Home Blog Pagina 1223

La differenza che c’è tra “conservatori” e “oppositori all’impoverimento costituzionale”

Il Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi e Andrea Orlando (d) alla Camera in occasione della votazione finale del disegno di legge sulle riforme costituzionali, Roma, 11 Gennaio 2016. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

La narrazione che funziona, mi spiegava un amico fine conoscitore delle cose politiche, ha bisogno di un protagonista e le sue difficoltà da superare: il giochetto, mi spiegava, sta tutto nel disegnare con furbizia le ostilità per forgiare la propria immagine. Semplice: per Silvio Berlusconi i nemici sono stati i giudici, per Grillo il sistema politico nel suo complesso, per Salvini gli immigrati, per Bossi i terroni e così via, in una sequela di nemici che in verità, ripensandoli, non fanno troppo onore allo spessore politico degli ultimi vent’anni. Matteo Renzi invece ha evoluto la forma del “nemico” nella forma più “pop”: sono nemici tutti quelli che si oppongono. Così pur venendo dalla storia democristiana della mediazione e del compromesso il Presidente del Consiglio (e la “fanfaniana” ministra Boschi) passa il tuo tempo a rivendicare le riforme “nonostante” l’opposizione.

Ieri, in questo stantio copione, i renziani al governo dopo avere concluso alla Camera l’iter di approvazione della riforma costituzionale hanno estratto dal cilindro l’epiteto del momento per minoranze e opposizioni: “conservatori”. “I conservatori non fermeranno le riforme” hanno ululato in coro Renzi e i suoi renzini alle agenzie di stampa, convinti come sono che ogni cambiamento sia un’innovazione al di là dei benefici che potrebbe portare.

Il “cambiare per cambiare” è inevitabilmente molto più semplice del “riformare per migliorare” ed è anche più facile da comunicare: “svecchiamo la macchina statale”, “rendiamo l’Italia più snella”, “superiamo il vecchio bicameralismo”, “riformiamo il Paese”, sono gli spot del momento. Un occhio attento nota subito come la riforma costituzionale si basi su ciò che viene debellato piuttosto che sul come sarà ricostruito.

Il fatto è che questa sfavillante confusione tra giovanilismo, riformismo e nuovismo in realtà è antipolitica applicata: il motore delle riforme è la nausea per ciò che è stato, senza analisi, senza una reale convergenza sugli obiettivi futuri, tutti presi dalla fretta di non sembrare fermi.

Significa “essere conservatori” sottolineare che la riforma costituzionale sia disastrosa, goffa e inconcludente? No, non credo, se è vero come è vero che il superamento del bicameralismo perfetto sia un punto di partenza condiviso da quasi tutti. È la riforma, cara Boschi e caro Renzi, che non funziona, non il riformare. E sarebbe meglio per tutti (Costituzione inclusa) rimanere sul punto.

È quasi legge la riforma di Renzi. Parte la battaglia sui referendum

Il Ministro delle Riforme Maria Elena Boschi e Maurizio Sacconi in Senato durante le votazioni degli emendamenti alla Riforma Costituzionale, Roma, 1 Ottobre 2015. ANSA/ GIUSEPPE LAMI

Non è solo Matteo Renzi che se la prende con i gufi e i professori. È una battuta di Matteo Orfini a fotografare questa volta la distanza tutta politica che c’è tra i banchi dei deputati Pd e la sala dei Gruppi, sempre a Montecitorio, a due piani di distanza, dove Stefano Rodotà presentava, con gli altri promotori, il comitato per il No al referendum costituzionale, annunciando peraltro di aver raggiunto le firme necessarie alla sua convocazione.

Dopo aver ringraziato Giorgio Napolitano e Maria Elena Boschi, Matteo Orfini ha infatti risposto a Maria Stella Gelmini intervenuta poco prima di lui per dichiarare il voto contrario di Forza Italia. «Vi siete ritrovati a citare Zagrebelsky e Rodotà», ha detto il presidente del partito democratico: «È un’inedita accoppiata che sarà divertente misurare nei fatti».

Dopo il voto prevedibile della Camera (367 i sì), il testo come ricorda il tweet del sottosegretario alle riforme Ivan Scalfarotto tornerà ora al Senato e poi nuovamente alla Camera. Non ci saranno sorprese, ma il passaggio al Senato è stato comunque bonificato da Renzi, che lo ha voluto prima del voto più spinoso sulla legge Cirinnà. Poi ci sarà il referendum, che è però già il vero terreno di scontro. Sul comitato del No, che ha l’appoggio di Sinistra Italiana, di Giuseppe Civati e dei 5 stelle, pesa però la propaganda di Matteo Renzi, la contrapposizione tra conservatori e innovatori, sposata come possiamo vedere anche da Roberto Formigoni.

