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L’onta di un Parlamento che non parlamenta

Ieri il ventinovesimo scrutinio per designare i giudici della Corte Costituzionale ancora una volta si è concluso con una fumata nera. Per ventinove volte il Parlamento italiano, nato per essere il luogo del dibattito e della concertazione democratica, ha dato pessima prova di sé e, nonostante i continui richiami del Presidente della Repubblica Mattarell,a sembra non intravedere soluzioni possibili in tempi brevi.

Eppure questa inciampo cronico sulla Consulta sfiora solo di sguincio il dibattito televisivo e delle prime pagine dei giornali; lo stesso Salvini, polemista di professione (e per perversione), non cavalca l’inefficienza del Parlamento. Perché? Questa votazione è la fotografia dello stato miserabile di un Parlamento che non ha nessuna reale maggioranza politica e tantomeno una propria autonomia: se non si tratta di temi interessanti al marketing renziano l’assemblea dimostra tutti i suoi esausti sfilacciamenti di gruppi e gruppetti pronti a battagliare per uno spicchio di sole e disposti ad ingolfarsi adducendo improbabili questioni di principio. Così ciò che conta è semplicemente uno scambio equo di appartenenze nonostante si stia parlando dei giudici che (dovrebbero) preservare la nostra Costituzione.

Ma se non si riesce ad impostare una discussione sul merito per la nomina di un giudice, come potrebbe questo Paese risultare credibile nella cultura della meritocrazia di un giovane architetto, di una fresca insegnante o di un giovane qualsiasi che si affacci al mondo del lavoro? Sarebbe da prendere per il bavero il ministro Poletti e chiedergli cosa ne pensa di questo assembramento di ragazzotti ben nutriti, suoi colleghi, che risultano in ritardo, lunghi e pure insufficienti.

 

Tra dati Istat e applicazione ai dipendenti pubblici, il jobs act rischia di essere una sòla

Due effetti della riforma del mercato del lavoro di Matteo Renzi, tanto piaciuta a Maurizio Sacconi. Uno non voluto, sicuramente, ma prevedibile – il basso dato dei contratti a tempo indeterminato. Uno forse ricercato, e non è una buona notizia – l’applicazione delle norme ai dipendenti pubblici.

Dunque. Il primo effetto del jobs act ce lo raccontano i dati trimestrali dell’Istat. Per fare un bilancio definitivo bisognerà aspettare ancora qualche mese, ma si può intanto registrare un primo campanello d’allarme sui reali effetti della riforma del lavoro tanto cara al premier e dei contributi per le nuove assunzioni. Dei contributi soprattutto, perché il saldo tra i contratti a tempo indeterminato che si contavano a dicembre 2014 e quelli registrati a ottobre 2015 è di appena – e neanche – duemila contratti in più.

Erano 14 milioni e 525mila nel 2014, sono 14 milioni e 527mila oggi. In più, si potrà notare, quelli del 2014 erano veri contratti a tempo indeterminato, categoria in cui oggi facciamo ricadere anche i contratti a tutele crescenti, il nuovo contratto a “tempo indeterminato” del jobs act, appunto, contratti che prevedono una monetizzazione dei licenziamenti anche quando effettuati senza giusta causa e il reintegro solo in caso di conclamata discriminazione. Ma siccome i giuslavoristi vicini al governo dicono che bisogna aspettare, noi segnaliamo (lo facciamo anche nel numero in edicola sabato prossimo) e attendiamo.
Il secondo effetto, è invece, è più strutturale. Il governo aveva sempre assicurato che il centro della riforma, l’abolizione dell’articolo 18, non sarebbe valsa per i dipendenti statali. Lo aveva assicurato Poletti, lo aveva assicurato lo stesso Renzi. Una recente sentenza della corte costituzionale (la 24157) sull’applicazione della riforma Fornero, però, avrebbe chiarito che così non è. L’articolo 18 riformato dalla Fornero vale per tutti. E così potrebbe accadere per la formulazione – più radicale nel taglio delle tutele – voluta da Renzi. Avrebbe così ragione Scelta Civica che rivendicava come la riforma sarebbe valsa per tutti. E nel caso del lavoratore – a cui la corte costituzionale ha dato ragione – non ci sarebbe stato alcun reintegro. Marianna Madia dice che così non sarà, e si immagina una pezza messa inserita nel decreto sulla pubblica amministrazione. Anche in questo caso, attendiamo.

