Ho ricevuto stamane comunicazione che il verbale delle dichiarazioni spontanee rilasciate, è già stato trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma”.
Eutanasia, Cappato si autodenuncia: «Ho favorito il suicidio assistito. Ora il Parlamento discuta la legge»

Ho ricevuto stamane comunicazione che il verbale delle dichiarazioni spontanee rilasciate, è già stato trasmesso alla Procura della Repubblica di Roma”.
#xlasinistraditutti? Ma magari
Podemos in Spagna ha preso 5 milioni di voti. In Italia la sinistra radicale ha prodotto 5 milioni di appelli
Posted by Matteo Pucciarelli on Lunedì 21 dicembre 2015
«Nelle ore in cui Podemos lancia la sua sfida per l’alternativa, un gruppo di persone appartenenti a realtà politiche e sociali, ha scritto questo testo e lo mette a disposizione di chiunque ci si riconosca». Così avete comincia la nota che avrete magari letto su facebook o in qualche catena via mail. L’elenco dei firmatari non c’è. «Perché l’idea», ci dice chi ne ha seguito la genesi, «è che l’appello non avesse primogeniture. Per questo si è scelto di non mettere i nomi».
Molti sono ragazzi, associazioni, militanti sindacali, ci viene detto. E sì, se state pensando che è una cosa che nasce nell’orbita di Sinistra Italiana è in effetti così: Stefano Fassina condivide lo spirito, e lo stesso Sel. «Ma l’appello nasce proprio per non chiedersi più chi ci sta e chi non ci sta, quale organizzazione questa volta ha il suo paletto insormontabile», dice a Left Marco Furfaro: «Questa cosa uccide i tavoli e i bilancini. Tutte cose di cui non se ne può più». In molti, rilanciando l’appello, si soffermano sulla dimensione “dal basso” dell’iniziativa.
Amo molto i cappelli, ne posseggo tantissimi. Ma sulla voglia di sinistra non mi piacciono proprio per niente. #xlasinistraditutti 19-21 feb
— Anthony Square (@mistermazza) 21 Dicembre 2015
L’idea è semplice: «Incontriamoci il 19, 20 e 21 febbraio a Roma», «incontriamoci per organizzarci e costruire un nuovo soggetto politico, uno spazio aperto, democratico, autonomo». Il frutto di mesi di trattativa condotta tra le varie sigle esistenti (trattativa che, come vi abbiamo raccontanto sul numero 49 di Left, non ha portato molto lontano) c’è. C’è ad esempio la rottura netta con il Pd, che era tanto cara a Civati, e che è diventato alla fine un punto di partenza per tutti: «Il governo Renzi e il Pd vanno in una direzione diametralmente opposta e ci raccontano che non c’è un’alternativa». C’è però anche il motivo dell’ultima rottura al tavolo, che ha visto litigare questa volta Sel e Fassina da una parte e Ferrero e Rifondazione dall’altra. Bisogna fare un partito o un soggetto politico, cioè una federazione come chiede Ferrero? «Dobbiamo organizzarci. Organizzare innanzitutto la parte che più ha subito gli effetti della crisi, chi ha voglia e bisogno di riscatto, di cambiamento,chi non crede più alla politica», è scritto nell’appello, dove si precisa però che serve «una forza politica, non un cartello elettorale, che si candidi a governare il paese per cambiarlo e che lo faccia con un profilo credibile,in competizione con tutti gli altri poli esistenti». Azzerare tutto, quindi, è l’intenzione. Sciogliere tutto ciò che preesiste. Possibile? Non è dato saperlo. Ma forse convocare un appuntamento pubblico è veramente l’unico modo per capirlo. Nelle intenzioni c’è di arrivare alla data con già una piattaforma online di partecipazione. Attendiamo con ansia. Limitandoci per ora a pubblicare il tweet con cui Ferrero usa il risultato di Podemos per spingere in direzione della federazione.
#Spagna battuto governo neoliberista. Se Podemos avesse accettato liste unitarie proposte da Izquierda Unida sinistra avrebbe vinto elezioni — Paolo Ferrero (@ferrero_paolo) 20 Dicembre 2015
A questo punto dovremmo però notare che di progetto così ce ne è già uno, in campo. E che proprio in questi giorni ha lanciato la sua di piattaforma online. A parole le intenzioni sono simili, e l’entusiasmo per il risultato di Podemos è lo stesso. Magari l’attaccamento alla parola sinistra è diverso, (come dimostra il post di Paolo Cosseddu, braccio organizzativo del partito di Giuseppe Civati, Possibile), ma perché non si può convergere?
L’unico confronto che mi sento di fare sulle elezioni spagnole è che Podemos ha fatto il 20,6 per cento, mentre il…
Posted by Paolo Cosseddu on Lunedì 21 dicembre 2015
Quindi? Che facciamo? Abbiamo deciso che i progetti saranno due (almeno due)?
L’appello dice una testa un voto. Può interessare?
Basta con “è mia” o “è tua” vogliamo la che sia di tutti! #xlasinistraditutti
— Angelo Buonomo (@AngeloBuonomo) 21 Dicembre 2015
Un Natale e un Capodanno ad arte. Le mostre da vedere in Italia
Il colore e la nuova visione pittorica di Van Gogh a Verona
Arrivano dal Kroller Muller Museum, un suggestivo (ma non facilmente accessibile) museo che sorge nella campagna olandese i capolavori che punteggiano la mostra Seurat, Van Gogh Mondrian, aperta fino al 13 marzo 2015 al Palazzo della Gran Guardia di Verona. Sono opere di Signac come La sala da pranzo e di Seurat come la celebre Domenica a Port-en-Bessin del 1888.