Altro punto di forza del premier, poi, è quello di trasformare il referendum in un test sul governo. Non si vota solo la riforma, ma tutto il pacchetto, nonostante su questo si siano registrati i malumori anche della minoranza Pd: «Io», dice il premier alzando la posta, «non sono legato alla poltrona». Tradotto: se perdo, me ne vado. Per i costituzionalisti del No, il problema non è solo formale («Si vota sulla riforma», dicono, «e il referendum non è uno strumento a disposizione del governo»), ma è anche strategico: «Se non caricasse così la battaglia», è il commento che si raccoglie durante la conferenza di presentazione della campagna referendaria, «senza quorum, potrebbe anche perdere».

Helen Green l’illustratrice che David Bowie adorava

David Bowie © helengreen
David Bowie © helengreen

Per ricordare David Bowie, il Duca Bianco che è scomparso dopo 18 mesi di lotta contro il cancro, fan e illustratori hanno condiviso non solo le canzoni dell’eclettico musicista inglese, ma anche illustrazioni e gif animate, fra queste una in particolare ha fatto il giro del mondo ed è stata ripresa tra gli altri anche dal canale cultura della Bbc. L’autrice dell’animazione è Helen Green, artista britannica appena 23enne, che con i suoi ritratti ha immortalato i mille volti di Bowie.

http://dollychops.tumblr.com/post/107517113745/happy-birthday-david-bowie



 

La gif è composta da 29 immagini di Bowie cha vanno dagli anni come Ziggy Stardust passando per il film cult Labyrinth del 1986, nel quale interpretava Jareth, il perfido e affascinate re dei gobelin, fino ad arrivare al look del 2014. L’animazione infatti risale proprio a due anni fa quando la Green la postò sui suoi account facebook, instagram e tumblr il giorno del 67esimo compleanno del Thin White Duke. Ma questo non è l’unico ritratto realizzato dalla giovane artista britannica che da vera appassionata si è cimentata in molti lavori che vedevano il musicista come protagonista. In particolare ogni 8 gennaio Green era solita pubblicare un disegno a lui dedicato. «Era diventata una sorta di tradizione per me – spiega con un post sul suo sito web – creare qualcosa per festeggiare il compleanno di David Bowie. Un piccolo segno di apprezzamento per una persona che mi ha ispirato così tanto nel corso degli anni». Nel 2014 decise di “mettere la sua ispirazione in moto” il risultato, costato ben 35 ore di lavoro, lo avete visto tutti girare sul web oggi. Ma quell’anno fu lo stesso Bowie a incappare nella creazione della Green e a ringraziarla pubblicamente per il suo lavoro, tanto da far si che venisse intervistata dal quotidiano britannico The Guardian . Fedele alla sua tradizione anche quest’anno l’illustratrice aveva postato proprio tre giorni fa l’ultimo ritratto e una piccola animazione in cui si poteva sentire Black Star, il singolo dell’ultimo disco, lanciato proprio il giorno del 69esimo compleanno del cantante. Ecco alcuni dei lavori della Green che abbiamo selezionato per voi e per ricordare Bowie.

David Bowie, Blackstar (in progress)

Una foto pubblicata da Helen Green (@helengreeen) in data:


David Bowie, ★ #Blackstar #DavidBowie

Un video pubblicato da Helen Green (@helengreeen) in data:

Posting a new Bowie pattern/print/thing tomorrow! ⚡️

Una foto pubblicata da Helen Green (@helengreeen) in data:


>> Ascolta la playlist dedicata a David Bowie su Spotify  

[social_link type=”twitter” url=”http:/twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link]  @GioGolightly

Morricone vince il terzo Golden Globe, ma non è “solo” il mago delle colonne sonore

Ennio Morricone il Maestro per eccellenza, ha vinto il suo terzo Golden Globe per la colonna sonora dell’ultimo film di Quentin Tarantino, The Hateful Eight. Per lo stesso Tarantino – che ha ritirato il premio al posto del musicista ringraziandolo in italiano per il suo lavoro – aver collaborato con Morricone è la realizzazione di un sogno che aveva fin da bambino, quando guardava gli spaghetti western di Sergio Leone le cui musiche erano curate dal compositore italiano. «Per quel che mi riguarda – ha detto il regista – Morricone è il mio compositore preferito e quando parlo di compositore non intendo quel ghetto che è la musica per il cinema, ma sto parlando di Mozart, di Beethoven, di Schubert».