Il nuovo calendario Pirelli 2016 va controcorrente con le donne “forti”

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

«Il Calendario Pirelli del 2016 è un’altra cosa, scontenterà il maschio che è in noi», scrive il corrispondente da Londra de La Gazzetta dello Sport al momento della presentazione ufficiale. «E però le cose cambiano», aggiunge per fortuna il cronista. Eh, sì, le cose cambiano. E lo dimostrano anche le immagini delle donne immortalate dalla grande fotografa americana Annie Leibovitz. Che differenza tra le modelle dai corpi statuari e plastici degli anni passati! Queste immagini scontenteranno “il maschio che è in loro” ma parlano di una grande umanità, intelligenza e forza, catturato tutto ciò, anche nei volti delle donne più giovani. Umanità, intelligenza e forza e anche sensibilità che si vedono nei gesti di Annie Leibovitz, la grande fotografa americana con una lunga esperienza per Rolling Stone e Vanity Fair. È stata lei in una mattina del 1980 – poche ore prima che il musicista venisse ucciso – a scattare la foto di John Lennon nudo e abbracciato in posizione fetale a Yoko Ono completamente vestita di nero.

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john-lennon-yoko-ono-rolling-stone.jpgEd è proprio Yoko Ono con una tuba in testa, occhialetti neri tondi seduta come Marlen Dietrich ne L’Angelo azzurro, una delle dodici donne importanti scelte dalla fotografa. «Donne che hanno fatto cose importanti» ha detto alla presentazione del calendario a Londra Marco Tronchetti Provera per spiegare il nuovo corso dei calendari Pirelli che già, negli ultimi anni, va detto, avevano segnato una discontinuità con il passato. Ricordiamo solo quello con le immagini di SteveMcCurry del 2013.

Donne importanti sono Patti Smith, poetessa triste, magrissima e dai capelli grigi che guarda intensamente, ma anche la giovane Tavi Gevinson, una delle trenta donne under 30 più importanti del mondo secondo Forbes. Ha 19 anni e nel 2008 ha fondato il blog Style Rookie che ha avuto un grandissimo successo. Lo stesso successo che ha ottenuto l’attrice cinese Yao Chen, che ha 35 anni e secondo Time è una delle 100 donne più celebri al mondo. Anche lei è una star dei social ma soprattutto è una paladina dei diritti umani. Nel calendario troviamo una donna che è invece una forza della natura: Serena Williams, la campionessa di tennis fotografata in tutta la sua potenza fisica. La poesia invece traspare dal volto dell’artista iraniana Shirin Neshat, ritratta con una collana magnifica e tessuti dai colori pastello. Le donne del calendario sono anche manager importanti, come Kathleen Kennedy presidente di Lucasfilm e collaboratrice di Steven Spielberg, oppure come Mellody Hobson, a capo di una società di investimenti. C’è anche la presidente emerita del MoMA newyorchese, Agnes Gund con la nipote adolescente Sadie mentre l’unica fotomodella, la russa Natalia Vodianova è ritratta da Annie Leibovitz con il figlio come fosse una modonna postmoderna. Le ultime tre donne “importanti” sono Ava DuVernay, la regista afromericana di Selma, l’attrice e sceneggiatrice Amy Schumer – forse il ritratto meno felice – e l’incredibile Fran Lebowitz, mentre fuma, naturalmente, essendo una opinionista che difende i fumatori.

 

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016
© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

 

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016
© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

 

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016
© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

 

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016
© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

 

© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016
© Annie Leibovitz | Calendario Pirelli 2016

Il video del Backstage

 

 

Erri De Luca e i racconti dal carcere: «La vita di chi scrive conta per me perciò mi dispongo a leggere racconti di imprigionati con maggiore attenzione»

Italian writer Erri de Luca attends on May 12, 2008 a conference at the Jerusalem Writer Festival. De Luca, who is author of several novels and has translated several books of the Old Testament, is taking part in a literature event in Jerusalem that hosts a group of highly respected writers from around the globe. AFP PHOTO/MARCO LONGARI

Qui «c’è uno scrittore rinchiuso nel regno minerale della pena», scrive Erri De Luca, presentando il racconto La neve che non ti aspetti di Salvatore Ventura, uno dei 25 racconti finalisti della quinta edizione di Racconti dal carcere, ora raccolti in un volume Eri Rai. Facendo capire subito al lettore di questa raccolta intitolata All’inferno fa freddo che Ventura non è un detenuto che scrive come hobby , per attività ricreativa, ma che siamo davanti ad una persona che scrive per un’esigenza profonda di espressione in forma narrativa.

«La vita di chi scrive conta per me perciò mi dispongo a leggere racconti di imprigionati con maggiore attenzione», dice a Left Erri De Luca, scrittore, traduttore e poeta, che ha appena pubblicato con Feltrinelli il pamphlet La parola contraria e l’intenso libro autobiografico Il più e il meno. «Se ignoro tutto di un autore – approfondisce – dev’essere la sua scrittura e la storia a convincermi a seguirlo. Ogni lettura letteraria prevede una sospensione dell’incredulità da parte del lettore, che potrà poi revocare questa concessione. Con Salvatore Ventura so di leggere uno scrittore che usa carta, penna e un oceano di tempo. Molti scrittori sono stati in prigione, molti prigionieri sono diventati scrittori. Salvatore Ventura è di quelli che sanno quanto vasto resta il mondo dentro i centimetri contati, quando hai le parole per dirlo».