A fine Ottocento i due artisti francesi tentarono di andare oltre l’impressionismo, adottando una tecnica particolare come il pointillisme, (detto anche divisionismo ), basata su raffinato studio dei rapporti fra luce e colore e che permetteva di sfaldare la visione nitida e razionale della realtà. In Francia, con i post impressionisti, ma soprattutto con la visione onirica e deformante di Cézanne, aveva preso vita un rinnovamento radicale della tradizione pittorica occidentale da secoli naturalistica e improntata alla mimesis. Fu poi soprattutto con Van Gogh che la pittura divenne ricerca di una visione che non aveva nulla a che fare con quella retinica, piatta e razionale. Come racconta Stefano Zuffi nel catalogo 24 Ore Cultura che accompagna la mostra, in quei dolorosi e concitati anni trascorsi in Francia il pittore olandese“riuscì a infondere alle pennellate un’inedita drammaticità, una forza profonda capace di imprimere forti emozioni sulla tela“.
A testimoniarlo in mostra ci sono opere di Vincent van Gogh come l‘autoritratto qui pubblicato in apertura, Il seminatore e Paesaggio con fasci di grano e luna. Nel volgere di pochi decenni, queste premesse portavano alla rivoluzione radicale della pittura che, dopo l’esperienza cubista degli ani Dieci del Novecento, avrebbe preso la strada dell’astrattismo, con Malevich, Kandinsky e con Mondrian che cominciò dopo la guerra a suddividere il campo della tela in riquadri di colore. Dell’artista sono in mostra quattro opere realizzate a partire dal 1913 , fra le quali, Composizione n. IÌ e Composizione a colori B, e Composizione con rosso, giallo e blù.
Orari della mostra durante le feste: 24 dicembre: 9.30 – 17.30, 25 dicembre: 14.30 – 19.30, 26 dicembre: 9.30 – 19.30, 28 dicembre: 9.30 – 19.30, 31 dicembre: 9.30 – 17.30, 1 gennaio: 12.30 – 19.30.
La Polinesia di Gauguin a Milano
L’apertura del Museo delle culture (Mudec) a Milano è stato uno degli eventi più interessanti dell’anno e che fa avvicinare Milano a Parigi, dove il Musée du quai Branly, non ospita soltanto mostre di arte africana, asiatica e di altri Paesi che per anni sono stati esclusi dal sistema internazionale dell’arte, ma offre anche approfondimenti storici, antropologici e in senso ampio multidisciplinari. In un contesto museale che si propone dunque uno sguardo multiculturale sull’arte si colloca la mostra milanese Gauguin. Racconti dal Paradiso esplorando il percorso che ha condotto questo importante pittore del secondo Ottocento alla scoperta delle culture tribali oceaniche. La mostra del Mudec ricostruisce l’itinerario geografico e artistico di Gauguin attraverso 70 opere, provenienti da diversi musei e collezioni private internazionali, intercalandole con oggetti di artigianato, foto e documenti dei luoghi che il pittore vistò durante i suoi viaggi dall’Europa alla Polinesia.
Questa mostra, in particolare, indaga le fonti figurative di Gauguin, che vanno dall’arte popolare della Bretagna francese all’arte dell’antico Egitto, da quella peruviana delle culture inca alla cambogiana e alla javanese, fino ad arrivare all’arte, alla vita e alla cultura della Polinesia. Dopo una fase iniziale della propria carriera a Parigi e in Bretagna, alla ricerca di un modo più libero di vivere e a dimensione umana, Gauguin partì per Panama, per poi arrivare fino in Martinica. Il rientro in Francia poi gli fu insopportabile e decise di ripartire per Tahiti e qui, cercò di integrarsi alla vita indigena. “Il mondo colorato e primitivo che incontrò influenzò profondamente la sua arte, che si evolse dall’impressionismo al sintetismo”, spiegano i curatori. Gauguin diventò, così, precursore del fauvismo e ispirò, in seguito, sia l’espressionismo tedesco che il cubismo, con il suo interesse per l’arte africana e dei popoli primitivi”.
La mostra è aperta fino al 21 febbraio e accompagnata da un catalogo edito da 24 Ore Cultura. Durante le feste il Mudec è aperto: il 24 dicembre, dalle 9,30 alle 14, il 25, dalle 14,30 alle 19.30, il 26 dalle 9,30 alle 22,30, il 31 dicembre dalle 9,30 alle 14 e il primo gennaio dalle 14,30 alle 19,30.
La fantasia di Matisse a Torino

Colorimétrie modifiée.
Ha rivoluzionato l’uso del colore, rendendolo un potente elemento espressivo, con il novimento dei Fauves, poi si è interessato al cubismo, pur fra molte riserve, sentendolo come un tentativo troppo freddo e geometrizzante di rappresentare una realtà intima e profonda. Per questo Henri Matisse prefriva la deformazione onirica della figura, cercava un modo morbido per rappresentare e una visione che non fosse freddamente razionale. L’originalità della sua pittura e la sua inesausta voglia di sperimentare, che lo accompagnò fino alla morte, sono raccontate nella mostra Matisse e il suo tempo in Palazzo Chiablese, a Torino, fino al 15 maggio. Realizzata da Arthemisia group con 24 Ore Cultura ( che pubblica il catalogo) la mostra ripercorre tutte le fasi del percorso di Mastisse, dagli esordi tardivi nell’atelier di Moreau, dopo aver fatto studi di legge, al periodo selvaggio della forza espressionista del colore con il Fauves e poi la dialettica con il cubismo e in particolare con Picasso di cui fu per tutta la vita amico e rivale in un gioco di emulazione reciproca che vide La gioia di vivere di Picasso nascere per una “ripicca” cercando di imitare quella di Matisse. E poi ecco il fiorente periodo di Nizza, i ritratti di donna in un interno, le sperimentazioni con l’arabesque e l’immaginario orientale delle odalische, dopo numerosi viaggi in Tunisia e in Marocco.
Infine gli ultimi anni in cui, con i cut-outs Matisse arriva a realizzare le prime “installazioni” ambientali cercando si superare la separazione fra architettura e pittura. L’esposizione presenta 50 opere di Matisse e altre 47 di artisti come Picasso, Renoir, Bonnard, Modigliani, Mirò e molti altri; davvero imperdibile.