epa05096674 A handout picture provided by the Hollywood Foreign Press Association (HFPA) on 10 January 2016 shows Quentin Tarantino accepting the Golden Globe for Ennio Morricone for Best Original Score in 'The Hateful Eight' at the 73rd Annual Golden Globe Awards at the Beverly Hilton in Beverly Hills in Beverly Hills, California, USA, 10 January 2016. EPA/HFPA HANDOUT EDITORIAL USE ONLY/NO SALES

Ecco allora come qualche tempo fa il Maestro si era raccontato a Left in un’intervista di Tiziana Barillà:

 

Maestro, lei è da molti considerato “il mago delle colonne sonore”, le sta stretta questa definizione?
Se si pensa a me solo come compositore per il cinema, mi sta strettissima. Tanto è vero che la mia musica, quella che io chiamo “assoluta” e cioè non condizionata da un’altra arte come il cinema, si sta eseguendo sia in Italia che all’estero, e grandi direttori la dirigono.

Qual è la differenza tra ascoltare le sue musiche eseguite in un concerto oppure al cinema?
C’è una grande differenza. Mentre la musica per il cinema viene fatta su misura per una certa scena o per certe sequenze, in un concerto live la eseguo interpretandola in maniera diversa, senza pensare al cronometro.

C’è più libertà, quindi?
Sì, assolutamente. Come una composizione sinfonica normale.

Lei conosceva molto bene Leone, eravate addirittura compagni di classe. Come lo ricorda?
Lo ricordo bene. Lui era non solo un grande regista, ma un grande amico. Addirittura siamo stati vicini di casa, a 200 metri, qui a Roma. E le nostre famiglie, la mia e la sua, sono amiche ancora adesso.

Avete avuto una collaborazione artistica molto lunga, cominciata nel lontano 1964. C’è una scena o un momento in particolare che ricorda?
Sergio era molto meticoloso nel fare i suoi film. Quando mi parlava di un film, ancora prima di girarlo, mi raccontava le inquadrature, faceva proprio il gesto della macchina da presa con le mani. Era molto attento ai particolari. Ovviamente non mi raccontava tutte le scene, ma quelle principali, che si sarebbero rive- late fondamentali per la musica.

Crede che l’Italia abbia ancora delle eccellenze in campo musicale?
Sì, eccellenze enormi. Ma non sono aiutate. E alcuni cambiano mestiere.

Maestro, lei ha uno strumento che predilige?
L’organo, quello vero. Non quello meccanico, elettrico, ma l’organo da chiesa. Quello di Santa Maria degli Angeli, a Roma, è straordinario.

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”” ][/social_link]  @LeftAvvenimenti

A cinquant’anni dalla scomparsa di Giacometti negli scatti “rubati” di Cartier-Bresson

1958. Alberto GIACOMETTI in his studio.

Alberto Giacometti , da artista, aveva scelto di mettere l’essere umano al centro della propria ricerca. Creando esili sculture dal volto arso che un po’ gli assomigliavano. Anche il fotografo Henri Cartier- Bresson amava presentarsi come un uomo che si occupa quasi esclusivamente dell’uomo, convinto che: «I paesaggi sono eterni, mentre io vado di fretta». Fu così, andando di fretta che riuscì a fare questo scatto “rubato” che ritrae Giacometti sotto la pioggia. A cinquant’anni dalla sua morte, avvenuta l’11 gennaio del 1966,  dopo le sue anti eroiche sculture, niente sembra restituircene il carattere e la personalità schiva più di questa immagine che fa parte dell’archivio Magnum. Così come queste altre immagini che mostrano Giacometti nel suo studio, e come sdoppiato, triplicato nella serie di sculture che come autoritratti fanno di lui uno, nessuno e centomila. L’artista di origini svizzere era nato nel 1901 ed era figlio d’arte. Suo padre, il pittore Giovanni Giacometti riuniva nella casa di Stampa, in Val Bregaglia, gli intellettuali più importanti della  cultura svizzera del tempo.  E questo fu per lui di grande stimolo. Giovanissimo esprimeva già una propria originale poetica nei ritratti dei genitori, del fratello Diego. Come accadrà poi con la moglie Annette e con l’ultima amante, Caroline, Giacometti  cercava di rappresentare  il «mistero di quei volti e della vita riflessa in essi», cercando di «possedere un’apparenza che di continuo sfugge».

