “miracolo” Jobs act?

Qui, il Paese dell’amore “naturale” dove i direttori palpano “per scherzo”

Cosa è “naturale” piuttosto che ossessivo? Dove sta il limite scientifico della malattia tra l’amore e la persecuzione? Ma soprattutto: chi decide quale siano gli ingredienti di una giusta autorità che possa giudicare?

No, non è il delirio mattutino così presto ma semplicemente mi chiedo, in questi giorni in cui in molti si affidano ad un “giusto” universale, quando abbiamo deciso che ci fosse un’etica autorizzata a censurare quella degli altri. E non è una domanda di poco conto se proviamo a pensare quanto quest’epoca sia tra le più misere per verità dei fatti e tra le migliori della mistificazione delle opinioni. Dovremmo avere fede della fede degli altri senza preoccuparci di condividerla e tanto meno capirla: “è legge naturale!” comandano e così non resta che prenderne atto.

Qui, dove è naturale considerare la violenza su un bambino un danno collaterale di un’azione clericale.

Qui, dove è naturale considerare la sottomissione il risultato finale di un ligio rapporto matrimoniale.

Qui, dove è naturale giustificare la passione minorile come manchevolezza del potere.

Qui, dove è naturale decidere i diritti degli altri, condonando i propri e comprandone alcuni.

Qui, dove è naturale augurare la diversità come se fosse una malattia.

Qui, dove è naturale credere che i diritti siano direttamente proporzionali con la rappresentanza piuttosto che i valori.

Ecco, noi siamo il Paese “naturale” in cui, tanto per dirne una, l’ex direttore dell’Agenzia delle Entrate Palermo 1, Domenico Lipari, ha palpato le sue dipendenti ma è stato assolto. “Era immaturo, agì per scherzo” dice il Tribunale. Dicono che quei “gesti non procurarono appagamento sessuale a Lipari e non limitarono la libertà sessuale delle due donne palpeggiate.” A posto così.

Scriveva Alessandro Manzoni, non proprio un rivoluzionario, per dire:

«Il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Buon mercoledì. Avanti pure.

 

Cosa succede se fumate marijuana sempre e per molti anni? Uno studio lo ha verificato

Dove eravate domenica scorsa alle 11 del mattino? Se foste dei fumatori incalliti di marijuana non avreste grande memoria e non è detto che sapreste rispondere. O almeno così sostiene una ricerca seria sul consumo di erba dell’Università di Losanna e pubblicato sulla rivista medica americana Jama- Internal Medicine che ha monitorato consumatori accaniti e non per 25 anni.
Lo studio ha verificato che le persone che fumavano marijuana su una base quotidiana per un lungo periodo di tempo – almeno cinque anni – hanno, raggiunta la mezza età, una memoria verbale più povera di chi non fuma. Anche tenendo conto di altri aspetti che contribuiscono alla capacità di usare il cervello come l’istruzione o l’uso di altre sostanze.
L’unità inventata dagli scienziati è “anni-marijuana”, ovvero consumo di marijuana ogni giorno per un anno (o un giorno sì e uno no per due…e così via).
La performance dei fumatori incalliti non è catastrofica e riguarda fondamentalmente solo la memoria breve. Un argomento contro il fumo, ma anche, tutto sommato, niente di molto grave per qualcosa che somiglia all’abuso di una sostanza.
Quanto peggio funziona la memoria dei fumatori d’erba? L’esempio del test fatto è il seguente: a due gruppi, uno di fumatori e l’altro no, vengono dette 15 parole ciascuno, poi, 25 minuti dopo si chiede loro di ripetere l’elenco. Il gruppo dei non fumatori (o fumatori occasionali) ricorda in media 9 parole, quello dei fumatori abituali 8,5. Al crescere degli ”anni-marijuana” e dell’età, aumenta il numero di parole dimenticate. Un 45enne che fuma da 20 anni ricorda in media 2,5 parole in meno della media dei non fumatori.
L’aspetto positivo per i fumatori è che per gli altri test sul funzionamento del cervello – concentrazione e risoluzione dei problemi – gli scienziati non hanno individuato falle. Certo, per quelli che si trovassero a dover fornire un alibi, meglio usare una tecnica in stile Memento: scrivere da qualche parte i propri ricordi.

Primo sì del Senato alle Unioni civili Ma occhio allo scoglio delle adozioni

Il Senato ha dato il suo primo voto al disegno sulle unioni civili, noto come legge Cirinnà. È stato un voto favorevole anche se ha riguardato solo le questioni pregiudiziali e quelle sospensive, presentate dagli oppositori per rispedire la legge in commissione.