Ecco gli orari durante le feste : 24 dicembre: 9:30 – 17:30, 25 dicembre: 14:30 – 19:30, 26 dicembre: 9:30 – 19:30, 31 dicembre: 9:30 – 17:30, 1 gennaio: 14:30 – 19:30, 6 gennaio: 9:30 – 19:30
Gli amanti di Chagall a Brescia
Fino al 15 febbraio la mostra Marc Chagall. Anni russi 1907-1924 racconta gli anni precedenti la diaspora dell’artista che poi si sarebbe trasferito a Parigi. Nel Museo di Santa Giulia a Brescia la mostra curata dalla russa Eugenia Petrova, direttrice del Museo di Stato, permette così di conoscere più da vicino la formazione di questo poetico e visionario artista, a cui Dario Fo offre un personale omaggio attraverso i suoi colorati disegni e bozzetti per il teatro. Un ommaggio sorprendente da parte del premio Nobel per la letteratura, commediografo, scrittore, ma anche pittore da sempre appassionato del mondo immaginifico e surreale di Chagall.
Il percorso espositivo comincia da alcuni stralci tratti dalla autobiografia di Chagall, Ma Vie, scritta tra il 1921 e il 1922, per alla fine sfociare nel racconto di Dario Fo che dialoga cone le tele del pittore russo di origini ebraiche attraverso testi llustrati da disegni e dipinti, creati per quasta mostra di Brescia. Il nucleo di opere di Chagall esposte in Santa Giulia è composto da 17 dipinti e 16 disegni oltre a due taccuini – con disegni e poesie che sono stati ritrovati di recente e qui vengono per la prima volta esposti al pubblico. Risalgono al periodo fra il 1907 al 1924, quando l’artista originario di Vitebsk (Paese che viene evocato come una memoria antica in molti quadri di Chagall) va prima prima a San Pietroburgo per studiare all’Accademia Russa di Belle Arti e poi nella capitale francese, dove conosce gli artisti di Montparnasse, che diventerà la sua casa, dal 1924 quando si trasferirà definitivamente a Parigi con la moglie Bella. Fra i capolavori in mostra, oltre alla Veduta dalla finestra a Vitebsk del 1908, Gli Amanti in blu del 1914, la Passeggiata del 1917-1918, l’Ebreo in rosa del 1915 e molti altri. La mostra, accompagnata da un catalogo edito da Gamm Giunti, vivrà un evento evento speciale il 16 gennaio quando Dario Fo, che ha realizzato ben 20 dipinti accompagnati da 15 bozzetti preparatori, racconterà l’arte e la vita a di Marc Chagall al Teatro Grande di Brescia.
Scandalosa Tamara de Lempicka, A Verona
Le seducenti figure femminili dipinte dalla pittrice russa Tamara de Lempicka sfilano in Palazzo Forti a Verona sede di AMO, museo Arena. Fino al 31 gennaio ci si può tuffare nel mondo scintillante di questa artista che è stata protagonista delle avanguardie del primo Novecento e musa di molti pittori. Proprio grazie all’arte e al successo che i suoi quadri ebbero a Parigi, la bella Tamara poté emarnciparsi dalle catene del matrimonio che le aveva fruttato tuttavia un nome nobiliare; libera e disinvolta, diventò un personaggio molto conosciuto delle folli notti parigine per poi trasferirsi Oltreoaceano andando a vivere a Beverly Hills nella grande villa coloniale di King Vidor progettata dall’architetto Wallace Nef e poi a New York.
In palazzo Forti è la celebre Ragazza in verde, proveniente dal Pompidou di Parigi, ad accogliere il visitatore all’ingresso, poi il percorso si snoda per linee tematiche ripercorrendo tutta la parabola dell’artista dal 1916 l’anno del suo matrimonio a San Pietroburgo al 1980 l’anno della morte a Cuernavaca.
Nelle sale di Palazzo Forti s’incontrano gli acquerelli del periodo russo, la ritrattistica degli anni Venti, le opere di moda, dedicate al tema delle mani, i molteplici ritratti della figlia Kizette e poi le decorazioni in stile Decò, i nudi maschili e femminili, i dipinti trasgressivi che alludono a relazioni saffiche. Questa esposizione, curata da Gioia Mori e il catalogo 24 Ore Cultura permettono di conoscere più da vicino dunque la personalità di questa artista che ebbe grande successo grazie a questi ritratti scultorei, di donne avvenenti che ai nostri occhi forse appaiono troppo seriali, standardizzando il proprio auto ritratto. Indubbiamente, però, Tamara seppe sfidare le convenzioni del suo tempo e con il suo scintillante immaginario pittorico contribuì al rinnovamento del costume e alla conquista di maggiori libertà per le donne.
Durante le feste la msotra è aperta con i seguenti orari: 24 dicembre: 9.30 – 17.30, 25 dicembre: 14.30 – 19.30, 26 dicembre: 9.30 – 19.30, 28 dicembre: 9.30 – 19.30, 31 dicembre: 9.30 – 17.30, 1 gennaio: 12.30 – 19.30. Acquistando il biglietto della mostra Tamara de lempicka, si ottiene uno sconto per vedere Seurat, Van Gogh, Mondrian, in Palazzo della Gran Guardia, a Verona.
Dürer, Raffaello, Leonardo. I tesori del museo di Budapest a Milano
Ad attrarre lo sguardo, appena varcata la soglia della mostra Da Raffaello a Schiele in Palazzo Reale a Milano è un ritratto di giovane uomo. L’espressione vagamente malinconica, il sorriso appena accennato, mentre guarda lontano, fuori dal quadro. Per secoli gli studiosi hanno cercato di risolvere l’enigma della sua attribuzione. In questa collana di 76 capolavori provenienti dal Museo di belle arti di Budapest questo ritratto che fu terminato intorno al 1510 è esposto come opera di Albrecht Dürer. All’epoca il maestro di Norimberga era già stato due volte in Italia e la sua visione nervosa, viva e inquieta aveva perso rigidità e ora appariva riscaldata da una nuova tavolozza mutuata dai maestri del colorismo veneto. Il rosso dello sfondo, il colore ambrato del volto paiono rimandare direttamente a un coté veneziano. Ma la pelliccia e l’elaborato copricapo evocano un’ambientazione nordica, facendo ipotizzare che si tratti del fratello dell’artista.