Come ha vissuto questa esperienza umanamente e da scrittore?

Quando leggo sono un lettore , non il collega dello scrittore. Sono interamente lettore, e scorbutico, senza indulgenze. La lettura è il tempo salvato dentro una giornata e non me lo faccio strapazzare da una pagina scadente. In questa e altre edizioni ho avuto fortuna di leggere storie valorose. Nelle pagine scritte in detenzione prevale l’esperienza subìta e poi affrontata con l’altra parte di se stesso che si mette a scrivere. Da questo doppio vengono fuori pagine che appartengono alla letteratura e non alla biografia. Non faccio allo scrittore in prigione il torto di leggerlo per solidarietà. Lo leggo perché la sua pagina vale la mia difficile attenzione.

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Nella prefazione al racconto coglie il momento di stupore che precede la scrittura, che arriva nonostante la reclusione. Mi ha fatto ricordare il passo de Il più e il meno in cui lei evoca la «colata lavica rappresa» e dell’«arsura tirrenica dei versi terminali di Leopardi», che a causa della malattia era “prigioniero” a Napoli. Riuscire a scrivere nonostante. Scrivere per non farsi bloccare il pensiero, come faceva Gramsci nei Quaderni dal carcere. L’oppressione peggiore è quella che fa breccia dentro si sé? La scrittura è allora uno strumento di lotta?

La scrittura in esilio, in prigione, in un assedio ha il valore aggiunto di sospendere il tempo della pena. In Sarajevo spenta e circondata si facevano serata di poesia, con i poeti le candele. Le persone avevano bisogno fisico di parole capaci di stare a contrappeso. Così può fare la scrittura, interrompere l’assedio, cancellare le sbarre dietro una pagina aperta davanti al naso. Un libro non è uno strumento per raggiungere un fine, è il fine. Scrive Herta Müller che la fortuna del quadrifoglio comincia e finisce con il fatto di averlo trovato, altro non c’è. Il libro è il quadrifoglio.

Il carcere dovrebbe prevedere un percorso di reinserimento, più spesso in Italia è solo una punizione che non produce cambiamento, se non in senso peggiorativo. Che senso ha? Cosa pensa della proposta che Luigi Manconi ha formalizzato nel libro di Chiarelettere Aboliamo il carcere?

Esistono già oggi prigioni abbandonate. La prigione è un impianto scaduto, una miniera che non ha più minerale. Oggi è un deposito di vite scartate, senza alcun potere deterrente né un valore di uso del tempo della pena. Dovrebbe essere pieno di lavoro socialmente utile, dovrebbe essere tempo di praticare un mestiere e retribuito. Al contrario continuiamo a impiegare lo strumento dell’ergastolo ostativo, che esclude per arbitrio un termine. Continuiamo a negare libri ai detenuti del regime speciale. Continuiamo a fare i carcerieri di fantasmi.

[social_link type=”twitter” url=”https://twitter.com/simonamaggiorel” target=”on” ][/social_link] @simonamaggiorel

 

 

 

Banche, salvateci dai salvataggi

Un pasticcio incredibile. Si potrebbe riassumere così il salvataggio di quattro banche in difficoltà: CariFerrara, Banca Etruria, Banca Marche e CariChieti. Proviamo a riassumere. Negli ultimi anni gli Stati hanno dovuto salvare le banche in crisi. Un processo chiamato “bail-out” e duramente criticato perché di fatto si socializzano le perdite dopo avere privatizzato i profitti, esasperando il cosiddetto azzardo morale: mi prendo sempre più rischi, se mi va bene mi tengo il malloppo, se va male arriva il paracadute pubblico.

Per questo dal 1 gennaio 2016 entrerà in vigore anche in Italia la nuova normativa europea che prevede il bail-in: in caso di crisi, le risorse dovranno arrivare dall’interno della stessa banca: prima gli azionisti, poi i detentori di obbligazioni, e in ultimo eventualmente da chi ha un conto corrente con più di 100.000 euro. La speranza è che con il bail-in i piccoli risparmiatori saranno spinti a informarsi e a esercitare un controllo maggiore sulle banche. Oggi non hanno nessun controllo o influenza sui top manager che prendono le decisioni, e spesso non sanno nemmeno di detenere una data azione o obbligazione.

Peccato che ancora prima che le nuove regole entrino in vigore, il governo decida di intervenire con un consiglio dei ministri domenicale che vara in tutta fretta un decreto secondo il quale è invece il sistema bancario italiano nel suo insieme a doversi fare carico del salvataggio dei quattro istituti oggi in difficoltà. Un intervento di emergenza dopo mesi di scambi di opinioni, mezze frasi e mezze interpretazioni dell’Unione Europea, senza che si riuscisse a capire in quale direzione andare, se si stessero infrangendo delle regole e quali regole fossero in vigore.