È potuta così cominciare la discussione generale sulla legge. Il prossimo passaggio delicato – questo delicato veramente – sarà la prossima settimana quando si voteranno gli emendamenti. In particolare, scivoloso è il voto sull’adozione del figlio del partner, come ormai noto, che secondo il popolo del family day (e pure parte del femminismo italiano) spalancherebbe le porte alla gestazione per altri, all’«utero in affitto».

Proprio sul tema Alfano ha lanciato la sua proposta di mediazione, annunciando che Ncd sarebbe pronta a votare la legge, con lo stralcio delle adozioni. Il Pd ufficialmente ha respinto al mittente l’offerta, anche se al suo interno, nel gruppo al Senato, si contano almeno 60 parlamentari in bilico, che in caso di voto segreto potrebbero votare con i centristi. Tra loro ci sono anche volti storici della sinistra come quello del senatore Mario Tronti.

Gli argomenti di Alfano non sono stati comunque così convincenti anche perché il ministro si è preoccupato di chiarire subito che anche se il Pd dovesse votare la legge con una maggioranza diversa da quella del governo, nulla accadrebbe a palazzo Chigi. Se non fossero già bastate quelle avute, le poltrone ottenute con l’ultimo rimpasto hanno dunque avuto l’effetto sperato. L’opposizione di Ncd è assai poco incisiva, come notato da Adinolfi&co, più battaglieri.

Chi è Ted Cruz, il conservatore con gli stivali che ha vinto in Iowa

Republican presidential candidate, Sen. Ted Cruz, R-Texas, speaks during a caucus night rally as his wife Heidi listens Monday, Feb. 1, 2016, in Des Moines, Iowa. Cruz sealed a victory in the Republican Iowa caucuses, winning on the strength of his relentless campaigning and support from his party's diehard conservatives. (AP Photo/Chris Carlson)

«Vuoi provare uova verdi e prosciutto?». Se avete dei bambini piccoli potreste avere familiarità con questa lunga filastrocca del Dr. Seuss durante la quale Sam prova a convincere un personaggio riottoso ad assaggiare “green eggs and ham”.

Di uova verdi hanno sentito parlare i senatori americani durante la maratona oratoria con la quale Ted Cruz, il vincitore dei caucus dell’Iowa ha finto di poter abolire la riforma sanitaria di Obama nel 2013, rischiando di paralizzare l’attività federale. L’occasione era l’approvazione del bilancio, scritto dai repubblicani che hanno la maggioranza in Congresso, che conteneva ovviamente anche parti di finanziamento alla riforma dichiarata costituzionale dalla Corte Suprema. Contro il suo partito e contro Obama, il 45enne senatore appena eletto, parlò per quasi 24 ore, leggendo Green eggs and ham di notte e rivolgendosi ai figli, dissertando degli hamburger quadrati della catena di fast food White Castle, facendo un paragone tra i repubblicani moderati che non ingaggiavano la battaglia assieme a lui e il governo britannico di Lord Chamberlain che aspettò a opporsi al nazismo e rispondendo a Rand Paul, tra i pochi che lo spalleggiavano e gli rivolgevano domande per allungare i tempi, come: «Ti sei messo delle scarpe comode?».

Il riferimento alle scarpe è cruciale per parlare del personaggio: Cruz viene dal Texas, il più importante bacino elettorale di voti e fondi per le campagne repubblicane, e gli stivali da vaccaro non li toglie mai. Anche quando, come vice procuratore del Lone Star State, (l’unica stella della bandiera del Texas), difendeva ricorsi davanti alla Corte Suprema.

La maratona oratoria del senatore Ted Cruz per fermare Obamacare non poteva avere successo ma è servita a far diventare il junior senator texano il campione del Tea Party. Quella degli anti-tutto arrabbiati e religiosi texani era già la sua base locale. Con le 24 ore di discorso in Senato è diventata nazionale. I suoi colleghi di partito, intanto, schiumavano rabbia e lo detestavano: il budget era il loro, tutti sapevano che alla fine sarebbe stato votato e tutti capivano perfettamente a che gioco stava giocando Cruz. Il nuovo arrivato a Washington attaccava l’establishment, chiamava il leader repubblicano del Senato “bugiardo” e veniva definito da John McCain, che lo detesta, un wacko bird, un uccello eccentrico (uno strano oggetto).