A ben vedere, però, come per i misteriosi ritratti di Giorgione, poco importa quale fosse la sua vera identità. Conta la sua presenza viva, come fosse qui e ora, con tutto il suo mondo interiore. Ed è questo che ci ha fatto sostare a lungo, nonostante il richiamo, poco oltre, di opere raramente esposte fuori dall’Ungheria, come la celeberrima Madonna Esterhazy: capolavoro di dolcezza, in cui Raffaello pur mentendo la statica composizione prevista dal canone ecclesiastico, sulla strada aperta da Leonardo lascia intravedere la dinamica degli affetti che legano la giovane Madonna il bambino e il piccolo San Giovanni. Un nesso esplicitato dal curatore Stefano Zuffi che le affianca un espressivo disegno di Leonardo, uno schizzo realizzato per La battaglia di Anghiari.
L’affresco realizzato dal vinciano in Palazzo della Signoria e andato irrimediabilmente perduto. Il viaggio nella pittura italiana, di cui il Museo di Budapest è ricchissimo, continua poi con ritratti di Tiziano, Veronese e Tintoretto. Ma tantissime sono le opere esposte in questa mostra (accompagnata da catalogo Skira) che varrebbero un pezzo a sé. In poco spazio possiamo solo accennare alla Salomé di Cranach, interprete delle novità luterane, che la immaginò vestita come una donna della nuova, ricca, borghesia tedesca. E ci sarebbe anche molto da dire sulla parte della mostra dedicata all’800 in cui spiccano il Buffet del 1877 di Cézanne e la Donna con ventaglio (1862), ovvero la moglie di Baudelaire che Manet dipinse come una inquietante bambola di cera Per continuare la visita c’è tempo fino al 7 febbraio Durante le feste, orari: 24 dicembre 9.30 – 14.30, 25 dicembre 14.30 – 18.30, 26 dicembre 9.30 – 22.30, 31 dicembre 9.30 – 14.30, primo gennaio 14.30 – 19.30.
La grazia di Raffaello alla Reggia di Venaria
Il fulcro della mostra è costituito da un nucleo di celebri capolavori di Raffaello, che evocano il racconto della sua prodigiosa carriera artistica, le persone che ha conosciuto, le diverse città dove ha vissuto. A documentare gli anni della sua formazione è una scelta di opere dei maestri che hanno avuto un ruolo fondamentale, vale a dire il padre Giovanni Santi, il Perugino, il Pinturicchio e Luca Signorelli. La mostra intende accostarsi alla geniale personalità di Raffaello anche da un punto di vista inconsueto e imprevedibile, vale a dire illustrando il suo impegno creativo verso le cosiddette “arti applicate”, che tradussero nelle rispettive tecniche suoi cartoni e disegni nonché incisioni tratte dalla sua opera, e che nel corso del Cinque e Seicento costituirono il veicolo privilegiato per la diffusione e la conoscenza in Italia e nel resto d’Europa delle invenzioni figurative dell’Urbinate: arazzi, maioliche, monete, cristalli di rocca, placchette, smalti, vetri, armature, intagli. Per le richieste di prestito delle opere sono coinvolte le più importanti istituzioni museali italiane e straniere come i Musei Vaticani, il Residenzschloss di Dresda, il Kunsthistorisches Museum di Vienna, il Victoria and Albert Museum di Londra, la Pinacoteca Tosio Martinengo di Brescia, gli Uffizi, la Galleria Palatina di Palazzo Pitti, il Museo Nazionale del Bargello e il Palazzo Corsini di Firenze, il Museo Internazionale delle Ceramiche di Faenza, la Galleria Nazionale delle Marche di Urbino, i Musei Civici di Pesaro e il Museo di Capodimonte di Napoli.
Il visionario El Greco a Treviso
“Il Cubismo ha origini spagnole ed io sono il suo inventore. Dobbiamo cercare le influenze spagnole in Cézanne e osservare l’influenza di El Greco nella sua opera. Nessun pittore veneziano eccetto El Greco realizzava costruzioni cubiste“. Parola di Picasso. Che andando alla ricerca di forme nuove per rappresentare in pittura una realtà più profonda, che non fosse quella piatta, razionale e oggettiva, si mise a studiare le figure allungate e deformate dipinte da El Greco, nel secondo ‘500. Traendo ispirazione dalle sue bizzarre e ardite composizioni sacre per andare oltre i canoni imposti dalla mimesis e da una secolare tradizione che faceva della copia dal vero l’eccellenza in arte. Ritroviamo ora quella celebre affermazione di Picasso a Treviso, a fare da esergo alla mostra El Greco in Italia, metamorfosi di un genio che Lionello Puppi ha curato negli spazi espositivi della Casa dei Carraresi (fino al 10 aprile. Catalogo Skira). Organizzata da Kornice, la mostra si basa sui lunghi anni di studio che il professore emerito di Ca’ Foscari ha dedicato al pittore di origini cretesi e legato alla tradizione bizantina, che prima di stabilirsi in Spagna, si formò a Venezia, facendo proprio il colorismo della pittura veneta e il suo impianto fortemente teatrale.

Come si può vedere dal confronto dal vivo che si dipana nelle quattro sezioni della mostra. In cui opere come il San Francesco riceve le Stimmate (1525 ca.) di Tiziano è a confronto con il più maturo San Francesco di El Greco, che ne ricalca quasi i gesti, ma essendo immerso in un paesaggio irreale, che ha perso ogni connotazione naturalistica. Mentre la gigantesca e incombente Croce sembra franare. Già qui si può cogliere la vena di sotterranea eterodossia che attraversa tutte le pale sacre di El Greco che sembrano percorse da una spiritualità tormentata, ma che di fatto rispettano pochissimo i canoni imposti dalla Chiesa. Il pittore cretese mette al centro l’umano, anche quando si tratta di rappresentazioni di santi e del figlio di Dio. La mostra trevigiana sottolinea la radice popolare della sua arte che lo avvicina a pittori come Bassano e poi, come accennavamo, l’impianto teatrale delle sue composizioni assonanti in questo con quelle di Veronese. Per quanto l’ardente e tenebrosa tavolozza di El Greco (in cui guizzano gialli e verdi acidi) sia quanto di più lontano si possa immaginare dal raffinato tonalismo del laico e solare Veronese. Il linguaggio tradizionale delle icone bizantine che caratterizzò fortemente i suoi primi anni lasciò sempre un che di volutamente primitivo e arcaico nelle tele del cretese.
