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Amnesty denuncia la Russia: ci sono prove di almeno 200 civili uccisi

Qualche giorno fa un eroico giornalista che vive ad Aleppo, Rami Jarrah, ha fatto una diretta web con un gruppo di sostegno umanitario alla Siria, la Syria campaign, e ha raccontato di una bomba russa caduta in pieno centro. Jarrah per mesi aveva denunciato gli abusi da parte di soldati di Assad e delle milizie (fa il giornalista, racconta quel che vede). Da qualche mese racconta anche la distruzione delle bombe che piovono dal cielo sulla città distrutta dalla guerra. Qui sotto il video di un attacco del 15 dicembre scorso, che, come spesso accade, ha colpito un’area dove non c’era traccia delle falangi dell’ISIS.

Oggi, con un rapporto dettagliato arricchito da testimonianze e foto satellitari è Amnesty International a raccontare come i raid erei russi abbiano già fatto almeno 200 morti civili. O meglio, l’organizzazione per i diritti umani fornisce dati sulla morte di 200 civili, perché di quelli ha le prove.

Gli attacchi aerei russi in Siria hanno ucciso centinaia di civili e ha causato distruzione massiccia in zone residenziali, colpito case, una moschea e un affollato mercato, così come strutture mediche. Si trata di un modello di attacchi che viola il diritto internazionale umanitario.

Così, se la Russia sostiene che «Beni di carattere civile non sono stati danneggiati»: Amnesty produce prove per sostenere il contrario. Il rapporto si concentra su sei attacchi a Homs, Idleb e Aleppo che tra settembre e novembre 2015, hanno colpito una dozzina di combattenti e duecento civili. Il briefing comprende prove che suggeriscono come le autorità russe abbiano anche mentito per coprire i danni civili a una moschea e a un ospedale da campo. I documenti sono anche la conferma dell’uso da parte russa di bombe a grappolo vietate a livello internazionale e di bombe non guidate cadute su aree residenziali densamente popolate.

Qui sotto il racconto delle bombe cadute sul mercato di Ariha e la testimonianza di un medico (uno dei testimoni sentiti per internet e telefono, assieme a foto e operatori umanitari).

La mattina del 29 novembre 2015 il mercato nel centro di Ariha, nel governatorato di Idlib, brulicava di persone quando è stato colpito con tre missili. Quarantanove civili sono stati uccisi e molti altri feriti. Un testimone ha raccontato ad Amnesty International che ha parlato con una donna che piangeva accanto a un linea di cadaveri. Il marito e tre bambini erano stati appena uccisi e le parti del corpo dei suoi figli erano chiuse in sacchi. Secondo un’ulteriore testimonianza e materiale audiovisivo, nonché come sostengono diversi gruppi umanitari, nell’area non erano presenti gruppi o persone armate.

 

Ho assistito l’attacco alla scuola secondaria mista, a pochi metri di distanza dal ospedale. Non c’erano studenti. Due i raid, distanti circa otto minuti l’uno dall’altro. Ho sentito e visto due aerei da guerra ma erano a una quota insolitamente alta in modo non essere identificati. Uno ha lanciato un missile. L’ho visto cadere nel cortile della scuola. Ho visto tre persone leggermente ferite. La gente ha iniziato a raccogliersi. Un altro missile ha colpito l’ingresso della scuola, a 20 metri dall’ospedale. (…) L’esplosione è stata insolitamente forte. Il secondo colpo ha ucciso 11 civili. Ho visto il corpo di un infermiere, Hassan Taj al-Din, quello di una guardia dell’ospedale e altri nove corpi, tra cui un ragazzo di 14 anni. Non c’erano combattenti tra le vittime. Abbiamo trasferito circa 30 persone in altri ospedali da campo. Il muro di chirurgia era crollato e la camera per i raggi X distrutta. Non ci sono veicoli militari o basi nel centro di Sermin, solo nelle zone circostanti. La linea del fronte più vicina si trova a circa 50 chilometri di distanza.

Il sorriso di Bruno Caccia

bruno caccia

Il «monologo di carta» pubblicato su Left:

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morti come fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Questa storia è una storia che inizia con la fine il 26 giugno, di domenica a Torino. Se fosse in bianco e nero il 26 giugno 1983 sarebbe grigio come la menta che è appassita, una domenica che ti suda addosso come una doccia fatta troppo di fredda. È la passeggiata aggrappata al marciapiede di un uomo, un guinzaglio e il cane. E che interesse può accendere una camminata dopo cena in bianco e nero con un cane? Per questo siamo dovuti andare a riprenderla nel cestino del corridoio.

Lui cammina mentre slappa il sapore fresco del caffè tra il palato e la lingua, il cane annusa la sua passeggiata che gli insegna che è sera e forse questo asfalto che cerca di scollarsi ci dice che è fine giugno. Le passeggiate dopo cena sono sempre un fruscio degno, un vento tra le orecchie e il cuore anche se non c’è vento, una sigaretta per assaggiare il retrogusto di anche oggi cos’è stato, una pausa con la parrucca della sigla di coda. Se fosse in bianco e nero quella passeggiata sarebbe un battere di palpebre.

Chissà cosa pensava, Bruno Caccia, quella sera, sempre così sacerdote delle giornate bianco o nero, mentre si sedeva con gli occhi sull’altalena del guinzaglio e della coda; se pensava al gusto stringente di chi ha deciso che è domenica, e la domenica sera con il cane appoggiando per un secondo sul comodino la scorta dovrebbe essere un diritto anche delle solitudini più malinconiche, o se pensava a come fosse a dormire comodo questo nord di Mafiopoli che succhia l’osso dell’immunità narcotizzato dalla sua stessa presunzione. Come un coccodrillo sdentato che si prende il sole. Chissà se aveva ancora voglia di pensarci, a quell’ora che si mette sul cuscino perché è poco prima della notte, a quei vermi liquidi che zampettavano sulle gambe e sulla schiena del Piemonte addormentato, sdentato e fiero che tra il bianco e il nero aveva scelto la cuccia e la catena.