«Dopo la notte arriva il mattino, il mattino sta arrivando qualsiasi cosa Washington dica, non può impedire alla gente di mobilitarsi». Il discorso di Cruz dopo la vittoria in Iowa

Il risultato del caucus dell’Iowa, frutto di un lavoro sapiente con i Big Data e al contempo una grande capacità di fare alleanze e ottenere appoggi di figure importanti, ci dice che la maratona ha funzionato: oggi Cruz è il campione del Tea Party e della destra evangelica organizzata. Non è detto che si tratti della maggioranza degli elettori repubblicani delle primarie, ma si tratta di una forza. Anche in termini di fondi raccolti, il senatore può sorridere: ha messo da parte più di 20 milioni, contro i 14 di Rubio e i 2,8 di Trump (che ne ha aggiunti 10 dei suoi). Quei soldi sono serviti in buona parte a puntare gli elettori online: il Guardian rivela come 3 milioni siano stati usati per pagare gli analisti della Cambridge Analytica, impresa di analisi di dati i cui analisti lavorano nel quartier generale di Cruz a Houston.

Da dove viene Cruz? Il senatore è figlio di un cubano che ha combattuto con Castro per poi scappare («Ma non è mai stato comunista»). È battista ed ha studiato legge a Princeton, ha lavorato nello staff del giovane Bush – durante quell’esperienza nel 2000 ha conosciuto la moglie Heidi, sposata nel 2001 e dalla quale ha due figli – ed è stato vice procuratore del Texas. E, come ieri in Iowa, è riuscito a coalizzare il Tea Party dietro alle sue spalle per vincere le primarie del 2011 nel suo Stato contro il candidato predestinato, il vice governatore David Dewhurst – una volta vinte quelle, in Texas si vince. Una strana vittoria, nel senso che all’epoca il futuro campione conservatore era uno che veniva da Princeton, aveva ricoperto il ruolo di vice procuratore dello Stato, aveva lavorato nello staff del presidente. Non esattamente un outsider. Ma la sua campagna e il modo in cui ha continuato a comportarsi hanno funzionato e in Iowa il sistema di alleanze accompagnato al messaggio da figura anti-establishment gli ha permesso di ottenere un gran risultato.

Nelle scorse settimane è diventato l’oggetto di attacchi da parte di Trump – che ricorda come sia nato in Canada e come, quindi, potrebbe non essere legalmente presidenziabile – e non solo. Ha promesso di bombardare a tappeto l’Isis, di cancellare la riforma Obama, di abbassare la tassa per le imprese al 15% e di rendere più difficile l’aborto. Ama farsi fotografare con un fucile in spalla. Ma fa tutto con il sorriso, è un conservatore arrabbiato nei contenuti e gioviale e spiritoso nella realtà. In fondo è un buon avvocato che ha studiato nelle migliori uiniversità, perché non dovrebbe saper parlare bene. È destinato a farcela? Improbabile, ma certo è un candidato più forte di Rick Santorum, che nel 2012 vise l’Iowa grazie alla stessa coalizione che lo sostiene oggi. Ha dalla sua una strategia digitale vincente e molti soldi. È, insomma, meno artigianale di Santorum o di altri campioncini conservatori. Quanto alle scarpe comode durante la maratona oratoria del 2012, se ne era comprate un paio apposta e, quella volta, gli stivali se li era sfilati.

La bambina che si rifiuta di baciare il campione texano

Cruz e la pancetta cotta con il mitra

Cruz e la destra evangelica si prendono l’Iowa. Sanders e Clinton pareggiano

Strana la politica. Quella americana più delle altre, con i suoi riti improbabili e poco comprensibili, non smette di regalare sorprese. Quella dell’Iowa doveva essere la notte di Donald, super-miliardario imbattibile, e invece è stata la notte di Ted Cruz, il senatore texano che non si toglie gli stivali nemmeno per andare a dormire, vuole cancellare ogni legge voluta da Obama e mobilita l’elettorato evangelico. E poi è stata la notte di Bernie Sanders e Hillary Clinton. Il primo è arrivato dove nessuno pensava sarebbe arrivato quando ha lanciato la sua campagna un anno fa e raccoglie entusiasmi per le prossime tappe, la seconda può tornare a respirare: una sconfitta o una cattiva performance sarebbero state un disastro. Infine è stata la notte di Marco Rubio, che a sorpresa è arrivato terzo poco lontano da Donald Trump.