E’ questo il filo rosso di ricerca che attraversa tutto il suo lavoro. E che si sviluppa negli anni francesi quando nel 1922 studiava a Parigi con Bourdelle, mentre dominava ancora il cubismo, seppure in forme ormai diventate “tarde”. Parigi significò per lui anche la scoperta dell’Art Nègre al museo etnografico del Trocadéro, frequentato da Picasso e Modigliani attratti dalla inusuale bellezza di sculture africane, fuori dal rigido canone vitruviano e prive di quella marmorea grazia imposta dal neo classicismo. Una amara bellezza, fragile, tormentata è quella che caratterizza tutta l’opera di Giacometti, fra  misteriose ricreazioni dell’ombra della sera, ed esuli sculture appese a un filo che tolgono a Pinocchio tutto il baccano burattinesco, facendone una maschera attonita. Sempre più,  nel trascorrere degli anni, cercherà di superare le barriere fra i generi, attraverso creazioni nate assemblando scultura, pittura e disegno. L’attrazione per il Surrealismo,che aveva conosciuto nel 1930 tramite Cocteau, Noailles e Masson, durò poco: dopo la sua prima personale a New York, Andrè Breton decise di espellere Giacometti dal movimento surrealista apparentemente per la decisione dello scultore svizzero di tornare al “vero” in arte e a questo furono dedicati soprattutto gli anni della guerra trascorsi in Svizzera. Al ritorno a Parigi si avvicina a Sartre e ad altri pensatori esistenzialisti.

Intanto le sue sculture si assottigliano sempre più e lui, nonostante il crescente successo, le numerose mostre in giro per il mondo, diventa sempre più riottoso alle regole sociali del jet set dell’arte internazionale. Come raccontav la scrittrice Grazia Livi in una intervista apparsa su L’Europeo mel 1963 e realizzata nello studio di Giacometti dove c’era solo una branda  circondata da cartacce.

Interpellato sul tema della  solitudine come condizione  dell’uomo contemporaneo, Giacometti rifugge dagli slogan e dalle immagini stereotipate di se stesso che gli assegnano i giornali. «Se un uomo soffre di solitudine – dice – può soffrirne da solo o in mezzo agli altri. E poi la solitudine delle grandi città moderne, per esempio, non è certo peggiore di quella delle antiche città medievali dove gli uomini, di notte, giravano addirittura col coltello in tasca per difendersi». Eppure tutta l’arte contemporanea, l’arte astratta, incalzava l’intervistatrice «sembra proprio rappresentare questa condizione di solitudine dell’uomo, questa rottura di rapporto con la realtà, con la tradizione, con se stesso».

«Secondo me, l’arte astratta non esiste – rispondeva Giacometti -. Io la chiamo “arte concreta”, come Kandinsky. C’è semmai questo: che l’arte di oggi rappresenta la realtà, ma in modo diverso. La scienza, infatti, ci ha dato degli strumenti di conoscenza che hanno sconvolto completamente la nostra visione della realtà. La fotografia, i raggi X, gli apparecchi microscopici, hanno fatto sì che noi potessimo entrare dentro ai segreti stessi della materia: ingrandendoli, deformandoli. Un tempo una testa era una testa, un braccio era un braccio, e attraverso la pittura e la scultura lo si vedeva nella sua totalità, e non c’erano dubbi. Oggi, invece, la fotografia ha dato una visione del mondo tale, e così sufficiente, in apparenza, che ha fatto crollare tutta la pittura di ritratto, ad esempio, e nello stesso tempo ha messo l’artista nella condizione di dover dipingere altre cose, come la sua vita interiore, il suo inconscio, le sue sensazioni».
[huge_it_gallery id=”96″]

Messico: la violenza, le polemiche e la buona storia di Carlos Cruz

A suon di colpi di scena, in queste ore il Messico viaggia a vele spiegate sui giornali e sui vostri smartphone: l’assassinio di Gisela Mota, sindaco di sinistra e anti-narcos di cui parliamo su Left in edicola, prima e l’arresto di El Chapo Guzman poi. E non si sono fatte attendere le polemiche, con Roberto Saviano su Repubblica (potete leggerlo qui: “Il sacrificio di Gisela, sindaco per un giorno”) che si prende l’onere di spiegare cosa accade in Messico e il giornalista Federico Mastrogiovanni da Città del Messico che replica con un netto: “Saviano racconta un Messico che non esiste”. Il Messico “vanta” le gang criminali più pericolose del mondo, primati in omicidi (sin dal 2006 viaggia a una media di oltre 50 morti al giorno) e femminicidi (una media di sei al giorno); poi ci sono i desaparecidos, i rapimenti dei migranti che attraversano il Paese nel tentativo di raggiungere gli States (20.000 sono solo quelli censiti dalla Commissione nazionale per i diritti umani messicana). E, infine, la madre di tutte le piaghe: l’impunità, quella corruzione egemone che alimenta la violenza e con essa lo scetticismo dei messicani (interessante in proposito è lo studio di Opendemocracy che ne spiega bene il nesso). Numeri pesanti e primati inquietanti, in quel di Città del Messico, non sono certo una novità, e tornano ad affiorare dopo fatti di cronaca. Senza ridurre un Paese intero e la sua popolazione a un sinonimo – di Violenza, per esempio – vale la pena raccontare anche quel che di buono stenta a crescere in quel di Città del Messico.