Malevich maestro di astrattismo a Bergamo
A cento anni dalla nascita del Suprematismo, la GAMeC di Bergamo ospita, fino al 17 gennaio, una bella retrospettiva del pittore russo Kazimir Malevich, con una settantina di opere scelte da Eugenia Petrova, vice direttore del Museo di Stato Russo di San Pietroburgo, con Giacinto Di Pietrantonio. Nelle sale del museo si può ripercorrere il variegato percorso di questo artista che, insieme a Kandinsky, può essere considerato l’iniziatore dell’arte astratta nel Novecento. Mentre negli anni Dieci Picasso scomponeva la figura andando alla ricerca di un’immagine via via sempre più sintetica ed essenziale, fatta di sola linea, Malevich la abbondonava completamente, aprendo la strada all’astrattismo contemporaneo con opere come Quadrato rosso e Quadrato nero. Quando il 17 ottobre del 1917 scoppiò la rivoluzione, l’artista russo aveva già concluso quel periodo di sperimentazione suprematista. A Bergamo, in particolare, s’incontra Quadrato rosso ovvero Realismo pittorico di una contadina in due dimensioni. E se il nero per Malevich è il colore dell’economia che stritola la povera gente, il rosso per lui era il colore della rivoluzione fin dal 1915, come si evince dalla data di questo celebre quadro. Malevich era arrivato a questa conclusione radicale ed estrema – un quadrato rosso, su campo bianco – dopo aver attraversato un periodo simbolista, come raccontano in mostra opere come Paesaggio con casa gialla , 1906 e Autoritratto del 1907 che evocano lo stile alla Klimt. Con un radicale rinnovamento del proprio modo di dipingere, qualche anno Malevich dette vita al movimento cubo-futurista, mutuando da Braque e Picasso la tecnica del collage e dal futurismo l’idea che il nuovo e la bellezza della vita moderna avessero a che fare con la velocità e con la tecnica come potenziamento dell’identità umana. Lontano dallo spirito guerrafondaio dei futuristi italiani, quando Marinetti andò in tour in Russia, Malevich era già oltre, inseguendo la realizzazione di nuove idee e progetti. « Malevich era totalmente disinteressato. Non inseguiva il successo, la carriera, il denaro, gli agi- non aveva bisogno di tutto ciò -. Era , per così dire, innamorato delle proprie idee», raccontava d lui lo storico della letteratura Michail Bachtin che lo aveva conosciuto e frequentato a Vitebsk, fra il 1920 e il ‘22, come ricorda Jean-Claude Marcadé nel catalogo Gamm Giunti che accompagna questa mostra, che culmina con la ricreazione de La Vittoria sul Sole, prima opera totale di musica, arte, poesia e teatro, creata con Matjusin e Krucenych.
E ancora. Alle Terme di Diocleziano a Roma, la splendida retrospettiva di Henry Moore, al Macro la personale di Gillo Dorfles al Macro, l’avanguardia europea di CoBra alla Fondazione Roma, Toulouse -Lautrec in Palazzo Blu a Pisa e all’Ara Pacis a Roma, Giotto a Milano, Klee a Nuoro, Monet a Torino, Brueguel a Bologna, De Chirico a Ferrara, L’antico Egitto a Bologna.
[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel
Slovenia, la protesta contro il filo spinato al confine con la Croazia
Dragogna (Slovenia) – Rafael, 6 anni, appende alcune palline colorate al filo spinato che una settimana fa è stato dispiegato a Dragogna, in Slovenia, lungo il valico con la Croazia. Una barriera ad altezza uomo, un’immagine brutale di separazione che peraltro, a guardarne la struttura forse oltrepassabile, convince poco e lascia qualche ombra sul suo significato politico.
«Mio figlio spera che così gli animali vedano le palline e non si facciano male. Il filo in questi giorni ha causato la morte di diversi cervi e caprioli -spiega Alexandra, la madre di Rafael – Sembra di vedere le immagini di un campo di concentramento. Tra gli abitanti qui nessuno è d’accordo. Non possiamo pensare di bloccare le persone che vivono dei drammi. E io lo dico sempre, oggi a loro, domani può capitare a noi».
Poco lontano il papà Roberto, padre italiano e madre slovena, appende un cartello “Tudi tukaj je Eu?” (anche qui è Eu?). «In Europa molte persone sono morte per unire i popoli e ora mettiamo una chiusura? Questo è disunire!», dice a Left.
La famiglia Vizintin vive a 6 km dal confine e sta prendendo parte a una protesta che coinvolge qualche centinaio di manifestanti sloveni, croati e italiani. Stanno attraversano i campi per avvicinarsi al fiume Dragogna, lungo il quale è stata posizionata la rete di metallo e dove gli atleti olimpici stanno giocando a pallavolo, passando la palla da una parte all’altra.
Nei giorni scorsi, il malcontento è stato sollevato da buona parte dei sindaci istriani e italiani, ma anche da diversi direttori di musei sloveni e croati che hanno scritto una lettera a Miro Cerar, autore della trovata. Il premier sloveno si dice preoccupato per la sicurezza del suo paese e promette di togliere “gli ostacoli tecnici” – in tutto il Paese il reticolato, che servirebbe a far confluire i migranti in punti precisi, ha raggiunto ormai i 140 km- non appena l’emergenza sarà terminata. Ma, al di là dell’insensatezza e della disumanità del filo spinato, esiste davvero questo flusso di migranti? La risata dell’oste della vicina trattoria è la risposta emblematica. «Qui di migranti non se ne vedono proprio!», la rotta balcanica sta seguendo altre vie, più a est.
Nel giro di due ore l’oggetto della protesta si è trasformato: vicino alle palline colorate di Rafael, ora sono apparsi disegni, poesie, brani di canzoni e peluche, segno che forse si è sottovalutata la possibile reazione di una terra che di divisioni ne ha vissute già abbastanza.