A Mafiopoli ci insegnano sempre che è di cattivo gusto fare i nomi. Caro Bruno, hanno cercato di consigliartela spesso la buona educazione di Mafiopoli. Non fare i nomi. E allora facciamo finta che non ci siano intorno a questa storia che è passata come un brodino con un dado artificiale, facciamo finta che non ci siano a sapere e ascoltare i mastri della ‘Ndrangheta che si attaccano seccati alla suola delle scarpe di una regione a forma di coccodrillo, facciamo finta che non siano né gli Agresta, né i Belcastro, o Bonavota, Bruzzaniti, D’Agostino, Ilacqua, Macrì, Mancuso, Megna, Morabito, Marando, Napoli, Palamara, Polifrone, Romanello, Trimboli, Ursino, Varacolli, Vrenna. In ordine alfabetico, messi in fila per matricola: come lo scarico dei capi al mercato dei suini secondo la marca pinzata all’orecchio. E lasciando fuori, per adesso, i Belfiore, che in questa storia di marciapiede, bianco o nero, sono il concime.

Chissà se ci pensava Bruno Caccia a quanto marciapiede avrebbe dovuto mangiare per svegliare il coccodrillo e urlargli dentro i buchi delle orecchie che era tempo di cominciare a grattarsi, a farle scivolare queste zecche marce che succhiano e si nascondono tra i peli. Chissà se ci pensava il magistrato Caccia, mentre sul marciapiede seguiva il passo soffice del cane e del suo collare, a com’è impudicamente nuda una città con un palazzo di giustizia che è un arcobaleno acido di caffè, mani strette e corna pericolose. Lì dove uno dei capi dei vermi, quel Domenico Belfiore che nella storia è un tumore che appassisce, chiacchericcia con il procuratore Luigi Moschella. Un bacio umido con la lingua al sugo tra ‘Ndrangheta e magistratura. Chissà se non gli si chiudeva lo stomaco a Bruno Caccia, sempre così fiero del bianco o del nero.

Siamo al primo lampione, cane e padrone, sotto quella luce di vetro che solo Torino sa riflettere così grigia.

Se ci fosse la colonna sonora da destra a sinistra sarebbe: il cuscinettìo delle zampe del cane, lo spelazzo della coda, il cotone della solitudine intesta alla sera di lui e più dietro, quasi fuori quinta, una 128 che cigola marinaia come tutte le fiat il 26 giugno del 1983.

Chissà che pensieri evaporavano dentro i sedili di plastica di quel marrone secco della 128. Chissà se erano fieri a sganciare la leva del cambio anoressica e zincata, per questa missione da bracconieri della dignità. Chissà come brillava la faccia a Domenico Belfiore mentre ordinava quella 128 e la polvere da sparo come si ordina una frittura per secondo, chissà come si erano sniffati la potenza di avere ammaestrato i catanesi alla ‘ndrina, di avere preso anche Cosa Nostra come cameriera, chissà come avevano riso pensando che proprio loro, con Gianfranco Gonnella, alzavano la saracinesca del caffè sotto il tribunale, in una colazione che serviva a mischiare rapporti per l’interesse di stare sempre nel grigio, vendendosi il crimine e la giustizia e mischiare tutto con il cucchiaino.

Mi dico che forse Bruno Caccia non riusciva a fumarseli nemmeno nella passeggiata di coscienza alla sera quei nomi che aveva deciso di tenersi bene a mente, come succede per un titolo che rimane anni incastrato nel portafoglio perché prima o poi ci può servire. Ecco, forse, mi viene da pensare, Bruno Caccia è un magistrato con la schiena dritta ma soprattutto un uomo di memoria, ma la memoria attiva quella vera che ormai qui a Mafiopoli è andata fuori produzione. Quella che serve per leggere le storie mentre succedono e se hai un po’ di fortuna immaginare di prevedere anche la mattina di domani. Mica quelle memorie in confezioni da 6 da accendere come le candeline in quelle storie che si cominciano a raccontare partendo dalla fine. Una memoria in camicia e con un cane sotto il secondo lampione.

Chissà se avranno pensato di spararci anche al cane, quei manovali disonorati nel costume mai credibile degli uomini d’onore mentre si avvicinavano a Bruno Caccia, il suo cane e per stasera niente scorta, chissà come schizzava olio quel soffritto nel cervello per sentirsi capaci di meritarsi anche stasera un pacca dal boss, quella 128 farcita di codardi che 25 anni dopo non sono ancora stati pescati. Chissà se pensano di essere impuniti dimenticando di avere prenotato in una sera il posto riservato nell’inferno dei picciotto e degli omuncoli.

14 colpi ad ascoltarli di seguito in una sera di 26 Giugno in via Sommacampagna a Torino sono una fanfara della codardia che tossisce. 14 volte di sforzi dallo stomaco di un rigurgito a pezzettoni. La risata di potenza di Mimmo Belfiore e suo cognato Palcido Barresi  che apre lo sfintere. 14 spari in una serata d’estate suonano come una canzone d’amore suonata con le pietre. Chissà cosa avrà pensato il cane, nel vedere quegli uomini a forma di stracci  mentre scendono per finire con tre colpi Bruno Caccia, il suo padrone, e ripartire veloci a prendersi gli applausi della grande famiglia di vomito e merda. Chissà a che punto era arrivato il magistrato a passeggio a pensare a tutti i fili dei nei di una regione che dormiva.

Tutto proprio sotto al secondo lampione. Dicono che Torino ogni tanto sia funebre: quella sera era a forma di cuore schiacciato da una ruota all’incrocio.

Mafiopoli, provincia d’Italia, è il paese dove siamo maestri a cominciare le storie sempre dalla fine. Senza una fine certificata non siamo capaci di leggere una storia, senza il brivido finale. Ci siamo disabituati a raccontarle le storie, siamo diventati maestri del confezionamento, facciamo i pacchetti con nastri e ceralacca più belli del mondo, abbiamo professionisti sempre in tourné che ci raccontano i morti come fossero un arcobaleno perché il bianco e nero invece ci dicono che è vecchio, il bianco o nero è addirittura troppo radicale, e si sa che a Mafiopoli c’è da essere chic.

Che il magistrato Bruno Caccia sia stato ucciso il 26 Giugno 1983 da ignobili ignoti è rportato in qualche foglio tarmato scritto probabilmente con una stampante ad aghi. Ma gli avvoltoi tra le macerie della memoria si sono subito messi in tasca i soprammobili di quella storia con questa fine così cinematografica da non farsi scappare. E ti hanno regalato la memoria, caro Bruno, quella memoria di polistirolo buona per le sfilate per appiccicarci un nome al cartello bianco con sfondo bianco di una via. In questa Mafiopoli dove tutto va al contrario e bisogna prendersi la responsabilità di sperare in una fine certificata perché almeno si mettano a cercare cosa era successo prima.

