Home Blog Pagina 1222

Non solo Colonia. Quelle terribili storie di viaggio e violenza sulle donne in fuga verso la Germania

stupro colonia questione maschile

Lo abbiamo letto su tutti i giornali quello che è successo a Colonia in Germania, dove un gruppo di immigrati ha molestato in massa la notte della vigilia di Capodanno centinaia di donne tedesche. Tutti gli indizi per cercare di fare chiarezza sui fatti sembrano portare verso una sorta di flash mob della molestia che ha coinvolto almeno 10 richiedenti asilo e 9 presunti clandestini di origine islamica. Di fronte a un episodio del genere capire cosa davvero è successo e soprattutto arginare le reazioni di pancia del “noi contro loro”, del “vengono qui e fanno quel che vogliono”. È difficile, ma necessario. Alzare lo sguardo, raccontare un’altra storia, altrettanto drammatica, ma dove le parti (a volte) sono invertite può aiutare a concentrarsi sulla reale questione di tutto questo, che più che un noi-loro, è il tema della violenza sulle donne.
Il 2 gennaio il New York Times ha pubblicato un reportage firmato da Katrin Bennhold che racconta la storia di alcune donne in fuga dai Paesi islamici e dalla guerra, costrette, nel loro disperato viaggio verso la Germania, a subire molestie da una immensa varietà di uomini, anzi di maschi. Scafisti, trafficanti, ma qualche volta anche poliziotti o membri dell’esercito. Di un paese europeo, non di un Paese musulmano. Una donna siriana durante il viaggio è stata costretta a pagare con ripetute prestazioni sessuali durante il tragitto il debito che il marito aveva con i contrabbandieri che li stavano portando in Germania. Un’altra è stata picchiata fino a perdere i sensi da una guardia carceraria ungherese perché aveva rifiutato le sue avances. Anche Esraa al-Horani ha una storia da raccontare al quotidiano statunitense, faceva la make up artist, poi ha deciso di partire alla ricerca di un futuro migliore. Lontano dalla guerra e dalla fame. Sapeva però che il viaggio sarebbe stato pericoloso e così ha ideato uno stratagemma; così ha affrontato la traversata verso l’Europa travestita da ragazzo e senza lavarsi, per tenere lontani gli uomini del suo gruppo di rifugiati e evitare stupri e molestie sessuali. Ora si trova in una casa di accoglienza a Berlino, dorme ancora con gli stessi indumenti e, come molte altre donne qui, la notte spinge un armadio davanti alla sua porta. Per sentirsi almeno un po’ più al sicuro. «Qui non esiste una chiave o un lucchetto» (il servizio di accoglienza non può fornirne perché è stato necessario tagliare i costi ndr) dice Esraa, che è una delle poche donne che ha avuto il coraggio di rivelare il proprio nome, perché in questa situazione, a una donna fa paura anche solo rivelare il proprio nome. Meglio nascondersi, passare inosservate, fingere di non esistere. Esraa è stata fortunata, dice: «Mi hanno solo picchiata e derubata». Ad altre è andata peggio.


Non esistono statistiche ufficiali, ma le testimonianze raccolte rivelano che queste donne incappano spesso in matrimoni forzati, stupri e violenze perpetrate sia dai profughi loro compagni di viaggio che da contrabbandieri. Addirittura da agenti di polizia di nazionalità europea


Le testimonianze raccolte dal New York Times intervistando decine e decine di migranti, assistenti sociali, volontari e psicologi che si prendono cura di chi arriva traumatizzato in Germania, rivelano che questa migrazione di massa è sicuramente accompagnata da un aumento delle violenze contro le donne. Non esistono ancora statistiche ufficiali e attendibili che registrano in numeri gli abusi e le molestie sessuali che le donne rifugiate sono costrette a subire durante il tragitto, ma, a quanto riscontrato, dall’autorevole quotidiano statunitense, non di rado queste donne incappano in matrimoni forzati, stupri e violenze perpetrate sia dai profughi loro compagni di viaggio che da contrabbandieri o, addirittura da agenti di polizia, anche appartenenti a paesi membri dell’Unione.
Susanne Hohne lavora come psicoterapeuta in un centro specializzato nel trattamento di donne migranti traumatizzate che si trova a Berlino Ovest e racconta che delle 44 pazienti che aveva in cura – alcune appena entrate nella fase adulta altre anche ultra sessantenni – quasi tutte hanno avuto esperienze di violenza sessuale. Alle migranti Susanne e il suo staff, composto da altri 18 terapisti, riservano almeno due sedute a settimana alle quali si aggiungono fino a sette ore di lavoro che comprendono visite a casa e un aiuto per cercare di inserirsi nel tessuto sociale tedesco. A giudicare da quanto dice la Hohne, le storie che lei e il suo staff ascoltano ogni giorno sono terribili. «Andiamo noi stessi in terapia almeno due volte al mese per cercare di far fronte alle reazioni emotive che generano in noi i racconti delle vite di queste donne». Una trentenne siriana per esempio, madre di 4 bambini, è fuggita dalla guerra insieme alla sua famiglia all’inizio dell’anno scorso. Quando il marito ha finito i soldi per pagare i trafficanti che li stavano portando in Europa, gli ha offerto sua moglie per saldare il resto delle spese di viaggio. Per tre mesi la ragazza è stata violentata quasi ogni giorno. Presto anche il suo stesso marito cominciò ad abusare di lei, «una sorta di logica contorta – spiega Susanne Hohne – per cui ciò che il suo compagno l’aveva costretta a fare, aveva finito per infangare la sua reputazione rendendola in qualche modo colpevole agli occhi di lui». Ora la donna è riuscita a ottenere asilo a Berlino insieme ai suoi figli mentre il suo ormai ex marito vive altrove, ma sempre in Germania. Contro di lui, poco dopo il loro arrivo lì, è stata emanata un’ordinanza restrittiva dopo che più volte aveva cercato di molestarla seguendola per strada. Lei intanto vive nel terrore: terrore che accada di nuovo, terrore di essere uccisa da lui o dalla sua stessa famiglia. «Presenta tutti i segni di un disturbo post-traumatico da stress – racconta sempre Susanne Hohne al corrispondente del Nyt – soffre di insonnia e difficoltà di concentrazione e spesso si blocca a causa di alcuni flashback che la riportano indietro nel tempo convinta di essere intenta a schivare i proiettili per le strade di Damasco o di nuovo in Bulgaria schiacciata dal peso e dalla violenza del suo stupratore». Non è tanto diversa la sorte di chi arriva in Grecia, anche qui si registrano molti casi di violenze e molestie spiega William Spindler di Unhcr.