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I risultati finali:1oBqYR16-1

Democratici: Hillary Clinton 49,9%, Bernie Sanders 49,6%, Martin M’Malley 0,6%

Repubblicani: Ted Cruz 27,7%, Donald trump 24,3%, Marco Rubio 23,1%, Ben Carson 9,3%, Rand Paul 4,5%, Altri 11%

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Cosa è successo? Che le previsioni e i sondaggi si sono infranti contro le regole dei caucus dell’Iowa. Tutti dicevano che l’alta partecipazione avrebbe favorito Trump, perché avrebbe significato che a scegliere c’erano persone non abituate a partecipare al processo delle assemblee nelle quali ci si schiera pubblicamente con un candidato. Quelle persone avrebbero votato per l’outsider. Non è andata così. La macchina elettorale sul campo, il porta a porta, la capacità organizzativa e quella di costruire alleanze locali hanno avuto la meglio. E così, in campo repubblicano, Ted Cruz, che è il meglio posizionato per farlo, ha costruito una coalizione di evangelici, li ha portati in massa alle urne e ha vinto. Più elettori non si è tradotto in più voti per Trump.

«Non c’è da stupirsi, gli evangelici rappresentano la fetta più importante dell’elettorato repubblicano in Iowa, non a caso nelle ultime due tornate hanno vinto quei candidati che, in forme diverse, li rappresentavano: il conservatore religioso Santorum e l’ex pastore conservatore ma caritatevole, Huckabee. Certo l’elettorato così c’è qui, ma non altrove, è difficile capire cosa succederà nel Grand Old Party da domani» ci dice John Norris, navigato democratico, che ha lavorato a diverse campagne statali vincenti e poi lavorato nell’amministrazione Obama.

Un discorso simile a quello di Cruz vale per Sanders: la sua macchina elettorale ha funzionato, il momentum, come si dice in America, era dalla sua, a gennaio ha raccolto decine di migliaia di piccole donazioni, imparato meglio come si comporta un candidato ed è quasi riuscito a raggiungere la predestinata Hillary. Quanto alla ex Segretario di Stato, beh, ha quasi scacciato i fantasmi del 2008, quando da vincente annunciata arrivò terza dietro a Obama ed Edwards. Stavolta vince di un soffio, mostra di avere anche lei una macchina che funziona e la spunta nonostante fossimo in una fase nella quale il vento soffiava chiaramente dalla parte di Sanders. Ora può affrontare la sconfitta probabile in New Hampshire (martedì prossimo), dove il senatore del confinante Vermont è favorito, con leggerezza e curare le tappe successive. Sanders invece si mostra un candidato forte e destinato a durare. Probabile che vada fino alla convention, per portare i suoi argomenti dentro il partito con più forza possibile.

Il quarto a ridere è Marco Rubio, giunto terzo, come i sondaggi non prevedevano, è l’unico possibile punto di incontro tra l’establishment del partito e l’ala conservatrice. Abbastanza di destra da non essere proprio indigeribile all’ala “rivoluzionaria” del partito, abbastanza di Washington da non terrorizzare i potenti e i loro sistemi di relazione con le lobby. E poi, tra tutti quelli che corrono in campo repubblicano, è forse la figura con più possibilità di farcela contro un democratico. E’ giovane, di origini ispaniche, brillante, preparato sulle politiche. Pericoloso, insomma: contro Sanders potrebbe correre come il moderato responsabile, contro Clinton come il nuovo contro il vecchio.

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E gli altri? Martin O’Malley, il terzo candidato democratico ha preso meno dell’1% e si è ritirato stanotte. Jeb Bush aveva speso milioni in Iowa, pur sapendo quanto la sua fosse una strada in salita. Ha meno del 3% dei voti e difficilmente tornerà in ballo. Il governatore del New Jersey Christie, l’unica dona, Carly Fiorina, Santorum e Huckabee, che puntavano alla stessa base di Cruz, sono fuori. Ma difficilmente si ritireranno prima del voto nei prossimi tre Stati, molto diveri tra loro (New Hampshire bianco, South Carolina conservatrice ma anche dinamica in alcune aree, Nevada, molto ispanico). Benino sono andati Ben Carson, neurochirurgo molto conservatore e poco capace di dare risposte sulle politiche e Rand Paul, che cerca di ricostruire la base che fu del padre, quei repubblicani libertari, anti Stato, ma anarcoidi e isolazionisti, che sono un pezzo non indifferente del partito in alcuni Stati.