Mi chiedo Mimmo Belfiore, cosa starai pensando adesso. Se un po’ non ti disturba che quella memoria che pensavi di avere rapinato tutta oggi è diventata una preghiera laica e quotidiana ogni mattina. Proprio qui, proprio dentro casa tua, nella tua cascina senza porcilaie ma che è stata piena di porci. Mi chiedo se ti brucia, mentre in carcere recitavi la parte dell’invincibile avere detto a Miano che Caccia l’avevi fatto ammazzare tu. Chissà come ci sei rimasto male, tradito da un infame e da un infermiere che il coraggio lo praticano per amore e non per una puttana a forma di maestà. Chissà quando te lo raccontano che a casa tua piano piano i guardiani del faro stanno strofinando via l’odore della tua famiglia e della vergogna. Chissà che magari, come tutti i tuoi compari non preghi di essere messo nelle mani di Dio e lui non ti aspetti sotto un lampione su una 128. Chissà se un giorno a voi mafiosi per un allineamento degli astri non vi succeda che riusciate ad avere un sussulto per vedervi allo specchio così anoressici d’indignità. Chissà se ci hai creduto davvero che tuo fratello Sasà riuscisse a continuare impunito mentre faceva girare in 4 anni 11 quintali di cocaina.  Dal Brasile poi in Spagna fino a Genova e Torino nell’ennesimo giro del mondo dei soldi in polvere. E chissà se non ti dispiace che tuo fratello Beppe invece non sia proprio all’altezza, lui che si è buttato sul gioco d’azzardo e alla fine si è azzardato troppo anche se aveva le spalle coperte dalla ‘ndrina Crea. Chissà come ti suona stonato sentire suonare una memoria libera proprio qui nel tuo cortile dove travestito da boss del presepe ti compravi la benevolenza con le ricotte. Chissà se un po’ non hai sorriso sapendo che alcuni tuoi compaesani di San Sebastiano Po temevano i disagiati per la “sicurezza pubblica”, impauriti dai disagiati del gruppo Abele dopo che ti avevano lasciato pascolare e sporcare per tutti questi anni. Vorrei chiederti, caro Mimmo, se non stai pensando che si avvicini la data di scadenza del tuo onore.

Bruno Caccia e il suo cane sono quei due sotto al secondo lampione.

A Mafiopoli le storie si cominciano a raccontare dalla fine. Bruno Caccia doveva finire il 26 giugno, che dico, per uno scherzo del destino il 26 giugno io ci sono pure nato. Oggi c’è un cortile, un cortile scippato ai Belfiore, un cortile che è stato rapinato al rapinatore, un cortile che vuole diventare da grande un giardino e una memoria che con le unghie sta rompendo il guscio. E il magistrato severo, sono sicuro, non riuscirebbe a trattenere un sorriso.

 

Sotto l’albero il nuovo numero di Left in edicola dal 24 dicembre

left 24 dicembre

Un numero speciale di Left quello in uscita giovedì 24 dicembre. Con le immagini e i fatti salienti dell’anno che sta per finire riunite in un portfolio che ci porta in giro per il mondo e la copertina dedicata alla vivacità e alle prospettive della piccola e media editoria. «È il pensiero che conta, sono le idee che cambiano il mondo», scrive Ilaria Bonaccorsi nel suo editoriale. Il pensiero è quello libero e “altro” che deriva anche dalla vitalità di un’editoria indipendente che ora si trova a far fronte al gigante che prende il nome di Mondazzoli.
La storia di copertina di questa settimana racconta, tra l’altro, di un mercato che registra una tendenza positiva e premia i piccoli editori grazie anche alla narrativa per ragazzi e ai lettori forti, che sono sempre più donne. L’alternativa al colosso editoriale che vede uniti Mondadori e Rizzoli la racconta Stefano Mauri, presidente del gruppo Gems una “confederazione” che raggruppa una dozzina di marchi e copre il 10 per cento del mercato. «Penso che l’Antitrust dovrebbe aprire un’istruttoria, perché non ci sono in Europa situazioni confrontabili con questa», dice Mauri. Il mondo dell’editoria indipendente è ben diverso da quello delle concentrazioni editoriali: «Non facciamo auto, non abbiamo un ruolo nella politica, non abbiamo una tv, non facciamo scarpe. Questa è un’attitudine molto importante, significa che i nostri autori sono liberi di esercitare il diritto di critica su tutto ciò che vogliono». Poi ci sono le librerie indipendenti, realizzate dai coraggiosi “biblioattivisti” che Left ha scovato nei quattro angoli del Paese: non solo luoghi di resistenza nelle periferie delle grandi città, ma anche vere e proprie sperimentazioni “viaggianti”. Infine il racconto dell’editore “per caso” Domenico Procacci e della sua Fandango.
Tanti altri i temi in sommario sul numero in edicola il 24 dicembre. La cooperazione allo sviluppo nei Paesi poveri dovrebbe essere un obbligo secondo quanto stabilisce l’Onu. Ma l’Italia spende poco e male, frammentando i fondi in centinaia di ong e interventi. Dove sono i pellegrini al Vaticano? Un reportage racconta il flop del Giubileo. Infine, un libro a cura degli economisti Di Maio e Marani mette a nudo i luoghi comuni dell’informazione economica.
Negli esteri, un reportage da Sana’a racconta la pace impossibile per le guerre nello Yemen, e un’analisi sul “mondo sottosopra” traccia una panoramica della situazione internazionale tra Stati falliti, milioni di persone in fuga e territori in macerie.
In Cultura Left racconta il successo del cinema italiano contemporaneo cui il Moma di New York dedica un’ampia retrospettiva, una guida controcorrente alle letture sotto le feste e il punto sulle serie tv che hanno colpito l’immaginario collettivo. Per la scienza, la ricerca dell’algoritmo che permetterà di leggere negli occhi e quindi aiutare le persone disabili.