Se la situazione vi sembra poco chiara, non è ancora nulla. Con il decreto “salva-banche” si decide di attingere al fondo di risoluzione, un fondo che dovrebbe servire per le banche cosiddette “sistemiche”, ovvero quelle di maggiore dimensione che rischiano di contagiare l’intero sistema in caso di fallimento. Le quattro banche in difficoltà molto probabilmente non sono “sistemiche”, e quindi non dovrebbero accedere a questo particolare meccanismo di salvataggio. Tutto al condizionale, perché tra l’altro il fondo di risoluzione è ancora in costituzione ai sensi di una Direttiva europea che ancora non è in vigore in Italia. Non solo. Si chiede di colpo alle banche di versare in questo fondo molto di più di quanto era stato già previsto e comunicato. Ciliegina sulla torta: anche le banche di piccole dimensioni, “non sistemiche” e che non potranno quindi accedere al fondo di risoluzione, sono però chiamate ad alimentarlo, con contributi variabili e imprevedibili, per intervenire da subito con una normativa che verrà recepita in Italia unicamente dal 1 gennaio del 2016.

A Banca Etica era stato richiesto un contributo al fondo di risoluzione di 130.000 euro sia per il 2015 sia per il 2016. Il totale di colpo potrebbe essere tre volte più alto, forse sfiorare il milione di euro in due anni. Risorse che andranno a ridurre gli utili di una banca che, in quanto banca cooperativa, li destina a riserva e al proprio patrimonio. Ogni euro in meno significa 12 euro in meno di credito erogabile alla clientela. In parole povere, c’è una cinghia di trasmissione diretta tra il decreto salva-banche e la possibilità di Banca Etica di erogare più credito al sistema economico di riferimento, al terzo settore, alle rinnovabili, al commercio equo.

Una situazione kafkiana, in cui viene penalizzata la finanza etica, che non solo non ha avuto bisogno di salvataggi pubblici, ma che da anni denuncia gli eccessi e la follia dell’attuale sistema finanziario. Proprio da qui si dovrebbe ripartire. Nel pasticcio del salva-banche, rimane una questione di fondo: perché si interviene unicamente a valle? Tutta l’attenzione è concentrata su cosa fare in caso di fallimenti e disastri, mentre su come prevenirli si va avanti con il freno a mano tirato. Che fine ha fatto la separazione tra banche commerciali e di investimento, che limiterebbe drasticamente la necessità di salvataggi? Dov’è l’Europa sulla regolamentazione del sistema bancario ombra o sui derivati? Servono interventi ex-ante, non ex-post. Discutiamo pure di come raccogliere i cocci al prossimo disastro finanziario, ma sarebbe il caso di evitare che tali disastri si ripetano con una tale frequenza.

Ancora prima, è inammissibile che il peso dei salvataggi ricada, con provvedimenti della domenica senza né capo né coda e cambiando le regole in corsa, su chi negli anni peggiori della crisi ha continuato ad ampliare l’erogazione del credito e il sostegno all’economia, alle imprese sociali e alle famiglie. Settori della società che rischiano per l’ennesima volta di rimanere con il cerino in mano per l’irresponsabilità del mondo finanziario e per l’incapacità di quello politico.

*Presidente della Fondazione Culturale Responsabilità Etica

Raid in Siria: Cameron accusa Corbyn di stare con i terroristi

«Votate a favore di questa mozione, non state dalla parte di Jeremy Corbyn e di una banda di amici dei terroristi». Oggi la Camera dei Comuni vota la mozione che autorizza i raid britannici sulla Siria e i toni usati dal premier conservatore Cameron sono quelli di qualche anno fa: se non stai con me, vuol dire che stai con i terroristi.

Il dibattito in Gran Bretagna è complicato: una parte dei deputati conservatori sembra contraria all’idea di partecipare alla chiamata alle armi della Francia, e una parte del Labour si dice pronta a votare la mozione del governo.

Il testo presentato da Cameron parte dalla risoluzione 2249 del Consiglio di sicurezza Onu, sottolinea l’importanza del procedere dei colloqui di Vienna, nega l’autorizzazione a inviare truppe e autorizza bombardamenti “esclusivamente sull’ISIS”. C’è anche la parte un po’ ridicola nella quale si legge “Questa Camera accoglie positivamente lo sforzo continuato del governo per aiutare i rifugiati” – un passaggio retorico troppo generoso con un governo che ha fatto di tutto per sfilarsi.

Un emendamento scritto assieme da deputati conservatori, laburisti, dello Scottish National Party e dei nazionalisti gallesi è stato sottoscritto da 105 deputati e nega l’autorizzazione all’uso della forza aerea.