S. presenta tutti i segni di un disturbo post-traumatico da stress, soffre di insonnia e difficoltà di concentrazione e spesso si blocca a causa di alcuni flashback che la riportano indietro nel tempo convinta di essere intenta a schivare i proiettili per le strade di Damasco o di nuovo in Bulgaria schiacciata dal peso e dalla violenza del suo stupratore


La brutalità della guerra in patria, lo sfruttamento dei contrabbandieri e le insidie del mare lungo la strada, una accoglienza incerta e futuro in un continente straniero altrettanto incerto. Questi sono solo alcuni dei rischi affrontati da decine di migliaia di migranti che continuano a farsi strada verso l’Europa dal Medio Oriente e dall’Africa. Ma ad ogni tappa del percorso, i pericoli sono molto più grandi se a percorrerlo è una donna. In Europa nel 2015 sono arrivate oltre un milione di persone attraverso la rotta dei Balcani o il Mediterraneo, di queste le donne sono solo un terzo, gli uomini sono la maggioranza e dominano.
Joan Schebaum, gestisce due case per richiedenti asilo a Berlino Est, secondo lui: «Le donne vivono all’ombra del marito, le loro voci vengono costantemente soffocate e questo è un problema». Sono le ultime a mettersi in fila per ricevere il cibo, escono e partecipano poco alle attività che vengono organizzate per favorire l’integrazione. Spesso inoltre l’asilo favorisce le coppie sposate rendendo ancora più difficile per le donne uscire da questo incubo.Il punto secondo Susanne Hohne non sono le donne, la questione è per lo più maschile, non si tratta di essere siriani, musulmani, cristiani, tedeschi o italiani. «Non ci sono soluzioni semplici – spiega – dobbiamo capire che non esistono solo il bianco e il nero, se vogliamo aiutare le donne, dobbiamo aiutare gli uomini».
Un altro sguardo che va oltre le nazionalità scritte sul passaporto e che c’entra la vera questione in gioco è quello della blogger Giulia Blasi che commenta così i fatti accaduti in Germania la notte di Capodanno: «Della faccenda di Colonia si parla in questi giorni in termini di diversità culturale, di uomini che vengono da paesi in cui le donne sono sottomesse, di maschilismo sistemico. In quarantatré anni che sto sul pianeta da femmina ho imparato una cosa: che io, in quanto femmina, non ho diritto a usare lo spazio come un uomo». Ed è qui il problema. Le storie delle donne che arrivano attraversando mezza Europa nella civile Germania potrebbero riportare di aver appreso la stessa lezione vivendo. Non è per questo forse che Esraa al-Horani, per sentirsi più sicura, si è travestita da uomo?

Le vittime più frequenti sono donne e bambini

Durante il viaggio a subire abusi non sono solo le donne, ma spesso anche i bambini vengono forzati ad avere rapporti sessuali con i trafficanti per pagare il viaggio dei propri famigliari. La denuncia viene direttamente dall’Unhcr che ha chiesto alle autorità di tutta Europa di adottare misure di sicurezza urgenti. L’organizzazione teme il rischio di violenze sessuale e gli abusi contro le donne migranti e i loro bambini (alcuni dei quali finiscono per viaggiare da soli) che si stanno spostando verso l’Unione Europea.

 


 

Ne parliamo anche sul n. 3 di Left in edicola dal 16 gennaio 2016

 

SOMMARIO ACQUISTA

 

 [social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/GioGolightly” target=”” ][/social_link]  @GioGolightly

Polonia ed Europa ai ferri corti per la legge sui media. Polacchi fuori dall’Eurovision 2015?

La tensione tra istituzioni europee e governo polacco è alle stelle. La decisione della Commissione Juncker di avviare una specie di procedura di infrazione sullo stato di diritto in seguito alla scelta di Varsavia di cambiare la legge sui media per dotare l’esecutivo di maggior controllo. La procedura riguarda anche la legge che limita i poteri della Corte costituzionale: il governo di destra polacco cambia la struttura dei poteri e potenzialmente cambia la democrazia. Il vicepresidente Timmerman ha annunciato l’avvio di una «valutazione preliminare» sulle leggi in questione, si tratta della prima volta che l’Ue utilizza questo nuovo strumento su cambiamenti legislativi che possono rappresentare una «minaccia di sistema» ai valori su cui è fondata l’Europa.

Alle critiche e alle missive ufficiali della Commissione, Varsavia ha risposto in maniera molto dura, ad esempio con la lettera al vicepresidente Timmerman che leggete qui sotto e diffusa via Twitter dal ministro della Giustizia Ziobro, dove si legge tra le altre cose: «Vedo la vostra missiva come un tentativo di fare pressione su un parlamento democraticamente eletto».

La campagna di Diritto e Giustizia passa anche per i giornali, nella foto qui sotto, in copertina su WProst Si rappresenta la Commissione (e naturalmente Angela Merkel) come il comando militare nazista. Altre critiche all’Europa parlano di posizioni motivate da un’ideologia di sinistra.