 

Pompei: sei domus riaprono, un corto la celebra, la mostra a Milano

Pompei Casa dell'Efebo

Sei domus pompeiane riaprono il 24 dicembre, dopo lunghi lavori di restauro realizzati nell’ambito del progetto Grande Pompei. Tornerà visitabile così  la fullonica di Stephanus, una tintoria con vasche per il trattamento delle stoffe, dove venivano colorati i tessuti e che alle pareti presenta ancora parte degli affascinanti affreschi in rosso.

Fullonica_of_Stephanus,_Pompeii_03Si trova sulla centralissima via dell’Abbondanza. Altre case riaprono in via Regio I, nel vicolo di Menandro e in alri punti del sito pompeiano. Si tratta della casa del Criptoportico che nel 79 d.C., il giorno dell’eruzione, era in corso di ristrutturazione. E poi quelle di Paquio Proculo, che rivestiva una carica pubblica simile a quella di un sindaco e quella del Sacerdos Amandus, di Fabius o di Amandius e dell’Efebo, così chiamata per il portalampada in bronzo oggi conservato al Museo archeologico nazionale di Napoli.

Dopo anni di crolli e di  interventi emergenziali che, operando in deroga alle leggi, invece di sanare, hanno spesso provocato nuovi problemi, il soprintendente Massimo Osanna insieme al  generale dei carabinieri Giovanni Nistri mettono a  segnano un passo importante nell’ambito del progetto Grande Pompei. Il 24 dicembre il ministro Dario Franceschini, presentando i restauri a Pompei,  traccerà il bilancio dell’intervento finanziato da Unione europea e governo con 105 milioni di euro.

Fullonica di Stephanus
Fullonica di Stephanus

In anni recenti, purtroppo, Pompei è diventata sinonimo di crolli, di vandalismi e abbandono, occupando più le pagine di cronaca nera che quelle di cultura. Evocando in maniera paradigmatica ciò che tristemente sta accadendo al patrimonio del Belpaese. «Pompei racconta molto dell’Italia oggi», nota Francesco Erbani che le ha dedicato un libro Pompei Italia  pubblicato da Feltrinelli: «Il problema è stato il modo emergenziale in cui da anni è stato ustato per cercare di fermare il degrado dei resti della città, dei suoi mosaici e affreschi all’aria aperta. Non si è fatta più manutenzione ordinaria, non c’è stato più quel monitoraggio che ha funzionato per decine di anni nel prevenire disastri. Ma si affrontano i problemi all’ultimo momento, senza una visione a lungo termine», denunciava nel luglio scorso su Left Francesco Erbani. «La colpa non è delle strutture territoriali. Ne abbiamo una riprova concreta. La seconda metà degli anni Novanta fu un periodo d’oro, grazie a una precisa programmazione degli interventi.  Furono rafforzate le strutture territoriali e fu data autonomia amministrativa a Pompei permettendole di trattenere gli incassi – spiega Erbani -. Allora si provò a mettere in sicurezza tutto il sito, non limitandosi ad interventi su singole domus come si fa oggi, considerando la dimensione urbana di Pompei che la caratterizza rispetto da altre aree archeologiche. Quando lo Stato mette a disposizione le proprie strutture consentendo autonomia le cose funzionano. Poi però quel processo fu interrotto, le persone che lo avevano avviato furono sostituite con altre non altrettanto competenti e quell’esperienza fu lasciata morire dal ministero stesso». E’ in questo quadro che va letto l’evento pur importantissimo della riapertura di sei Domus, che speriamo sia il primo passo verso un cambio di rotta nella gestione del sito pompeiano. Il caso virtuso di Ercolano dimostra che è possibile.

 

Il film di Pappi Corsicato

dal film di Pappi CorsicatoSi intitola Pompei, eternal emotion il cortometraggio di Pappi Corsicato, prodotto dalla Scabec- Società campana beni culturali che sarà proiettato il 24 dicembre alle 11 all’Auditorium di Pompei. Nato come promo, della durata di dieci minuti  il film  assomiglia più a un’opera di videoarte che a un documentario promozionale. Per l’impatto emorivo delle immagini, che ricreano memorie antiche, per  la luce e il taglio poetico. Dopo molti film di successo, ed aver girato docufilm su artisti come il maestro dell’arte povera Mario Merz, Corsicato con questo corto ha scelto di raccontare una giornata pompeiana, dalle prime luci dell’alba sino al tramonto. Luoghi, persone, case, affreschi, calchi, tutto appare in sequenza in una dimensione quasi onirica. Il regista de I vesuviani e di Chimera, ha coinvolto nel film alcuni  turisti. «L’idea di mettere in scena dei calchi viventi – spiega il regista – è nata dal voler evocare lo struggente e contraddittorio sentimento della vita e della morte che convive quando si è a Pompei . Da una parte la vitalità che procede in una direzione e da un’altra la fissità più assoluta».

 

Pompei nella mostra Mito e natura a Milano.

Lo splendido tuffo di un uomo che non ha paura del mare ci colpisce forse più di ogni altra opera scelta per la mostra Mito e natura, dalla Grecia a Pompei aperta  fino al 10 gennaio in Palazzo Reale a Milano. Il nuotatore è sicuro di sé, non ha esitazioni di fronte all’acqua cristallina della Magna Grecia. Ma questa immagine che ci giunge dal lontano passato, ritrovata sulla lastra di una tomba del 480 a.C., potrebbe voler dire altro da quello che noi immaginiamo parlando di acque limpide e profonde. In quella parte di Sud d’Italia, infatti, si sviluppò la scuola pitagorica. E questo tipo di figura simboleggava il passaggio dalla vita al regno dei morti, spiegano Gemma Chiesa e Angela Pontrandolfo nel catalogo Electa che accompagna la mostra.

La tomba del tuffatore
La tomba del tuffatore

Al contempo la celebre immagine della tomba del tuffatore ci racconta che il rapporto con la natura era molto cambiato dai tempi più antichi e dell’epos omerico, quando ancora era avvertita come una forza pericolosa, sovrastante e indomabile. Il percorso espositivo organizzato dalle due curatrici secondo un percorso tematico e cronologico (dal VIII sec. a. C. al II sec. d. C.) racconta bene il passaggio che avvenne nel V secolo a. C., quando si strutturò il Logos e la polis divenne ordinata, con una netta divisione degli spazi urbani: quelli pubblici riservati a una elite di uomini aristocratici e liberi e quelli privati in cui erano rinchiuse le donne e gli schiavi. Questa visione della società trovò un preciso riflesso nel modo di rappresentare l’ambiente. Lo si evince perlopiù dallo studio di vasi dipinti, non potendo contare su esempi di pittura greca antica che – diversamente dalla statuaria e dal vaselleme – perlopiù non è arrivata fino a noi.

