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Nada e il segreto dell’eterna giovinezza

nadia malanima nuovo album l'amore devi seguirlo

Anno nuovo, disco nuovo. Nada Malanima inaugura il 2016 con un album che potrete ascoltare dal 15 gennaio, quando sarà dato alle stampe per Santeria/Audiogolbe. Le dieci tracce di L’amore devi seguirlo, le ha cucite una a una, testi e musica, parola dopo parola e nota dopo nota. Come un’artigiana, dentro il suo casale in Maremma, dopo anni di collaborazioni e sinergie con la crème della musica indipendente italiana, questa volta Nada sfodera un’opera tutta sua. Partendo da una pre-produzione casalinga registrata sul Garage Band di un portatile e che mantiene nel disco finito – registrato in Maremma da Nada e Gerri Manzoli e nel ferrarese da Manu Fusaroli al Baricentro di Produzioni Musicali Natural HeadQuarter di Corlo – un suono etereo, di accompagnamento alla sua voce e alle sue parole. È l’album della maturità?, le chiediamo, provando a scherzare sulla sua lunga carriera. E lei rilancia divertita: «Non so se si è mai maturi abbastanza!». Sembra sempre di parlare con la ragazzina di “Ma che freddo fa”, quando si conversa con Nada. E invece ha all’attivo 20 album, 12 raccolte, 3 libri, numerose performance teatrali. Insomma, in 47 anni di carriera si è fatta da conoscere da cinque generazioni. Ed è in arrivo anche il quarto libro, atteso per il mese di aprile, anche questo si preannuncia come una piccola svolta. Dopo tre opere autobiografiche, sarà l’esordio di romanziera a tutto tondo. «Certo, ci saranno i miei sentimenti, le mie idee e i miei pensieri. Ma sarà una storia che non è la mia».

Nada, abbiamo già potuto ascoltare i primi due singoli nel 2015, “Non sputarmi in faccia” e “La bestia”. La scelta di offrire degli assaggi prima del disco intero è un modo di andare incontro all’ascolto?
Un po’ è stato un modo di diluire il lavoro. E poi, spesso, non tutte le canzoni di un album si ascoltano con attenzione, magari così c’è la possibilità di conoscere più a fondo cosa c’è dentro. D’altra parte adesso si brucia tutto così velocemente…
L’amore devi seguirlo, hai titolato. A te l’amore dove t’ha portato?
Ancora non so dove mi porterà (ride). Parlo dell’amore in senso universale, che è il motore della nostra vita, inteso come passione, attenzione alle cose e alle persone, l’aver cura. Ecco, in questo senso canto e parlo d’amore. Un po’ del resto come faccio io in tutte le mie giornate. Direi comunque che l’amore mi ha portato a essere quella che sono, ma non chiederti come… che non saprei dirti come sono! Diciamo che ci porta tutti avanti, che ci fa esistere e dà un senso a questa vita che tante volte pare che un senso non lo abbia.

cover left n.2 | 9 gennaio 2015

 

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Referendum, che fa la minoranza dem?