CYdXTZlWcAAkpjX

Le procedura europea non avrà probabilmente ripercussioni e l’idea della Commissione è quella di fare pressioni sul governo polacco affinché non costringa Bruxelles ad avviare davvero l’apertura di un procedimento sullo stati di diritto – una novità consentita dal mandato più ampio di questo esecutivo europeo.

Chi potrebbe agire è però la European Broadcasting Union, l’associazione europea delle Tv pubbliche che organizza l’Eurovision song contest, il concorso canoro annuale un po’ trash che conosce una nuova popolarità grazie alla rete e ai social network. «Se la nuova legge è davvero una violazione dello statuto dell’UER, avremo un problema» ha dichiarato il presidente dell’organizzazione, Jean-Paul Philippot al Financial Times, avvertendo che la Polonia potrebbe essere anche espulsa dall’organizzazione, e quindi fuori dal concorso.

Una punizione minima quella del rischio di esclusione dal concorso trash, che forse potrebbe far discutere i polacchi, che per ora stanno assistendo a dei cambiamenti seri alla politica democratica senza protestare troppo. La crisi tra Bruxelles e Varsavia, è un altro grattacapo per l’Europa: dopo lo scontro con la Grecia quello con la Polonia, che rischia di essere più grave. I partiti come Diritto e Giustizia crescono a est e il ritorno del nazionalismo non può che indebolire ulteriormente la fragile unità continentale.

Ave Cesare! Online il nuovo trailer dell’ultimo film dei fratelli Coen

Ave cesare nuovo trailer

È online il secondo trailer ufficiale di “Ave, Cesare!” (“Hail, Caesar!”),l’ultimo film scritto e diretto dai fratelli Joel e Ethan Coen. La pellicola verrà presentata in anteprima alla Berlinale e successivamente arriverà nelle nostre sale italiane il 10 marzo.
Del cast straordinario fanno parte George Clooney, Josh Brolin, Scarlett Johansson, Channing Tatum, Ralph Fiennes Dolph Lundgren, Jonah Hill, Christopher Lambert, Tilda Swinton e Frances McDormand. La trama ruota attorno alla figura di Eddie Mannix, un cosiddetto “fixer” nella Hollywood degli anni cinquanta, ovvero una persona che si occupa dirisolvere i mille problemi che in genere sorgono durante le riprese di un film, che in questo caso si intitola proprio “Ave Cesare”.
Qui l’ultimo trailer appena rilasciato:

E qui invece la versione precedente diffusa tre mesi fa:

Nella foto sotto la locandina ufficiale:

poster-ave-cesare

>> La gallery con le immagini del film

[huge_it_gallery id=”97″]

 

[social_link type=”twitter” url=”http://twitter.com/LeftAvvenimenti” target=”” ][/social_link] @LeftAvvenimenti

Obama e lo Stato dell’Unione anti-Trump

Obama contro Trump, ma senza nominarlo. Ottimismo e volontà contro paura e divisione. Retorica contro retorica, che la politica è anche quello. Mentre legge il suo ultimo Stato dell’Unione, Obama, il presidente che aveva promesso speranza e cambiamento sa che molti americani tendono ad accettare l’idea venduta dall’ampia pattuglia di candidati alle primarie repubblicane: l’America è in declino (per colpa dei democratici) e torna grande adottando qualche ricetta aggressiva e feroce. Sbagliati, pensa il presidente: l’ISIS, un’economia e una società che cambiano sono preoccupanti solo si reagisce con paura e pessimismo. Non è un concetto nuovo, Obama lo ha ripetuto in maniera ossessiva quando era in difficoltà e quando aveva il vento in poppa.

Nell’anno elettorale la sua retorica suona come una sfida diretta a un partito repubblicano che è stato compatto contro di lui su ogni grande questione. Anche perché l’agenda delineata nel discorso davanti al Congresso, sicurezza nazionale esclusa, vedono la leadership repubblicana su un fronte opposto ai democratici. Le ricette sono davvero diverse e i partiti divisi come mai in passato. Per un Paese che ha spesso funzionato a colpi di compromessi – buoni e cattivi – questo è un problema per il funzionamento della democrazia.

Per questo l’ultimo SOTU – l’acronimo di State of the Union, che si sa, gli americani trovano una sigla per tutto – è in fondo un discorso che cerca di delineare il terreno della campagna elettorale. La prima cosa è, di fronte alle sfide si risponde con le sfide, non con le bombe, le vendette, la chiusura in se stessi. «Quando i russi mandarono lo Sputnik nello spazio non abbiamo tagliato i fondi della ricerca, abbiamo costruito un programma spaziale dalla sera alla mattina e pochi anni dopo camminavamo sulla luna». Positivi, solidali ma anche competitivi. Obama prova a ricordare all’America cosa la rende un Paese capace di guardare al domani, che vuole diventare il posto «che sconfigge il cancro una volta per tutte». «E anche se credete che il cambiamento climatico non esista – e sareste piuttosto soli – pensate all’importanza di investire in tecnologia pulita e di diventare noi l’avanguardia tecnologica su questo terreno, essere capaci di vendere noi l’energia del futuro»: il cambiamento, che ci piaccia o no, si affronta e da questo ci si può guadagnare. L’idea che si possa porre un freno a quanto succede è un’illusione. Avesse voluto essere più aggressivo, il presidente avrebbe potuto dire una bugia. Ma pur essendo un discorso a modo suo elettorale, si tratta pur sempre di un momento istituzionale, l’ultimo, e quindi il presidente non polemizza.