MitoNatura Nell’epoca classica della filosofia greca si passò dunque da una visione panteistica, dalla rappresentazione di tempeste e venti “incarnate” da figure di dei, a una visione della natura addomesticata, contenuta in forma chiare e definite. Un mutamento che appare ancora più evidente guardando i reperti romani esposti a Milano e provenienti dai maggiori musei italiani e internazionali. Ma soprattutto lo si nota osservando i preziosi lacerti di affreschi pompeiani. Negli interni delle ville patrizie comparivano spesso giardini dipinti che arrivavano ad avere il nitore e l’effetto illusionistico di un trompe-l’œil, in cui ogni dettaglio botanico appare riprodotto in maniera analitica. Non un alito di vento scompiglia questi giardini delle delizie, immobili e decorativi. Poi il Settecento illuminista riprenderà questa moda declinandola in giardini geometrici.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

 

Unhcr, Consiglio d’Europa e Ocse all’Ungheria: «Basta propaganda anti-rifugiati»

A migrant is detained after the train they were traveling in from Budapest arrived in Bicske, Hungary, Thursday, Sept. 3, 2015. Over 150,000 migrants have reached Hungary this year, most coming through the southern border with Serbia. Many apply for asylum but quickly try to leave for richer EU countries. (AP Photo/Petr David Josek)

Nel giorno in cui l’Organizzazione Mondiale per le Migrazioni (OIM) ci dice – è l’ennesima agenzia a farlo – che il numero di ingressi in Europa nel 2015 ha superato il milione, l’agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite e il Consiglio d’Europa hanno esortato l’Ungheria ad evitare politiche che promuovano «l’intolleranza e l’odio» nei confronti dei migranti.

In una dichiarazione congiunta, l’UNHCR, l’ufficio diritti umani dell’Ocse e il Consiglio d’Europa hanno invitato i leader ungheresi ad aiutare «coloro che sono stati costretti dai loro paesi contro la loro volontà e la scelta e sono attualmente in cerca di sicurezza in Europa».

Le tre agenzie hanno criticato la campagna lanciata dal governo Orban questo mese che dipinge i profughi, anche quelli provenienti dalla Siria come «criminali, invasori e terroristi sulla base delle loro convinzioni religiose e luoghi di origine».

La campagna è fatta di messaggi su sfondo nero a tutta pagina sui quotidiani nazionali con il titolo: «La quota europea aumenta la minaccia terroristica!».

La polemica del governo ungherese è contro il piano europeo di redistribuzione di 160.000 tra rifugiati e migranti in tutto il blocco. La Slovacchia e l’Ungheria dovrebbero accogliere circa 2.300 persone.

Altri messaggi: «Un immigrato clandestino arriva in Europa, in media, ogni 12 secondi»; «Non sappiamo chi sono, o quali sono le loro intenzioni» e «Non sappiamo quanti terroristi nascosti sono in mezzo a loro».

L’Ungheria ha adottato una linea dura sulla crisi dei profughi, sigillando suoi confini meridionali con un recinto di filo spinato per fermare l’afflusso di migranti.

Il ministro degli Esteri ungherese Peter Szijjarto ha reagito alle critiche, negando che il paese stava cercando di seminare la paura di rifugiati e migranti. «L’Ungheria sta parlando di cose reali – ha detto il ministro – offriamo, come prima, la protezione a chi ne ha veramente bisogno, ma non possiamo accogliere decine o centinaia di migliaia di migranti economici». «Inoltre non abbiamo mai affermato che tutti i migranti siano terroristi, ma che con il flusso incontrollato di immigrati, la minaccia terroristica cresce», ha concluso.

Le organizzazioni per i diritti umani hanno invece sostenuto, con il tono formale che gli si confà, che l’Ungheria deve contribuire a risolvere la crisi e «riconoscere che i rifugiati arrivano in Europa dopo aver sopportato il trauma, la tragedia e la perdita … per iniziare una nuova vita lontano dai rivolgimenti della guerra e del conflitto.»

L’Ungheria, che quasi non aveva un problema immigrazione – se non agitato da parte della destra di Jobbik, che è anche anti-minoranzee al limite dell’antisemitismo – con le nuove rotte frutto della guerra siriana, si trova ad essere un nuovo punto di ingresso e, quindi, a dover gestire un numero di domande di richiedenti asilo mai visto fino a oggi. La risposta del governo è di pura propaganda: prima il muro, ora la pubblicità islamofoba sui giornali.

Venghino, venghino, è arrivata l’Unità!

maria elena boschi unità

Leggo l’Unità come si ascoltano i rimbambiti ospiti fissi al bar che a forza di ricordare la propria infanzia non sono più in grado di riconoscere i ricordi dalle proprie leggende personali: con un misto di pietà e laica misericordia. Verrebbe quasi da abbracciarla, l’Unità, pensando che in fondo sarà stata anche lei una giovanetta piena di lucidità prima di sclerotizzarsi a forza di vino alla spina e carte battute sul tavolo.

Così stamattina, prendendola tra le mani, è inevitabile avere una vena di nostalgia leggendo la prima pagina. Deve essere che i «ghostwriters» hanno già iniziato le ferie natalizie con largo anticipo, in prima pagina questa volta a Renzi è toccato prendere la penna piuttosto che fare la solita telefonata serale e ha vergato di suo pugno un editorialone lenzuolato a forma di autoesaltazione. Alle solite.