Minoranza dem referendum senato

Rodotà, Zagrebelsky e gli altri odiati gufi lanciano i comitati del No per il referendum sulla riforma Boschi. E, consapevoli del fatto che il premier abbia investito l’appuntamento di un più largo significato – con studiate battute lanciate durante la conferenza stampa di fine anno -, vogliono evitare che i referendum diventino un plebiscito sul premier. Per questo vorrebbero che la richiesta partisse non dal governo ma dai parlamentari che, sollecitati dal comitato, firmando in massa, possono stemperare l’enfasi posata dal premier sul referendum. Renzi ha infatti detto chiaramente: «Se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica». Il referendum sulla riforma che porta la firma di Maria Elena Boschi, dunque, è per Renzi un voto anche sul jobs act, sulla buona scuola, sull’insieme delle sue riforme. Ed è questo a mettere ulteriormente in imbarazzo la minoranza dem – ulteriormente, sì, cioè più di quanto non procuri già lo stare nel mirino di ex professori amici, come Rodotà o Zagrebelsky. Non è un caso che a cominciare da Pier Luigi Bersani e da Gianni Cuperlo, i più abbiano per ora scelto il silenzio. Hanno timidamente criticato l’all-in del premier sul quesito costituzionale ma non detto di più. «Per ora non parlo», è la risposta che abbiamo ricevuto prima di chiudere questo numero. Volevamo sapere – ad esempio – se qualche parlamentare Pd avrebbe risposto alla richiesta dei giuristi. Vedremo lunedì 11, quando alla Camera, mentre l’aula darà l’ultimo voto alla riforma, nella sala stampa verranno presentati – appunto – i comitati.
Dietro il tavolo ci sono i costituzionalisti, consapevoli ormai di esser vittime degli effetti della propaganda renziana. Sandra Bonsanti sa bene che il fascino dei professori, dopo decine di slogan sui gufi, non è più lo stesso: «Serve una generazione nuova», dice infatti, «bisogna che i giovani si rendano conto che con questa riforma si troveranno delle istituzioni più deboli». Vanno avanti, cercano forze fresche, e sperano di poter sfruttare la raccolta firme per i referendum sull’Italicum, i gufi. Qui c’è però il problema del Movimento 5 stelle che al premio di maggioranza ha forse fatto la bocca, e le firme per abrogare l’Italicum non le raccoglie.

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Lo smog c’è e si vede. Tutti i numeri di un inquinamento che uccide

L’anticiclone è passato, la politica è rientrata dalle vacanze e l’allarme smog ha abbandonato le prime pagine dei giornali. A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno, le centraline delle maggiori città italiane che facevano registrare continui “sforamenti” dei limiti di polveri sottili presenti nell’aria sono un ricordo lontano. Sindaci e governo, corsi ai ripari con targhe alterne e chiusure al traffico, hanno prontamente revocato le misure anti-inquinamento con il ritorno delle precipitazioni e il conseguente calo delle concentrazioni del cosiddetto particolato. Ma l’arrivo della pioggia, spiegano gli esperti, ha portato via una serie di misure insufficienti e diverse da Comune a Comune, lasciando sull’asfalto una troppo timida (e non vincolante per i Comuni) strategia nazionale messa in campo dal ministero dell’Ambiente e nessun intervento strutturale.

Infografica polveri sottili

Milioni di morti premature

Ci sono prove scientifiche del fatto che queste particelle microscopiche contribuiscano alla formazione di placche vascolari, aumentando il rischio di infarto e ictus. E diversi studi epidemiologici confermano che le polveri sottili sono tra le cause di malattie cerebrovascolari, cardiache e polmonari (compreso il cancro ai polmoni), mentre le elevate concentrazioni di ozono sono correlate a patologie delle vie respiratorie come la tosse cronica e la mancanza di respiro. Uno studio dell’Istituto Max Planck per la Chimica, ente tedesco di ricerca pubblica, stima intorno ai 3,3milioni i decessi prematuri (rispetto alle aspettative di vita) che avvengono ogni anno nel mondo in relazione all’inquinamento atmosferico. Quasi tre quarti di questi sono dovuti a ictus e attacchi cardiaci, il restante 27 per cento a malattie respiratorie e cancro al polmone. E, riporta l’indagine, nel 2050 il dato potrebbe salire fino al doppio se i livelli attuali dovessero rimanere immutati. Più catastrofiche le proiezioni dell’Oms, secondo cui ogni anno 4,3 milioni di decessi sono imputabili all’inquinamento dell’aria all’interno delle abitazioni e 3,7 milioni all’inquinamento dell’aria esterna. Pesano senza dubbio industria, trasporti, agricoltura e produzione di energia con fonti fossili. Allo stesso tempo però, i consumi energetici domestici – soprattutto nelle aree dove di usano generatori diesel, piccole stufe e legna per riscaldare e cucinare – incidono altrettanto sull’incremento del tasso di mortalità. I ricercatori del Max Planck hanno calcolato poi che l’agricoltura che fa uso di sostanze chimiche (fertilizzanti, ecc.) e l’allevamento intensivo sono la causa del 20% dei decessi legati all’inquinamento atmosferico, con punte del 40 in Paesi come Ucraina, Russia e Germania. La combustione di carburanti fossili per l’industria, l’energia e i trasporti, insieme alla combustione di biomassa, è all’origine di un altro 33% di morti premature. Il traffico cittadino pesa sul bilancio delle vittime da inquinamento per il 5%.