Una stagione politica si chiude tra un anno e Obama promette di provare a spingere ancora la sua agenda. Sapendo che avrà a che fare con un clima elettorale che, da quel che vediamo, i suoi avversari ripeteranno in maniera ossessiva l’idea che questi anni sono stati un disastro a causa di ricette sbagliate adottate. È davvero così? «Il mondo guarda a noi per contribuire a risolvere alcune crisi, e la nostra risposta non può essere alzare i toni o annunciare bombardamenti a tappeto – dice il presidente – Può funzionare come battuta in un dibattito pubblico, ma non funziona sulla scena mondiale».
E «Quando un politico insulta i musulmani, quando una moschea viene vandalizzata o un bambino finisce vittima di bullismo, non siamo più sicuri e raccontarlo non è dire la verità, è semplicemente sbagliato». A Donald Trump e Ted Cruz, che sono primi nella corsa per le primarie repubblicane fischiano le orecchie.

Ma non è solo la politica estera il tema: le paure degli americani non si limitano all’ISIS o all’immigrazione. C’è un’economia che corre e uno sviluppo tecnologico che cambia la vita in meglio e in peggio. Se in questi anni l’economia è tronata a crescere e il settore privato ha creato una marea di posti di lavori, restano i grandi temi della distribuzione iniqua della ricchezza e dell’impatto di globalizzazione e sviluppo tecnologico sull’economia delle persone che lavorano: «La tecnologia non sostituisce solo la catena di montaggio, c’è più competizione internazionale e le imprese sono meno legati alle loro comunità. Tutte dinamiche che hanno strizzato i lavoratori, anche se hanno un lavoro. Sono trend che non sono solo americani». E che si contrastano con più welfare e ricerca e incentivando chi investe sui propri lavoratori, sull’innovazione e sul territorio. E poi con più regole e cambiando il sistema fiscale in maniera da renderlo più equo. Le insicurezze non sono figlie dell’immigrazione.

All’inizio del discorso, spiegando che non parlerà delle cose da fare, Obama abbozza anche un elenco di priorità. Si tratta di temi che sono nell’agenda politica perché grandi campagne le hanno promosse. Sono priorità di sinistra che non possono piacere ai repubblicani: «Riformare il sistema dell’immigrazione, aumentare la paga minima oraria, proteggere i nostri figli dalla violenza delle armi, stessa paga per stesso lavoro, ferie e malattia pagate restano le cose da fare e proverò a farle».

Ci riuscirà? Nell’ultima parte del discorso Obama fa un po’ di autocritica: «Non sono stato capace di unire, uno come Lincoln o Roosevelt ci sarebbe riuscito». E l’agenda che ha in mente non aiuterà a superare le divisioni. Neppure l’appello a una profonda riforma della politica, il tema dei temi per la democrazia americana – e in parte per la democrazia in generale. Come si riduce il potere di influenzare le scelte di chi ha più soldi? Come si fa in modo che le istituzioni funzionino meglio e i politici lavorino per il bene comune anziché pensare a regole che ne favoriscano la rielezione? E come fare in modo che i repubblicani accettino l’idea di far crescere la partecipazione al voto, sapendo che più schede nell’urna nell’immediato significano meno voti per loro? La verità è che l’unica è puntare sugli americani, convincerli che è l’ottimismo e non la paura a spingere avanti un Paese. E sperare che le nuove generazioni, cresciute negli anni della crisi non si facciano convincere dall’idea che i musulmani si cacciano assieme ai messicani e che per far crescere l’economia basta aumentare le tasse. La demografia gioca per i democratici, se solo riusciranno a far credere alle minoranze e ai giovani al messaggio ottimistico di Obama. Per questo, l’ultimo Stato dell’Unione di Obama è un discorso elettorale, anche se quello di un leader destinato a non correre per la rielezione. Giovedì c’è un dibattito tra candidati repubblicani, sarà divertente osservare come risponderanno. Non saranno gentili. Eccovi un assaggio: lo speaker della Camera Paul Ryan, dopo aver twittato, «Io e il presidente non andiamo d’accordo, sarà difficile non mostrarlo nella mimica facciale durante il discorso» ha dato un giudizio con il tweet qui sotto: «Non posso dire di essere deluso, non mi aspettavo granché». Trump parla di discorso noioso e inascoltabile e spiega che l’economia va male e il Paese è nel caos. Obama non li ha convinti, per fortuna non ci ha nemmeno provato.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link]@minomazz

Intanto giocano alla battaglia navale nel Golfo Persico

È stato un colpo di vento. Hanno detto proprio così. Un colpo di vento che ha portato alla deriva le due navi da guerra americane e mettici anche la sfortuna e le onde sguincie alla fine sono entrate in territorio che non è loro. Perché dalle informazioni che si hanno, nonostante una certa cautela reverenziale da parte di quasi tutti, sono stati gli USA ad entrare in un territorio in cui non erano autorizzati ad entrare. E gli altri, l’ala dura degli iraniani, hanno festeggiato per la moltiplicazione dei pani, dei pesci e delle portaerei sulle loro coste.

Letta così la notizia dell’ultimo sgarbo tra Iran e USA sembra una scenetta da famigliola in pedalò e se ne potrebbe anche sorridere se non fosse che l’aria che tira tra i due puzza spesso d’incenso e di nucleare e che giusto il 30 dicembre scorso alcune navi iraniane si sono avvicinate a poche miglia dalla portaerei Truman che viaggiava in acque internazionali nello stretto di Hormuz e hanno sparato alcuni razzi.  Anche in quel caso si parlò di “un incidente”, un’esercitazione andata male e che poteva finire peggio.