Cosa ci dice Renzi? Con un elenco puntato simile ai sondaggi sui gattini di Facebook il premier elenca i suoi 12 comandamenti per cui è obbligatorio essere felici. Dodici pacchi sotto l’albero per gli italiani (secondo lui) che come al solito, alla maniera dei bimbi egocentrici e dispettosi, ci ha scartato da solo e ora ci legge ad alta voce le istruzioni: così, grazie a l’Unità, scopriamo che:

  1. Il governo ha tolto Imu e Tasi. Riuscendo anche su questo ad anticipare Berlusconi e i suoi programmi di governo.
  2. Il governo, dice Renzi, è amico di polizia e carabinieri. E infatti gli ha dato la mancia, fidandosi di loro, che sicuro non li spenderanno in dolci, patatine o giocattoli. Perché ormai stanno diventando grandi.
  3. Il governo, scrive l’Unità tramite Renzi, è amico degli agricoltori. E così gli ha tolto l’Imu. Come ai cardinali.
  4. Il governo è amico dei poveri, scrive Renzi tramite l’Unità, e infatti ha tolto la tassa sugli yacht perché si sa che ormai le barche troppo lunghe costano un salasso. E non è cosa.
  5. Questo governo, scrive Renzi tramite Renzi, è amico di chi paga le tasse. E infatti mica per niente la sua maggioranza si tiene su un pluricondannato per evasione fiscale. Perché il ladro è sempre il migliore inventori di antifurto, si vede.
  6. Questo governo, scrive l’Unità tramite l’Unità, ha alzato il finanziamento alla sanità. E qui deve avere forato il camioncino portavalori, visto che alle Regioni non è ancora arrivato un centesimo.
  7. Questo governo, ordina Renzi, è amico di chi investe sul capitale umano. E da stamattina gli investitori truffati dalla banca del papà Boschi, non hanno finito di lanciare ostie su questa boiata.
  8. Questo governo, ordina l’Unità, ha dato la mancia ai giovani per andare a teatro. E chissà come ci rimarranno male quando al suo posto scopriranno che c’è un nuovo supermercato.
  9. Questo governo è amico, giuro l’ha scritto così, della «cybersecurity». Non ci dormivo la notte. In effetti.
  10. Questo governo è amico del mezzogiorno, sentenzia l’Unità. E infatti si è messo a tacciare Saviano che infanga la sua terra, eh.
  11. Questo governo, sentenzia Renzi, è amico delle partite iva. Ma questo si sapeva. Piacerebbe un po’ più solidarietà per i loro intestatari, a volte.
  12. Infine, dice il premier, questo governo aiuta le assunzioni. Impressionante crescita nel settore dei commissari vari. Davvero.

E guai a chi si permette di discutere la cottura del cappone.

2015, l’anno dei partiti anti-sistema. Come sono cambiati gli equilibri politici in Europa

Sono anni complicati per la politica tradizionale questi. Le elezioni spagnole sono l’ultimo appuntamento che mostra come negli ultimi due-tre anni il panorama politico europeo sia terremotato. In ciascun Paese, in forme nuove o antiche, più o meno clamorose, le forze politiche tradizionalmente fuori dai giochi – o nuove – hanno raccolto grandi consensi.

Che si tratti dei nuovi, come Podemos e Ciudadanos, degli antichi paria della politica nazionale esclusi da un tendenziale bipartitismo, più o meno complesso (Gran Bretagna, Spagna, Francia), ovunque le cose cambiano. E chi pensava che, come spesso accaduto in passato, la scossa fosse solo quella delle elezioni europee del 2014, non aveva colto nel segno. Nel 2015 in Portogallo cresce la sinistra-sinistra, in Danimarca si conferma forte il partito del popolo danese, nel segno de “il welfare è nostro e ce lo teniamo” e in Francia il Front national non perde un colpo se non al secondo turno, quando l’Union sacrée di tutti i cittadini anti-fascisti di Francia gli nega le presidenze delle regioni.

E’ l’Europa della risposta alla crisi con il rigore – e poi la crisi dei rifugiati – che genera questa risposta: tendenzialmente i Paesi colpiti dalle politiche di austerity votano di più a sinistra – con l’eccezione dell’Italia, dove c’è l’odio anti-casta, una sinistra senza progetto e l’ibrido del Movimento 5 Stelle – quelli spaventati dai rifugiati e arrabbiati con fannulloni greci, spagnoli e portoghesi, votano i nuovi populismi nazionalisti, che sono anti-globalizzazione e si distinguono tra quelli che mettono più l’accento sui valori occidentali, come ilremier ungherese Orban e quelli che usano la crisi di un modello equilibrato di società messa a rischio da Europa e immigrazione – nei Paesi scandinavi e persino in Germania, dove sono nati un partito liberale no euro e un movimento di piazza, Pegida, anti Islam.

In alcuni casi, come quello greco, si tratta della crescita e modernizzazione di partiti dalla storia relativamente lunga, spesso di partiti che nascono e crescono dentro alla crisi della socialdemocrazia, la famiglia politica finita peggio nei voti importanti degli ultimi anni: ha perso in Francia, Gran Bretagna, Germania, Spagna e in diversi Paesi dell’est e scandinavi, ha perso al governo e all’opposizione, contro premier popolari com Merkel e contro governi che hanno perso più voti di lei (come in Spagna).

Certo, ogni Paese ha la sua storia, le sue caratteristiche specifiche in tema di culture politiche o localismi, in Gran Bretagna l’Ukip ottiene un buon risultato ma è ridimensionato da una legge elettorale che ha quasi cancellato la sua presenza istituzionale, mentre il SNP scozzese, che pure è andato benissimo, è una risposta locale e socialdemoctratica all’abbandono di certe idee da parte laburista.

Certo è che la nascita di coalizioni di destra-destra e di sinistra-sinistra è una novità assoluta per il panorama europeo. Per adesso, come spesso capitato in passato anche in Italia con i governi di centrosinistra, le forze di sinistra hanno mostrato fin troppa timidezza – o senso di responsabilità – mentre la destra ha forzato a suo piacimento le regole europee. Nel primo caso si è trattato soprattutto di bilanci dello Stato e spesa pubblica, con l’esempio greco e del governo Tsipras come apice dell’imposizione di regole europee e di accettazione di queste da parte del governo nazionale, nell’altro di rifugiati e di una serie di passi unilaterali che sono stati sanzionati in minima parte e hanno prodotto risposte – il piano rifugiati europeo – timide e non applicate in quasi nulla. Due crisi diverse e due risposte diverse.

Quanto sono cresciuti i partiti anti-sistema vecchi e nuovi in Europa durante la crisi? Qui sotto, Paese per Paese diversi esempi. Con tutte le distinzioni azionali possibili, il dato incontrovertibile è che quasi ovunque destra e sinistra sono cresciute e molto.