Quel che colpisce è però il tono delle dichiarazioni di Cameron, che echeggia quelli degli anni della coalizione dei volenterosi e della guerra al terrore. A quelli il Labour ha risposto con durezza spiegando che «si tratta di commenti che non prendono atto della serietà con la quale i deputati di tutti i partiti stanno considerando l’idea dei raid. Cameron si dovrebbe scusare» ha detto il vice premier ombra Benn. Certo è che in queste ore i toni si sono avvelenati: la base laburista furiosa contro quella parte dei deputati e ministri ombra (tutti quelli incaricati di posizioni legate a Difesa ed Esteri) che hanno deciso di sostenere la mozione del governo. Tanto che nei giorni le valutazioni del governo su quanti appoggi esterni avrà la mozione che chiama alla guerra sono passate da 60 a 30.

Corbyn ha spiegato in un editoriale sul Guardian la sua posizione: Cameron non è riuscito a dimostrare che i raid aumenteranno la sicurezza dei britannici o saranno efficaci a indebolire l’ISIS. Quanto allo scontro nel Labour, Corbyn spiega: «sono un leader, non un dittatore, i deputati possono fare quel che ritengono opportuno, si tratta di una scelta complicata e seria. Ma sappiano che la responsabilità di una scelta difficile sarà loro». Il leader laburista aveva annunciato che sotto di lui il partito avrebbe discusso di più. La mozione sui raid in Siria è la prima discussione accesa alla quale assistiamo e c’è qualche contrario ai raid che spinge per l’espulsione di chi voterà a favore.

Il capolavoro incompiuto di Albert Einstein compie 100 anni

Albert Einstein relatività

Molti la considerano una delle più alte conquiste nella storia culturale dell’uomo. Un capolavoro assoluto. Come la Pietà vaticana di Michelangelo. Lui, Albert Einstein, l’uomo che nel 1915, cento anni fa, l’ha creata (o scoperta, come molti filosofi della scienza si affretteranno a puntualizzare) la considerava un’incompiuta. Come la Pietà Rondanini dello scultore fiorentino: in parte sublime, in parte ancora grezza. È la relatività generale, la nuova teoria della gravitazione universale che “ha scalzato Newton”, ha riformulato la nostra idea di uni- verso mandando definitivamente in soffitta le convinzioni sullo spazio e sul tempo e che ancora oggi, con la meccanica quantistica, costituisce una delle due pietre fondamentali su cui poggia l’intero edificio della fisica.

Il processo che ha portato Einstein, nell’autunno del 1915, alla formulazione della relatività generale è chiaro. Dieci anni prima, nel 1905, l’allora giovane impiegato presso l’Ufficio Brevetti di Berna aveva elaborato, tra l’altro, la teoria della relatività ristretta, con cui dimostra che la velocità della luce costituisce un limite non superabile, che non esistono punti di osservazione privilegiati nell’universo, che materia ed energia sono equivalenti (concetto espresso nella formula più famosa della storia: E=mc2), che spazio e tempo non sono entità assolute, non sono uguali per tutti ma dipendono dalla velocità con cui si muove l’osservatore.


La relatività ristretta dimostra che materia ed energia sono equivalenti,
che spazio e tempo non sono entità assolute

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La relatività del 1905 è accompagnata dall’aggettivo “ristretta” o dall’aggettivo “speciale”, perché riguarda tutti i corpi in quiete, che se ne stanno fermi o che procedono con velocità uniforme. Sebbene con questa teoria rivoluzioni la fisica (e la filosofia) mandando in soffitta idee e concetti vecchi di millenni e considerati solidissimi, Einstein non è contento. Cerca una nuova teoria, più generale, in grado di spiegare anche il comportamento di tutti i corpi presenti nell’universo, compresi quelli soggetti ad accelerazione. Come la famosa mela di Newton o il grave di Galileo che, a causa della gravità, cado- no dall’albero o dalla Torre di Pisa con velocità crescente

La storia del tentativo di generalizzazione della teoria dura un intero decennio ed è molto bella, ma anche molto complicata. Diciamo solo che viene portata a termine grazie a strumenti matematici – il calcolo differenziale assoluto – messi a disposizione da due italiani, Gregorio Ricci Curbastro e Tullio Levi Civita. Che propone l’idea (rivoluzionaria) che la materia curvi lo spazio, anzi la rete quadridimensionale dello spaziotempo. La teoria spiega il comportamento anomalo dell’orbita di Mercurio e fa alcune previsioni: passando accanto a un forte campo gravitazionale, la luce viene deviata di un certo angolo; allontanandosi dall’osservatore la luce subisce un redshift, uno spostamento verso il rosso: in pratica, la sua frequenza sembra diminuire.
Nel 1919 l’astronomo inglese Arthur Eddington, in occasione di un’eclisse, verifica che la luce emessa da una stella lontana passando accanto al sole viene deviata proprio dell’angolo previsto dalla relatività generale.