Ed è di pochi mesi fa lo “storico” accordo tra Teheran e le potenze mondiali sul trattato con cui l’Iran ha accettato di essere “controllato” perché non sviluppi l’atomica in cambio della caduta delle sanzioni internazionali. Un accordo che la “nostra” Mogherini aveva salutato come “storico” per l’importanza del risultato prodotto. Beh: se doveva essere l’inizio di un percorso di pace c’è da dire che i segnali certo non inducono ottimismo. Ma non è di questo che vorrei parlare: mentre nel mare la più grande potenza del mondo gioca a nascondino con i suoi giocattoli bellici risuona ancora una volta la stonatura tra un Paese che, piegato su se stesso e perso nelle beghe di chi ha meno indagati dell’altro, e la comunità internazionale e i grandi cambiamenti della politica estera che continuano ad essere, in Italia, un’esotica rassegna stampa da sfogliare con snobismo in pubblico per darsi un tono. C’è, di fondo, l’incapacità (per mancanza di cultura nella politica internazionale) di costruire e offrire una chiave di lettura degli avvenimenti nel mondo, da parte della politica e dell’intellighenzia italiana, che coltiva un’opinione pubblica ferma a poco di più dell’India e i due marò e lo stupro di Colonia.

Perché il mondo (e l’Europa) sono così poco interessanti per i nostri politici? Perché la comunità internazionale interessa soltanto quando si parla  di criteri economici o finanza o immigrazione e poco altro? Ecco oggi sarebbe bello che si lasciasse perdere per un secondo Quarto, Como o il prossimo sindaco forse indagato (o forse no) per ascoltare le opinioni e le proposte o anche più semplicemente la lettura dei fatti di ciò che accade in un mare nemmeno troppo distante. Leggere se davvero dobbiamo credere che l’appena sbocciata amicizia internazionale con l’Iran non sia soltanto la maschera di una convivenza in cagnesco oppure se possiamo considerare giusto e normale un presidio armato da parte degli USA in quasi tutti gli angoli del mondo. Discutere, in tutto questo, magari anche del nostro ruolo in questo planetario Risiko contemporaneo e discutere, perché no, di quello che sembra spesso un asservimento piuttosto che una collaborazione con gli americani esportatori seriali di democrazia. Un paio di queste cose qui. Per sentirsi meno provinciali. Per non parlare di razzi, navi e accordi nucleari come si farebbe con un gossip à la page. Una cosa così.

«A Madaya in centinaia hanno urgente bisogno di cure»

This picture provided by The International Committee of the Red Cross (ICRC), working alongside the Syrian Arab Red Crescent (SARC) and the United Nations (UN), shows a convoy containing food, medical items, blankets and other materials being delivered to the town of Madaya in Syria, Monday, Jan. 11, 2016. The town, about 15 miles (24 kilometers) northwest of Damascus, has been blockaded for months by government troops and the Lebanese militant group Hezbollah. Opposition activists and aid groups have reported several deaths from starvation in recent weeks. (ICRC via AP)

Un convoglio umanitario del World Food Program e della Mezzaluna/Croce rossa è entrato ieri a Madaya, la città di 40mila persone che muore di fame perché ha avuto la sventura di cadere nelle mani di Ahrar al Sham e di al Nusra (al Qaida in Siria) e di trovarsi a pochi chilometri da Damasco e dal confine libanese. Convogli che portano coperte, acqua potabile, latte in polvere per bambini e cibo sono entrati anche nelle vicine Foah e Kefraya, a loro volta assediate dai gruppi jihadisti da marzo.

«Sono così deboli che pur venendo incontro per ringraziarci non avevano nessun entusiasmo al vederci arrivare» ha detto un infermiere della Croce rossa alla France Presse.

In this Monday, Jan. 11, 2016 photo, residents talk to a reporter after the arrival of an aid convoy, in the besieged town of Madaya, northwest of Damascus, Syria. Aid convoys reached three besieged villages on Monday — Madaya, near Damascus, where U.N. humanitarian chief Stephen O'Brien said about 400 people need to be evacuated immediately to receive life-saving treatment for medical conditions, malnourishment and starvation, and the Shiite villages of Foua and Kfarya in northern Syria. Reports of starvation and images of emaciated children have raised global concerns and underscored the urgency for new peace talks that the U.N. is hoping to host in Geneva on Jan. 25. (AP Photo)

Dal primo dicembre a Madaya sono morte di stenti 21 persone e molte altre rischiano questa fine se non si metterà fine all’assedio. Secondo il capo delle operazioni umanitarie Onu in zona, Stephen O’Brien, ci sono almeno 400 persone che hanno immediatamente bisogno di cure e che è necessario evacuare: «Occorre organizzare e concordare questa operazione», ha detto. Per adesso solo poche decine di persone sono state autorizzate a lasciare al città. I ribelli si sono rifiutati di dare cibo agli abitanti e sono anzi accusati di vendere al mercato nero a cifre esorbitanti.

 

 

Tutte le parti in conflitto stanno usano l’assedio come strumento di guerra: ci sono almeno 15 località circondate. Eserciti e milizie circondano i quartieri, le città o i paesi, bloccano l’accesso ai convogli umanitari e impediscono ai civili di lasciare l’area. Oltre a Madaya, chiusa da Hezbollah – che a sua volta ha accusato le milizie jihadista non legate all’ISIS di usare i civili come scudi – l’esercito di Assad ha sigillato Ghouta e Darayya, sobborghi di Damasco, e la città di montagna di Zabadani. I ribelli hanno circondato i villaggi di Foah e Kefraya e l’ISIS assedia le zone controllate da Damasco a Deir al-Zour.