 

 

 

Ghiaccio bollente cancellato, Massarini: «Per la Rai la musica non è cultura»

«Se Rai 5 è un canale culturale, dovrebbe fare cultura contemporanea. La musica è cultura contemporanea e con Ghiaccio Bollente noi facciamo cultura. Ma alla Rai a quanto pare non la pensano così. Loro pensano che questa non sia cultura, altrimenti toglierebbero un po’ di spazio al teatro d’essai o alla musica classica», dice Carlo Massarini. Una mail una settimana fa e nessuna motivazione: il magazine Ghiaccio Bollente si scioglierà come neve al sole nel nuovo anno. Il programma di approfondimento sulla musica jazz, rock, funky, contemporanea, non è previsto nel nuovo palinsesto.

«Quella di domani sera (martedì) è l’ultima puntata», dice Carlo Massarini, l’uomo della notte e della musica, il creatore agli inizi degli anni ’80 di Mister Fantasy, il programma Rai che ha fatto conoscere all’Italia l’uso del videoclip quando si trattava di una novità. «Come ai giocatori a cui si dice di svuotare gli armadietti», dice Carlo Massarini che pure in quest’ultimo periodo ha cercato di parlare con i dirigenti Rai, ma senza successo. Una settimana fa è arrivata la mail del produttore esecutivo di Milano. «Una mail terminale, alla fine del processo», continua Massarini. Da gennaio 2014 conduce il magazine che affianca Ghiaccio Bollente, il flusso musicale notturno di Rai5, che due volte a settimana viene preceduto appunto dal programma costituito da interviste e approfondimenti spesso con artisti in studio.

«Non esiste un altro programma sulla tv italiana che trasmetta tutti i tipi di musica – rock, blues, jazz, folk, world, classica contemporanea – scegliendo solo in base alla qualità, senza barriere di generi», è scritto in una petizione appena partita su Change.org che chiede al direttore Campo Dall’Orto di tornare suoi propri passi. Il contratto di Massarini scade a dicembre 2015, quelli degli altri componenti della mini redazione di quattro persone a luglio 2016. Ma intanto è il contratto più “pesante” di Massarini che conta. «Facciamo tutto in casa, non costiamo quasi nulla alla Rai, mi porto io due telecamere e l’assistente alla regia fa anche il doppiaggio. La macchina produttiva è zero. Siamo noi stessi ad autoprodurci, per questo è assurdo che lo chiudano». Massarini spera che magari si tratti di una pausa fisiologica – solo uno stop per il mese di gennaio – e poi si riprenda a febbraio. Ma qualcuno si deve far vivo, e per il momento non è accaduto. «Sta di fatto che ci hanno interrotto qua».

«Nel gennaio 2014 è iniziato il flusso di film e video – ricorda Massarini -, poi si sono aggiunti 10 minuti iniziali di ogni sera, che sono diventati 15 quattro giorni alla settimana che poi venivano riassunti  in un magazine alla fine della settimana. A ottobre 2014  il flusso è rimasto e il magazine è diventato una presenza ufficiale, in onda il sabato e il martedì in replica, per cui domani notte è l’ultimo».  Un programma, ricordiamo, che oltre a far conoscere le novità straniere presenta interessanti incontri con musicisti italiani, come è accaduto negli ultimi tempi con Manuel Agnelli o con Ezio Bosso (sabato scorso).

Il magazine, che non fa grandi numeri – ed è anche ovvio visto che si tratta del digitale terrestre – non è stato  valorizzato dalla Rai. «Non hanno mai fatto uno spot o un comunicato», sottolinea Massarini. «Quando ne ho parlato, da Sanremo a varie trasmissioni radio, è stato perché mi hanno chiamato loro: non c’è stata alcuna promozione».

La cancellazione di Ghiaccio Bollente però dimostra molte cose. Che la Rai si disinteressa di musica intesa come una parte della cultura contemporanea. I fatti parlano chiaro. Una trasmissione nata quasi per caso, grazie a film pregevoli sui gruppi e concerti storici e poi il magazine. Ma senza dietro una strategia culturale. «È stata un’idea nata dal basso che poi si è cementata, noi ci abbiamo messo impegno e qualità ed è diventato un appuntamento di riferimento, anche perché è l’unico». Che adesso però rischia di scomparire definitivamente.

Eutanasia, Cappato si autodenuncia: «Ho favorito il suicidio assistito. Ora il Parlamento discuta la legge»