Il fisico tedesco diventa, per dirla con Abraham Pais, “l’improvvisamente famoso dottor Einstein”: un mito universale, ancora oggi inossidabile. E la sua teoria, non sempre compresa da tutti, assurge al rango di capolavoro assoluto. Eppure lui, Albert Einstein, la considera un’in- compiuta. Un’opera, dirà, fatta per metà di marmo pregiato e per metà di legno scadente. E lavorerà per tutto il resto della vita, all’incirca quarant’anni, per trasformare in marmo pregiato anche il legno scadente.

Perché? Il motivo è semplice. Perché Albert Einstein è in preda a quella che lo storico della fisica Gerald Holton chiama la “sindrome ionica”. L’idea, puramente metafisica, che è alla base del pensiero dei primi filosofi greci, secondo cui l’universo non solo è un kòsmos, un tutto armoniosamente ordinato, ma anche che l’ordine cosmico è governato da poche leggi fondamentali (al limite, da un’unica legge) che possono essere compre- se dalla ragione umana. Einstein è preda della “sindrome ionica” nel corso dell’intera sua vita: da quando a 17 anni immagina cosa proverebbe un osservatore a cavallo di un raggio di luce, fino a quando, il 18 aprile 1955, non muore, con accanto sul comodino gli ultimi appunti con cui tenta di trasformare il legno scadente della relatività generale in marmo pregiato.

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Ne consegue che per l’intero arco della sua vita scientifica segue un medesimo grande obiettivo: unificare la fisica, elaborare la teoria finale. La Teoria del Tutto. E ogni sua azione scientifica può essere considerata come una tappa di avvicinamento all’obiettivo finale. Quando, nel 1905, ha 26 anni e lavora all’Ufficio brevetti di Berna, i fisici conoscono due grandi forze fondamentali della natura, l’elettromagnetismo e la gravità, descritte da due teorie tanto superbe – elaborate rispettivamente da James Clerk Maxwell e da Isaac Newton – quanto inconciliabili. La teoria della relatività ristretta è pensata ed è di fatto una tappa di avvicinamento a una teoria più generale, che includa in sé la teoria di Maxwell e la teoria di Newton. E, in- fatti, dimostra che i fenomeni elettromagnetici e i fenomeni meccanici possono essere, alme- no in parte, trattati in maniera unitaria. Come espressione di un’intima unità, appunto, della realtà fisica.
La relatività generale è l’ulteriore tappa di avvicinamento all’obiettivo finale di Einstein: unificare gravità ed elettromagnetismo. Ma perché considerarla un’opera incompiuta, metà di marmo pregiato e metà di legno scadente? Per- ché alla “sindrome ionica” di Einstein appartiene un’altra idea metafisica. Un vero pregiudizio di natura filosofica: l’idea (o, se volete, il pregiudizio) che la realtà cosmica sia costituita da un’entità fisica continua e non da entità discrete. Ebbene, la prima parte dell’equazione che riassume in termini matematici la teoria della relatività generale, descrive in maniera precisa il campo gravitazionale: un’entità continua. Che si estende, con intensità variabile, in tutto lo spaziotempo. Ecco perché soddisfa Einstein, che la considera la parte in marmo pregiato della sua opera.

La seconda parte dell’equazione descrive, invece, la materia. Costituita da corpuscoli: ovvero da entità discrete. È questa parte che Einstein considera legno scadente. Messa lì in maniera provvisoria. In attesa di trovare un’idea fisica e un formalismo matematico adatto, in grado di descrivere la materia in termini di punti di massima intensità di un’entità continua. Ecco perché, appena dopo aver elaborato quello che tutti considerano un superbo capolavoro, con una straordinaria lezione di umiltà e di lucidità, Einstein si mette alla ricerca di una teoria ancora più generale in grado di andare oltre la relatività: una teoria di campo continuo.
Diciamo subito che questa volta Einstein non riesce a tagliare il traguardo.

La cercherà per quarant’anni, la Teoria del Tutto, ma non riuscirà a trovarla. In questa sua ricerca «don Chisciotte della Einsta» ingaggerà una furiosa battaglia intellettuale contro i «malvagi quanta», come scriverà con ironia e affetto il suo migliore amico, l’ingegnere triestino Michele Besso. E lui – il mito vivente, il personaggio che secondo la rivista Time più di ogni altro ha caratterizzato un secolo intero, il Novecento, uno dei fisici più grandi, forse il più grande, di ogni tempo – si ritroverà presto isolato in questa sua titanica ricerca. Tanto che anche Abraham Pais, suo amico e biografo, definirà “ottocentesco” l’atteggiamento di Einstein. Va aggiunto che l’obiettivo del “fisico ottocentesco”, di “don Chisciotte della Einsta” è ancora oggi quanto di più moderno ci sia: costituisce infatti il massimo obiettivo dei fisici contemporanei, che cercano – per ora senza riuscirci – di unificare la gravità con le altre tre forze fondamentali della natura (all’interazione elettromagnetica si sono aggiunte nel frattempo l’interazione debole e l’interazione forte).
E va detto, infine, che non è affatto detto che l’universo – anzi il Kòsmos, il tutto armoniosamente ordinato dei Greci – sia il regno del continuo. Né che sia governato da una sola legge, fonda- mentale. Da una Teoria del Tutto. La “sindrome ionica” è e resta un pregiudizio metafisico. Ma senza pregiudizi metafisici – senza un’idea apriori di cosa cercare, un’idea beninteso da documentare con quelle che Galileo chiamava “certe dimostrazioni” e “sensate esperienze” – la scienza non va molto avanti. Perché, come sosteneva Albert Einstein, se la filosofia senza la scienza è semplicemente vuota, la scienza senza filosofia, ove anche fosse possibile, sarebbe arida.