In this Monday, Jan. 11, 2016 photo, members of the Syrian Red Cross stand near aid vehicles loaded with food and other supplies that entered the besieged town of Madaya about 15 miles (24 kilometers) northwest of Damascus, Syria. Madaya has been blockaded for months by government troops and the Lebanese militant group Hezbollah. Opposition activists and aid groups have reported several deaths from starvation in recent weeks. (AP Photo)

This picture provided by The International Committee of the Red Cross (ICRC), working alongside the Syrian Arab Red Crescent (SARC) and the United Nations (UN), shows a convoy containing food, medical items, blankets and other materials being delivered to the town of Madaya in Syria, Monday, Jan. 11, 2016. The town, about 15 miles (24 kilometers) northwest of Damascus, has been blockaded for months by government troops and the Lebanese militant group Hezbollah. Opposition activists and aid groups have reported several deaths from starvation in recent weeks. (ICRC via AP)

In this Monday, Jan. 11, 2016 photo, people wait to leave the besieged town of Madaya, northwest of Damascus, Syria. Aid convoys reached three besieged villages on Monday — Madaya, near Damascus, where U.N. humanitarian chief Stephen O'Brien said about 400 people need to be evacuated immediately to receive life-saving treatment for medical conditions, malnourishment and starvation, and the Shiite villages of Foua and Kfarya in northern Syria. Reports of starvation and images of emaciated children have raised global concerns and underscored the urgency for new peace talks that the U.N. is hoping to host in Geneva on Jan. 25. (AP Photo)

 

Uno Stato dell’Unione diverso. L’ultimo di Obama

Stanotte Obama terrà il suo ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, una consuetudine di inizio anno durante la quale il presidente illustra l’agenda per l’anno a venire e chiede al Congresso di collaborare con lui. Un rito un po’ stanco che serve a segnare vicinanza e differenze tra i partiti. In un anno elettorale lo diventa un po’ meno, perché le priorità elencate dal presidente diventano oggetto di dibattito tra i candidati a succedergli. Con un Congresso a maggioranza repubblicana e la campagna elettorale alle porte, Obama non ha molto da chiedere all’opposizione più dura che un presidente abbia mai avuto davanti. Le anticipazioni ci dicono che il presidente democratico presenterà idee e criticherà il Congresso per la sua incapacità di agire. E poi discuterà di sicurezza nazionale, che quest’anno il terrorismo e le crisi sono diverse. Non sarà un elenco di proposte, dopo aver fatto il lavoro di preparazione, lo staff ha presentato al presidente le ipotesi da inserire nel discorso e a Obama non sono piaciute, non le ha trovate abbastanza nuove e forti.

«Sentirete parlare della necessità che ogni americano abbia una chance in un’economia che cambia. Sentirete parlare di usare tutti gli elementi in nostro potere per proteggere e far crescere l’influenza di questo Paese – ha detto il capo dello staff McDonough – E, soprattutto sentirete parlare il presidente di come fare in modo che ogni americano abbia la possibilità di contare in questa democrazia. Non pochi eletti, non i milionari e miliardari, ma ogni americano». Parlerà dei finanziamenti alle campagne e del ruolo delle lobby e di come riformare il sistema? Quello è il vero nodo della politica e della democrazia americana, come si vede proprio nella vicenda delle armi – o in quella dell’energia, dove a pesare sono i petrolieri.
Con il rumore di fondo dei candidati repubblicani a spiegare come gli Stati Uniti siano un disastro, le cose vadano male e non ci sia speranza, Obama cercherà di delineare un quadro positivo. In fondo, quando è giunto alla Casa Bianca la disoccupazione era al 9,8% e oggi è al 5% e il Pil cresce dalla metà del 2009, dopo che il Congresso, all’epoca democratico, aveva approvato un enorme piano di spesa pubblica.
Il presidente parlerà di armi, Guantanamo (per chiudere il carcere aperto 14 anni, una promessa del 2008, ha bisogno del voto delle Camere) e di dove si trova l’America. Tra gli ospiti invitati da Michelle Obama e seduti accanto alla first lady (un’altra consuetudine) le vittime di sparatorie, attivisti LGBT, latinos, un rifugiato siriano e un soldato di origini musulmane. E poi una sedia vuota, a simboleggiare una persona che non c’è più perché uccisa dalle armi da fuoco.

Lo Stato dell’Unione come fosse un film di Wes Anderson, un gioco della CNN

(Il canale all news presenta lo Stato dell’Unione montando il servizio come si trattasse di un film del fantasioso regista di Gran Budapest Hotel)
Visto che si tratta dell’ultima occasione di parlare in maniera ufficiale al Paese, Obama traccerà un bilancio, ricordando dove ha trovato il Paese e quanta strada è stata fatta. «Ciò che voglio mettere a fuoco in questo discorso sullo stato dell’Unione», ha detto Obama in un video anteprima registrato alla Casa Bianca sono «non solo i progressi notevoli che abbiamo fatto, e non solo quello che voglio ottenere nel prossimo anno, ma ciò che tutti noi dobbiamo fare insieme negli anni a venire. Le grandi cose che garantiranno un futuro migliore, più prospero all’America dei nostri figli». In parte, sarà un modo indiretto per elencare alcuni punti in agenda che sono molto vicini alle idee e alle proposte dei candidati democratici. Aspettiamoci un fuoco ad alzo zero da parte di tutti i candidati del Grand Old Party, per vincere il partito dell’elefantino deve convincere gli americani che questi anni sono stati un disastro. Obama deve fare il contrario mentre i candidati democratici devono avere la capacità di prendere leggermente le distanze dal presidente non super-popolare senza eccedere: i temi di cui parla sono quelli che animano la loro campagna elettorale. E le proposte non sono poi troppo distanti.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/minomazz” target=”on” ][/social_link]@minomazz

Dieci morti per un kamikaze a Istanbul. Erdogan: pista siriana

Ambulances and firefighters gather near the city's landmark Sultan Ahmed Mosque or Blue Mosque after an explosion at Istanbul's historic Sultanahmet district, which is popular with tourists, on Tuesday, Jan. 12, 2016. The Istanbul governor's office says the explosion at the city's historic Sultanahmet district has killed least 10 people. A statement says 15 other people were injured in Tuesday's blast. The cause of the explosion is under investigation, but state-run TRT television says it was likely caused by a suicide bomber. (IHA via AP) TURKEY OUT

Un attacco suicida ha colpito Istanbul stamane facendo almeno dieci vittime. E’ l’ennesimo in questi mesi e stavolta arriva in uno dei luoghi simbolici della Turchia e dei più visitati dai turisti: il grande piazzale dove si guardano la Moschea blu e quella di Solimano. I morti sono dieci e il presidente Erdogan, che ha ordinato – per l’ennesima volta – un black-out delle comunicazioni, ha detto che si tratta di un attentato di matrice siriana. Senza però spiegare quali gruppi sarebbero coinvolti.