Incroci pericolosi

Da un’indagine dell’Istituto di fisiologia clinica del Consiglio nazionale delle ricerche di Pisa (Ifc-Cnr), in collaborazione con l’Istituto di Biomedicina e Immunologia molecolare di Palermo e le università di Pisa e Verona, emerge che l’insorgenza di alcuni disturbi polmonari è più che raddoppiata negli ultimi 25 anni. Sara Maio dell’Ifc-Cnr di Pisa spiega che gli attacchi d’asma sono passati dal 3,4 al 7,2%, mentre per la rinite allergica si è saliti dal 16,2 al 37,4%; l’espettorato ha superato il 19% rispetto all’8,7% del 1985 e la broncopneumopatia cronica ostruttiva (Bpco), ostruzione delle vie respiratorie non completamente reversibile, è arrivata al 6,8% contro il 2,1 iniziale. Ma il rischio è alto anche per le donne in gravidanza. Un recente studio sull’esposizione a benzene e Pm10 (228 casi presi in esame nel Nord Italia), condotto tra gli altri da un gruppo di ricercatori dell’Università di Modena e Reggio Emilia, ha registrato anomalie muscoloscheletriche e cromosomiche nel caso di esposizione al Pm10 da traffico veicolare, mentre per il benzene non ha rilevato evidenze di aumento dei rischi di malformazioni congenite. A confermare il peso del traffico veicolare sull’asfissia delle nostre città e sulla nostra salute, è una rilevazione effettuata per dieci anni dalla Nasa in 195 città e diverse aree del Pianeta. Ne è scaturito un atlante dell’inquinamento atmosferico che evidenzia come Usa, Europa, Cina, Sudafrica e Medio Oriente siano le zone con più elevati livelli di biossido di azoto, gas emesso dagli scarichi dei veicoli a scoppio e dall’industria. Rilevare le concentrazioni di questo gas è importante perché a livello del suolo può trasformarsi rapidamente in ozono, uno dei principali inquinanti presenti nello smog urbano.

L’impatto delle politiche

I dati, pubblicati sul Journal of Geophysical Research, sono quelli registrati dagli strumenti a bordo del satellite Aura tra il 2005 e il 2014. Usa ed Europa sono tra i principali responsabili delle emissioni di anidride carbonica, ma sono anche le aree in cui si è osservata la diminuzione più drastica: dal 20% al 50% negli Usa, e del 50% nel Vecchio continente. La Germania è tra le nazioni europee la più inquinata, perché per la sua posizione subisce anche l’influsso delle emissioni nocive dei Paesi confinanti. Per l’Italia la maglia nera dello smog – confermano i dati raccolti dalla Nasa – va alla Pianura Padana, che coniuga traffico veicolare, elevata industrializzazione e un mix di posizione geografica e condizioni meteo che determinano la presenza quasi costante della “nebbia tossica”. «Con i nuovi dati ad alta risoluzione siamo in grado di ingrandire l’immagine fino a vedere i cambiamenti del livello di inquinamento nelle singole città, e anche in alcune fonti, come per esempio le centrali elettriche di grandi dimensioni», spiega Bryan Duncan, scienziato del Nasa Goddard Space Flight Center di Greenbelt (Maryland), che ha guidato la ricerca. «I cambiamenti della qualità dell’aria osservati non sono casuali. Nei dati si vede l’impatto di decisioni governative come le nuove costruzioni o la regolamentazione degli agenti inquinanti». Per gli esperti, il calo in questione è dovuto alle leggi che hanno imposto miglioramenti tecnologici per ridurre l’inquinamento delle auto e degli impianti industriali. Ancora una conferma, semmai ce ne fosse bisogno, che se non cambiano le politiche le nostre città continueranno a respirare “a targhe alterne”. […]

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El Chapo Guzman, il narcos tradito dalla voglia di finire sul grande schermo