Tutte le foto sono state scattate da Marisa Ulcigrai
Spagna, primo Rajoy, ma vince Podemos. Che succede adesso?

Le elezioni spagnole le ha vinte Podemos, anche se è solo la terza forza del Paese e se l’obbiettivo non nascosto del partito che si presentava per la terza volta agli elettori, prima assoluta alle politiche, era quello di sopravanzare il partito socialista. Il quadro politico che si apre è complicato sia dal punto di vista della formazione di una maggioranza che, poi, nella gestione di un governo se e quando se ne troverà una, tanto da far titolare il commento di El pais “Bienvenidos a Italia”, benvenuti in Italia.
I risultati
(elpais.com)
Il PP del premier Mariano Rajoy perde quasi tre milioni e mezzo di voti rispetto al 2011, ma si conferma primo partito con il 28,7% dei voti e 122 seggi su 350. Perde 64 deputati e la maggioranza assoluta. Il Psoe di Pedro Sanchez arriva secondo con il 22,1% e 91 deputati, evitando il sorpasso e garantedosi il ruolo di ago della bilancia. Podemos riesce nella remontada (rimonta) che ha annunciato nelle ultime settimane di campagna elettorale: prende il 22% dei voti e porta in parlamento 69 deputati, arriva primo in Catalogna e nel Paese Basco e va molto bene in molte regioni. Quarti con il 13,9% e 40 deputati si piazzano i centristi anti-casta di Ciudadanos guidati da Albert Rivera, che nei sondaggi aveva prima superato Podemos e poi lo rincorreva da vicinissimo.
Che succede adesso?
La legge elettorale favorisce i due primi partiti: la distanza in voti è molto minore di quella in seggi. Da questo punto di vista PPE e PSOE si trovano un regalo. L’altro regalo, per Rajoy è la legge del Senato: qui il suo partito ha la maggioranza assoluta e sebbene il Senato abbia un ruolo minore, ha comunque un potere di veto. Difficile forzare troppo in materia autonomica e costituzionale, quindi.
Rajoy avrà l’incarico di trovare una maggioranza, lo ha detto lui e il leader socialista Sanchez ha ribadito che spetta al PPE provarci. L’eventuale alleanza con Ciudadanos non ha i numeri, specie se si considera che gli altri che potrebbero partecipare sono gli autonomisti: PPE e C’s sono entrambi nazionalisti spagnoli e centralisti, difficile mettersi d’accordo. Ciudadanos, poi, alleandosi con Rajoy da una posizione di debolezza – a meno di non ottenere grandi cose dal punto di vista del programma – ha tutto da perdere. Un governo delle sinistre, con il voto dei partiti autonomisti, è possibile. Sul tema dell’autonomia e della necessità di riformare il sistema, c’è una convergenza tra Podemos e socialisti. Iglesias ha già messo dei paletti: un’eventuale coalizione deve essere quella che guida la transizione a un nuovo sistema politico. “Nuova transizione” significa avviare un processo simile a quello della transizione dalla dittatura franchista alla monarchia costituzionale vigente. Iglesias chiede più o meno una costituente. Il Parlamento si riunisce il 13 gennaio, saranno settimane di trattative intense. Osservare come saranno condotte, quanto alla luce del sole, sarà interessante.
Chi vince e chi perde
Lo abbiamo detto, vince Pablo Iglesias, che qualche mese fa ha deciso di abbandonare il suo scranno al Parlamento europeo e di tornare in Spagna a guidare la campagna elettorale. Da quando è tornato – non è solo merito suo, inutile dirlo – le cose, che andavano male per Podemos, hanno ripreso a funzionare. Le alleanze locali con movimenti catalani e baschi hanno aiutato. Ora Podemos può pensare di governare – in caso di coalizione a sinistra – o essere l’opposizione di un governo di minoranza di centrodestra o di Grande coalizione. In entrambi i casi ha buone carte. Prende voti nelle aree urbane e nelle regioni più dinamiche, che non è un elemento da sottovalutare.
Il Psoe salva la pelle e si trova in una posizione difficile. Deve decidere se legarsi al partito nato dopo gli indignados – che in campagna elettorale ha cercato di renderlo una forza politica del passato – o a Rajoy. Sarebbe stato peggio se fosse arrivato terzo. Non ci è andato lontano.
Il PPE a modo suo vince, ma si sapeva. Resta il primo partito lasciando gli altri molto distanti. Un miglior risultato di Ciudadanos lo avrebbe danneggiato parecchio. Così non è stato. Ora dovrà cercare di trovare una maggioranza oppure di giocare il ruolo di opposizione responsabile (che se facesse le barricate, perderebbe consensi).
Ciudadanos e Rivera, che pure non ottengono un cattivo risultato, perdono più di tutti. Sembravano la forza con il vento in poppa, arrivano quarti, lontano dagli altri. Si vede che l’elettorato centrista, a differenza di quello di sinistra, ha preferito in misura maggiore le certezze del PP, alla novità e alle incertezze. Che elettorato conservatore sarebbe altrimenti? Ciò detto, è interessante come i due partiti nuovi abbiano preso il 35% dei voti e che l’opposizione, nel suo complesso, abbia più del 70%.
A modo suo, e nel suo piccolo, vince anche Alberto Garzon, trentenne leader di Izquierda Unida. Aveva proposto un’alleanza a Podemos che ci fosse stata, in teoria, avrebbe consentito di superare i socialisti e far guadagnare a Iglesias e ai suoi un numero molto maggiore di deputati. Oppure no: Podemos prende voti anche vendendo un’idea di nuovo e di taglio con le radici ideologiche del passato. L’alleanza con IU magari avebbe fatto perdere invece di guadagnare. Nonostante il terremoto e il successo di Podemos, Unidad Popular (l’alleanza di IU) prende il 3,6 e torna in parlamento.