Quella a cui abbiamo assistito fino a oggi è stata una campagna nazionale nella quale i vincenti, quelli capaci di far parlare di sé, di occupare lo spazio mediatico e della rete sono stati Trump, Sanders e Clinton. Molti hanno scritto che l’Iowa con i suoi meccanismi antiquati di selezione del candidato era fuori fase, che Trump aveva distrutto i caucus. La sua è stata una campagna fatta di pochi incontri nei piccoli ristoranti e di grandi comizi. In Iowa non ha funzionato e ieri Trump ha fatto un discorso dicendo: «Mi avevano detto di non correre qui, ma a me l’Iowa piace. Ora andiamo in New Hampshire, dove vinciamo e poi andiamo avanti. Sono io quello capace di battere Hillary, Sanders o chiunque altro dovessero tirare fuori dal cappello». Se la sconfitta in Iowa per Trump significherà anche il ritorno della politica normale lo vedremo proprio in New Hampshire: qui il miliardario è avanti di 20 punti. Ha un buon margine per scendere e vincere lo stesso. E qui i sondaggi dovrebbero essere più affidabili, in New Hampshire ci sono le primarie, non i caucus. Mancano sette giorni e le primarie, sia democratiche che repubblicane, sono destinate a durare a lungo.

CasaPound? Un’irresistibile combriccola di giovani marmotte. Parola di Polizia.

Siamo strani noi che li abbiamo sempre vissuti e raccontati come un manipolo di fascistelli prepotenti mentre, invece, quelli di CasaPound sono bravi ragazzi con «uno stile di militanza fattivo e dinamico ma rigoroso nelle rispetto delle gerarchie interne» sospinti dal dichiarato obiettivo «di sostenere una rivalutazione degli aspetti innovativi e di promozione sociale del ventennio.» Il delirio è protocollato (protocollo N.224/SIG. DIV 2/Sez.2/4333) dalla Direzione centrale della Polizia di prevenzione e porta la data dell’11 aprile 2015. È la Polizia a dirci, con trasporto apologetico, come CasaPound abbia preso corpo «facilitato dalla concomitante crisi delle compagini della destra radicale e dalla creazione di ampi spazi politici che Casa Pound si è dimostrata pronta ad occupare» e faccia proselitismo «anche attraverso l’organizzazione di innumerevoli convegni e dibattiti cui sono frequentemente intervenuti esponenti politici, della cultura e del giornalismo anche di diverso orientamento politico».

Ma non finisce qui: nel documento allegato dal legale di CasaPound in una causa tra l’organizzazione e la figlia di Erza Pound (la signora Mary Pound vedova de Rachewiltz che contesta l’uso del nome del poeta da parte dei «fascisti del terzo millennio» che è un po’ come se a suo tempo Sbirulino avesse fatto causa a Sandra Mondaini, per dire, nda) il compiacente (e compiaciuto) funzionario della polizia racconta della «progettualità tesa al conseguimento di un’affermazione del sodalizio al di là dei rigidi schemi propri delle compagini d’area» comprovato (secondo l’acuta analisi politica) da «le recenti intese con la Lega Nord, di cui si condividono le istanze di sicurezza e l’opposizione alle politiche immigratorie, con la creazione della sigla “Sovranità – Prima gli Italiani” a sostegno della campagna elettorale del leader leghista».

Il documento (reso pubblico solo nella giornata di ieri) è l’ennesimo tentativo di correzione chirurgica di un fascismo che in molti vorrebbero riesumare sotto le mentite spoglie di un ideale piuttosto che un crimine ma è anche (e lo scrivo con tutto il consapevole rischio di generalizzare a ragion veduta) l’ennesimo abboccamento tra l’estrema destra e pezzi di forze dell’ordine. Se davvero è possibile redigere un’informativa in cui si scrive che «l’impegno primario» di CasaPound è la «tutela delle fasce deboli attraverso la richiesta alle amministrazioni locali di assegnazione di immobili alle famiglie indigenti, l’occupazione di immobili in disuso, la segnalazione dello stato di degrado di strutture pubbliche per sollecitare la riqualificazione e la promozione del progetto “Mutuo Sociale”» allora davvero occorre segnare il passo.

I raid, le violenze? Nulla. Dice la relazione che «il sodalizio organizza con regolarità, sull’intero territorio nazionale, iniziative propagandistiche e manifestazioni nel rispetto della normativa vigente e senza dar luogo ad illegalità e turbative dell’ordine pubblico» e se ci sono violenti basta decontestualizzarli  dicendo «che all’interno del movimento militano elementi inclini all’uso della violenza, intesa come strumento ordinario di confronto e di affermazione politica oltre che quale metodo per risolvere controversie di qualsiasi natura».

E quindi? Quindi CasaPund sono le “giovani marmotte” del terzo millennio e noi non ce siamo mai accorti. E allora ti viene da pensare che in un mondo visto da questa prospettiva forse davvero anche Salvini sarebbe un moderato pronto ad assurgere a statista.

Molto bene. Buon martedì.