Storie come quella di Carlos Cruz, che fino al 2000 è stato il leader di una delle “pandilla” (gang in gergo messicano) più violente di Città del Messico, e che poi ha deciso di cambiare vita, fondando Cauce Ciudadano AC, un’organizzazione sociale che lavora per impedire l’ingresso di bambini e giovani nelle reti di criminalità organizzata. Oggi Carlos è un “pandillero de paz”: denuncia la corruzione, la violenza dei narcos, gli abusi della polizia e i traffici illeciti di Città del Messico. Costretto a lasciare il suo Paese a ottobre, dopo minacce e attentati, Carlos si trova adesso a Chicago. Lo raggiungiamo grazie alla rete di Libera internazionale, della quale Carlos e Cauce Ciudadanos fanno parte.

Carlos Cruz a Roma, durante la permanenza italiana, ospite di Libera international
Carlos Cruz a Roma, durante la permanenza italiana, ospite di Libera international

«Per salvare vite non basta diminuire gli omicidi», ci mette subito in guardia Carlos: «Per salvare le vite bisogna promuovere la sicurezza umana, garantire i diritti e sviluppare le capacità di ogni persona». L’arma di Cauce Ciudadano è la pedagogia, tra i giovani pandilleros messicani – che si trovano per lo più nelle strade di periferia di Città del Messico, è nei quartieri periferici della megalopoli che si registrano i tassi di violenza più alti. E proprio qui i centri di Cauce Ciudadano servono più di 3.000 bambini e giovani ogni anno: laboratori informatici, serigrafia, cucina, una web radio e uno studio di registrazione. Finora i volontari di Cauce Ciudadano (oltre 700 nelle scuole) hanno incontrato e operato con più di 10.000 giovani messicani. «Quando tua madre impara a leggere all’età di 16 anni, proprio a causa dell’assenza dello Stato, questo porta ad un’assenza di comprensione», racconta Carlos. «Mia madre mi ha detto che se avesse saputo anche solo il 10% di ciò che so io non mi avrebbe mai educato a questo tipo di violenza. Quando si vive in un mondo violento si crede che sia l’unico modo per risolvere i conflitti».

 

Da ragazzino Carlos decide di trasformarsi da vittima in carnefice e dà vita a una pandilla che in poco tempo prende piede e potere. «Senza mai diventare parte del crimine organizzato», tiene a precisare Carlos. Furti, traffico di armi, falsificazione, estorsione e, ovviamente, processi. E omicidi. Quando nel 2000 tocca a un compagno di gang lasciarci la pelle, Carlos – bloccato da una ferita riportata – decide di optare per lo stop e non per la vendetta. Alcuni lo seguono, altri lo prendono per pazzo e restano nel business. Chi va con Carlos comincia a chiedersi come sopravvivere a quella violenza: «Abbiamo scoperto di essere uniti come in una famiglia, con un forte senso di fratellanza e solidarietà reciproca. Eravamo un gruppo di criminali, ma abbiamo deciso di iniziare un percorso pedagogico che ci ha trasformati in educatori popolari. Abbiamo capito che, se avessimo imparato a insegnare, avremmo potuto generare un’alternativa». Il quartiere li ha accettati e oggi, oltre a lavorare dentro le scuole con i ragazzi di 11-15 anni, Cauce Ciudadano si occupa anche di processi di pace tra quartieri, e cerca una linea di dialogo con lo Stato. Da pandillero a educatore e operatore di pace, si può. L’esistenza stessa di una storia come quella di Carlos è di per sé educativa per i giovani messicani.