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E nemmeno uno sputo contro il capitalismo
La deregolamentazione finanziaria e bancaria è stata l’apertura del parco giochi dedicato ai giovani capitalisti. Titoli spazzatura, soldi guadagnati sul semplice passaggio di carte e pochi cittadini straricchi senza una vera produzione ma semplicemente occupando i giusti gangli sono le macerie inevitabili di un capitalismo che ha bisogno, sempre, di qualche vittima sul campo per continuare a nutrirsi.
Oggi essere i controllori è il posto migliore per arricchirsi poiché in fondo i soldi veri stanno attaccati sulle pareti al limite delle regole. Pensionati convinti di poter “essere banca” grazie alla propria casa e alla propria liquidazione vengono iniettati in un mercato che ha come comandamento principale quello di rastrellare denaro semplicemente per pagarsi i vertici.
Esattamente quando abbiamo deciso di non potere mettere in discussione un capitalismo che sta affossando l’Europa? Meglio: quando abbiamo scelto di non avere in parlamento nessuna forza politica in grado di proporre un modello economico e sociale alternativo? Perché mi deve essere sfuggito il momento in cui abbiamo appoggiato la mano sulla spalla a qualcuno dei (sparuti) leader di sinistra dicendogli “dai, va bene, basta con l’idea di socialismo”.
È una politica senza ideali? No, peggio: siamo di fronte ad una politica che non riesce ad annunciare nuove prospettive come se l’aspirazione massima possa essere solo l’etica gestione del sistema che c’è. Così, di fronte all’ennesimo scricchiolio bancario tutti a tuffarsi sui papà e sul suicida senza nemmeno uno sputo contro il capitalismo che di piccoli casi Etruria ne ha bisogno per sostentamento. Qualcuno che dica quanto sia folle avere convinto migliaia di piccoli investitori ad avventurarsi nel gioco grande della finanza per la finanza, soldi per i soldi, dove il guadagno (o la perdita) è legato ad un’incomprensibile equazione che non dovrebbe avere niente a che vedere con anziani lavoratori che a malapena hanno imparato ad usare la fotocamera del cellulare.
Perché non c’è niente di sano e giusto nemmeno nelle banche che funzionano. E nessuno lo dice. Tutti a prospettare, al massimo, il minor danno possibile. Sembra di vedere il Gesù di Michael Moore che ci dice «vai, e massimizza i profitti».
Quel noto autore è un macaco. Parola di Gadda
Su Left in edicola un’intervista di Simona Maggiorelli a Maria Antonietta Terzoli, che ha curato un monumentale commentario del Pasticciaccio edito da Carocci, rintracciando le fonti ipogee del testo, e un ricordo di Gadda firmato da Andrea Camilleri, estratto dal nuovo libro dello scrittore siciliano, Certi momenti edito da Chiarelettere ( che riunisce pagine su Collodi, Marlaux, il comandante Campanella e folgoranti ritratti di Vittorini, Levi , D’Orrigo, Tabucchi e molti altri). Eccone un assaggio il resto in edicola
Nel 1958 mi chiamarono al Terzo programma della Radio Rai, in sostituzione della funzionaria andata in maternità, quale responsabile del cartellone della prosa. Mi assegnarono una stanza e una scrivania, munita naturalmente di telefono. Giulio Cattaneo, che lavorava al Terzo programma, mi venne a trovare subito. «Ma questa è la scrivania di Gadda!», esclamò entrando. Infatti Gadda per anni aveva lavorato al Terzo in qualità di responsabile delle cosiddette «conversazioni culturali». Quel giorno stesso Giulio mi raccontò una quantità di cose sullo scrittore, una più divertente dell’altra.
Questo articolo continua sul numero 49 di Left in edicola dal 12 dicembre
Sinistra, ecco perché non ce la faremo mai
Ricordate Nanni Moretti? Perdonerete la citazione un po’ scontata, ma è perfetta. Perché comincia a farsi strada, a sinistra, quella sensazione lì. La stessa insofferenza. «Con questi dirigenti non vinceremo mai», urlava il regista a piazza Navona, sotto lo sguardo raggelato di Massimo D’Alema. Lui ce l’aveva con quelli dell’Ulivo. E «non ce la faremo mai», pensiamo però noi, che già sappiamo che vincere è molto difficile, abituati a lottare con le soglie di sbarramento, ma che speravamo, almeno, nel poter votare contenti, qualcosa di unitario e di sinistra. Se non alle prossime amministrative, alle politiche. E invece non è detto. Anche questo sembra troppo difficile. Con questi dirigenti, sì, ognuno con la sua quota di responsabilità, grande o piccola che sia. Litigiosi, attaccati ai distinguo, incapaci di stare insieme.
C’è chi (Civati e i suoi) per anni ha militato in un partito che andava dalla Cgil a Marchionne, chi aveva Paola Binetti come compagna di direzione, e ora pone come condizione discriminante all’unità la rottura sistematica con quello stesso partito alle amministrative – ovunque e a prescindere dai progetti locali. C’è chi (Ferrero e Rifondazione) lancia appelli unitari ma tira il freno se si parla di fare un partito unitario, perché lui preferisce il «soggetto unitario» – se non cogliete la differenza, tranquilli, non è vostro il problema – e non vuole sciogliere il suo, di partitino.
Questo articolo continua sul numero 49 di Left in edicola dal 12 dicembre
Owen Jones: «Serve una sinistra paneuropea»
Owen Jones arriva al Candid Café di Angel, un quartiere poco lontano dalla City di Londra, con il fiatone. Di certo non sono le due rampe di scale ad averlo affaticato. Jones è abituato a muoversi: nell’arco dell’ultimo anno si è spostato da una parte all’altra dell’Europa per incontrare i vari movimenti di sinistra dei Paesi. Sebbene oggi sia in ritardo, questa settimana sarà puntuale in Spagna «per un mini-tour elettorale di una settimana con Podemos». Per descrivere Owen Jones, che è cresciuto nel nord dell’Inghilterra, a Stockport, nella periferia di Manchester, si dovrebbe creare un modo di dire tutto nuovo: “avere 31 anni e sentirli”. Alla sua giovane età è già un guru della sinistra inglese. Con 383mila seguaci su twitter e 2 saggi politici bestseller alle spalle, è impossibile non definirlo un opinion leader. Lui ci ride su e dice che «scrivere non gli piace nemmeno». Ma il suo ultimo libro, The Establishment. And how they get away with it (L’establishment. E come farla franca) – un ritratto spietato dell’élite economica, medatica e politica cresciuta nel Regno Unito sotto le amministrazioni Thatcher, Blair e Cameron – è diventato un caso editoriale anche Oltremanica, in Spagna. Sarà perché il concetto sa tanto di “casta” alla Iglesias. Nonostante i poteri forti, secondo Jones una rivoluzione democratica nel Regno Unito, come in Europa, “è possibile”, ma serve un movimento che non sia soltanto “di protesta”. Il Labour potrebbe porsi alla guida di questo movimento? Difficile dirlo. Secondo Jones, Jeremy Corbyn è «partito con il piede sbagliato» e deve già recuperare un partito che rischia di sfuggirgli di mano, a partire dal voto sull’intervento aereo in Siria di inizio dicembre. Intervista.