Nel 2012 gli avevano arrestato il figlio per sbaglio – o meglio, il governo messicano aveva messo a segno un colpo, presentando davanti alle telecamere una persona presentata come il figlio di El Chapo, che si era rivelato essere un paffuto rivenditore di auto, forse collegato al cartello di Sinaloa, ma non certo il figlio di Joaquin “El Chapo” (il corto) Guzman. All’epoca fu imbarazzo enorme. Peggio andò dopo la seconda fuga di quello che viene considerato il più importante narcotrafficante del pianeta nel 2014. Nuova caccia e nuova cattura, due giorni fa. Anche stavolta la vicenda ha del grottesco: il motivo per cui le autorità messicane hanno catturato El Chapo è la sua voglia di vedere un film sulla sua vita, magari ispirato da Narcos, la serie su Pablo Escobar la cui seconda stagione sta per debuttare su Netflix.

Secondo Associated Press, infatti, la polizia federale messicana è riuscita a scoprire dove fosse il nascondiglio di El Chapo grazie ai contatti intercorsi tra questi e Sean Penn, con la attrice di telenovelas messicane Kate Del Castillo a fare da tramite.
Penn ha passato sette ore a intervistare Guzmán in un luogo X delle montagne messicane e poi ha fatto una serie di interviste di follow-up per telefono e video, tra cui il minuto pubblicato sul sito di Rolling Stone assieme al resoconto dell’attore regista americano (e qui sotto) nella quale Guzmán veste una camicia di seta blu e parla al suono di galline che razzolano.

In passato El Chapo, divenuto famoso per la sua capacità di organizzare fughe lungo tunnel e condotti delle fogne – usati anche stavolta per tentare di eclissarsi dopo che la sua casa era stata circondata – aveva negato di essere un trafficante ritraendosi come un contadino. Con Penn parle apertamente dei suoi traffici.

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Leggi anche: I numeri della War on Drugs

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Dove è cresciuto, tra le montagne dello stato di Sinaloa, sostiene «l’unico modo per avere i soldi per comprare il cibo, per sopravvivere, è quello di coltivare il papavero, la marijuana».
La figura di El Chapo, è popolare in Messico: dai costumi di Halloween, alle canzoni popolari – l’equivalente di quelle dei neomelodici con i camorristi – le fughe del leader del cartello di Sinaloa e la sua capacità di guidare tanto a lungo il cartello senza essere ucciso o finire in carcere, ne hanno fatto una specie di mito in certi ambienti.

«Io fornisco più eroina, metanfetamine, cocaina e marijuana di chiunque altro al mondo», ha detto Guzman. «Ho una flotta di sottomarini, aerei, camion e barche».
El Chapo ha riconosciuto che le droghe fanno male, dicendo: «Beh, è una realtà che le droghe distruggono. Purtroppo, come ho detto, dove sono cresciuto non c’era altro modo e non c’è ancora un modo per sopravvivere, non c’è modo di lavorare nella nostra economia per essere in grado di guadagnarsi da vivere».
Guzmán sostiene di non essere un violento: «Guarda, non faccio altro che difendermi, niente di più. Ma si comincia guai? Mai.»

Rispetto ad alcuni cartelli di più recente formazione, in effetti, quello di Sinaloa è più discreto e meno brutale: Los Zetas, ad esempio, hanno seminato il panico e lo hanno fatto in maniera arrogante, sono loro i corpi appesi sui ponti delle autostrade o i video postati in rete delle loro imprese e stragi. Sinaloa tende a occuparsi solo di droga, mentre Los Zetas organizzano ogni sorta di attività criminale.
I morti messicani in questa guerra non dichiarata sono decine di migliaia. L’ultimo episodio clamoroso nel quale la collusione tra narcos e autorità si è manifestata in maniera clamoros è la morte dei 43 studenti a Iguala.

Quanto è popolare el Chapo in certa sottocultura messicana? Ecco due video che ne celebrano fuga e cattura.