[huge_it_gallery id=”95″]

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/TizianaBarilla” target=”on” ][/social_link] @TizianaBarilla

10, 100, 1000 David Bowie

David Robert Jones, era nato a Brixton, Londra, l’8 gennaio 1947. Aveva 69 anni e da qualche tempo anche un cancro. Il suo ultimo Black Star è uscito qualche giorno fa, giorno del suo compleanno, non si esibiva in pubblico dal 2006. E da anni andava e veniva con nuovi esperimenti e tentativi musicali mai scontati, nonostante una carriera che lo vede diventare un’icona già nel 1974. Da allora ha cambiato mille facce, stili, modi di presentarsi e rappresentarsi. Ed è sempre rimasto una figura popolare. Che si trattasse di Ziggy Stardust o Bowie il berlinese asciutto o l’icona pop anni ’80, funzionava sempre e cambiava un po’ la musica e il suo modo di rappresentarsi. Bowie è un’icona musicale ma molto di più. Le molte foto dell’archivio Getty qui sotto, sono una bella rappresentazione di un’immensa carriera artistica.

L’Isis tra Iraq e Siria, una cronologia per non perdersi

isis-timeline-eventi

Nel 2015 abbiamo imparato a conoscerlo, lo abbiamo visto colpire a Parigi nel cuore dell’Europa, ma anche a Beirut e nello Yemen. Lo abbiamo chiamato con i suoi molti nomi, alcuni più corretti altri meno: Stato Islamico, Is, Isis, Isil, infine Daesh. Nel numero 45 di Left, l’anno scorso, vi abbiamo raccontato “come si alimenta il terrore”, da dove arrivano le armi con cui i jihadisti cercano di ridefinire i confini del Medio Oriente, le ingenti risorse economiche (circa 2 miliardi di dollari) di cui dispone il Califfo nero, Abu Bakr al-Baghdadi. Questa settimana sul n. 2 di Left facciamo invece un bilancio sull’incubo del terrorismo, sulla guerra al terrore voluta dall’Occidente, sulla guerra per il potere che coinvolge, soprattutto in Siria, le potenze mondiali. E cerchiamo di guardare lontano e capire cosa accadrà e come si evolverà una questione che occuperà, come è ovvio, buona parte della copertura mediatica per questo 2016. Per accompagnare i contenuti del cartaceo e permettervi di farvi un’idea chiara e completa vi proponiamo quindi una cronistoria attraverso cui ripercorrere i momenti principali delle avanzate e delle ritirate di Isis. Dalla presa di Mosul e Kobane alla caduta di Ramadi, passando per i vari attentati e le esecuzioni che dimostrano la brutalità del sedicente Stato Islamico.

 

cover left n.2 | 9 gennaio 2015

 

Gli approfondimenti continuano su Left in edicola dal 9 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link]  @GioGolightly

Trivellano ma diranno che è solo un assestamento

Gli italiani sono così. Da sempre. Quando una legge ingiusta comincia a germogliare negli scorci di qualche decreto mentre una minoranza si lancia alla ricerca di un’opposizione e almeno un dibattito dall’altra una gran parte dei cittadini rimane mansueta finché non coglie veri caratteri di emergenza. E così se siete tra quelli che hanno pensato alla questione “trivelle” come una remota possibilità che potesse interessare solo qualche nugolo di pesci a mare aperto beh, sappiate che vi siete sbagliati. E il momento della presa di coscienza è arrivato.

Sono 326 le autorizzazioni a martellare buchi per terra e per mare e nell’elenco si passa dalle isole Tremiti a Isola Capo Rizzato, da Santa Maria di Leuca a Pantelleria passando per Venezia e la Lombardia. Il Ministero dello Sviluppo Economico ha deciso di dare il via libera a trapanamenti (e spari, con la tecnica «airgun» che consiste nel produrre un picco ad altissimi decibel nel fondo del mare) il 31 dicembre mentre gli italiani visitavano le profondità alcoliche di un capodanno anticipato per business con qualche bestemmia in sovrimpressione.

Insomma: il regalo del 2016 è fare l’uncinetto con il territorio per la felicità delle lobby petrolifere che, ne siamo certi, avranno un’angosciosa attenzione nel preservarne la bellezza. Certo. Solo in Lombardia, tanto per andare sui numeri, ci sono quasi 4.000 metri quadrati (quattromila, sì avete letto bene) a disposizione di 15 permessi accordati. Segnatevelo quando ascoltare la prossima “pippa di Governo” su bellezza e consumo di suolo. Oppure c’è il caso delle isole Tremiti (che oggi diventano la località più onomatopeica d’Italia) per cui la Proceltic Italia srl paga 5 euro e 16 centesimi per metro quadrato per un incasso da parte dello Stato di ben 1,928 euro e 292 centesimi: meno dell’affitto i un posto barca, per dire.