(Da Left numero 13)

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L’antimafia che indaga l’antimafia

Il paradosso è che, come conferma il vicepresidente della Commissione Parlamentare Antimafia, ormai si arrivi ad indagare se stessi: i parlamentari decidono di aprire una serie di audizioni per capire cosa sta succedendo nel movimento antimafia che negli ultimi anni vive un lento e inesorabile declino di credibilità che di sicuro non rende felice nessuno. Mafiosi a parte, ovviamente. E così mentre si cerca di capire come è potuto succedere che in Sicilia scoppi il bubbone della gestione dei beni confiscati (con la giudice Saguto, intercettata, in preda a deliri di onnipotenza, senza che nessuno se ne accorga).

E proprio sui fatti siciliani e sul processo romano di “Mafia Capitale” ha acceso la luce l’addio a Libera di Franco La Torre, storico componente del movimento nonché figlio di quel Pio La Torre che ebbe l’intuizione di una legge (quella della confisca e riuso sociale dei beni mafiosi) che gli costò la vita. E La Torre, senza mezzi termini e con molta lucidità, ha parlato di «inadeguatezza della classe dirigente» riferendosi a Libera in tutte le sue ramificazioni. Perché se l’antimafia è un cosa seria allora è utile che il movimento sia plurale, con una classe dirigente all’altezza e al passo con i tempi e soprattutto trasparenza.

Il magistrato calabrese Nicola Gratteri (uno che l’antimafia la vive al fronte tutti i giorni, mica nei palazzi) ha dato una soluzione che se a prima vista può sembrare banale in realtà sarebbe sicuramente chiarificatrice: togliete i soldi all’antimafia, quei soldi dateli alle scuole e sarà facile capire chi c’è per passione e chi per mestiere. E sarebbe un’ottima idea. Già.

Sessanta anni fa le autorità dell’Alabama arrestavano Rosa Parks

Sessanta anni fa oggi Rosa Parks, attivista per i diritti dei neri, si rifiutava id lasciare il proprio posto a sedere su un autobus segregato dell’Alabama. Il 1 dicembre veniva arrestata per quell’atto di disobbedienza e cominciava così l’inizio della fine della segregazione razziale. Nove anni – e molti morti e arresti dopo – il presidente Lyndon Johnson firmava il Civil Rights Act. Nell’anno di #BlackLivesMatter vale la pena ricordare fragile eroina.

Rosa Parks visits an exhibit illustrating her bus ride of December, 1955 at the National Civil Rights Museum in Memphis, Tenn., Saturday, July 15, 1995. Parks visited around the city to inaugurate her three-week "Freedom Ride" throughout the country. (AP Photo/Troy Glasgow)
Rosa Parks visita  l’autobus dove rifiutò di alzarsi al National Civil Rights Museum a Memphis nel 1995. (AP Photo/Troy Glasgow)

La rivoluzione su due ruote che potrebbe salvare il Pianeta (o quasi)

Forse alzare la mano e dire “ho un’idea” nel bel mezzo della conferenza sul clima di Parigi – dove i grandi della Terra discutono alla disperata ricerca di soluzioni al surriscaldamento, come conciliare l’economia dei paesi in via di sviluppo o come riuscire a mettere fine al consumo esagerato di carbone da parte della Cina – proponendo il ciclismo come panacea di tutti i mali potrebbe risultare quanto meno semplicistico e balzano. Eppure gli effetti di una rivoluzione su due ruote sarebbero meno irrisori di quanto si possa pensare. Se infatti tutti usassimo di più il trasporto su due ruote, o anche solo lo facessimo quanto lo fanno in Olanda e Danimarca, i livelli di emissioni di CO2 e il conseguente effetto serra potrebbero essere di gran lunga ridotti.

Se al primo posto per inquinamento e impatto ambientale troviamo le fabbriche e la produzione di energia, al secondo posto fra le attività che producono più emissioni di gas serra troviamo i trasporti.
Colpevoli, vista l’era globalizzata e di spostamenti frenetici da una parte all’altra del mondo, di incidere fortemente sui cambiamenti climatici in atto.