Perché si diventa Foreign fighters e perché la propaganda occidentale non funziona, parla l’antropologo Scott Atran

epa04436294 A frame grab from video released by the Federal Bureau of Investigation on 07 October 2014 shows an alleged Islamic State militant claiming to be inside the Syrian 17th Division Military Base just outside Al-Raqqah, Syria. In the video he threatens the execution of captured Syrian military personnel who he claims are digging their own graves. The FBI is asking for the public's assistance in identifying the militant, who speaks with a North American accent, and any other people who may have or are planning to travel overseas to join in the fighting. EPA/FEDERAL BUREAU OF INVESTIGATION / HANDOUT EDITORIAL USE ONLY / NO SALES

Il messaggio video a David Cameron postato in rete dall’Isis il 2 gennaio è l’ennesimo segnale di una presenza, quella dei cosiddetti foreign fighters, i combattenti stranieri, che anima gli incubi delle agenzie di intelligence d’Europa. Alcune migliaia di persone, nate e cresciute in Occidente, hanno scelto di sacrificare le proprie vite per combattere per il Califfato in Siria e Iraq o arruolandosi online e partecipando all’organizzazione di attacchi terroristici. Questa colonna di reclute pronte a dare tutto quel che hanno per una causa politico-religiosa è uno degli elementi che fa la forza di Daesh e sgomenta noi. «Tra i foreign fighters occidentali c’è una gamma ampia di percorsi che porta al jihad. Certo, c’è una concentrazione di persone che viene dalle grandi periferie-ghetto urbane d’Europa. In America un figlio di immigrati musulmani nel giro di una generazione è in media più ricco e ha studiato di più dei suoi genitori, questo non è più vero in Europa, dove a seconda del Paese, queste persone hanno da 5 a 19 possibilità in più di essere poveri. Negli Usa c’è un tessuto sociale che favorisce l’integrazione economica degli immigrati.

Nella stessa popolazione carceraria di alcuni Paesi europei la componente musulmana è sovra-rappresentata: ad esempio in Francia i musulmani sono il 7-8% dei cittadini ma le stime sui carcerati parlano di un 50-70%». A parlare è Scott Atran, antropologo franco-americano che da anni studia i combattenti musulmani e ha condotto decine di interviste con miliziani catturati in Siria e Iraq – o disertori per delusione – e giovani europei finiti nei guai per avere collegamenti con reti terroristiche a Parigi, Londra, Barcellona. «Per molti che si sentono esclusi, che pensano di non avere una parte nella società, l’Isis è attraente. “Mi sento come una transgender, non francese e nemmeno araba. Il Califfato è forse l’unico luogo in cui posso essere una musulmana con dignità” Ci ha detto una donna intervistata di recente».

Non ci sono solo i giovani delle periferie, un problema di identità lo hanno in tanti. «Un altro gruppo attratto dall’Isis sono i giovani brillanti che sentono di essere lasciati indietro a causa della loro provenienza o appartenenza religiosa e per questo covano rabbia e frustrazione».

Infine i piccoli criminali: «Tra questi abbiamo individuato con frequenza un aspetto interessante: le persone che con maggior frequenza si offrono volontarie per le missioni suicide vengono da questo mondo. Queste persone preferirebbero essere membri a pieno titolo della società se potessero. Lo Stato islamico offre loro redenzione e questi la cercano mettendo a disposizione l’interezza dei loro interessi, la loro vita». Anche in Nord Africa, dove il reclutamento sembra essere in crescita, c’è una tipologia simile di giovani brillanti e frustrati dalla corruzione e dalla mancanza di opportunità. Qui però ci sono anche gli ex jihadisti locali – gli algerini, ad esempio.

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Dal test nucleare alle lacrime di Obama, la settimana per immagini

A Palestinian barefoot boy stands next to remains of a destroyed house in the town of Beit Hanoun, northern Gaza Strip, Monday, Jan. 4, 2016. (AP Photo/ Khalil Hamra)

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Immagine di apertura: Un ragazzo palestinese a piedi nudi accanto ai resti di una casa distrutta nella città di Beit Hanoun, nel nord della Striscia di Gaza. (AP Photo/Khalil Hamra)

(Fotogallery a cura di Monica Di Brigida)

Non lasciate soli i Bronzi di Riace. Dialogo con Salvatore Settis

bronzi di riace museo magna grecia settis

Quando furono ritrovati, per caso, da un sub il 16 agosto 1972, a largo di Riace, in Calabria, la notizia della scoperta dei due Bronzi passò quasi in sordina sui media locali. Lo ricostruisce il volume Sul buono e sul cattivo uso dei Bronzi di Riace, scritto dall’archeologo e storico dell’arte Salvatore Settis con altri e appena uscito per Donzelli. Ma quando furono esposti a Firenze nel 1980 suscitarono subito grande interesse. Tanto che la mostra fu prolungata e poi riproposta a Roma, su invito del presidente Sandro Pertini. Ma all’epoca molti archeologi sottovalutarono il fenomeno, quasi derubricandolo a fatto di costume.