Militanti del Partito Radicale, in primo piano Marco Cappato, avanzano verso la Camera dei Deputati dove depositeranno gli scatoloni con le firme per il referendum sull'eutanasia legale, il 13 settembre 2013 a Roma. ANSA/ GUIDO MONTANI
Dominique Velati era una militante radicale e infermiera che si è battuta per la legge 194  e la sua applicazione. Tanto che all’indomani della entrata in vigore della norma dette subito la propria disponibilità a lavorare in sala operatoria durante le interruzioni di gravidanza. Per questo, allora, fu allontanata dal direttore dell’ospedale. Nel corso di tanti anni di lavoro, poi, Dominique si è occupata tante volte di malati terminali. «La voglia di stare con loro era fortissima. Molti infermieri hanno paura di affrontare il problema della morte con i pazienti. E poi anche i medici non ne parlano, nessuno ne parla. Di solito si chiudono a riccio, non parlano più, si isolano stando a letto» ha detto in una bella intervista di Ferruccio Sansa apparsa su Il Fatto. «Invece è importante poterne parlare». Dominique lo ha fatto. Anche quando è toccato a lei. Mesi fa le fu diagnosticato un tumore che si è rivelato molto aggressivo. I medici le avevano detto che le restava poco da vivere. «Io ho cercato di andare avanti, parlandone. Senza timori, come una cosa normale, naturale. Perché è naturale la morte, fa parte della nostra vita».
Ma soprattutto  Dominique ha voluto trasformare la sua malattia ormai terminale in una battaglia politica per i diritti di tutti. E avendo deciso di andare a morire in Svizzera, ha voluto rendere  pubblica questa sua scelta per accendere i riflettori sulla proposta di legge di iniziativa popolare sull’eutanasia legale che dal settembre 2013 giace in Parlamento. «Una proposta di legge che abbiamo depositato insieme a Exit, Uaar, Radicali Italiani, Certi Diritti e altri, che ha raccolto 67mila firme, ma che non è mai stata discussa. Neanche in Commissione», denuncia Marco Cappato dei Radicali Italiani che ha appena fondato l’associazione Sos eutanasia, per aiutare le persone come Dominique, malati terminali, che hanno deciso di morire con dignità.  «Avendo sempre lavorato lei è riuscita a mettere insieme, da sola, i 12mila euro che servono per pagare la clinica di Berna, ma tanti altri malati non hanno questa possibilità economica. E con questa nuova associazione vogliamo anche cercare di dar loro una mano economicamente» ha detto Cappato presentando questa nuova associazione, nata per non creare problemi legali all’Associazione Luca Coscioni per la libertà di ricerca di cui è tesoriere.
In Italia, come è noto, l’eutanasia è illegale. Ma anche aiutare una persona ad attuare il suicidio assistito è fuori legge e si rischia dai 5 ai 12 anni di carcere.  D’accordo con Dominique Velati, Marco Cappato, responsabile legale di Sos eutanasia, le ha pagato il biglietto di sola andata per Berna, autodenunciandosi, compiendo un’azione politica per tentare di rompere il muro di silenzio che circonda in Italia la situazione dei malati terminali. Sono circa mille all’anno le persone che si suicidano nei modi più diversi e atroci non potendo accedere all’eutanasia legale. Senza dimenticare tutti quei malati terminali che sono vittime di accanimento terapeutico, quando le macchine fanno andare avanti una vita che ormai è solo biologica.  I medici della clinica svizzera che  hanno aiutato a morire Dominique hanno analizzato a fondo il suo quadro clinico, anche quello psicologico, prima di accettarla alla Dignitas. L’iter di esami è stato accurato e approfondito, anche dopo la presentazione delle cartelle dei medici che l’avevano avuta in cura e che parlavano di metastasi ovunque, dopo l’intervento al fegato. Ma secondo la legge italiana e la religione cattolica Dominique avrebbe dovuto sopportare il dolore e lo strazio di una patologia fisica devastante per la quale, ad oggi, a quello stadio e per quel quadro clinico, non c’era cura.
@simonamaggiorel
 aggiornamento del 22 dicembre, una dichiarazione di Marco Cappato: “In queste ore ho ricevuto ulteriori 6 richieste di aiuto per ottenere il suicidio assistito all’estero.Come ribadito nella dichiarazione spontanea rilasciata nella giornata di ieri presso la Legione Carabinieri Lazio, Stazione di piazza San lorenzo in Lucina a Roma, l’azione mia e di soseutanasia.it, continuerà.

In particolare, l’obiettivo dell’azione di disobbedienza civile è che il Parlamento finalmente si assuma la responsabilità di discutere le proposte di legge per la legalizzazione dell’eutanasia e il pieno riconoscimento del testamento biologico, a partire dalla proposta di legge di iniziativa popolare depositata alla Camera dei Deputati il 13 settembre 2013.
Ho ricevuto stamane comunicazione che il verbale delle dichiarazioni spontanee rilasciate, è già stato trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma”.

#xlasinistraditutti? Ma magari

Podemos in Spagna ha preso 5 milioni di voti. In Italia la sinistra radicale ha prodotto 5 milioni di appelli

Posted by Matteo Pucciarelli on Lunedì 21 dicembre 2015

«Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca». Così avete comincia la nota che avrete magari letto su facebook o in qualche catena via mail. L’elenco dei firmatari non c’è. «Perché l’idea», ci dice chi ne ha seguito la genesi, «è che l’appello non avesse primogeniture. Per questo si è scelto di non mettere i nomi».

Molti sono ragazzi, associazioni, militanti sindacali, ci viene detto. E sì, se state pensando che è una cosa che nasce nell’orbita di Sinistra Italiana è in effetti così: Stefano Fassina condivide lo spirito, e lo stesso Sel. «Ma l’appello nasce proprio per non chiedersi più chi ci sta e chi non ci sta, quale organizzazione questa volta ha il suo paletto insormontabile», dice a Left Marco Furfaro: «Questa cosa uccide i tavoli e i bilancini. Tutte cose di cui non se ne può più». In molti, rilanciando l’appello, si soffermano sulla dimensione “dal basso” dell’iniziativa.

L’idea è semplice: «Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma», «incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo». Il frutto di mesi di trattativa condotta tra le varie sigle esistenti (trattativa che, come vi abbiamo raccontanto sul numero 49 di Left, non ha portato molto lontano) c’è. C’è ad esempio la rottura netta con il Pd, che era tanto cara a Civati, e che è diventato alla fine un punto di partenza per tutti: «Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa». C’è però anche il motivo dell’ultima rottura al tavolo, che ha visto litigare questa volta Sel e Fassina da una parte e Ferrero e Rifondazione dall’altra. Bisogna fare un partito o un soggetto politico, cioè una federazione come chiede Ferrero? «Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento,chi non crede più alla politica», è scritto nell’appello, dove si precisa però che serve «una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile,in competizione con tutti gli altri poli esistenti». Azzerare tutto, quindi, è l’intenzione. Sciogliere tutto ciò che preesiste. Possibile? Non è dato saperlo. Ma forse convocare un appuntamento pubblico è veramente l’unico modo per capirlo. Nelle intenzioni c’è di arrivare alla data con già una piattaforma online di partecipazione. Attendiamo con ansia. Limitandoci per ora a pubblicare il tweet con cui Ferrero usa il risultato di Podemos per spingere in direzione della federazione.

A questo punto dovremmo però notare che di progetto così ce ne è già uno, in campo. E che proprio in questi giorni ha lanciato la sua di piattaforma online. A parole le intenzioni sono simili, e l’entusiasmo per il risultato di Podemos è lo stesso. Magari l’attaccamento alla parola sinistra è diverso, (come dimostra il post di Paolo Cosseddu, braccio organizzativo del partito di Giuseppe Civati, Possibile), ma perché non si può convergere?

L’unico confronto che mi sento di fare sulle elezioni spagnole è che Podemos ha fatto il 20,6 per cento, mentre il…

Posted by Paolo Cosseddu on Lunedì 21 dicembre 2015

Quindi? Che facciamo? Abbiamo deciso che i progetti saranno due (almeno due)?
L’appello dice una testa un voto. Può interessare?