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L’ambiente principale per la bicicletta sembra essere la città. Secondo un rapporto sull’uso dei trasporti in Europa prodotto dalla Commissione europea in media in Ue i percorsi che affrontiamo sono inferiori ai 5km una distanza che quindi pedalando può essere coperta in meno di 30 minuti. Se poi l’ambiente urbano non facilita le due ruote per dislivelli o grandi dimensioni, come nel caso di Roma e dei suoi sette colli, ci si può sempre affidare alle e-bike o all’intermodalità con veicoli pieghevoli che possono essere tranquillamente caricati sui mezzi di trasporto pubblici.
Insomma i vantaggi sembrano essere molti, andare in bicicletta è divertente, mantiene in forma, facilita gli spostamenti in città e non inquina. Ma quante emissioni riusciamo a ridurre semplicemente saltando in sella alla nostra bici piuttosto che in macchina o in moto? Se ipoteticamente importassimo uno stile di vita più nord europeo e facessimo come in Olanda o in Danimarca quanto meno inquineremmo?
A questa domanda risponde in modo abbastanza esaustivo un documento prodotto dalla European Cycling Federetion nel 2011. L’analisi parte da un paragone tra i vari mezzi di trasporto e le biciclette (elettriche e non) includendo ovviamente nel calcolo, non solo il mero ultizzo del mezzo, ma anche il costo ambientale di produzione del veicolo e le calorie in cibo che devono essere reintegrate se si scelgono le due ruote.

Il tasso di emissioni per una bicicletta ordinaria è circa di di 21 grammi di CO2e (anidride carbonica equivalente) a persona per chilometro percorso. Nel caso delle e-bike, la cifra sale lievemente a 22g / km. Le emissioni di una automobile di media cilindrata sono invece più di dieci volte maggiori e si aggirano attorno ai 271g / km a persona, mentre per i passeggeri di autobus ci si assesta attorno ai 101g / km. Ciò significa che se tutti i Paesi europei raggiungessero i livelli danesi di spostamento su due ruote potremmo ridurre tra il 5 e l’11 per cento la quota totale di emissioni fissata per il 2020 dall’Unione europea e tra il 57% e il 125% della quota di emissioni che è necessario diminuire nel campo dei trasporti.
Un altro studio, pubblicato a metà novembre e effettuato dall’Institute for Transportation & Development Policy (Itdp), sottolinea inoltre che il ciclismo, in moltissime parti del mondo, svolge un ruolo sempre più importante per la mobilità delle persone. E, se da un lato si tratta della diffusione di una moda – questa volta possiamo tranquillamente dire: lunga vita agli hipster – e di uno stile di vita diventato improvvisamente “cool”; dall’altro effettivamente la convergenza dei benefici per la salute prodotti dall’attività fisica e la convenienza economica della bicicletta come mezzo di trasporto contribuiscono concretamente a ridurre il consumo energetico e le emissioni di CO2 in tutto il pianeta. Secondo il rapporto di Itdp infatti un consistente aumento del numero di ciclisti potrebbe far risparmiare alla società circa 24 trillioni di dollari tra il 2015 e il 2050, e ridurre le emissioni di CO2 prodotte dai trasporti pubblici urbani di quasi il 11 per cento nel 2050 senza penalizzare la frequenza abituale dei nostri spostamenti all’interno della città.

E in Italia quanto pedaliamo?

È presto detto. A dicembre 2014 un rapporto della Commissione europea segnava la percentuale italiana 2 punti al di sotto rispetto alla media europea di utilizzo della bicicletta come mezzo di trasporto (il 6% contro l’8% Ue) e a ben 30 punti di distanza dalla media olandese, dove a usare regolarmente la bici per muoversi è ben il 36% della popolazione. Nell’ultimo anno però, secondo “A Bi Ci della ciclabilità”, un rapporto di Legambiente pubblicato lo scorso aprile, l’uso delle bici nel Bel Paese è aumentato, soprattutto nelle città più o meno grandi. Addirittura sono 20 i capoluoghi italiani vantano performance di ciclabilità di livello europeo, e in altre di medie dimensioni almeno un quarto della popolazione quotidianamente usa la bici in città.

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L’impressione generale che si ricava dalla ricerca è che in molte città sia bici boom e che l’uso delle due ruote nei giorni feriali stia raggiungendo livelli davvero interessanti. Almeno un quinto degli abitanti di Ravenna, Rimini, Piacenza, Sondrio e Venezia-Mestre ormai stabilmente preferiscono questo stile di mobilità e anche a Pordenone, Biella, Pavia, Reggio Emilia, Novara, Padova, Pisa, Cremona la percentuale di domanda di mobilità soddisfatta dalle bici è estremamente positiva. A giovarne sicuramente saranno il clima e la salute, e anche noi potremmo dire di aver fatto la nostra parte e di non aver lasciato a faticare solo i grandi della terra chiusi a Parigi a discutere.

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