This image from video shows medics and security members with injured people lying on the ground after an explosion at Istanbul's historic Sultanahmet district, which is popular with tourists, Tuesday, Jan. 12, 2016. The cause of the explosion, which could be heard from several neighborhoods, was not immediately known but TRT said the blast was likely caused by a suicide bomber. (IHA via AP) TURKEY OUT

A policeman guards in front of the Blue Mosque at the historic Sultanahmet district after an explosion in Istanbul, Tuesday, Jan. 12, 2016. An explosion in a historic district of Istanbul popular with tourists killed 10 people and injured 15 others Tuesday morning, the Istanbul governor's office said. (AP Photo/Lefteris Pitarakis)

This image from video shows medics and security members with injured people lying on the ground after an explosion at Istanbul's historic Sultanahmet district, which is popular with tourists, Tuesday, Jan. 12, 2016. The cause of the explosion, which could be heard from several neighborhoods, was not immediately known but TRT said the blast was likely caused by a suicide bomber. (IHA via AP) TURKEY OUT

Policemen secure the historic Sultanahmet district, which is popular with tourists, as ambulances arrive after an explosion in Istanbul, Tuesday, Jan. 12, 2016. The Istanbul governor's office says the explosion at the city's historic Sultanahmet district has killed least 10 people. A statement says 15 other people were injured in blast. (AP Photo/Emrah Gurel)

Ambulances and firefighters stationed near the city's landmark Sultan Ahmed Mosque or Blue Mosque after an explosion at Istanbul's historic Sultanahmet district, which is popular with tourists, Tuesday, Jan. 12, 2016. The Istanbul governor's office says the explosion at the city's historic Sultanahmet district has killed least 10 people. A statement says 15 other people were injured in Tuesday's blast. The cause of the explosion is under investigation, but state-run TRT television says it was likely caused by a suicide bomber. The monument in the background is "German Fountain." (IHA via AP) TURKEY OUT

Policemen secure the historic Sultanahmet district after an explosion in Istanbul, Tuesday, Jan. 12, 2016. An explosion killed at least 10 people and wounded 15 others Tuesday morning in a historic district of Istanbul popular with tourists. Turkish President Recep Tayyip Erdogan said a Syria-linked suicide bomber is believed to be behind the attack. (AP Photo/Emrah Gurel)

Tra le vittime potrebbero esserci dei turisti, di certo un cittadino norvegese è stato ricoverato in ospedale. Uno stile di attentato che somiglia a quelli di gruppi legati all’ISIS che puntano a colpire i luoghi del turismo per generare odio anti-islamico nelle società occidentali. Ad ottobre i morti a una manifestazione dell’Hdp per la pace tra PKK e Turchia ad Ankara sono 100.

Una giornata di festa con gli indiani di Latina

Sono circa 30 mila gli indiani in provincia di Latina, provenienti prevalentemente dal Punjab, regione nord occidentale dell’India. Giunti nel pontino a metà degli anni Ottanta, sono impiegati soprattutto in agricoltura come braccianti. Vivono in una comunità organizzata, in cui le regole religiose si mescolano con quelle sociali che rinviano a una modernità agognata. Una convivenza dinamica che porta, ad esempio, ogni domenica a ripetere il rito dell’accoglienza nei templi sikh pontini. Come in quello di borgo Hermada, vicino Terracina (Lt), oggetto del filmato girato da Marco Silvestri per In Migrazione. Ogni donna, uomo e bambino viene accolto con un sorriso, mentre intorno si svolgono le funzioni religiose. Volti sorridenti, un benessere che manifesta la sua fragilità ma anche il desiderio di uscire dall’invisibilità.

Eppure gli indiani pontini vivono condizioni difficili, in alcuni casi al limite della riduzione in schiavitù. Molti dossier e ricerche hanno indagato la loro condizione lavorativa e denunciato un sistema imprenditoriale fondato sulla tratta internazionale, sullo sfruttamento lavorativo e sull’emarginazione sociale dei lavoratori e delle lavoratrici punjabi. Tra questi, in particolare, i dossier di In Migrazione hanno permesso la comprensione dell’origine e delle dinamiche proprie del reclutamento e dello sfruttamento dei braccianti indiani. Donne e uomini costretti a lavorare quattordici ore al giorno, sabato e domenica comprese, per circa tre euro l’ora. Lavoratori obbligati a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa quando si rivolgono al proprio datore di lavoro, il quale pretende peraltro di essere chiamato “padrone”.

Lo sfruttamento dei braccianti indiani ha assunto connotati drammatici, fino all’uso di sostanze dopanti, spesso indotto dagli stessi datori di lavoro, allo scopo di reggere le fatiche psico-fisiche a cui sono obbligati. Sono stati denunciati ricatti sessuali a cui sono esposte alcune lavoratrici rumene e indiane, come documentato dalle pagine di Left (46/2915). Una notte di sesso nell’auto del padrone per un giorno di lavoro in più. È una forma di capitalismo barbaro e violento, giocato sui corpi delle donne. E poi il fenomeno delle buste paga false, la collaborazione strategica e indispensabile di molti professionisti come avvocati, commercialisti e consulenti del lavoro che agevolano le pratiche e le prassi dei datori di lavoro, degli sfruttatori e dei trafficanti. E i troppi dipendenti pubblici che arrotondano lo stipendio grazie alla fiducia che gli indiani ripongono in loro: qualcuno è arrivato a chiedere anche 800 euro a un indiano per rinnovare la sua carta di identità.