Così mentre il Governatore della Puglia Michele Emiliano promette battaglia (ora che risuonano gli scalpelli) sono certo che Matteo Renzi stia già preparando la prossima newsletter in cui ci propinerà il solito soliloquio sulla bellezza, sull’Italia meravigliosa e sul territorio da difendere. Se sentirete rumore di trivelle non preoccupatevi, non ingufatevi: ci diranno che è solo un assestamento. Succede, quando si riparte. Ci diranno.

Il giorno del comitato del No: “Vogliamo la Repubblica non un principato”

Una giornata particolare e due eventi quasi paralleli: mentre alla Camera i deputati approveranno il ddl Boschi, la riforma costituzionale che sancisce la fine del bicameralismo perfetto, poco distanti, nell’aula dei gruppi parlamentari costituzionalisti e magistrati spiegheranno “le gravi violazioni apportate da tale riforma ai principi costituzionali supremi”. Dire che si tratta di due opposte visioni dello Stato è quasi un eufemismo.

All’incontro del Comitato per il no al referendum sulla riforma costituzionale, presieduto da Alfiero Grandi e Domenico Gallo del Coordinamento per la democrazia costituzionale, prenderanno parte e parleranno: Alessandro Pace, Lorenza Carlassare, Stefano Rodotà, Massimo Villone, Felice Besostri, Gianni Ferrara, Gaetano Azzariti. Le conclusioni sono affidate a Gustavo Zagrebelsky. Sono i “professori” a cui i renziani sono allergici. Un gruppo di giuristi, magistrati e costituzionalisti che in questi mesi si è opposto in tutti i modi alla riforma costituzionale Boschi. Con Domenico Gallo, magistrato e giudice di Cassazione facciamo il punto sull’incontro di oggi a cui sono invitati, ricordiamo, tutti i parlamentari dell’opposizione.

Giudice Gallo, ci spieghi il senso di questo appuntamento del Comitato del no.

La cultura giuridica democratica si organizza e lancia un messaggio alla società. Lo fa attraverso un dibattito pubblico a cui partecipano personalità che sono espressione del più alto livello raggiunto da questa cultura in Italia. Il problema non è fare il referendum pro o contro Renzi: questo è il modo scorretto di affrontare la questione della partecipazione dei cittadini alle decisioni circa la costituzione. Che è, ricordiamo, la casa di tutti. La Costituzione è qualcosa che va al di là delle vicende di Renzi o di qualche altro politico, è l’architettura dei poteri attraverso i quali vive una società organizzata in Stato.

E cosa accade se si cambia la Costituzione?

Quando si cambia questa architettura, dobbiamo ragionare per vedere se è confacente ai nostri bisogni, ai nostri desideri e alle nostre aspettative di libertà. Oppure se la nuova architettura non rischia di essere una prigione o di farci passare da una repubblica a una sorta di principato.

Un principato?

Attraverso una interazione tra riforma costituzionale ed elettorale, viene fuori non una revisione della Costituzione ma il suo superamento. Lasciamo la Costituzione repubblicana con i suoi pesi e contrappesi per entrare in un altro territorio. Questa non è una lotta tra conservatori e riformatori. In realtà i riformatori attuali vogliono spostare l’orologio non in avanti ma indietro. Vogliono farci tornare ad una situazione precedente all’avvento della Repubblica, in cui l’architettura dei poteri è orientata all’autocrazia. Vorrebbero creare un principato, non una repubblica democratica fondata sull’eguaglianza dei cittadini e sul parlamento rappresentativo.

Chi si oppone alla riforma costituzionale viene accusato di essere difensore della casta, come ha detto Renzi. Che tipo di lavoro vi attende?

Noi dobbiamo spiegare come stanno le cose. Certe riforme passano con il consenso popolare solo attraverso la mistificazione dei problemi reali e quindi si inventano degli slogan. Si cavalca una insoddisfazione che è palese e profonda del popolo italiano rispetto al ceto politico, ma per colpire le istituzioni democratiche, per ottenere l’eterogenesi dei fini. Perché se noi siamo insoddisfatti e non abbiamo fiducia in questi partiti e in questo ceto dirigente, si crea un clima per cui poi alla fine si mette tutto in mano a un super partito con super poteri. Questo va in direzione opposta alle aspirazioni del popolo italiano.

A chi vi rivolgete? Ci saranno interventi dei politici?