Professor Settis, quella calda risposta di pubblico nel 1980 conteneva invece un’intuizione sull’importanza dei Bronzi di Riace?
A mio avviso è il fatto più nuovo che emerge da questo libro. Ho provato a dirlo. E lo hanno scritto anche gli altri autori senza che ci fossimo messi d’accordo. In quella occasione, di fatto, la professione di archeologo fallì il suo bersaglio. Chi gestì la scoperta non ne intuì l’importanza. Li vollero trattare al pari di altri reperti senza comprenderne la straordinaria singolarità. Ma i Bronzi di Riace, come il libro racconta e documenta, hanno acquistato fama mondiale ed è in continua crescita. Fu un movimento popolare a chiedere il prolungamento di quella mostra senza pretese che a Firenze doveva durare solo tre settimane. E stata la folla a riconoscere – pur non avendo competenze professionali – l’assoluta unicità di questi pezzi. Credo che da tutto questo si debba ricavare una lezione: la cosiddetta cultura popolare, spesso trattata dall’alto in basso dagli intellettuali, contiene in sé germi di consapevolezza che andrebbero letti e sviluppati quando si fanno delle mostre, che non di rado in Italia risultano superficiali; non offrono molto perché sono fatte solo per attrarre persone che però escono senza sapere qualcosa di più.
La vicenda dei Bronzi di Riace può essere una cartina di tornasole dei beni culturali in Italia?
La commissione nominata dal ministro Dario Franceschini, che si è espressa perché i Bronzi non si muovessero da Reggio per andare all’Expo, mi pare sia stata un buon segno. Ora il segnale successivo che aspettiamo è l’apertura del museo di Reggio Calabria nella sua interezza perché possa essere un vero museo della Magna Grecia. È stata una grande delusione che sia rimasto chiuso per tanti anni, nonostante avesse avuto finanziamenti speciali per il centocinquantesimo dell’Unità d’Italia. Addirittura i lavori erano stati affidati alla Protezione civile – cosa molto singolare – proprio con l’idea che così i lavori si sarebbero conclusi in tempo per quella ricorrenza. Sono passati ancora degli anni e il museo di Reggio è ancora chiuso, eccetto quelle due stanze.

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Intervista a Massimo Cacciari. Le verdi praterie che Renzi ha davanti