Si denuncia poco. La giustizia non funziona, spesso arriva in ritardo o non arriva per nulla. Mentre la prepotenza del datore di lavoro arriva puntuale. Impartisce lezioni a cui è difficile sfuggire. E spesso sono lezioni pubbliche. Punizioni corporali, vere e proprie spedizioni punitive, licenziamenti o allontanamenti dalla propria attività lavorativa. Dunque, meglio tacere. Un rapporto di lavoro evidentemente sbilanciato in favore del padrone. Da una parte i lavoratori, dall’altra il capitale, sicuro di vincere sempre. Ma le cose cambiano, sia pure lentamente. Lo sanno i padroni, lo sa bene chi ogni giorno si occupa, in un territorio così difficile, di combattere l’illegalità e le mafie. E iniziano a capirlo anche i lavoratori indiani.

 

Primarie Usa, Sanders dice no ai soldi delle “big oil”. Si infiamma la sfida con Clinton

La corsa delle primarie democratiche per la Casa Bianca si gioca anche sul “green”. E la contesa Hillary Clinton e Bernie Sanders si riaccende in prossimità del confronto diretto tra i due previsto per il 17 gennaio a Charleston. Gli ultimi sondaggi danno l’outsider Sanders a una manciata di voti da Clinton in Iowa, dove le primarie Dem prenderanno il via il primo febbraio. L’ex segretario di Stato, stando ai rilevamenti di Nbc News, Wall Street Journal e Marist Colleg, supera di tre punti il senatore socialista (48 contro 45), mentre le previsioni per il voto del 10 febbraio nel New Hampshire vedono davanti Sanders al 50% e a seguire Clinton al 45. E’ proprio per questa incertezza nei primi due Stati, vitali per il senatore socialista, che i due stanno, per la prima volta nella campagna, accentuando le differenze e scambiandosi – moderate – accuse.

Confortato dai sondaggi, il senatore del Vermont prova ad ancorare a sinistra la sua campagna elettorale, mettendo in luce le differenze con la sua avversaria. Lo aveva già fatto pochi giorni fa presentando il suo piano per proteggere i consumatori dalle grandi banche d’affari, quando ha detto che «la frode è un modello di business a Wall Street», aggiungendo: «Se Wall Street non metterà fine alla sua avidità, lo faremo noi per lei». Sanders ha definito usurari i tassi di interesse sulle carte di credito praticati attualmente proponendo l’introduzione di un tetto massimo del 15% e per stigmatizzare il fenomeno ha perfino scomodato Dante Alighieri: «Nella Divina Commedia Dante riserva un posto speciale nel settimo girone dell’Inferno per coloro che danno prestiti a tassi usurari» ha detto il candidato socialista.

Di queste ore, invece, è un’opzione radicale in campo energetico e ambientale. Prendendo di mira – come aveva fatto per Wall Street – i finanziamenti indiretti dell’industria petrolifera a sostegno di Hillary Clinton, Sanders è diventato il primo candidato alla presidenza a sottoscrivere l’impegno a rifiutare contributi elettorali da parte dell’industria dei combustibili fossili. Annie Leonard, direttore esecutivo di Greenpeace Usa – che assieme a una ventina di sigle ha promosso il “patto” per i candidati democratici e repubblicani lanciando l’hashtag #fixdemocracy – ha spiegato che quando accettano soldi dalle mega-industrie e in primis dalla lobby del petrolio, del gas e del carbone, i politici «stanno penalizzando in primo luogo i poveri, gli anziani e gli studenti che votano per la prima volta». Leonard ha auspicato che dopo Sanders, anche Hillary Clinton si aderisca all’appello e si impegni a sostenere una democrazia “people-powered” (alimentata dalle persone e non dalle lobby attraverso il denaro) e che disinvesta dalle fonti energetiche inquinanti. «Dobbiamo mettere i soldi “fuori” e portare le persone “dentro” la nostra democrazia. La nostra democrazia non deve più essere venduta all’asta al miglior offerente» ha concluso la dirigente ambientalista.

Va detto che nella campagna 2016, Hillary Clinton non ha accettato contributi diretti da società per azioni, incluse le compagnie petrolifere e del gas, in conformità con le norme in materia elettorale. Secondo il Center for Responsive Politics, finora la candidata democratica ha ricevuto 160mila dollari da persone che lavorano per i big delle fossili, contributi in ogni caso legittimi. Quasi ogni candidato repubblicano, spiegano i promotori di #fixdemocracy, riceve finanziamenti dal settore e Jeb Bush, Ted Cruz e Hillary Clinton sono i tre principali beneficiari dei contributi elettorali dei dipendenti di industrie del petrolio e gas.

Dal canto suo, l’ex first lady contesta al senatore del Vermont, Stato in cui il possesso di armi è parte del senso comune, una linea troppo soft in materia. E ora che Obama ha messo il tema al centro dell’agneda politica, c’è da scommettere che il confronto di domenica prossima a Charleston non farà sconti a nessuno dei due contendenti.

 

fixdem

 

Gli impegni proposti ai candidati alla presidenza da #fixdemocracy

Prometto fedeltà a una democrazia “del, da, e per” il popolo.

Se eletto, mi impegno a lottare per una democrazia people-powered dove si ascolta ogni voce

  • Difendendo il diritto di voto per tutti, e
  • sostenendo misure di sostegno di buon senso, come il finanziamento pubblico per le campagne, e il ribaltamento della sentenza Citizens United (con la quale la Suprema Corte ha vietato ogni limite ai finanziamenti elettorali in quanto protetti dal primo emendamento della Costituzione americana, ndr) per garantire un governo “con e per la gente”, non per i grandi donatori.

E mi impegno a dimostrare che io lavoro per il popolo, rifiutando i soldi dalla lobby dei combustibili fossili e difendendo queste soluzioni per una democrazia “people-powered” durante la campagna elettorale.