In questa fase non è previsto l’intervento dei politici. Vogliamo che il discorso sui motivi per cui ci opponiamo a questo progetto di riforme debba nascere dalla cultura democratica. Che naturalmente deve incontrare le parti politiche e deve estendersi e raggiungere i cittadini attraverso una mobilitazione di base che noi ci sforziamo di far sorgere. In questa prima fase è necessario mettere a fuoco gli argomenti di merito, in modo che poi ci possa essere la buona politica. Bisogna insomma superare il divorzio tra la cultura e la politica e dobbiamo superarlo partendo dalle reazioni della cultura giuridica democratica. Comunque rivolgeremo un appello ben preciso ai parlamentari che votano no alla riforma costituzionale. Chiederemo di promuovere loro il referendum, previsto dall’articolo 138 della costituzione. Speriamo che ci siano comunicazioni in tal senso durante l’assemblea, ma lo dovrebbero richiedere un minuto dopo l’approvazione del testo (ad aprile il sì definitivo e la seconda lettura formale tre mesi dopo Ndr).

Quali sono gli errori più macroscopici della riforma per cui si rischierebbe il principato?

L’impostazione generale porta ad un risultato che sfigura profondamente l’architettura dei poteri. Con questa riforma si toglie di mezzo un ramo del Parlamento che si riduce ad una sola Camera, ma su questa grava lo “scarpone” del capo politico, del presidente del Consiglio, del capo del partito vincente, che in pratica nomina quasi tutti i parlamentari del suo gruppo e dà un controllo anche sui tempi, per cui viene sancita la supremazia del governante sull’unica Camera che legifera , venendo indeboliti gli organi di garanzia. L’unico partito che controlla il Parlamento, un po’ alla volta controllerà il Presidente della Repubblica e attraverso questi aumenterà la sua influenza sulla Corte costituzionale – quello che voleva Cossiga – . Un potere esecutivo forte e garanzie deboli. E’ proprio questo di cui abbiamo bisogno? Sarebbe meglio un potere esecutivo autorevole suffragato dal voto e garantito da strumenti di garanzia forti che consentano di correggere tutti gli abusi di potere. La doppia decisione svolge la funzione di garanzia, consente ai cittadini di partecipare, di stimolare il Parlamento a cambiare le leggi. L’esperienza storica ce lo insegna. La Corte costituzionale, per esempio, è stata costretta a cancellare leggi palesemente irragionevoli. Soprattutto in un momento come questo in cui per le vicende internazionali i diritti fondamentali sono indeboliti, bisogna rafforzare le garanzie e non i poteri di chi comanda.

La motivazione della riforma è garantire la governabiltà. Lei che dice?

Sì, è questo l’argomento chiave, su cui l’opinione pubblica spesso si ritrova. Ma il dogma della governabilità è il vecchio argomento dei sostenitori del principato che sarebbe più stabile rispetto alla repubblica. Non ci piace questo, perché non ci salva dagli abusi. La stabilità deve essere basata sul consenso e sull’autorevolezza della politica. E non può essere fondata diminuendo i contropoteri.

Per l’autorevolezza della politica occorrerebbero anche la riforma dei partiti e classi dirigenti più competenti…

Sì, certo, ma per avere la riforma dei partiti e delle classi dirigenti, occorre che ci sia la piena agibilità politica delle istituzioni rappresentative. Cioè che ci sia la possibilità che si crei concorrenza tra i partiti affinché tutti possano accedere nelle istituzioni. Come purtroppo è avvenuto negli anni del maggioritario, la qualità della classe dirigente scade sempre, perché non la possiamo rinnovare, non la possiamo cambiare, decidono tutto loro. Se noi eliminiamo i controlli e diminuiamo la possibilità di essere rappresentati e di incidere sui nostri rappresenntanti, poi purtroppo la qualità delle classi dirigenti diventa scadente.

Come sta andando il rapporto tra il Coordinamento e la Coalizione sociale con la quale già dall’anno scorso ci sono stati incontri sul tema dei referendum?

Abbiamo avviato il percorso sui due referendum abrogativi dell’Italicum e la raccolta delle firme dovrebbe partire ad aprile. Contemporaneamente dovrebbero partire dei referendum promossi dalla Fiom (su cui si devono esprimere gli iscritti Cgil Ndr) sulle questioni del Jobs act e sono in cantiere anche i referendum che riguardano la Buona scuola. A questo punto si dovrebbe creare la coalizione sociale nei fatti. Nella società, attraverso l’impegno concreto di sindacati, movimenti, comitati. Speriamo poi che questa coalizione sociale quando si arriverà al referendum, faccia sentire pienamente la sua voce.