massimo cacciari matteo renzi

«Se perdo il referendum costituzionale, considero fallita la mia esperienza in politica»: Matteo Renzi l’ha detto nella conferenza stampa di fine anno. E ha precisato che non sarà un referendum solo sul nuovo Senato ma sul complesso delle riforme, dal Jobs act, a #labuonascuola, dall’Italicum allo Sblocca Italia. C’è chi sostiene – il professor Ignazi, per esempio – che il premier-segretario si assuma così un rischio grande. Gli si potrebbe coalizzare contro quel 25 per cento di italiani che lo considera – secondo uno studio proposto da Ilvo Diamanti – il leader peggiore e che è più consistente del 18 per cento che invece lo ritiene “il migliore”. Ricordiamo che il referendum confermativo – si dovrebbe tenere a ottobre – non prevede quorum: è valido qualunque sia il numero dei votanti. Ne abbiamo voluto parlare con Massimo Cacciari, filosofo, accademico italiano e politico. E, al solito, Cacciari non le manda a dire. «È evidente», dice, «che se dovesse andare male la sua riforma ne dovrebbe trarre le conseguenze. Volente o nolente. Sarebbe una sconfitta talmente clamorosa. Penso tuttavia che il suo sia un rischio calcolato. Una sconfitta mi pare improbabile: il numero delle persone che, per motivi diversi, non vogliono che Renzi vada a casa è strepitosamente “maggioranza”!».
Una maggioranza parlamentare?
Non solo. È una maggioranza legata agli interessi economici, all’appoggio di tutta Confindustria e delle associazioni professionali e di categoria, una maggioranza nella sostanza unanime, se non ci si lascia impressionare da prese di distanza marginali e spesso quasi comiche. E poi c’è la prateria che Renzi si trova di fronte nel vecchio elettorato di Forza Italia, che si dividerà equamente tra Salvini e Renzi.
Eppure non si può dire che la nuova-vecchia classe dirigente abbia dato grandi prove…
Questa classe dirigente fa persino rimpiangere la cultura che aveva la classe dirigente della Prima repubblica. Con la catastrofe di Tangentopoli prima e il ventennio di Berlusconi (e di quella opposizione a Berlusconi) non potevamo d’altra parte pensare che da una vicenda tragicomica potesse nascere chissà quale nuova classe dirigente. I dirigenti, può piacere o non piacere, nascono da grandi traumi, dalle grandi trasformazioni, quasi sempre da guerre civili o comunque da fatti che segnano la storia di un Paese. Cosa potevamo aspettarci? Una volta che finalmente sono andati a casa quelli che per vent’anni ci avevano lasciato il nulla, si poteva prevedere che il livello sarebbe stato questo. Al massimo sperare che una classe dirigente si faccia strada facendo…
Ma Tangentopoli non avrebbe potuto rappresentare questo trauma salvifico?
Sì, se determinate forze politiche avessero capito cosa significassero Tangentopoli e la caduta del muro. Lei si immagini cosa sarebbe stato se nel 1992-93 si fosse andati a una seria fase costituente: allora sì che si sarebbe segnata una rottura reale per ricominciare da zero. Abbiamo gettato all’ortiche vent’anni e alla fine “il buono e il cattivo” è rimasto dentro al pantano. Sindaci, federalismo… è rimasto solo pantano.
E così siamo arrivati alla Boschi che si intesta la riforma costituzionale…
Ma la riforma costituzionale! È una ridicolaggine! Diciamo la verità: una vera riforma costituzionale sarebbe stata una riforma che affrontasse in modo organico il tema del federalismo, che mutasse l’aspetto complessivo dello Stato, che normasse partiti e sindacati. Parlare di riforma costituzionale per quello che hanno partorito Renzi e la Boschi mi sembra patetico.
Lei usa parole forti, ma perché non si vede un’opposizione forte e strutturata?
Perché nel ventennio di cui si parlava, in Italia in particolare (ma vale per tutta l’Europa), è entrata in crisi la cultura politica e la tradizione socialdemocratica e le responsabilità di questo tracollo sono di D’Alema, di Veltroni e di Bersani e di tutti gli altri. Ma sarebbe inutile gettare la croce contro costoro perché il fallimento è generale: in tutta Europa la socialdemocrazia è andata a puttane. Dopo il grande momento e i grandi personaggi che sono stati protagonisti del tempo della Guerra fredda, le classi dirigenti della sinistra non sono più riuscite a rinnovarsi. Il mondo è cambiato, loro no. Se in politica cerchi di vivere di rendita prima o poi fallisci.

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Emma Bonino: «Tutti quelli che possono agiscano. È in gioco la vita di milioni»