Owen Jones, il Labour si è spaccato sull’intervento in Siria: 67 parlamentari hanno votato insieme ai conservatori di Cameron a favore dei bombardamenti. Cosa sta succedendo nel partito di Corbyn?
I Laburisti hanno una lunga storia di divisioni sulla politica estera. Nel 2003, 139 parlamentari laburisti votarono contro le indicazioni di Blair sulla guerra in Iraq. Nessuno ne fece un caso e, anzi, si parlò di “ribelli”. Ma questa volta alcuni useranno il caso per destabilizzare la leadership di Corbyn. (La parlamentare Laburista di Birmingham, Jess Phillips ha dichiarato, in un’intervista con Jones, pubblicata il 14 dicembre sul Guardian, l’intenzione di «accoltellare al petto» Corbyn nel caso in cui dovesse danneggiare il partito, ndr). Tutto questo, mentre l’opinione pubblica, invece, si muove contro i bombardamenti, al pari della base del partito.
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Left è la barca e i bambini la sinistra. Ci vediamo a pagina 32
E se per incanto ci liberassimo di tutti? Proprio di tutti i nostri attori quotidiani che interpretano una sinistra che non c’è. Dalle megastar alle comparse. Un incanto che ci libera dalla “fiducia” che dovremmo avere nella Leopolda e nei suoi protagonisti “incredibili”, abitanti di un altro pianeta (anzi di un’altra terra, contrariamente ai loro slogan, “non” per uomini) o da chi pensa, tristemente, di poter parlare di una nuova sinistra con politologi come Pasquino o giornalisti come il giovane Feltri, apostrofando contro Varoufakis. O anche da chi ha il coraggio di riunirsi – ancora – in un teatro per discutere se il premier debba essere “anche” il segretario del loro partito. Il tutto, mentre il progetto di una “sintesi” a sinistra del Pd non prende il largo neanche questa volta (non devono aver visto nessuna isola felice). Che fine misera hanno fatto “i nostri attori quotidiani che interpretano una sinistra che non c’è?”. Le parole che hanno popolato questo fine settimana di Leopolde e anti Leopolde sono state tra le più inutili, a tratti persino ridicole, per non dire anacronistiche, di questo anno che si va chiudendo. Il risultato? Finte sfiducie, querelle inutili, falsi dibattiti, vecchie idee. È sempre più difficile scrivere di politica e di sinistra, e per noi di Left è una vera pena. Quasi un supplizio. Non sentire passione per ciò che la politica propone in Italia è una delle cose a cui non avevamo pensato anni fa. Ma così è oggi. Ogni tanto ci imponiamo di scriverne, come fa su questo numero Luca Sappino, quasi per dovere di cronaca. E poi scappiamo di nuovo, tra la gente. In basso, per raccontarvi di pratiche che per noi sono “sinistra”. Pratiche speciali, che nascondono pensiero che nasconde sinistra. Andate a pagina 32, promettetemelo, e guardate la foto. C’è una barca che si è fatta scuola e ci sono dei bambini che vanno nella loro scuola-barca. Quando ho visto la foto, ho pensato a Left che di questi tempi si fa barca e a quei bambini che “sono” la Sinistra. Per noi.

Non ci resta che prendere il largo e girare per il mondo, come facciamo su questo numero. Partire da Londra dove Owen Jones, giovane (per noi giovanissimo!) opinionista del Guardian ci ricorda ancora una volta che: «Se Syriza fosse riuscita a ottenere concessioni, ciò avrebbe spalancato le porte a Podemos in Spagna, alla sinistra in Portogallo e al Sinn Féin in Irlanda. La speranza della gente ha terrorizzato chi tiene in mano le redini in Europa…». Ma ci racconta anche che: «Yanis Varoufakis sta cercando di creare un movimento paneuropeo: è la strada giusta. Altrimenti ogni nuovo governo progressista rischierà di essere rovesciato» e che: «La vittoria di Corbyn è una conseguenza del fatto che in Europa la socialdemocrazia è implosa come progetto politico coerente. Perché ha accettato le regole economiche del mercato». Per arrivare a Parigi e agli accordi “globali” a cui dedichiamo la nostra copertina, consapevoli della loro importanza ma anche, come ci ricorda Naomi Klein, che ora «dobbiamo unire le lotte. Lotte sindacali, contro l’austerità, per i diritti umani o per la giustizia ambientale» perché «sono tutte battaglie che emergono dalla stessa crisi, una crisi di modello la cui risoluzione non può che essere congiunta». Come ci scrive anche Gunter Pauli, teorico della Blue economy: «Noi – la generazione che non è riuscita a fermare il cambiamento climatico – dobbiamo alimentare un ampio grado di libertà per cui i bambini potranno porsi le domande che noi non ci siamo mai posti… Se spingeremo i nostri figli ad andare oltre la ragione, e gli diremo che abbiamo fiducia nel fatto che faranno meglio di noi, allora cambieremo davvero la società». E finire in Bangladesh, dove su quella barca di bambù alimentata da pannelli solari i bambini vanno a scuola. Ci vediamo a pagina 32.
Questo editoriale lo trovi nel numero 49 di Left in edicola dal 12 dicembre
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