La raggiungo telefonicamente in Oman, è lì da qualche giorno per studiare l’arabo e la regione. Ex ministro degli Esteri, grande conoscitrice delle questioni mediorientali, molte cose a Left le aveva già dette tempo fa, quando le chiedevamo di Is e terrorismo. «Occhio all’Arabia Saudita, il problema è lo scontro tra sunniti e sciiti», inevitabile allora cercarla ancora per chiederle a cosa può portarci questo conflitto esploso tra Riad e Iran: «Io francamente non ho la palla di vetro e non so cosa succederà. Né mi interessa investire tempo ed energie per formulare scenari drammatici. Quello che mi interessa è capire se esistano margini per chiunque possa – si tratti di Russia, Europa, Stati Uniti, altri Paesi del Golfo – abbassare la tensione tra l’Arabia Saudita e l’Iran».
E chi può?
Mi pare che Putin si sia offerto di fare il mediatore. Certo avrei preferito qualcun altro, ma insomma non bisogna dimenticare che, al di là della geopolitica o della geostrategia, c’è in gioco la vita di milioni di esseri umani. Va bene parlare di interessi e geografia ma sapendo che questo poi ha un riflesso sulla vita di milioni e milioni di persone. È chiaro che la scelta saudita di mandare a morte Al Nimr è stata un colpo durissimo per il dialogo siriano iniziato a Vienna e, per certi versi, anche all’accordo con l’Iran sul nucleare. Quindi, da una parte, è un messaggio a Teheran, e dall’altra, agli Stati Uniti.
«Un segno di debolezza dell’Arabia Saudita» hai dichiarato giorni fa…
Sì, a me questa provocazione così plateale sembra, diversamente da quanto pensano altri, un segno di debolezza dei Sauditi che hanno mille problemi a casa loro: la guerra in Yemen che non va bene, l’abbassamento del prezzo del petrolio che pure hanno voluto loro ma che sta comportando l’approvazione di alcuni piani di austerity nel Paese, le minoranze sciite piuttosto forti nell’est della regione, che poi è quella del petrolio. Alcune loro ribellioni sono state soffocate nel 2011 ma ovviamente covano sotto la cenere, come ovviamente cova sotto la cenere il disagio e lo stato di ebollizione della gioventù saudita. Hanno anche problemi di bilancio, per questo mi sembra un segnale di debolezza e come sempre i deboli sono arroganti. E prepotenti.

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Fuga dal Califfato o guerra Sauditi e Iran?

Iraqi security forces surround the government complex in central Ramadi, 70 miles (115 kilometers) west of Baghdad, Iraq, Monday, Dec. 28, 2015. Iraqi military forces on Monday retook a strategic government complex in the city of Ramadi from Islamic State militants who have occupied the city since May. (AP Photo/Osama Sami)

Assisteremo quest’anno alla disfatta di Daesh, le bandiere nere per terra, i miliziani in fuga, i foreign fighters che riprendono il vecchio passaporto e cercano rifugio in famiglia e nelle patrie che avevano ripudiato? La liberazione di Ramadi autorizza a sognarlo. Ramadi è la capitale della provincia sunnita di Anbar, posta a 90 chilometri dalla capitale sbarra ai seguaci del califfo la via per Baghdad e apre, invece, all’esercito iracheno la strada verso Mosul. Prima di Ramadi i Peshmerga curdi avevano preso il monte di Sinjar, luogo del massacro degli Yazidi, tra le due capitali del sedicente califfato Raqqa e Mosul. Intanto russi ed esercito di Assad bombardavano Aleppo e sbarravano l’accesso al mare, i curdi dopo Kobane si prendevano Tel Abyad al confine turco.

Durante tutto il 2015 il gruppo “Stato islamico” è stato costretto a lasciare parte del territorio su quale si vantava di aver imposto la legge islamica e che affermava di governare. Ha dovuto battere in ritirata e ha reagito cercando in ogni modo di internazionalizzare il conflitto. Come? Con gli attentati. Occhio alle date. L’irruzione nella redazione di Charlie Hebdo nel cuore di Parigi è del 7 gennaio, pochi giorni prima della fuga da Kobane. A fine ottobre una bomba del Daesh ha abbattuto in Sinai un aereo russo, dopo che «nelle 2 settimane precedenti – ha scritto Alberto Negri – Mosca aveva fatto di più sul piano politico e militare (contro Daesh) di quanto l’Occidente non avesse fatto in 4 anni». Infine, l’attentato al Bataclan: 13 novembre, quando ormai l’abbandono di Ramadi appariva nelle cose.

D’accordo, direte, vinciamo laggiù ma paghiamo il prezzo forte a casa nostra! Non è detto che così sia. Molti studiosi del terrorismo – e fra loro il sociologo franco-iraniano Farhad Khosrokhavar – sostengono che «un kamikaze non si radicalizza da solo» e che per questa nuova ondata di terroristi suicidi è particolarmente importante «il viaggio iniziatico in una terra di jihad. Un passaggio che permette al futuro kamikaze di diventare straniero alla sua stessa società d’origine e di acquisire la crudeltà necessaria per passare all’atto, senza sensi di colpa né rimorsi».

cover left n.2 | 9 gennaio 2015

 

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